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lunedì 22 febbraio 2016

LA SANTA PROTETTRICE DELLE PROSTITUTE

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Margherita da Cortona (Laviano, 1247 – Cortona, 22 febbraio 1297) è stata una religiosa italiana, appartenente al Terz'Ordine francescano secolare. Nel 1728 è stata proclamata santa da papa Benedetto XIII.

Di umili origini, venne battezzata presso l'antica pieve di Pozzuolo Umbro, dove attualmente sorge la chiesa dei Santi Pietro e Paolo: rimase presto orfana di madre e dall'età di diciassette anni visse come concubina con un nobile di Montepulciano, Arsenio (identificato con Raniero del Pecora, dei signori di Valiano), dal quale ebbe anche un figlio.

La coppia passava molto tempo in una residenza di caccia nelle colline al confine tra Umbria e Toscana, appartenente al feudo valianese dei Del Pecora. Ancora oggi, in questo castello, si trova una cappella ricavata dall'antica entrata del castello dedicata alla santa, che visse in quelle stanze nel XIII secolo.

Nel 1273 Arsenio, durante una battuta di caccia in una delle sue proprietà di Petrignano del Lago, venne aggredito e assassinato da un gruppo di briganti: Margherita, secondo la leggenda, seguì a piedi il cane di Arsenio dalla sua residenza presso Valiano fino in località Giorgi, presso un piccolo boschetto, dove trovò il corpo dell'amante; vicino alla quercia secolare dove si colloca l'accaduto, è sorta una chiesetta in onore della Santa e della cosiddetta "Quercia del Pentimento".

Scacciata col figlio dai famigliari dell'amante, rifiutata dal padre e dalla sua nuova moglie, si pentì della sua vita e si convertì. Si avvicinò ai francescani di Cortona, in particolare ai frati Giovanni da Castiglione e Giunta Bevegnati, suoi direttori spirituali e poi biografi: affidò la cura del figlio ai frati minori di Arezzo, e nel 1277 divenne terziaria francescana, dedicandosi esclusivamente alla preghiera ed alle opere di carità.

La sua spiritualità pone attenzione particolare alla Passione di Cristo, in linea con quanto vissero Francesco d'Assisi, Angela da Foligno e più tardi Camilla da Varano. Margherita, infatti, visse numerose crisi mistiche e visioni. Diede vita ad una congregazione di terziarie, dette le Poverelle; fondò nel 1278 un ospedale presso la chiesa di San Basilio e formò la Confraternita di Santa Maria della Misericordia, per le dame che intendevano assistere i poveri ed i malati.

Donna mistica, ma anche di azione, coraggiosa, ricercata per consiglio, fu attenta alla vita pubblica e, nelle contese tra guelfi e ghibellini, fu operatrice di pace presso i feudi di Montepulciano.

Onorata come beata sin dalla morte, Innocenzo X ne approvò il culto il 17 marzo 1653, ma fu canonizzata soltanto il 16 maggio 1728 da Benedetto XIII con l'appellativo di Nova Magdalena.

Il Martirologio Romano fissa per la sua memoria liturgica la data del 22 febbraio.

Margherita è la protettrice delle prostitute pentite e si dice che la santa, secondo quanto promesso in vita, andrebbe a visitare in Purgatorio tutti coloro che prima di morire l’avessero invocata.

La biografia redatta dal suo confessore frà Giunta Bevegnati (in AA. SS., mense Februarii, die 22), con i racconti delle numerose estasi e visioni di Margherita, ha contribuito a renderla una delle sante più popolari dell'Italia centrale.

Il suo corpo è conservato a Cortona, nella basilica a lei dedicata, in un'urna collocata sopra l'altare maggiore, bordata da una cornice in pasta vitrea e lamina d'argento sbalzato e cesellato.

Presso la frazione Giorgi di Petrignano, nel luogo della tragedia e decisione di conversione (il cosiddetto Pentimento) vi è una pieve ed una quercia tuttora in vita ai cui piedi ella pregò, considerata sacra ed intangibile. Nell'estate 1972, per il settimo centenario dell'evento ci sono state grandi celebrazioni nel Castiglionese con ostensione delle sue spoglie.

Nell'arte, è spesso raffigurata col saio francescano ed il velo bianco, in compagnia di un angelo consolatore (Traversi) o in estasi davanti al Cristo (Lanfranco): è sempre accompagnata dal cane che le fece scoprire il cadavere dell'amante (Benefial).

Alla figura di Margherita da Cortona è ispirato il film storico del 1950 che porta appunto il suo nome - Margherita da Cortona, diretto da Mario Bonnard.

Sulla medesima religiosa, Licinio Refice compose un'opera lirica in un prologo e tre atti intitolata anch'essa Margherita da Cortona.




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sabato 18 luglio 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE A ALMENNO SAN SALVATORE



La chiesa di San Nicola, sorta nel 1488 per un voto della popolazione e affidata all'ordine degli Agostiniani. La chiesa, a pianta rettangolare con navata unica, termina in un ampio presbiterio. Le pareti laterali sono occupate da sei cappelle per lato, nelle quali è possibile ammirare affreschi di Boselli e tele di Cifrondi, Previtali e Bassano. All'interno, un rarissimo esempio di organo Antegnati (1588) fa della chiesa un prestigioso luogo di concerti barocchi.

La nascita di questo complesso monastico agostiniano è dovuta principalmente alla peste degli anni 1484-86, a motivo della quale gli abitanti di Almenno avevano fatto il voto di costruire una cappella in onore dei SS. Sebastiano e Rocco. Passata l’epidemia, fra Pasquale da Gazzaniga, con la promessa di garantire alla popolazione la necessaria assistenza religiosa (il paese era senza clero), riuscì a convincere la popolazione a costruire una chiesa in onore di S. Maria della Consolazione e un convento per i frati agostiniani. La chiesa, in forme gotiche contiene numerosi capolavori pittorici a fresco e ad olio. Da segnalare anche il quattrocentesco organo Antegnati, il più antico della bergamasca. Gli Almennesi, grazie a donazioni (il Comune offrì il terreno e ben 1.000 ducati d’oro) ed elemosine, provvidero alle principali spese. Gli agostiniani vennero ad Almenno nell’estate del 1487. Dapprima costruirono una casa con una cappella provvisoria che venne in seguito chiamata il conventino (poi abbandonato) e solo l’anno seguente avviarono i lavori per la chiesa di S. Maria della Consolazione. La prima pietra fu posta il 10 agosto 1488. Grazie ai capitali iniziali e all’abbondanza delle elemosine, le strutture principali della chiesa (presbiterio, navata, matroneo, tetto) furono ultimate nel giro di alcuni anni. Già nel 1492 si avviarono i lavori di abbellimento delle cappelle laterali, che furono assegnate ad alcune delle famiglie più ricche del paese. Queste, in cambio della tomba di famiglia e di celebrazioni funebri per i loro defunti, dotarono i diversi altari di affreschi, quadri e suppellettili sacre. La chiesa fu consacrata nel 1517. Contemporaneamente si costruiva il convento, concluso nei suoi elementi principali nei primi anni del Cinquecento. E’ piuttosto piccolo, perché fu progettato per accogliere non più di dodici frati. Sta addossato al lato sud della chiesa ed ha una corte centrale quadrata, racchiusa entro un porticato formato su ogni lato da cinque eleganti archi in cotto a sesto acuto. Al piano superiore del convento, lungo due corridoi sui lati est e sud, sono disposte le celle dei frati, ciascuna dotata di camino e finestra, perché destinata ad accogliere un solo frate agostiniano eremitano. Sopra il porticato del lato nord, contro la chiesa è addossato un bel loggiato con archi in cotto a tutto sesto, impostati su pilastrini pure in cotto.

La chiesa di S. Maria della Consolazione è in stile gotico-rinascimentale. Ha una pianta rettangolare, con presbiterio quadrato meno ampio e abside semicircolare. La navata è costituita da sei campate divise da cinque archi gotici. Il soffitto ha travi in legno su cui poggiano formelle in cotto affrescate prevalentemente con motivi floreali. Nelle pareti laterali sono inserite sei cappelle per lato, aventi archi a tutto sesto e volte a botte. Sopra di esse corre un matroneo (in Bergamasca è l’unico esempio rimasto) che, in corrispondenza di ogni campata, si affaccia sulla navata con eleganti bifore. Il pavimento è ancora quello originale in cotto, con lastre tombali, alcune delle quali finemente scolpite (1503). Gli altari laterali, ricchi di opere d’arte (polittici, tavole e tele della fine del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento), conservano ancora gran parte della dotazione decorativa originaria, opera di artisti di grande livello qualitativo. Si ricordano in particolare: la Trinità (1517) di Andrea Previtali; due polittici (1504 e 1515) di Antonio Boselli, oggi in deposito presso l’Accademia Carrara di Bergamo, e numerosi suoi affreschi; la Sacra Famiglia (1580 circa) di Francesco da Ponte detto il Bassano; i tanti affreschi della bottega degli Scipioni di Averara, in particolare di Iacopino Scipioni, che ornano le cappelle e la sacrestia; l’Annunciazione (inizi del XVI sec.) di autore ignoto di scuola fiorentina. Notevole infine è l’organo, il più antico della Bergamasca, inserito nel matroneo sopra la cappella dell’Annunciazione. Fu costruito nel 1588 da Costanzo Antegnati, uno dei più abili organari del suo tempo.

La chiesa nel corso dei secoli ha subito alcune modifiche non sostanziali, ma tali da offuscare il suo aspetto originario. Ciò avvenne a metà del Seicento, quando, con la convinzione di abbellire l’edificio, si è intervenuti a stuccare cinque delle cappelle laterali e parte del presbiterio. Qui, cancellati quasi del tutto gli antichi affreschi, al centro dell’abside fu collocata una tela dell’Assunzione, opera di Antonio Cifrondi (1705 circa). Alla prima metà del Settecento sarebbero da attribuire anche tutti gli altri affreschi del coro e del presbiterio: S. Monica piange la partenza del figlio Agostino; S. Ambrogio scaccia gli eretici, mentre il Papa distribuisce l’acqua della dottrina agli ordini religiosi; Ester davanti ad Assuero e Giuditta con la testa di Oloferne. Ignoti gli autori. Bello il coro ligneo, i cui diciassette stalli con colonnine tortili in alto e braccioli con cariatidi a figura di donna, furono costruiti nel 1626 da un mastro Angelo. Nella navata, poi, nel 1721 la cappella dedicata a S. Nicola fu rifatta per volontà della confraternita dei cinturati. La volta fu alzata fino ad occupare parte del matroneo e la precedente decorazione ad affresco, opera di Iacopino Scipioni, fu distrutta e sostituita da angioletti nella volta e da motivi floreali. Venne costruito un nuovo altare con ancona in stucco, angeli e nicchia dove collocare un’antica statua vestita della Madonna della Cintura (metà del XVII sec.). Anche la vicina cappella di S. Sebastiano nel 1740 cambiò intitolazione, quando fu dedicata alla Madonna del Buon Consiglio e dotata di tela sotto vetro raffigurante il miracoloso trasporto da parte degli angeli di un affresco della Vergine col Bambino.



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domenica 14 giugno 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA CARITA' A BRESCIA

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La chiesa di Santa Maria della Carità, pregevole esempio del barocco bresciano, più conosciuta come «chiesa del Buon Pastore» per la vicinanza con l’omonimo monastero abitato dalle suore di clausura fino al 1998 e oggi occupato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore, fu edificata a partire dal 1640 su progetto dell'architetto Agostino Avanzo: il cantiere terminò nel 1655. Successivamente un nuovo edificio si sovrappose al precedente e la struttura subì importanti rifacimenti dal 1730.
La pianta dell’edificio è ottagonale con un asse principale favorito dall’allineamento dell'ingresso e del grande altare maggiore. Sulle pareti, diametralmente opposti e in linea ortogonale con l'asse centrale, si trovano i due altari laterali in legno, già presenti nella precedente chiesa e qui ricollocati.
Esternamente la facciata della chiesa è di genere tradizionale e non tradisce la conformazione ottagonale interna. Il colore dominante è l'ocra, che diventa giallo chiaro in corrispondenza delle lesene, che dividono la facciata in due ordini: lesene doriche su quello inferiore e corinzie su quello superiore. La muratura, a paramento unico con più di un metro di spessore, è costituita da elementi in pietra di calcare compatto di grandi dimensioni con interposto pietrame di piccola taglia, con lavorazione a spacco; l’apparecchiatura della muratura è irregolare, senza ricorsi e con vuoti distribuiti.

L'altare maggiore viene sostituito da uno molto ricco e fastoso dei Calegari, in marmo, adornato da una elaborata balaustra sul davanti e, lateralmente, da due statue di Dionigi Cignaroli. Al centro fu posto l'affresco della Madonna della Carità. L'interno viene anche totalmente ridipinto: nel 1731 Giuseppe Orsoni affresca le pareti, mentre nel 1733 Bernardino Boni dipinge a olio le lunette sotto la cupola con i principali episodi della vita della Madonna. Anche la cupola, nel corso del secolo, sarà affrescata da Ferdinando Cairo e Luigi Vernazal. Nel 1744 viene eretto il portale d'ingresso e, poco dopo, vengono posizionate, ai lati della facciata, le due statue di Antonio Ferretti e Alessandro Calegari. Altre opera di rilievo è la posa del pavimento ad elaborati e complicati intarsi marmorei, conservatosi pressoché intatto. Nell'Ottocento verrà installato, sulla cantoria in controfacciata, un organo Tonoli.

Alla fine dell'Ottocento la giurisdizione della chiesa passò alle suore del vicino monastero del Buon Pastore, dal quale la chiesa prese il nome che tuttora l'accompagna accanto a quello originale. Nel 1998 le suore si trasferirono a Mompiano e, su disposizione del vescovo Bruno Foresti, l'amministrazione della chiesa fu trasferita alla parrocchia del Duomo.

Dal 1567 nel santuario si pratica la Santa Messa quotidiana, mentre la tradizione del Rosario risale al 1693.

Il portale della chiesa di Santa Maria della Carità è, di solito, l'unico particolare per cui questo edificio è ricordato frequentemente. Le due colonne libere color ferro che lo compongono, difatti, provengono dall'antica Basilica di San Pietro de Dom, demolita nel 1603 per realizzare il Duomo nuovo: si tratta, perciò, di due delle sole dieci colonne giunte fino a noi delle ventotto originali che ne costituivano il colonnato interno. Il materiale che le compone è marmo egiziano scuro ed erano, a loro volta, già colonne di spoglio di epoca romana, probabilmente estratte nei pressi del foro romano della città. I capitelli ionici in sommità, ovviamente, sono successivi.

L'interno è impostato su una pianta ottagonale, dove è comunque favorito un asse principale grazie all'allineamento dell'ingresso e del grande altare maggiore, che si presenta come un grande involucro cubico in legno e marmo dentro il quale è custodita la riproduzione della Santa Casa. Sulle pareti, diametralmente opposti e in linea ortogonale con l'asse centrale, si trovano i due altari laterali in legno, già contenuti nella precedente chiesa e qui ricollocati. In quello di sinistra è posta una pala raffigurante la Maria Maddalena di Antonio Gandino, a destra i Santi Sebastiano, Antonio e Rocco di Francesco Paglia, entrambe opere seicentesche. Sull'altare maggiore, invece, è conservato l'affresco staccato della Madonna della Carità.

Alla chiesa è annesso un piccolo santuario e la canonica dove sono custodite altre opere degne di interesse, fra cui lapidi, affreschi del Cinquecento facenti parte della precedente struttura e tele di vari autori.





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martedì 26 maggio 2015

LA CHIESA DI SANTA RITA A LEGNANO



La chiesa di Santa Rita (o chiesa della Purificazione) si trova in corso Sempione, annesso all'istituto scolastico privato Barbara Melzi (già convento di suore Canossiane), in origine dedicato alla "Purificazione". In seguito è stato intitolato a Santa Rita.

La chiesa della Purificazione (oggi S. Rita) per tre secoli è stata utilizzata come Parrocchia.
Nel 1584 il cardinale Borromeo la confermò cappellania del rione Legnanello.
Quando il cardinale Sfrondati di Cremona,nel luglio del 1586, eseguì per conto di Papa Gregorio XIII un'inchiesta in seguito al trasferimento, avvenuto due anni prima, della Prepositura da Parabiago a Legnano, definì Legnanello "una contrada lunga solo un'archibugiata", come dire un tiro di schioppo, cioè circa trecento metri. È certo comunque che era uno dei due nuclei più antichi di Legnano fin dall'epoca romana ed è anche il rione che più di ogni altro ha conservato le sue tradizioni popolari e religiose, come la Festa della Purificazione o "della Candelora", solennizzata ogni anno il 2 febbraio.
A riprova delle origini antichissime di Legnanello sembra addirittura che questa festa abbia avuto inizio nell'anno 687, cioè da quando Papa Sergio I introdusse la cerimonia della benedizione e dell'offerta delle candele.
A sottolineare come fosse importante questo rione è prova anche una concentrazione di cinque tra chiese e cappelle in questi trecento metri rilevati dal Cardinale Sfrondati: S. Erasmo, il tempio annesso al monastero di Santa Caterina che si trovava all'inizio di via Lampugnani all'attuale angolo con via Diaz, la chiesa della Madonnina sorta nel 1643 su un precedente oratorio, e Santa Maria Annunciata (ubicata sul Sempione) tra palazzetto Corio e la via Lampugnani. La quinta è infine la chiesa di Santa Maria della Purificazione, certamente già esistente nel XVI secolo, sempre su corso Sempione, oggi all'angolo con via Barbara Melzi, chiesa oggi annessa al complesso monastico delle Canossiane.
Una bolla papale datata 15 dicembre 1541 attesta che Papa Paolo III concedeva ad Andrea Moroni i benefici già tenuti dal defunto Melchiorre Bossi, designandolo cioè rettore della "cappellania di Santa Maria della Purificazione in borgo di Legnano" (Archivio segreto del Vaticano - registro n° 1556, f. 204: 1540).
La chiesa a quell'epoca era già dedicata a Santa Maria della Purificazione, ma secondo Sutermeister ed altri studiosi, aveva avuto forse altra denominazione, quando in precedenza era solo una cappelletta di più modeste dimensioni. La bolla papale la indica dunque come cappellania di Santa Maria della Purificazione e dal 7 agosto 1584, per disposizione del cardinale Carlo Borromeo, fu elevata a sede di coadiutoria titolare, una funzione che durò fino al 13 agosto 1898, giorno in cui il cardinale Ferrari la eresse parrocchia autonoma, in attesa della costruzione della nuova chiesa del SS. Redentore di Legnanello, i cui lavori, iniziati nel 1901, furono condotti a termine l'anno successivo. La chiesa della Purificazione, in epoca più recente dedicata a Santa Rita, è di linee semplici ma aggraziate.
La facciata è caratterizzata da un bel portichetto a quattro colonne portanti ; completano il frontale del tempio una finestra centrale, che dà la luce alla navata interna, e due laterali rotonde, con decorazioni in stucco costituite da festoni floreali e di frutta, eseguite nel 1890 dai fratelli Daniele ed Elia Turri, quando la chiesa fu ristrutturata con rifacimento anche della facciata. Negli anni ottanta, in occasione di un nuovo restauro della chiesa, vennero tolte due statue che figuravano sulla sommità della facciata. L'interno della chiesa è ad unica navata. Nel presbiterio vi sono affreschi di G. Battista e Francesco Maria Lampugnani (sec. XVII), autori anche delle decorazioni della volta dell'abside; sulla parete laterale destra vi sono infine due dipinti di autore ignoto.
Un piccolo altare secondario, a destra entrando, è sormontato da un dipinto che ritrae Santa Rita, alla quale è stata dedicata recentemente la chiesa, la quale, oltre che in occasione della festa liturgica della santa, viene tenuta viva al culto dal gruppo di preghiera "Rinnovamento nello spirito", con riunioni settimanali.

La festa religiosa coincide con quella della contrada Legnarello. Sembra che la ricorrenza della Candelora fosse già festeggiata a Legnarello nel 687, quando la Chiesa cattolica istituì la festività. Fino al XIX secolo, la festa della Candelora era festeggiata sul sagrato della chiesa della Purificazione. Con la costruzione della chiesa del Santissimo Redentore, i festeggiamenti della solennità religiosa vennero trasferiti presso il nuovo edificio religioso.

Il 2 febbraio di ogni anno la Chiesa cattolica festeggia la Candelora conosciuta per la benedizione delle candele che sono il simbolo di Gesù Cristo "luce per illuminare le genti" e che vengono offerte all'altare dai fedeli. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre, giorno della nascita di Gesù, infatti si ricorda la presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme, la quale era prescritta dalla Legge giudaica per i primogeniti maschi. Una curiosità popolare legnanese vuole che, proprio davanti alla Chiesa della Purificazione o di Santa Rita a Legnano, nota per il dipinto cinquecentesco della "Purificazione" di Giovanni Francesco Lampugnani che in seguito all'erezione nel 1901 della Chiesa del S.S. Redentore fu spostata al suo interno, numerose spose dell'anno si confidassero reciprocamente dichiarando semplicemente: "Caru ti, se mi 'l savévu, mai pù sa maridévu" ovvero cara te, se l'avessi saputo, non mi sarei mai sposata. E' proprio davanti alla Chiesa di Santa Rita quindi, la Santa dei "casi impossibili", una delle più amate per la sua esistenza vissuta come sposa e madre, poi come vedova e monaca agostiniana, che si ricorda il detto legnanese "Caru mi, caru ti". Oggi la Candelora coincide anche con la Festa della Contrada di Legnarello molto sentita in città.



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                          http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/candelora-detti-popolari.html


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LA CHIESA DI SANTA MARIA DEL PRIORATO A LEGNANO



E' la chiesa di un antico monastero, il Convento degli Umiliati, ora non più esistente. L’edificio di culto fu eretto nei pressi di un fossato costruito si pensa per proteggere la curia e le sue proprietà. Nel XIV secolo, la chiesa fu citata nell’elenco delle chiese stilato ogni anno ed era definita come ausiliari della Chiesa di San Salvatore, anticamente centro religioso della cittadina. Verso la fine del Cinquecento, il monumento crollò e i religiosi si spostarono in alloggi che danno su via Monastero rotto, attualmente denominata via Lega Lombarda. Nel 1618 il cardinale Federico Borromeo, viste le crepe della cappella, ordinò una ristrutturazione della chiesa entro i due anni successivi con finestre più alte e dotate di vetro e reti. Nel 1825 la Chiesa di Santa Maria del Priorato cessò le funzioni religiose e fu demolita nel 1953 per lasciare spazio alla costruzione della Galleria della città.

Fu edificata poco oltre alla "braida arcivescovile", ossia a quell'isola naturale formata dall'Olona e dall'Olonella che un tempo si trovava dietro la basilica di San Magno e che venne interrata a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. L'edificio religioso era situato in via Santa Maria, oggi conosciuta come via Palestro. La facciata era di fronte all'ingresso principale degli odierni ex-stabilimenti della Manifattura di Legnano.

La chiesa di Santa Maria del Priorato compare nel Notitie Cleri Mediolanensi del 1398 (ossia nell'elenco degli edifici religiosi che puntualmente veniva compilato dalla Chiesa cattolica) insieme alle chiese di San Salvatore, Sant'Ambrogio e San Martino. Nel Medioevo i monaci dell'annesso convento degli Umiliati la utilizzavano come ausiliaria di San Salvatore. Beneficiò del patrocinio della famiglia Lampugnani, e come si può leggere da alcune note d'archivio del 1650 scritte dal prevosto di Legnano Agostino Pozzo, ad un certo punto, la chiesa, il monastero ed i terreni adiacenti furono incorporati dall'arcivescovo Carlo Borromeo per mancanza di eredi diretti della citata famiglia nobiliare.

Le dimensioni della chiesa di Santa Maria del Priorato erano 18 metri di lunghezza e 8 di larghezza, dimensioni ragguardevoli per l'epoca. La spaziosa abside rettangolare misurava invece 5,8 x 5,9 metri. La facciata era costituita da un porticato sormontato da quattro archi a semicerchio che erano sostenuti da tre colonne in marmo bianco. Le tre colonne erano poi completate da capitelli in stile rinascimentale.

All'interno della chiesa erano dipinti un affresco del XV secolo raffigurante San Girolamo ed un altro affresco rappresentate la Crocifissione di Gesù Cristo.



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LA CHIESA DI MARIA MADDALENA A LEGNANO



L'edificio religioso si trova nella contrada San Bernardino.
Eretta nel 1728 per legato di Carlo Francesco Fassi allo scopo di dotare la cascina di una sua aula religiosa, per quasi due secoli e mezzo fu l'unico luogo di culto per la cascina e l'intero rione della Ponzella. Nel 1779 la chiesa divenne oratorio di Gesù Crocifisso e l'altare fu dotato di una bella raffigurazione su tela della Croce col Cristo morto, la Madonna con San Giovanni e Santa Maria Maddalena. Questa pala d'altare, attribuita dal Pirovano al pittore Carlo Francesco Nuvolone, detto "il panfilo" (1581-1651), è contornata da pregevoli affreschi della stessa epoca in cui la tela pervenne all'oratorio della Ponzella. In origine sull'altare vi era un pregiato Crocifisso ligneo del XVI secolo, oggi non più esistente. Nell'auletta laterale destra vi è un Cristo deposto, in gesso, attorniato da una Via crucis in quadretti dipinti su legno. Un'altra Via crucis, di buona fattura in ceramica, orna la navata centrale. Il soffitto della chiesetta, anticamente in legno, era stato successivamente rifatto in intonaco ed ornato con quattro vele affrescate raffiguranti gli evangelisti. Nel 1979 la chiesa fu interessata da una completa ristrutturazione, con opere di rifacimento anche del tetto, dell'intonaco della facciata, che era in mattoni a vista come gli altri muri esterni, questi ultimi rimasti nelle condizioni originarie. Sono stati conservati i due finestrini reniformi a fianco della porta d'ingresso. E' molto caratteristico il campanile della chiesetta, in stile veneziano e con la cuspide lavorata in mattoni scalati, che ha sostituito nel 1930 il precedente più piccolo. Le tre campane, che originariamente erano destinate alla chiesa dei Santi Martiri, sono state dedicate a San Magno, ai Santi Martiri e alla Vergine Immacolata. Nello spazio tra il campanile e il corpo della chiesetta è ancora visibile la volta in mattoni di un antico forno comune nel quale le famiglie dei contadini della cascina Ponzella (che anticamente si chiamava "Poncena") portavano a cuocere il pane.

L'edificio ha pianta a "T" ed ha dimensioni 9 m x 5,4 m. Con la successiva aggiunta di due cappellette laterali arrivò ad avere capienza di 100 persone. In origine la chiesa era in mattoni a vista.







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venerdì 22 maggio 2015

SANTA RITA

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Rita da Cascia, (Margherita Lotti Roccaporena, 1381 – Cascia, 22 maggio 1457), monaca agostiniana a Cascia (PG), fu proclamata santa da papa Leone XIII nel 1900.

Molta parte della vita di Rita risulta oscura dal punto di vista della documentazione storica. Tra le pochissime fonti più o meno coeve, si annoverano l'iscrizione e le immagini dipinte sulla "cassa solenne" (datata 1457), il Codex miraculorum (elenco di miracoli registrato dai notai su richiesta del comune di Cascia, preceduto da una breve biografia scritta dal notaio Domenico Angeli, anch'essa del 1457), e una tela a sei scomparti con episodi della vita (1480 circa). La prima ricostruzione agiografica completa a noi giunta risale soltanto al 1610, ad opera di padre Agostino Cavallucci, agostiniano. Su tale testo si modelleranno tutte le successive biografie della santa. Cavallucci si basò sulla tradizione orale (in particolare quella interna al monastero di Cascia e quella degli abitanti di Roccaporena), e sulle poche fonti iconografiche precedenti, probabilmente servendosi, per il resto, di topoi agiografici consolidati.

Il luogo di nascita è concorde per Roccaporena, una frazione montagnosa a circa cinque chilometri da Cascia (provincia di Perugia), all'epoca uno dei castelli ghibellini facenti parte del contado del comune di Cascia. Le date di nascita e morte sono incerte. Esse dipendono dall'altezza cui si pone la data di morte, ovvero il 1447 per alcuni, o il 1457 per altri, dopo quarant'anni di vita monacale. Da qui si risale, per la nascita, al 1371, o al 1381.
Secondo le biografie tradizionali, Rita nacque da Antonio Lotti e Amata Ferri, genitori già anziani, molto religiosi, nominati dal Comune come "pacieri di Cristo" nelle lotte politiche e familiari tra guelfi e ghibellini, e in discrete condizioni economiche, come proprietari di terreni agricoli

Un giorno i genitori di Rita si erano recati al lavoro dei campi, portando con se la bambina, e l'avevano adagiata all'ombra di un albero.

Era delizioso il mirare la piccola Rita dentro un cestino di vimini; ora dormiva ed ora apriva gli occhietti ed agitava le manine.

Non era sola; l'Angioletto la custodiva. Ecco apparire un folto sciame di api e circondarla; parecchie di esse le entrarono nella boccuccia e vi deposero il miele, però senza pungerla.

Nel frattempo un mietitore, che lavorava in quei pressi, con la falce si era fatto un taglio alla mano.

Lasciò il lavoro e corse verso Cascia per la medicazione. Passando vicino alla bambina e vedendo quello sciame di api, si fermò un istante ed agitando le mani tentò di liberarla da quell'assalto pericoloso.

Improvvisamente la mano cessò di sanguinare e la ferita si chiuse. Il miracolato mandò grida di gioia e di stupore, tanto che accorsero i genitori di Rita. Le api allora si sbandarono.

Verificato il prodigio della mano e quello delle api, che non avevano punto la bocca della piccina, padre e madre di Rita s'inginocchiarono presso il cesto di vimini e ringraziarono Dio.

Rita avrebbe desiderato farsi monaca tuttavia ancor giovanetta (circa a 13 anni) i genitori, oramai anziani, la promisero in sposa a Paolo Ferdinando Mancini, un uomo conosciuto per il suo carattere rissoso e brutale. S. Rita, abituata al dovere non oppose resistenza e andò in sposa al giovane ufficiale presumibilmente verso i 17-18 anni.

Dal matrimonio fra Rita e Paolo nacquero due figli gemelli maschi; Giangiacomo Antonio e Paolo Maria che ebbero tutto l'amore, la tenerezza e le cure dalla mamma. Rita riuscì con il suo tenero amore e tanta pazienza a trasformare il carattere del marito e a renderlo più docile.

La vita coniugale di S. Rita, dopo 18 anni, fu tragicamente spezzata con l'assassinio del marito, avvenuto in piena notte, presso la Torre di Collegiacone  mentre tornava a Cascia.

Rita fu molto afflitta per l'atrocità dell'avvenimento, cercò dunque rifugio e conforto nell'orazione con assidue e infuocate preghiere nel chiedere a Dio il perdono degli assassini di suo marito.
Contemporaneamente S. Rita intraprese un'azione per giungere alla pacificazione, a partire dai suoi figlioli, che sentivano come un dovere la vendetta per la morte del padre.
Rita si rese conto che le volontà dei figli non si piegavano al perdono, allora la Santa prego il Signore offrendo la vita dei suoi figli, pur di non vederli macchiati di sangue. "Essi moriranno a meno di un anno dalla morte del padre".

I due figli, da lì a breve, morirono di malattia, quasi contemporaneamente. Tale sventura avvenne forse in un periodo compreso tra il 1401 e il 1403.

Abbandonata anche dai parenti del marito, Rita decise di prendere i voti ed entrare nel monastero agostiniano di Santa Maria Maddalena, a Cascia. Chiese per tre volte inutilmente il noviziato, che le venne rifiutato per ragioni non chiare; alcuni biografi pensano che rapprensentasse un ostacolo la presenza di una parente del marito mai vendicato tra le monache. Tuttavia, con tenacia, fede e preghiera, Rita convinse la famiglia Mancini ad abbandonare ogni proposito di vendetta. Dopo aver riconciliato i Mancini con le fazioni degli assassini, Rita riuscì ad entrare in monastero intorno al 1407. Secondo la tradizione agiografica che si rifà alla biografia di Cavallucci, Rita, in piena notte, venne portata in volo dal cosiddetto "scoglio" di Roccaporena (altura dove andava spesso a pregare) fino dentro le mura del monastero di Cascia dai suoi tre santi protettori (Agostino, Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, quest'ultimo canonizzato soltanto nel 1446).

Le monache convinte dal prodigio e dal suo sorriso, la accolsero fra di loro e qui Rita vi rimase per 40 anni immersa nella preghiera.

Sempre secondo Cavallucci, la badessa del monastero mise a dura prova la vocazione e l'obbedienza di Rita, facendole annaffiare un arbusto di vite secco, presente nel chiostro del monastero. Il legno, dopo un po' di tempo, riprese vita e dette frutto. Nello stesso chiostro, oggi, è presente una vite risalente al XIX secolo.
Durante i quarant'anni di vita monacale, Rita non solo si dedicò alla preghiera, a penitenze e a digiuni nel monastero, ma uscì spesso per andare in servizio a poveri e ammalati di Cascia.

Era il Venerdì Santo del 1432, S. Rita tornò in Convento profondamente turbata, dopo aver sentito un predicatore rievocare con ardore le sofferenze della morte di Gesù e rimase a pregare davanti al crocefisso in contemplazione. In uno slancio di amore S. Rita chiese a Gesù di condividere almeno in parte la Sue sofferenze. Avvenne allora il prodigio: S. Rita fu trafitta da una delle spine della corona di Gesù, che la colpi alla fronte. Fu uno spasimo senza fine. S. Rita portò in fronte la piaga per 15 anni come sigillo di amore.

Per Rita gli ultimi 15 anni furono di sofferenza senza tregua, la sua perseveranza nella preghiera la portava a trascorrere anche 15 giorni di seguito nella sua cella "senza parlare con nessuno se non con Dio", inoltre portava anche il cilicio che le procurava sofferenza, per di più sottoponeva il suo corpo a molte mortificazioni: dormiva per terra fino alla fine quando si ammalo e rimase inferma negli ultimi anni della sua vita.

A circa 5 mesi dal trapasso di Rita, un giorno di inverno con la temperatura rigida e un manto nevoso copriva ogni cosa, una parente le fece visita e nel congedarsi chiese alla Santa se desiderava qualche cosa, Rita rispose che avrebbe desiderato una rosa dal suo orto. Tornata a Roccaporena la parente si reco nell'orticello e grande fu la meraviglia quando vide una bellissima rosa sbocciata, la colse e la portò a Rita.

Cosi S. Rita divenne la Santa della "Spina" e la Santa della "Rosa".

S. Rita prima di chiudere gli occhi per sempre, ebbe la visione di Gesù e della Vergine Maria che la invitavano in Paradiso. Una sua consorella vide la sua anima salire al cielo accompagnata dagli Angeli e contemporaneamente le campane della chiesa si misero a suonare da sole, mentre un profumo soavissimo si spanse per tutto il Monastero e dalla sua camera si vide risplendere una luce luminosa come se vi fosse entrato il Sole. Era il 22 Maggio del 1447.

S. Rita da Cascia è stata beatificata ben 180 anni dopo il suo decesso e proclamata Santa a 453 anni dalla sua morte.

In seguito a numerosi episodi “impossibili” quali guarigioni o apparizioni di api , fiori e frutti nei luoghi frequentati da Rita durante l’arco della sua vita, i suoi devoti la definiscono la santa delle “cose impossibili” e a lei si rivolgono per ottenere grazie che ritengono difficili da realizzare.Per rinnovare la forza di questo messaggio di pace e fratellanza, Cascia ogni anno si illumina di decine di migliaia di fiaccole il 21 maggio notte, per rievocare il momento del trapasso di Rita avvenuto nel 1457.

Nella storia dei Santi non è nuovo il fenomeno delle api. Anche attorno alla culla di Sant'Ambrogio e di San Giovanni Crisostomo, detto « Bocca d'oro », volitarono sciami di api, simboleggiando, secondo l'interpretazione degli storici, il dolce miele dell'eloquenza, che sarebbe uscito dalla loro bocca.

Rita non sarebbe diventata una banditrice del Vangelo, non avrebbe avuto il dono dell'eloquenza come i due Santi or ora nominati; in lei il miele delle api po­trebbe significare, secondo il giudizio dei biografi, il miele spirituale della grazia di Dio.

Le api riapparvero nel monastero di Cascia quando Rita morì, non più bianche, ma nere, quasi in segno di cordoglio. Dopo parecchi secoli le api sono ancora lì e sono chiamate le « messaggere alate di Santa­ Rita ».

Il prodigio delle api ha ispirato pittori e poeti, cosicchè si hanno molti quadri e poesie, che rievocano quanto avvenne alla Santa nella campagna di Rocca Porena.


Il suo corpo venne collocato dapprima in una cassa semplice, detta "cassa umile", e non fu mai inumato a causa dell'immediata devozione dalla quale venne investito. I primi miracoli vennero registrati dai notai nel Codex miraculorum (Codice dei miracoli) a partire dal 1457 e fino al 1563 (in totale, quarantasei miracoli). In seguito ad un incendio, nel 1457, venne realizzata la cosiddetta "cassa solenne", decorata con immagini della Santa e con un breve testo in dialetto casciano quattrocentesco che riassume gli ultimi anni della sua vita. La cassa è ancora oggi conservata nella cella dove morì, nella parte antica del monastero di Cascia. Nel 1743 la salma fu traslata in un'urna in stile barocco, e nel 1947 nell'attuale teca di vetro all'interno della basilica.

La venerazione di Rita da Cascia da parte dei fedeli iniziò subito dopo la sua morte e fu caratterizzata dall'elevato numero e dalla qualità degli eventi prodigiosi, riferiti alla sua intercessione, tanto che acquisì l'allocuzione di "santa degli impossibili". La sua beatificazione avvenne, però, dopo varie vicissitudini, soltanto nel 1628, 180 anni dopo la sua morte, durante il pontificato di Urbano VIII, già vescovo di Spoleto. Leone XIII, nel 1900, la canonizzò come santa. I credenti suoi devoti la chiamano "santa degli impossibili", perché dal giorno della sua morte sarebbe "scesa" al fianco dei più bisognosi, realizzando per loro miracoli prodigiosi, eventi altrimenti ritenuti irrealizzabili. La devozione popolare cattolica per santa Rita è tuttora una delle più diffuse al mondo, ma, fin dal 1600 e per opera degli agostiniani, è particolarmente radicata, oltre che in Italia, in Spagna, Portogallo e America Latina.

Con la riforma dell'anno liturgico del Martirologio Romano, il 22 maggio, sua festività, è diventata memoria.

I resti della santa sono conservati a Cascia, all'interno della basilica di Santa Rita, facente parte dell'omonimo santuario e fatta erigere tra il 1937 e il 1947. Il corpo è rivestito dall'abito agostiniano cucito dalle monache del monastero, come voluto dalla badessa Maria Teresa Fasce, e posto in una teca all'interno della cappella in stile neobizantino.
Ricognizioni mediche effettuate nel 1972 e nel 1997 hanno confermato la presenza, sulla zona frontale sinistra, di tracce di una lesione ossea aperta (forse osteomielite), mentre il piede destro mostra segni di una malattia sofferta negli ultimi anni di vita, forse associata ad una sciatalgia. Era alta 1 metro e 57 cm. Il viso, le mani e i piedi sono mummificati, il resto del corpo, coperto dall'abito agostiniano, è in forma di semplice scheletro.








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domenica 10 maggio 2015

LE SANTE DI LOVERE : SANTA VINCENZA GEROSA

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Vincenza (Caterina) Gerosa (Lovere, 29 ottobre 1784 – Lovere, 20 giugno 1847) è stata una religiosa italiana, cofondatrice (insieme a Bartolomea Capitanio) dell'Istituto delle suore della carità, dette di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Caterina Gerosa nasce a Lovere nel 1784 in una famiglia facoltosa, nella quale con i genitori Gianantonio e Giacomina Macario vivono anche gli zii paterni, associati nel commercio delle pelli. Prima di quattro sorelle, viene presto coinvolta negli affari, dove rivela diligenza e spiccate capacità.

Cresciuta in un contesto profondamente cristiano, coltiva con entusiasmo la sua vita di fede, rivelando una grande passione per il Crocifisso da cui attinge forza e serenità per affrontare le contraddizioni e le prove familiari.

Tra i genitori e gli zii di Caterina Gerosa erano perciò molto frequenti i malumori e i litigi. Col crescere negli anni la santa ne sofferse atrocemente. Non riuscendo ad impedirli si rifugiava ai piedi del crocifìsso per attingere da Lui consolazione e forza.
Lo zio Ambrogio apprezzò l'intelligenza e la serietà della nipote e l'avviò, dopo la scuola elementare, a passare la giornata al banco di bottega e al mercato accanto a sé. Prima dell'alba, però, ella si recava in chiesa per ascoltare la Messa e fare la comunione. La sera, dopo le svariate occupazioni del giorno, vi ritornava per pregare per tutti i bisogni della famiglia e della società. In casa tutti ne ammiravano in silenzio la pietà perché, invece di farle trascurare i doveri, la rendeva più laboriosa, umile e mortificata. Benché erede di un grande patrimonio si adattava a zappare l'orto. A chi le manifestava la propria meraviglia, rispondeva: "Che volete? Devo fare la volontà di Dio". Vestiva abiti semplici e rattoppati; mangiava lo stretto necessario e, qualche volta, polenta e noci per dare ai mendicanti la sua parte di cibo; di notte si flagellava e restava a lungo prostrata sul pavimento.
A diciassette anni la Gerosa perdette il padre. Poco dopo ebbe il dolore di vedere confinare la propria madre a vivere da sola con i proventi della legittima e la proibizione, da parte degli zii, d'intrattenere relazioni con le figlie. Quando morì (1814) sull'Italia settentrionale si abbatté il flagello della carestia, al quale, tre anni dopo, si aggiunse quello del vaiolo e della febbre petecchiale. Sotto la direzione del prevosto Don Barboglio, la Gerosa fu in quel tempo un angelo consolatore per tanti poveri e malati. I testimoni dei processi asseriscono che "avrebbe dato via i muri per fare carità"; che andava ella stessa a mendicare per i bisognosi; che quattro volte la settimana offriva in casa sua un lauto pranzo a tredici poveri. Gli abitanti di Lovere la consideravano la principale loro consigliera tanto era retta, e mentre i poveri la chiamavano "zia", essi la chiamavano "signora". Caterina approfittò dell'ascendente che si era guadagnato con l'esercizio delle opere di misericordia per richiamare le giovani a una maggiore serietà di vita, i sacerdoti allo zelo delle anime e i peccatori alla frequenza dei sacramenti.
Alla morte dello zio Ambrogio (1822), tutto il patrimonio di casa Gerosa passò in proprietà della santa e in usufrutto della zia Bartolomea. Ignorando che cosa il Signore volesse da lei, la Gerosa largheggiò ancora di più nella paga agli operai e nel soccorso agli sventurati. Un giovane serio le aveva offerto la sua mano, ma ella, mostrandogli l'immagine di Sant'Agnese, gli aveva risposto che era già sposata. Le era stato rivolto l'invito (1819) di entrare tra le Figlie della Carità di S. Maddalena di Canossa (+1835), ma ella lo aveva rifiutato perché si riteneva indegna di appartenere ad una Congregazione Religiosa. A Lovere istituì (1821) la Congregazione Mariana per le fanciulle e un piccolo ospedale (1826), sotto la direzione di Bartolomeo Capitanio, la figlia del fornaio, uscita nel 1824 dal collegio delle Clarisse. Di entrambe le istituzioni ella riservò a sé soltanto le preoccupazioni dell'amministrazione. Le due sante si compresero e si completarono a vicenda nell'esercizio delle opere di carità. Ma mentre la Gerosa, impegnata a santificarsi nell'osservanza delle sue regole di terziaria francescana, non viveva che per l'Oratorio e l'Ospedale, la Capitanio, sotto la guida del suo confessore, il curato Don Angelo Bosio, aspirava a fondare una famiglia religiosa per l'educazione della gioventù e la cura dei malati. Ne parlò alla sua amica Gerosa che contava allora quarantacinque anni, ma costei, di temperamento timido, introverso, le rispose con la sua abituale umiltà: "Noi siamo buone a niente, dobbiamo vivere nascoste, contentarci di quel poco che Dio vuole". Tuttavia si piegò alle reiterate insistenze di Don Bosio convinta di fare così la volontà di Dio, e affrontò pazientemente la fiera opposizione dell'iraconda zia Bartolomea (+1843), contrarissima a che la nipote offrisse il suo patrimonio per l'acquisto della casa Gaia, adiacente all'ospedale e, dal 21-11-1832, sede dell'incipiente Istituto.
La Gerosa si mise alle dipendenze di Bartolomea, più intelligente e intraprendente. "Io sono entrata - le diceva - non per riposare, né per comandare, ma per lavorare, per essere la serva di tutte". In casa, nell'ospedale e nel piccolo orfanotrofio, istituito per dieci fanciulle povere del paese, non le mancavano di certo le più umili e faticose occupazioni.
Agli inizi, che facevano presagire un glorioso avvenire, Iddio aveva segnata una prova molto dolorosa per la Gerosa: la morte della Capitanio (+1833). Che avrebbe fatto senza di lei? Ebbe un momento di accorata nostalgia per la casa che aveva abbandonato, ma umile, sottomessa e docile come sempre ai consigli di Don Bosio, rimase al suo posto, mentre andava ripetendo: "Essi vogliono un'opera grande, io non la capisco, non la vedo. Farà Iddio". Più tardi, parlando della Capitanio, confesserà: "Essa era un'aquila per il suo fervore, per i suoi desideri e io invece un bue che sempre la tirava indietro". L'olocausto della fondatrice non tardò a suscitare una fioritura di vocazioni nell'Istituto da lei appena avviato. Caterina le formò alla vita religiosa esigendo apertamente da loro spirito di sacrificio e di povertà.
Compendiava tutta la sua ascetica dicendo sovente: "Chi sa il crocifisso sa tutto, chi non sa il crocifisso non sa nulla". E, per conto suo, continuava ad aspergere lo scarso cibo di cenere e di acqua, a tracciare per terra con la lingua grandi segni di croce, a fare uso di cilici e di flagelli, a pregare di notte a lungo con le braccia aperte o con le mani sotto le ginocchia, e a praticare fin allo scrupolo, nonostante i suoi cinquant'anni suonati, le esortazioni che Don Bosio faceva alla comunità nelle conferenze mensili. Le sarebbe piaciuto continuare ad indossare il suo grembiule, ma quando i superiori decisero di darle un divisa (1835) acconsentì a portare, con il nome di Suor Vincenza, la cuffia e il velo. Essendo rimasta in lei una spiccata tendenza a mostrarsi con l'abito succinto o con gli zoccoli di legno a persone ragguardevoli, a usare con esse termini poco cortesi e a compiere gesti non conformi alla buona creanza, Don Bosio non temeva di rimproverarla. "Che volete? - diceva allora. - Sono stata educata sotto il camino". Ovvero: "Che può fare di meglio un'ignorante?". La Gerosa non consentì di essere chiamata superiora, ma soltanto "la più vecchia" perché riteneva le sue prime cinque compagne più capaci di lei. Era ferma tuttavia nell'esigere da tutte la fedele osservanza delle regole; era sincera nel riprenderle privatamente dei difetti; era severa con chi mancava di semplicità. A nessuna permetteva pressioni sulle aspiranti alla vita religiosa. "Lo spirito del Signore - diceva - è come un leggero venticello che spira dove vuole. Egli è il padrone dei cuori, li tocca e li chiama. L'opera è sua. Egli sa quello che torna a nostro bene, quello che è necessario. Lasciamo fare a Dio, non preveniamo le sue disposizioni con il pericolo di guastarle". Esatta nel compimento dei suoi doveri, voleva che lo fossero tutte le suore. Ad esse ripeteva sovente: "Se non si mette buon fondamento, la casa cade".
Ben presto l'opera avrebbe varcato i confini del paese, ma nella sua umiltà Suor Vincenza non si stancava di ripetere: "Noi non siamo buone a niente, il nostro Istituto è da niente, l'infimo di tutti". Invece, nel colera scoppiato a Lovere nel 1836, le Suore di Carità diedero a vedere di quanto eroismo fossero capaci. La loro fama giunse lontano. A Bergamo il sacerdote Carlo Botta aveva ideato di raccogliere nel convento di Santa Chiara vecchie signore e povere fanciulle bisognose di assistenza. Si era perciò rivolto alla santa per avere alcune suore, ma ella ne era rimasta tanto accorata da ammalarne perché, secondo lei, l'Istituto doveva rimanere nella cerchia di Lovere. Iddio voleva invece che si diffondesse per tutto il mondo, specialmente dopo che Gregorio XVI lo approvò (1838).
Essendo stata riconfermata nella carica di superiora, invano Suor Vincenza ripeteva: "Io sono vecchia. Non sono buona ad altro che a guastare l'opera di Dio. Farò quello che potrò, ma nello stato di suddita: aiuterò, brigherò, ma non voglio responsabilità. La mia testa è balorda e buona a niente". Tutti sapevano invece che era dotata di molto buon senso, che era sempre pronta ad abbandonare la propria opinione per seguire quella di Don Bosio, direttore di ferrea volontà. Nel 1842 poté così mandare le sue religiose nell'ospedale fondato dalla contessa Laura Ciceri Visconti a Milano, ed erigere il primo noviziato della Lombardia accanto alla comunità impegnata nell'assistenza dei malati.
Prima di morire la santa stabilì 247 sue suore in 24 case, le visitò più volte, le diresse scrivendo loro: "Siate guidate dalla retta intenzione di piacere a Dio, e per piacergli abbiate una profonda umiltà, una inalterabile pazienza, un'illimitata carità". Temeva fino all'affanno che esse, pure e semplici, rimanessero vittime dei pericoli tra i quali esercitavano il loro apostolato. Per questo raccomandava loro: "Abbiate molto cuore, ma anche testa". Grande era il suo ascendente su tutte sia perché eroica nell'esercizio delle virtù, sia perché dotata del dono della profezia. Infiacchita dal lavoro e dalle penitenze, assalita da una tosse insistente e cavernosa che le impediva il respiro e il riposo, Suor Vincenza si mise a letto nel mese di maggio 1847 con la previsione di non alzarsi più. Lasciò per testamento un discreto patrimonio all'Istituto e stabilì vari legati pii. Libera ormai dalle terrene preoccupazioni, diceva alle suore che andavano a chiederle ordini: "Lasciatemi quieta, pensateci voi, io ho da morire, voglio pensare a prepararmi". Ai medici che si affannavano a cercare rimedi ai suoi mali diceva: "Lasciatemi andare in Paradiso, adesso è la mia ora". Morì dolcemente il 28-6-1847.
Pio XI al beatificò il 7-5-1933 e Pio XII la canonizzò il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate a Lovere con quelle di S. Bartolomeo Capitanio nella cappella dell'Istituto.

La sua festa liturgica è il 28 giugno, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.






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LE SANTE DI LOVERE : SANTA BARTOLOMEA CAPITANIO

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Bartolomea Capitanio (Lovere, 13 gennaio 1807 – Lovere, 26 luglio 1833) è stata una religiosa italiana, fondatrice (insieme a Vincenza Gerosa) della congregazione delle Suore di Maria Bambina. È stata proclamata santa da papa Pio XII nel 1950.

Nacque il 13-1-1807 a Lovere (Bergamo), sul lago d'Iseo, da Modesto Capitanio, negoziante di grano e panettiere. Bartolomea e Camilla, le uniche figlie rimaste ai genitori, furono educate alla pietà e alla virtù dalla madre Caterina, la quale ebbe molto a soffrire da parte del marito. Possedeva costui un carattere così violento che i suoi compaesani lo chiamavano: "Modestino il matto". Più volte la settimana si ubriacava, faceva inorridire i vicini con le sue bestemmie e, ingelosito, batteva o scacciava di casa la consorte. Nonostante tanti cattivi esempi, Bartolomea crebbe ubbidiente e pura. Si commuoveva profondamente nell'ascoltare le prediche. Un giorno ne udì una sul peccato. Piangendo, esclamò: "O Gesù, non ti offenderò più". Quando la mamma la condusse in pellegrinaggio al santuario di San Luigi Gonzaga a Castiglione delle Stiviere (Mantova), Bartolomea chiese al giovane gesuita la grazia di morire della sua stessa malattia.

L'11-7-1818 Caterina, malgrado le resistenze del padre, riuscì ad affidare l'educazione della figlia maggiore alle Clarisse di Lovere. Sotto la guida di Madre Francesca Parpani Bartolomea propose di farsi santa, grande santa e presto santa con l'abnegazione di se stessa, l'esercizio dell'umiltà e la preghiera. Quando la mamma le portava frutta e dolci, essa li regalava alle compagne senza neppure assaggiarli.

Digiunava ogni sabato, lasciava il vino e la merenda ogni venerdì e poiché le ripugnava assai, si chinava talvolta a baciare la terra. Non si riscaldava quando aveva freddo, non si lamentava quando aveva caldo e talora metteva dei sassolini nelle scarpe. Per la Madonna faceva ogni giorno un dato numero di mortificazioni. Chiamava il mese mariano "il suo carnevale", tanto era lieta di onorare con speciali pratiche e digiuni la Madre di Dio che invocava sempre prima d'intraprendere un'azione. Madre Parpani, per correggere Bartolomea, della superbia alla quale si sentiva violentemente inclinata, la trattò senza riguardi, tanto da far esclamare ad una teste: "Sembrava che la maestra la odiasse". La Santa, rimproverata a torto, taceva. Una volta fu mandata per un mese nella classe inferiore dove le bimbe imparavano a leggere, pur essendo la migliore della classe. Anziché sgomentarsi, Bartolomea si sforzò di adempiere puntualmente tutte le regole dell'educandato.
In uno dei suoi scritti propose: "Voglio perseguitare l'amor proprio e la superbia, voglio proprio mettermi sotto i piedi di tutti e tutto quello che sarà contrario al mio genio, che avrò ripugnanza a fare o a dire, quand'anche mi costasse sudore di sangue, lo farò e lo paleserò a tutti i costi". Non contenta poi di pregare durante il giorno, molte volte impiegava anche parte della notte a rivolgere dolci colloqui a Gesù, a Maria e a San Luigi. Per la sua grande pietà, negli ultimi due anni che rimase nell'educandato, le venne concessa la comunione quotidiana, favore raro in quei tempi di rigorismo. A una compagna che le chiedeva come facesse a sopportare tante umiliazioni, rispose: "L'occasione di soffrire mi è cara perché così ho qualche cosa da presentare al Signore nella santa comunione".

Conseguito il diploma di maestra assistente nel 1822, cominciò nell'istituto stesso la sua attività di insegnante con le scolarette della prima elementare. Lasciato l'educandato il 18 luglio 1824 e ritornata in seno alla famiglia, continuò la sua carriera didattica nella piccola scuola aperta l'anno seguente nella sua stessa casa in favore delle bambine povere, sperimentando ed elaborando il suo metodo, fatto di intuizione e di penetrazione delle anime delle fanciulle.

Per mantenere il proposito di raggiungere la santità ad ogni costo, stese il metodo di vita che si prefiggeva di condurre nel mondo (26-10-1826). La sua giornata s'apriva con un'ora di meditazione e la Messa, alla quale aggiungeva la comunione ogni volta che il suo direttore gliela permetteva, e si chiudeva con una visita al SS. Sacramento e il rosario che recitava dopo la cena coi familiari, inginocchiata per terra. Tra l'altro propose di visitare i poveri malati una volta la settimana, di privarsi tre volte la settimana di qualche cibo per donarlo ad essi, di fare tutte le feste un po' d'istruzione alle giovani ignoranti, di recarsi in ispirito al suono delle ore o delle campane in chiesa per una visita al SS. Sacramento e la comunione spirituale. Nel mistero eucaristico, scrisse: "Non vedo che amore, non conosco che amore, e meditandolo, non provo che amore". E così si può dire, afferma Madre Parpani, che "la sua vita fu una continua orazione e unione con Dio, giacché non sapeva mai scordarsi della divina Presenza".
Il babbo continuava a bere e a bestemmiare. Bartolomea non gli mancò mai di rispetto. Con una dolcezza infinita un po' per volta lo ridusse a fargli sentire qualche devota lettura prima del rosario con grande ammirazione del vicinato. Morì tra le sue braccia pentito dei suoi errori nel 1831. Poco dopo Bartolomea, era uscita dal collegio anche sua sorella Camilla, di temperamento molto difficile e incostante. Sebbene minore, comandava la maggiore con importunità. Bartolomea "non solo non se ne doleva, ma correva volenterosissima a contentarla e servirla", testimoniò il suo direttore spirituale, Don Angelo Bosio, coadiutore del prevosto Don Rusticiano Barboglio.
Costoro, sapendo di quanta abilità avesse dato saggio nel monastero, stabilirono di sottrarla al ristretto ambiente domestico. Per non lasciare isterilire in un negozio di fornaio le sue doti così belle pensarono di affidarle le giovanotte della parrocchia. La Santa diede i suoi esami a Bergamo e, nel 1835, aprì nella casa paterna una scuola privata che trasferì poi in quella di Don Bosio quando le alunne arrivarono a 50. Il suo metodo educativo si compendiava in questa massima: "Amare le bambine senza parzialità e sacrificarsi per loro". Quello che cercava di evitare ad ogni costo e di bandire dalle sue scuole era la noia adattandosi alle capacità di ogni alunna, cercando di riuscire facile e dilettevole.
La domenica radunava le fanciulle in casa di Caterina Gerosa, che con il suo aiuto aveva adattato una stanza a cappella e arricchito di arredi sacri. Colà recitavano il rosario, cantavano l'ufficio della Madonna, ascoltavano gli avvisi della giovane maestra, e poi si divertivano lontano dai ritrovi pericolosi. Quest'oratorio fu l'inizio della Congregazione Mariana alla quale Bartolomea diede determinate regole. Non paga del bene che faceva alle giovanotte, volle giungere alle anime religiose e sacerdotali ideando per loro la Pia unione di Gesù e Maria, composta di 12 sacerdoti e 72 vergini, in ricordo del collegio apostolico. I parroci dei paesi vicini le mandavano delle giovani affinchè insegnasse loro a fare scuola. Sovente fu invitata a recarsi nei paesi della Valcamonica per spronare le ragazze alla virtù e raggrupparle in pie associazioni con appropriati statuti. Manteneva poi con esse una relazione costante. Le sue lettere, raccolte in due volumi, riflettono l'ardore del suo cuore d'apostola. Dopo le fatiche della giornata, vegliava ancora di notte per scrivere l'esame di coscienza, vergare lettere per le amiche, fissare statuti per le associazioni, comporre novene che un'amica ricopiava per distribuirle poi ad altre anime desiderose di perfezione.
All'amica Marianna Verteva scrisse: "Sono innamoratissima della vita ritirata e religiosa, ma d'altronde troppo mi piace l'impiegarmi in opere di carità spirituali e temporali, le quali in un monastero non si possono esercitare, salvo quella di pregare il Signore per i peccatori". Non contenta di istruire le ragazze, penetrò nelle prigioni per consolare le recluse, nei tuguri per aiutare i poveri con cibi e vestiti raccolti tra le amiche. Per il totale esercizio della carità fece voto di cercare nel modo di pensare, parlare e operare soltanto quello che chiaramente conosceva essere il più perfetto.
Le sorelle Caterina e Rosa Cerosa fin dal 1826 avevano lasciato alla Congregazione di Carità una casa con podere, da trasformarsi in ospedale. Alla carica di direttrice ed economa fu da loro scelta la Capitanio, la quale aveva allora diciannove anni. La santa apparve tutti i giorni, dopo la scuola, accanto ad ogni letto per confortare, prestare i più umili servizi e medicare anche i malati più ributtanti e pericolosi. Vedendo crescere i bisogni degli infermi, dei poveri, dei derelitti e della gioventù concepì, d'accordo con il suo direttore spirituale, l'idea d'istituire una famiglia religiosa che si dedicasse alla carità operosa. Con l'aiuto di Caterina Gerosa riuscì a superare la scarsezza dei mezzi materiali. Di fronte all'ospedale fu comperata e restaurata la casa Gaia, chiamata poi dal popolo il Conventino, ed in essa il 21-11-1832 furono accolte le orfane e le scuole dopo che le due amiche avevano ascoltato la Messa del prevosto, e si erano offerte per mano di Maria SS. a Dio e al servizio della gioventù e dei malati, secondo le regole delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli.
Nel lasciare la mamma e la sorella, Bartolomea scrisse: "V'assicuro che, se non conoscessi chiaramente che la mia vocazione è vera volontà di Dio, non farei questo passo per tutto l'oro del mondo". Nella sua nuova vita fu felice. Così ne parlò ad un'amica: "Vi confesso sinceramente che ho sempre considerato lo stato religioso come una vera morte di me stessa, ma in pratica riesce assai più vero. Non sono più padrona di me stessa; bisogna sempre operare come piace agli altri, adattarsi in tutto agli altri, calpestare l'amor proprio, sacrificarsi per la carità, tacere, sopportare, mostrarsi allegra, non desiderare nemmeno le cose più sante qualora non si confacessero con gli obblighi del proprio stato, insomma essere morta affatto in ogni cosa per non vivere che per Gesù Cristo e la sua santissima Volontà. E una vita veramente crocifissa, ma che viene addolcita da quell'amabile Sposo che gradisce i sacrifici delle sue serve. Non la cambierei con tutte le consolazioni, non dico terrene, ma neanche spirituali, perché la sicurezza di fare la volontà di Dio è quella che mi rende perfettamente contenta. Per carità, raccomandatemi al Signore, che mi faccia piuttosto morire che essere pietra d'inciampo alla sua opera".
Per il suo Istituto la Capitanio doveva essere la pietra d'angolo. Sul finire della quaresima del 1833, tornando dalla chiesa parrocchiale dov'era stata con le sue giovanotte ad adorare il SS. Sacramento esposto, si sentì più stanca del solito. Il medico la visitò e la trovò affetta da bronchite e da un generale indebolimento dell'organismo. Morì serenissima il 26-7-1833 dopo aver detto alla continuatrice della sua missione, Santa Vincenza Gerosa (+1847): "Quando sarò in cielo, sarò più utile all'Istituto che se rimanessi in terra".
Le Suore di Maria Bambina sono sparse in tutti i continenti. Per esse aveva previsto una ricca messe quando disse: "Non dubitate, l'Istituto durerà fino alla fine del mondo". Bartolomea Capitanio fu beatificata da Pio XI il 30-5-1926 e canonizzata da Pio XII il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate nel tempio eretto a Lovere dalla pietà delle sue figlie spirituali nel 1938, accanto a quelle di S. Vincenza Gerosa.

La sua festa liturgica è il 28 aprile, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.




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sabato 25 aprile 2015

SANTA MARIA DEL MONTE

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Santa Maria del Monte è una frazione del comune di Varese.

Santa Maria del Monte è un piccolo borgo di antica origine, posto sul Sacro Monte di Varese; nel borgo è presente un santuario, detto anch'esso Santa Maria del Monte, che costituisce l'ultima delle 15 cappelle del rosario della Via Sacra del Sacro Monte.

Amministrativamente, il borgo costituiva un comune autonomo, parte della pieve di Varese, le cui prime notizie risalgono al 1574 quando aveva 230 abitanti. Registrato agli atti del 1751 come un borgo di 270 anime, nel 1786 Santa Maria del Monte entrò per un quinquennio a far parte dell'effimera Provincia di Varese, per poi cambiare continuamente i riferimenti amministrativi nel 1791, nel 1798 e nel 1799. Alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1805 risultava avere 452 abitanti.

Nel 1809 il comune fu soppresso su risultanza di un regio decreto di Napoleone che lo annesse a Velate, ma l'autonomia municipale di Santa Maria del Monte fu poi ripristinata con il ritorno degli austriaci. Nel XIX secolo l'abitato cominciò a risentire pesantemente della sua condizione montanara che ne impediva l'industrializzazione e favoriva conseguentemente l'emigrazione, tanto che nel 1853 risultò essere popolato da 328 anime, scese a 311 nel 1871. La timida inversione di tendenza dell'inizio del XX secolo non cambiò la situazione, tanto che nel 1927 il comune di Santa Maria del Monte venne aggregato al comune di Varese.




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martedì 7 aprile 2015

LA CASA DI SANT' ANGELA MERICI

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Il complesso ha subito, con il passare del tempo, diversi rimaneggiamenti. Qui abitò Angela Merici, nata a Desenzano il 21/3/1474. A lei si deve la fondazione nel 1535 dell'€™ordine delle Orsoline. Fu proclamata santa da Papa Pio VII nel 1807. Nella casa è possibile riconoscere la struttura della vecchia abitazione. Meritano attenzione la cucina e la camera risalenti al tempo in cui Angela visse qui conducendo una vita dedita al lavoro, alla preghiera e alle opere di carità.

Secondo la tradizione la famiglia Merici, lasciata la casa di Via Castello in Desenzano dove si vuole sia nata Angela, si trasferì in località allora periferica come "Le Grezze”. Di questa casa oggi non resta che un piccolo edificio caratterizzato da tre stanze con portico, posto a sinistra di chi la guarda.
Il tracciato, in lastre di Botticino, idealmente equiparato ad un sentiero, che dalla cucina conduce al pozzo, e viceversa, calpestato un’infinità di volte da S. Angela, può significare il nostro prendere coscienza del cammino di fede alla luce del cammino spirituale di Angela.
Le stanze dell’abitazione di S. Angela, scabre e prive di qualsiasi decorazione in sintonia con lo spirito e lo stile di vita di Lei, è oggi un invito alla ricerca dell’essenziale, dei veri valori per cui vale la pena spendere la propria vita; ed è anche un richiamo a spogliarci di noi stessi per essere degni di presentarci “ a sua divina Maestà” in autenticità. I luoghi favoriscono la meditazione. Nel silenzio interiore, si percepisce la sua misteriosa presenza e risuonano le sue parole di saggezza valide in ogni tempo per trovare risposte alla complessità del nostro vivere.
La piccola cappella, sorta all’interno della Casa Merici è caratterizzata da un soffitto luminoso a guisa di accoglienti braccia convergenti verso la mensa, significa sostare ai piedi di Cristo e lì fare caldissime orazioni ad imitazione di S. Angela, così ben raffigurata nell’icona di fondo, che non trovava altro rifugio se non ai piedi di Gesù Cristo.
La morfologia del cortile è rimasta invariata e la pavimentazione, in ciottoli di fiume, si adagia sul fondo di questo seguendo ogni sinuosità. A collegare direttamente il pozzo e il portico della cucina è il sentiero in lastre di Botticino perfettamente aderenti ai ciottoli e con questi in continuità. Mentre la maturità spirituale di Angela è simboleggiata dai raggi in lastre di Rosso Verona che simbolicamente rappresentano le Compagnie e gli Istituti Religiosi delle Orsoline presenti oggi nel mondo. "Una famiglia intorno alla madre" è quanto trovi inciso nella grande lastra solare posta a lato ovest del cortile.
Dal portico accedi alla “cucina”: pavimentazioni in cotto e lastre consunte di Botticino: muri in pietra viva in parte tinteggiati in calce naturale, soffitto in semplici piane lignee. La presenza del focolare e del lavandino caratterizzano il luogo quale spazio domestico di sosta e di intima attività familiare: oggi qui vive il pensiero di Angela. A primo piano è posta “la stanza di Angela”; il ritorno alla casa della Madre, un giaciglio dove riposare, luogo di meditazione e riscoperta di valori autentici che diano senso al nostro essere.
La chiesetta a piano terra appare essenziale e determinata in ogni suo aspetto. Un solco di ferro infisso nel pavimento attraversa la porta d’ingresso giungendo fino all’altare di pietra: due braccia (sempre di ferro infisso nella pavimentazione) si aprono ortogonalmente a questo in direzione est-ovest. Sulla parete ad Est è posto il tabernacolo. L’ambone, il luogo della parola avanza verso l’aula poggiando sopra un presbiterio leggermente sopraelevato. Il soffitto si abbassa chiudendo la prospettiva sulla quinta di fondo che definisce la zona absidale: qui trova spazio l’immagine di S. Angela ai piedi della Croce con Maria, Giovanni e Longino, rappresentata da un’icona di rara bellezza (opera di Paolo Orlando). La luce naturale è bilanciata dai riflessi trasmessi dalle grandi vetrate astratte (opere di Padre Costantino Ruggeri) poste all’ingresso della chiesa ed in fondo all’abside, contribuendo ad una lettura contemporanea della spiritualità di Angela. Pareti color calce e terra caratterizzano questo piccolo spazio ecclesiastico offrendo un momento di raccolta preghiera per chi lo desidera.



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