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mercoledì 13 aprile 2016

FIUMENERO

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Fiumenero è una frazione che occupa la parte meridionale del territorio comunale di Valbondione ad un'altezza di circa 800 m s.l.m. Attraversata dal fiume Serio, si sviluppa su entrambi i versanti della val Seriana, comprendendo per gran parte un territorio dalle caratteristiche montuose, con il nucleo abitativo posto interamente nel fondovalle.

L'origine del nome, al contrario di quanto potrebbe apparire scontato, non deriva dal colore del fiume che vi scorre. In base a questa errata teoria, perorata per secoli da studiosi locali, l'etimo avrebbe dovuto essere legato alla presenza di lastre di granito ed ardesia di colore olivastro, non certo dal colore delle acque del torrente, peraltro limpidissime.

La corretta interpretazione viene fornita dalla dicitura in dialetto bergamasco: Föm negher, ovvero fumo nero, indirizza le ricerche verso la presenza, peraltro testimoniata da Giovanni Maironi da Ponte nel suo Dizionario Odeporico, di un forno di fusione, accompagnato da una fucina di riduzione, utilizzati per lavorare il ferro estratto in zona, che provocava continui ed intensi fumi di colore nero fin già da tempi antichi.

Poche sono le informazioni riguardanti questo piccolo borgo montano. Si presume che sul fondovalle fossero presenti sporadici insediamenti già nell'epoca romana, quando venne scoperta nella zona la presenza di miniere di ferro. Queste portarono un ingente numero di schiavi (i cosiddetti Damnata ad Metallam), le cui abitazioni avrebbero appunto creato il primo agglomerato urbano.

Nei secoli successivi alla caduta dell'impero romano, la zona venne abitata da gruppi di persone che si spinsero fin qui per trovare scampo alle scorrerie ed alle incursioni delle tribù guerriere che imperversavano nei fondovalle.

Da sempre posto in una posizione defilata, Fiumenero infatti non ha mai vissuto sul proprio territorio episodi storici di rilievo, "subendo" le trasformazioni politiche che avvenivano nel resto della provincia o della regione. Tra i primi documenti storici che riguardano la zona, vi è quello datato 957, nel quale l'imperatore Ottone II di Sassonia assegnava in feudo la valle Seriana, inclusa la valle Bondione, al vescovo di Bergamo.

Tuttavia per gran parte del periodo medievale Fiumenero, al pari degli altri piccoli centri della Valle Bondione, gravitò costantemente sia in ambito amministrativo che in quello religioso nell'ambito della Val di Scalve. Nonostante questa fosse posta sull'opposto versante orografico e difficilmente raggiungibile, legò a sé Fiumenero nell'istituzione denominata Comunità Grande di Scalve, facendolo inoltre dipendere dalla chiesa prepositurale di Vilminore.

Nel corso del XVI secolo vi fu un discreto sviluppo del borgo, al punto che nei primi anni del secolo la locale chiesa di sant'Antonio abate venne elevata a rango di parrocchiale, con la popolazione che nella seconda parte del secolo raggiunse circa trecento unità, come riportato dalla relazione del comandante della Repubblica di Venezia Giovanni da Lezze.

Il numero degli abitanti scese drasticamente negli anni compresi tra il 1629 ed il 1631 per via della peste di manzoniana memoria che decimò i residenti: la crisi demografica che ne conseguì fu notevole, dal momento che nel 1666 vennero censite sole 130 persone.

In quegli anni la comunità cominciò a spingere affinché le venisse riconosciuta maggiore autonomia: il primo passo fu quello di svincolarsi dalla valle di Scalve in ambito religioso, passando dalla vicaria foranea di Scalve a quella di Ardesio, preludio dell'indipendenza amministrativa, arrivata nel 1740 circa.

Il passaggio dalla Serenissima alla napoleonica Repubblica Cisalpina, avvenuto nel 1797, vide Fiumenero incluso nel Circondario di Clusone, mentre nella successiva riorganizzazione territoriale del 1805 perse l'autonomia, venendo accorpato a Bondione (nelle carte di allora citato come Dieci Denari) e Lizzola nell'entità denominata Valbondione, dipendente a sua volta dal comune di Castione.

In seguito alla Restaurazione, nel 1816, l'intera regione passò all'austriaco Regno Lombardo-Veneto, che definì nuovamente i confini ripristinando il comune di Fiumenero. Questa entità durò oltre un secolo, fino a quando nel 1927 il regime fascista, nell'ambito di un'opera di soppressione dei piccoli centri in favore dei più grandi, ne decise la fusione con Bondione, andando a formare l'attuale Valbondione.

Tuttavia a partire dal termine della prima guerra mondiale cominciò ad entrare in crisi l'industria estrattiva, con pesanti ripercussioni sulla vita degli abitanti. Gli anni seguenti videro quindi una progressiva diminuzione dei residenti, che scesero dalle 348 unità rilevate nel censimento del 1911, alle 150 attuali. Soltanto negli ultimi decenni del XX secolo il territorio comunale venne interessato da uno sviluppo edilizio dovuto all'incremento dell'industria turistica, grazie alla presenza di itinerari naturalistici ed alla tranquillità del posto.

La porzione che si estende sul lato orografico destro della valle, che interessa la parte Nord-Ovest del territorio censuario, comprende tutto il bacino idrografico del torrente Nero, con le piccole valli dell'Aser, del Salto e Valsecca.

In questo ambito confina ad Ovest con il comune di Gandellino mediante la cresta del Pizzo Ceppo, a Nord-Ovest con Carona tramite il passo di Valsecca, a Nord con la Valtellina lungo lo spartiacque che va dal Pizzo del Diavolo di Tenda al Pizzo Scais, mentre a Nord-Est dalla linea che va dal Pizzo Redorta al fondovalle, antico confine comunale con Bondione.

Quella sul lato orografico sinistro della vallata confina a Sud con Gromo, a Sud-Est con Colere ed Est con l'altra frazione Lizzola, e comprende le cime dei monti Vigna Soliva e Vigna Vaga ed il laghetto Spigorel. La rete viaria è molto semplice ed è composta da una sola arteria, la strada provinciale SP49 dell'alta val Seriana, che proviene da Gandellino, attraversa longitudinalmente l'abitato e lo unisce al capoluogo di Valbondione, da cui dista circa cinque chilometri.

Vi sono inoltre numerosi sentieri e mulattiere che collegano il borgo con i centri vicini. Per ciò che concerne l'idrografia numerosi sono i piccoli corsi d'acqua che bagnano il territorio: per lo più si tratta di torrenti che si gonfiano solo in seguito ad abbondanti piogge e che raccolgono le acque in eccesso provenienti dai monti circostanti. Il principale di questi è il fiume Nero, che prende il nome dal paese e si getta nel Serio da destra.

Questa frazione offre innumerevoli opportunità per chi volesse passare un po' di tempo immerso nella natura, con molti sentieri che si snodano sulle pendici delle propaggini circostanti. Il principale è quello che, contrassegnato con il segnavia del CAI numero 227, sale dal centro abitato costeggiando il torrente Nero, inoltrandosi nella valle dell'Aser ed allacciandosi al Sentiero delle Orobie, di rilevanza extra-provinciale. Quest'ultimo transita nel territorio di Fiumenero per un lungo tratto che va dal Passo di Valsecca alle pendici del pizzo Redorta, toccando il Bivacco Frattini ed il più noto rifugio Baroni al Brunone. Da qui è possibile raggiungere alcune delle principali vette delle Orobie, tra le quali il pizzo Redorta, la punta Scais, il pizzo Brunone, la cima Soliva ed il Pizzo del Diavolo di Tenda.

Oltre al trekking ed all'alpinismo, negli ultimi anni del XX secolo lungo il torrente Nero ha cominciato a prendere consistenza il fenomeno del canyoning (detto anche torrentismo), che sfrutta le cascate, le strette gole e le forre entro le quali scorre.

Altra disciplina per la quale molteplici sono le soluzioni offerte dal territorio è la mountain bike, per la quale è disponibile anche la pista ciclabile, inaugurata nel 2013, che percorre il fondovalle e collega tutti i centri dell'alta valle Seriana.

Per ciò che riguarda le tradizioni, degno di nota è il presepio vivente, che riporta alla memoria antichi mestieri, inscenato nel periodo natalizio con la partecipazione di oltre cento comparse.

A livello architettonico, merita menzione la piccola ma caratteristica chiesa di sant'Antonio Abate. Risalente al XVI secolo circa, presenta opere di buon pregio, tra le quali spicca un dipinto di Domenico Carpinoni. Poco distante si trova anche il piccolo ma caratteristico oratorio dedicato a san Rocco, recentemente ristrutturato, che venne edificato nel 1637 in seguito alla pestilenza di manzoniana memoria.






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domenica 9 agosto 2015

MAGASA



Magasa è un comune della provincia di Brescia.

Magasa appartiene alla diocesi di Brescia dal 6 agosto 1964 quando, tramite bolla apostolica, venne disposta la modifica dei confini dell'arcidiocesi di Trento e delle diocesi di Bressanone, Belluno, Brescia e Vicenza.

L'origine del toponimo è incerta e deriverebbe, secondo alcuni, dal termine celtico "mago" che significa "mercato" o "campo", indicando così un villaggio circondato da campi mentre per altri dall'unione di "mag" e Gasa, l'antico nome del monte Tombea o chi lo fa dipendere da un elemento antroponimico se si accosta al gentilizio barbarico "Magazzo", nella dizione locale "Màgas", quindi a significare il nome dell'antico proprietario del luogo ossia "territorio di Magazzo".

Anche secondo la linguista Carla Marcato alla base del nome potrebbero esserci il gallico "mago" più il suffisso collettivo "eto" da cui et-io, oppure il tema "mageto" che significa "potente", da "mag" che significa "grande", e il nome personale derivato da Magetiu e Mogetius, e meno verosimilmente da "magu"-"mago" che significa "servente, garzone" da cui il nome o nomi personali Magus, Magusius e Magutus. Sempre per la Marcato si può pure prendere in considerazione una formazione in -atia o in -asia dalla radice "mac" che significa "nutrire".

Ultima ipotesi è riferita al termine gallico "maegi" che indica i terrapieni con muretti sui quali venivano costruite le baite che Giulio Cesare nel suo De bello gallico trascrisse in "magus" o da "maegh", toponimo sempre gallico, che significa villaggio campestre con molti ciottoli o terrapieno recintato per le capanne e il bestiame o, infine, dal termine "maag" che individuava un covolo, un'arca naturale.

Il toponimo di Magasa è accertato per la prima volta il 23 luglio 1356 quando un certo Bonato di "Magasa" presenzia in Castel Romano a Pieve di Bono come testimone in una sentenza del nobile Pietrozoto Lodron.

Le sue origini sono antichissime, e per alcuni, risalirebbero ad un insediamento di popolazioni celtiche.

Abitata dagli Stoni, dai Galli Cenomani, fu dominio romano e longobardo. Quest’ultimi, sembra abbiano lasciato traccia della loro presenza, nella costruzione dell’intelaiatura delle travi che compongono i tetti dei fienili con copertura in paglia di frumento, ancor oggi sono visibili nella ricostruzione originaria sull’altipiano di Cima Rest.

Dal 1200 al 1807, Magasa come tutti gli altri sei paesi della Valvestino, fu feudo dei Conti di Lodrone e territorio del Principato vescovile dì Trento.

Il congresso di Vienna del 1815 riconfermò la giurisdizione di queste comunità all’Impero Asburgico e alla città di Trento.

Terra di confine dal 1426 al 1797 con la Repubblica di Venezia e con il Regno d’Italia fino al 1918, fu per secoli percorso obbligato per quegli eserciti che, intenzionati a evitare I ‘agguerritissima Rocca d’Anfo, scendevano dal nord Italia verso la pianura Padana, o viceversa vi salivano. Numerosi furono i passaggi e le occupazioni militari; 25 maggio 1513, Scipioni Ugoni di Salò, condottiero di milizie rivierasche, aiutato dai gargnanesi, invase la Valle e saccheggiò e incendiò la terra di Magasa per vendicarsi delle scorrerie fatte sulla Riviera dai bellicosi Conti di Lodrone e per l’aiuto da essi prestato all’esercito tedesco; gennaio 1516, Magasa è nuovamente messa a "ferro e fuoco" per ordine del provveditore veneto di Salò Zaccaria Contarini; novembre 1526, Giorgio Frundsberg, proveniente dalla Germania ed alla guida di diecimila terribili lanzichenecchi, transita per la Valle diretto alla conquista di Roma; 1600, il bandito Giovanni Beatrici detto Zanzanù, braccato dai soldati veneti si rifugia nella vallata del Droanello; 1796, soldati napoleonici requisiscono animali e cibarie; 1800, soldati austriaci e garibaldini si alternano nelle occupazioni; infine, nel 1915, soldati italiani liberano Magasa e la Valle di Vestìno da oltre un secolo di amministrazione austriaca.

Magasa si staccò dalla provincia di Trento nel 1934 diventando frazione di Turano. Ritornò comune nel 1947, ristabilendo così l’antica autonomia amministrativa, infatti i suoi statuti rinnovati risalgono addirittura al 1° ottobre del 1589. Per quanto riguarda la Corte d’Appello Magasa fa capo tuttora al capoluogo trentino.
Insieme a numerosi altri comuni in situazioni simili ha richiesto in seguito di essere nuovamente annesso alla provincia di Trento. Nel 2005 il comune ha aderito all'"Associazione dei comuni confinanti" e dal 2007 i due comuni di Valvestino e di Magasa, con l'appoggio di comitati spontanei di cittadini, si sono attivati per l'indizione di un referendum.

Nel comune di Valvestino, il 21 e 22 settembre 2008, contemporaneamente al comune di Magasa si è tenuto il referendum per chiedere alla popolazione di far parte integrante della regione Trentino-Alto Adige sotto la provincia di Trento. Il risultato è stato positivo nonostante l'elevato quorum richiesto dal referendum (maggioranza degli aventi diritto al voto).

Il 7 ottobre 2009 il senatore Claudio Molinari, del Partito Democratico, ha presentato un disegno di legge per il ritorno del Comune di Valvestino e Magasa nella Regione Trentino-Alto Adige.

Il 18 maggio 2010 il Consiglio regionale Trentino-Alto Adige approvava quasi all'unanimità dei votanti una mozione per l'aggregazione alla Regione dei comuni di Magasa, Valvestino e Pedemonte attivando la Giunta per "sollecitare nelle sedi competenti, il tempestivo e positivo esame dei Disegni di legge costituzionale" depositati in Parlamento a Roma e il 14 aprile del 2015 il Consiglio regionale della Lombardia deliberava allo stesso modo approvando la mozione che esprimeva parere favorevole al passaggio al Trentino dei due comuni.

Dal punto di vista ecclesiastico Magasa, fino al 1785, è stata alle dipendenze della Pieve di Tignale. La Chiesa parrocchiale, intitolata a sant’Antomo abate, è stata costruita intorno al 1740, probabilmente sull’area di una preesistente chiesa longobarda. Il campanile è di epoca di poco successiva. Oltre ad alcuni dipinti di pregio va segnalato il pavimento di pietra ammonitica rossa e gialla ricavata dalle cave di Marmer sul monte Denervo.
L'altare maggiore ha una pregevole pala dedicata all'"Incoronazione della Vergine con San Giovanni Battista, Sant'Antonio abate e San Lorenzo" ed è opera del pittore bresciano Francesco Savanni che la eseguì nel 1763 per incarico dell'abate magasino don Giovanni Maria Zeni. Un'altra pala presenta la "Madonna del Rosario" e fu dipinta dal pittore veronese Bartolomeo Zeni di Bardolino. Altro dipinto è quello raffigurante la "Madonna delle Grazie" che fu donata alla comunità di Magasa dal conte Carlo Ferdinando Lodron che, nel 1714, la fece dipingere a Roma copiando da un quadro di San Luca. La cantoria dell'altare maggiore è in legno intagliato, dorato e dipinto. L'autore intagliatore è valsabbino, seconda metà del XVIII secolo ed è attribuita ai Boscaì da Panteghini. L'organo ha diciassette registri, è di autore ignoto, fu comperato circa un secolo fa dalla chiesa di S. Martino di Gargnano.

La chiesetta alpina di Cima Rest consacrata alla Madonna della Neve, patrona della Val Vestino. È stata inaugurata il 7 agosto del 1982 e si festeggia la prima domenica di agosto.

Caratteristica principale di Magasa sono i fienili in pietra con tetto a struttura lignea, aguzzo e con falde molto acclivi, ricoperto con fasci sovrapposti di steli di frumento coltivato in altura (la paglia del grano coltivato in pianura marcisce). Queste tipiche architetture rurali sono ancor oggi visibili sugli altipiani di Cima Rest e di Denai. I fienili sono i tipici edifici rustici dei contadini valvestinesi. Sono utilizzati al primo piano come ricovero degli animali, per la lavorazione del formaggio e la relativa momentanea conservazione, al secondo piano come deposito del foraggio.

Secondo alcuni ricercatori questo metodo costruttivo è molto antico: per il prof. Brogiolo, noto archeologo, esso può essere fatto risalire alla dominazione romana, mentre per il prof.Alwin Seifert, architetto tedesco, fu introdotto dai Goti o dai Longobardi. Fatta eccezione per alcune vaghe rassomiglianze riscontrate negli anni sessanta del secolo scorso nel nord Italia e in Ungheria, non si ha notizia di costruzioni uguali o simili nelle Alpi.

L'osservatorio astronomico è situato in località Corva a Cima Rest ad una altezza di circa 1300 metri. Fu edificato verso l'anno 2000 su iniziativa dell'Associazione Astrofili di Salò e del Comune di Magasa che mise a disposizione i primi fondi e il terreno.

Il Museo etnografico della Valvestino è situato a Cima Rest di Magasa nella provincia di Brescia e raccoglie attrezzi agricoli, utensili, arredi legati alla vita contadina.

Il Museo etnografico della civiltà contadina di proprietà del Comune di Magasa fu istituito nel 2000 ed è allestito nell'antico fienile del defunto Americo Stefani, un contadino allevatore di bestiame nativo di Magasa.

È strutturato su due piani: primo piano stalla per il ricovero del bestiame bovino e cucina, secondo piano magazzino adibito a deposito del foraggio.

Conserva al suo interno in un'ordinata, semplice ma esaustiva esposizione vetusti attrezzi di lavoro agricoli, adoperati fino a pochi decenni fa nei campi e nei prati di Magasa e Cadria. Così ingegnose slitte per il trasporto del fieno, falci fienaie, strumenti caseari e per la lavorazione del legno, testimoniano la vita dura e operosa di molte generazioni di agricoltori e boscaioli.

Il mulino ad acqua  del Somalàf si trova nei pressi del corso del torrente Magasino in località Somalàf posto al di sotto dell'abitato di Magasa. Oggi è stato trasformato in una abitazione rustica, ma in passato funzionò al servizio della Comunità per la macina del frumento che veniva coltivato nella campagna circostante il paese. Il movimento della ruota in legno era generato la forza dell'acqua del ruscello denominato "Acqua delle Febbre". Ultimo mugnaio è stato Angelo Mazza Scarpèt che poi, verso il 1970, vendette l'edificio ad un acquirente della Riviera gardesana. Nei pressi del mulino a poche centinaia di metri si trova la marmitta dei giganti chiamata localmente "calderöla" formata dallo scorrimento erosivo del torrente Magasino. A causa dell'erosione del terreno circostante, non è più possibile avvicinarsi alla marmitta.

Il Monumento ai caduti, situato in via Garibaldi, poco sopra piazza Valle, è costituito da un sacello con all'interno due lapidi marmoree che recano scolpite i nomi dei caduti di Magasa e Cadria della Grande guerra, combattuta nelle file dell'esercito austro-ungarico, e quelli della seconda guerra mondiale. Fu inaugurato nel 1966 e in quegli anni il frontale recava la scritta "Ai caduti" e il tetto era sormontato da una statua bronzea raffigurante una copia della Vittoria alata di Brescia. La facciata è formata da due archi congiunti che simboleggiano l'incontro nella steppa durante la ritirata della campagna di Russia, avvenuta nel gennaio 1943, dei Battaglioni alpini "Vestone" e "Valchiese" della Divisione alpina "Tridentina" che contribuirono allo sfondamento delle linee russe nella Battaglia di Nikolaevka.

Cadria è l’unica frazione del comune di Magasa è posta su un cocuzzolo che domina la vallata del Droanello. Qui sorge la graziosa chiesetta dedicata a san Lorenzo, di origini antichissime e ricostruita nel 1547. Nel 1700, Cadria risultava "feudo diretto" della nobile famiglia Lodrone, nel 1972, dopo circa duemila anni di cristianesimo, vi giungeva in visita, per la prima volta, un vescovo, mons. Luigi Monstabilini della curia di Brescia.

L'origine del toponimo è incerta e secondo alcuni ricercatori deriverebbe dal celtico "cader" che significa monte, col significato quindi di un villaggio costruito su un monte o pianoro, mentre per altri dal greco "catà e oros", che significa ai piedi del monte o dal latino "cado" che indica la parte dove tramonta il sole o "quadrivium" (quadrivio) e infine, ultima ipotesi, lo fa derivare dal basso latino "cadrus" che sta a indicare la misura del terreno o l'angolo.

Poco al di sotto dell'abitato, su un pendio, sorge la piccola ma graziosa chiesetta dedicata a San Lorenzo. È documentata per la prima volta nell'aprile del 1537 nella relazione dei due delegati vescovili della diocesi di Trento, dai quali peraltro non fu mai visitata, il canonico Alberto degli Alberti d'Enno e il pievano Giorgio Akerle da Borgo Valsugana, uomini di specchiata virtù, inviati in visita pastorale nella diocesi di Trento dal cardinale Bernardo Clesio, come cappella dipendente dalla chiesa di san Giovanni Battista di Turano.

Sarà ispezionata unicamente nel luglio del 1750 da un sacerdote delegato dal coadiutore del principe vescovo di Trento, Leopoldo Ernesto dei Conti di Castel Firmiano, il quale accertava con puntigliosa solerzia che ogni 10 agosto e il primo venerdì di maggio, per uso antico, si faceva una processione religiosa da Magasa a Cadria; nel Comune non si vedeva un vescovo da 97 anni, da 56 anni non s'impartiva la Cresima e nella borgata vi abitavano trenta famiglie, altre quattro nei fienili in località Provaglio e sette al Fornello.

Secondo alcuni il tempietto fu edificato dai Longobardi, restaurato e dipinto nel 1547; questo lo si deduce dalla scritta posta sopra l'affresco presente sulla facciata e raffigurante il santo patrono, il quale è pure festeggiato il 10 agosto. In questo giorno, dal 1588 per volontà dell'Amministrazione Comunale e della disinteressata disponibilità di due incaricati, si perpetua ininterrottamente, secondo quanto stabilito dal Pio “Legato Pane e Vino”, la tradizionale donazione ad ogni partecipante alla messa di un pane e un quinto di vino. Giornate storiche furono pure quelle del 10 agosto 2003 e 2004 quando giunse in visita di cortesia il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione “De propaganda Fide” per l'evangelizzazione dei popoli.

Le origini della frazione sono antichissime e risalirebbero ad un insediamento di popolazioni celtiche: Stoni o Galli Cenomani. Nella parlata locale gli abitanti vengono chiamati “caderge” e il loro soprannome (scotöm) è quello di “patate”. Il primo documento in cui compare il nome del borgo risale a venerdì 7 marzo 1186 e consiste nella Bolla di papa Urbano III spedita dalla Diocesi di Verona all'arciprete Martino di Tremosine, nunzio ed amministratore di un certo Domenico, arciprete della chiesa S. Maria di Tignale, nella quale si confermavano gli antichi diritti di quella chiesa entro la sua giurisdizione che comprendeva anche la Val Vestino.

Tra le varie disposizioni era previsto che Cadria, unitamente al villaggio di Bollone, doveva contribuire al pagamento della “seconda decima” con un determinato quantitativo in denaro, prodotti agricoli e capi di bestiame. Una copia autenticata su pergamena di questo documento è tuttora premurosamente conservata presso l'Archivio Parrocchiale di Turano e, in assoluto, si può considerare il manoscritto più antico presente negli archivi della Valle.

A partire dal 1200 è accertato che la famiglia dei Conti Lodron esercitava indiscutibilmente presso le comunità Valvestinesi i suoi diritti derivanti dall'autorità giurisdizionale concessa dal principe vescovo di Trento, ma è dal 1300 che apprendiamo dal testo di un'investitura feudale dell'esistenza del feudo di Cadria. Il 14 marzo del 1346 in Castel Telvana a Borgo Valsugana, Margherita di Tirolo-Gorizia detta Maultasch e il marito Ludovico V di Baviera o Brandeburgo, investirono Raimondo Lodron con i feudi in Val Vestino di Bollone, Cadria e Droane. Tale investitura sarà riconfermata diciassette anni più tardi.

Il 13 settembre del 1363 a Trento nel Castello del Buonconsiglio, Albrigino, figlio del defunto Pietrozoto di Lodrone, erede per la metà, e Pietrozoto, figlio del defunto Parisino del suddetto Pietrozoto, erede per l'altra metà, dichiaravano di avere in feudo da Rodolfo IV d'Asburgo, come i loro progenitori, la Val Vestino e i villaggi di Bollone, Cadria e Droane. Una prima investitura del feudo di Cadria del conti Lodron alla comunità di Magasa risale al 2 marzo del 1513.

Con il progressivo ma inarrestabile spopolamento, l’economia di Magasa è in forte crisi, pur tuttavia, l’allevamento del bestiame ricopre ancora un’importanza considerevole nella vita dei suoi abitanti. L’abbondanza di pascoli e lo sfruttamento nei mesi estivi delle malghe della Casina, Corva,, Bait e della più rinomata Tombea, permettono una buona produzione di formaggio e burro, venduto per la maggior parte in loco o durante la "Festa del formaggio" che solitamente si tiene la seconda domenica di settembre.

La Festa del Formaggio fu istituita dal Comune di Magasa nel 1979 con lo scopo di promuovere la produzione e la vendita del formaggio d'alpeggio, il rinomato "Tombea". La festa si tiene la seconda domenica del mese di settembre, in concomitanza con la fine della stagione dell'alpeggio, sull'altipiano di Cima Rest.

Festa alpina si tiene la prima domenica di agosto: a Cima Rest per la messa presso la chiesetta alpina, a Magasa presso la Sede in località Pià per il convivio fra iscritti alla sezione e ospiti.

Festa patronale di San Lorenzo si tiene a Cadria il 10 agosto: messa, distribuzione, secondo l'antico Legato Pio, di un quarto di vino e un pane a tutti i presenti e pranzo in piazza.

I Tridui sono una festa religiosa consistente in tre giorni del mese di gennaio dedicati alla celebrazione dei morti della comunità. Secondo lo storico bresciano mons. Paolo Guerrini, le origini di questa tradizionale commemorazione nella provincia di Brescia risalgono al 1727, quando i frati francescani Osservanti del convento di San Giuseppe di Brescia celebrarono tre giorni a suffragio delle vittime della guerra di successione spagnola che furono numerose nelle battaglie di Chiari (1701) e di Calcinato (1706). A Magasa i Tridui furono introdotti, in un anno imprecisato collocabile tra il 1744 e il 1755, dal sacerdote magasino don Giovanni Bertola (1722-1794) che fu per circa vent'anni parroco di Capriano del Colle e dal noto professor Pietro Angelo Stefani direttore del seminario Lodron di Salò. Oggi, i Tridui, con l'apparato di candele detto "Macchina" si celebrano nel bresciano solamente a Vesio di Tremosine, Borno, Castenedolo, Gussago, Lonato, Mura, Ome, Tavernole sul Mella, Rodengo-Saiano e Borgo Poncarale.

Il canto della Stella è un'antica tradizione tipica non solo di Magasa ma anche di molte zone dell'Italia settentrionale e, più generalmente, dell'arco alpino. La sera del 5 gennaio, nel giorno della festa dell'Epifania, dopo la santa messa, un coro di paesani, una ventina di persone circa, preceduto dai raffiguranti i tre re magi e il portatore della stella, un manufatto di legno rivestito di carta raffigurante appunto la stella cometa, si avvia dalla piazzetta antistante la chiesa e attraversando quasi tutte le stradine del centro storico canta le tradizionali canzoni natalizie del luogo annunciando alla popolazione l'arrivo dei re magi alla grotta di Betlemme. Per alcuni tale tradizione sembra risalire alla metà del Cinquecento, nel pieno della Controriforma.
La biblioteca comunale di Magasa è dedicata alla memoria di Giuliano Venturini, vissuto nel corso dell'Ottocento che fu medico, patriota, scrittore e sindaco di Magasa.

Il gruppo ANA di Magasa-Valvestino fu costituito il 21 novembre 1937 dal sottufficiale della Divisione alpina "Julia" Ermenegildo Venturini.

Sciolto, fu ricostituito nel 1950. Nel 1951 fu benedetto il secondo gagliardetto e nel 1966 si inaugurò in piazza Valle il monumento dedicato a tutti i Caduti della prima e seconda guerra mondiale. L'opera migliore, oltre al circolo degli Alpini in località Pià, resta senza dubbio la chiesetta alpina a Cima Rest inaugurata il 1º agosto 1982 e dedicata "A chi sofferse per la Libertà". Questa costruita in granito è l'orgoglio degli alpini di Magasa e del gruppo di Valvestino che contribuirono volontariamente alla sua edificazione.

Nell'agosto del 1993, durante la tradizionale "Festa degli alpini", fu conferito con una solenne cerimonia a Cima Rest il premio nazionale "Fedeltà alla Montagna" all'artigliere da montagna Silvio Tedeschi di Droane del gruppo di Valvestino. Questo premio è la più importante e significativa manifestazione associativa dell'ANA inferiore solamente all'Adunata Nazionale e viene assegnato a quegli ex alpini che vivono e lavorano in montagna con dedizione e fedeltà.



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martedì 21 luglio 2015

STROZZA



Strozza è un comune situato sul versante orientale della Valle Imagna.

I primi segni della presenza umana sul territorio risalgono all’epoca romana, come documentato dal ritrovamento di un acquedotto posto sulle pendici del monte Albenza, situato sulla destra orografica del paese.

Tuttavia risalgono approssimativamente all’anno 1000 le origini del borgo, posto all’imbocco della valle. Qui i monti si avvicinano notevolmente creando una strozzatura, per poi aprirsi in quella che è la valle Imagna. Da questa situazione deriva quindi il toponimo Strozza.

È in epoca medievale che il paese comincia ad assumere una fisionomia ben precisa, anche se nei secoli precedenti vi erano alcuni insediamenti abitativi sparsi.

In quel periodo nella zona imperversarono scontri cruenti, molto più che nelle altre zone della provincia bergamasca, tra guelfi e ghibellini. Questo per il fatto che la valle Imagna, prevalentemente guelfa, era in netta contrapposizione con l’attigua valle Brembilla, schierata con i ghibellini. In tutta la zona sorsero castelli e fortificazioni, e Strozza non fu da meno: a tal riguardo esistono alcuni resti di costruzioni, tra le quali spiccano case-torri e nuclei fortificati risalenti ad un periodo compreso tra il XII ed il XIII secolo.

I primi scontri videro prevalere i guelfi, tanto che i ghibellini chiesero aiuto ai Visconti, signori di Milano. Questi riuscirono a sconfiggere gli avversari e ad estendere il proprio dominio sulle valli della zona. Il modo con cui infierirono sugli avversari portò i guelfi a cercare più volte la vendetta con ulteriori uccisioni.

Dopo continui ribaltamenti di fronte il dominio dei Visconti e dei ghibellini fu definitivo, anche se il rancore guelfo dava spesso seguito a rivolte popolari, spesso soffocate con le armi.

La situazione si rovesciò quando la zona passò sotto il controllo della repubblica di Venezia che, in contrapposizione con i Visconti, sosteneva lo schieramento guelfo. Seguirono distruzioni nei confronti dei possedimenti ghibellini, mentre i paesi guelfi, tra cui Strozza, ebbero un trattamento di favore come citato in documenti dell’epoca:

« I Valdimagnini per la loro integrità della fede e fedeltà alla Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Doge con privilegi, grazie e favori arricchiti et onorati »
(Effemeridi di Padre Donato Calvi)
I secoli successivi videro pochi fatti di rilievo coinvolgere la piccola comunità che, forte del proprio isolamento, seguì le vicende del resto della provincia senza parteciparvi in modo diretto.

Citato nell'estimazione generale del 1477, in età veneta fece parte della valle Imagna, retto da un console. A fine Cinquecento contava 123 fuochi e 627 abitanti. Nel 1543 si separò dalla valle, per quanto riguardava il fisco e la manutenzione delle strade, il cui onere gravò sul console. A fine Settecento contava 450 abitanti.

Inserito nel cantone di Almenno nell'aprile 1797, fu collocato nel distretto II di Almenno nel marzo 1798, mentre nel settembre di quello stesso anno fu posto nel distretto V dell'Imagna. Nel maggio 1801 fu inserito nel distretto I di Bergamo per essere poi posto nel distretto VII dell'Imagna nel giugno 1804 e in seguito nel cantone IV di Almenno San Salvatore del distretto I di Bergamo. Nel 1805 contava 462 abitanti. Nel 1809 ne contava 450. Inserito nel cantone IV di Almenno San Salvatore del distretto I di Bergamo, aggregò nel gennaio 1810 Capizzone, Bedulita e Roncola. Nell'aprile 1812 il centro del comune venne spostato a Capizzone.

Con l'attivazione dei comuni della provincia di Bergamo, in base al compartimento territoriale del regno lombardo-veneto, venne collocato, con 471 abitanti, nel distretto IV di Almenno San Salvatore; fu confermato nel medesimo distretto in forza del successivo compartimento territoriale delle province lombarde. Nel 1853 fu inserito nel distretto VIII; a quella data era comune, con convocato generale, di 602 abitanti.

In seguito all'unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Strozza con 552 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento VI di Almenno San Salvatore, circondario I di Bergamo, provincia di Bergamo. Alla costituzione nel 1861 del Regno d'Italia, il comune aveva una popolazione residente di 607 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull'ordinamento comunale disposta nel 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia. Popolazione residente nel comune: abitanti 633 (Censimento 1871); abitanti 667 (Censimento 1881); abitanti 805 (Censimento 1901); abitanti 833 (Censimento 1911); abitanti 836 (Censimento 1921). Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Bergamo della provincia di Bergamo. In seguito alla riforma dell'ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Popolazione residente nel comune: abitanti 884 (Censimento 1931); abitanti 762 (Censimento 1936). In seguito alla riforma dell'ordinamento comunale disposta nel 1946 il comune di Strozza veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Popolazione residente nel comune: abitanti 923 (Censimento 1951); abitanti 824 (Censimento 1961); abitanti 767 (Censimento 1971). Nel 1971 il comune di Strozza aveva una superficie di ettari 385.

Primo paese all’imbocco della valle Imagna, posto a “sentinella “ dei tesori naturalistici che la valle racchiude. Il nome deriva dalla particolare morfologia della valle, segnata dal torrente Imagna, che separa i due versanti in questo tratto finale, dove si inforra per circa due chilometri prima di confluire nel fiume Brembo, a Clanezzo. In sinistra idraulica la ripa scoscesa sale tutto d’un fiato fino alla sommità del monte Ubione. Non vi sono insediamenti abitativi, il versante è coperto da un fitto bosco, alla cui base si snoda il “Sentiero naturalistico del Chitò” che, partendo da Clanezzo, percorre un dismesso canale idroelettrico per poi scavalcare l’Imagna in prossimità di Strozza con un ardito ponte canale in pietra. Il sentiero di recente riconfigurazione percorre tratti di particolare interesse naturalistico con sorgenti incrostanti con fenomeni di deposito concrezionale, rari per la bergamasca. Il versante in destra idrografica è più acclive e consente l’insediamento di Strozza con le frazioni di Cà Brozzo, Cà Campo e Amagno. A Nel centro abitato si possono ancora ammirare numerose costruzioni risalenti all’epoca medievale, tra cui alcune case fortificate con tanto di torre, ma anche contrade molto caratteristiche e costruzioni in stile rustico. In ambito religioso riveste grande importanza la chiesa parrocchiale di Sant’Andrea. Già citata in documenti risalenti al XIV secolo, ma parzialmente ricostruita nel XVIII secolo ed ulteriormente ristrutturata nei secoli successivi. Durante una di queste ristrutturazioni è emersa la muratura della parete meridionale della struttura quattrocentesca, con due monofore ad arco trilobato. All’interno notevoli sono gli intarsi dorati presenti nell’altare maggiore e nel coro, nonché l’organo di produzione della famiglia Serassi.

Cà Campo è formata da un pugno di case strette intorno al piccolo oratorio a San Pantaleone, quasi in sua difesa. Cà Campo non fu mai isolato grazie alla rete di mulattiere, che qui formano un crocevia. Vi si transitava per entrare ed uscire dalla valle. Visitare Cà Campo, passeggiare nei suoi stretti viottoli ripaga del breve tempo ad esso dedicato. La suggestione è forte: angoli medioevali intatti, portali in pietra, balconi in legno e case torri; infine l’oratorio Quattrocentesco di San Pantaleone pregevole opera della fede nel culto della statua di San Momà, il santo protettore delle puerpere senza latte.

Percorrendo la via principale, che fiancheggia la chiesa parrocchiale, dopo alcune centinaia di metri si entra nel borgo medioevale di Amagno. All’imbocco si viene accolti dalla severa facciata della casa della famiglia Gavazzeni de Gaiboni: proseguendo si giunge nella piazzetta del lavatoio dominato dalla facciata Est della Cà del Maestro con il portone di accesso e l’ampia finestrata del nuovo Museo Valdimagnino. Per scoprire la parte più suggestiva di Amagno occorre inoltrarsi su per l’androne, che sottopassa la Cà del Maestro: qui c’è il vero cuore del borgo, una piazzetta lastricata in pietra, sulla quale si affacciano storici edifici quali un’austera ed elegante casa torre medievale e la secentesca Cà del Maestro. Questo palazzetto, ripristinato alle sue architetture originali, offre al piano terra un porticato con due grandi archi, sostenuti da un poderoso pilastro centrale, ed al primo piano una loggetta sorretta, da una serie di eleganti colonnine. Sul fondo della piazzetta, protetta da una ringhiera, c’è la botola della ghiacciaia. Prima che “La Ghiacciaia” venisse aperta al pubblico, pochi conoscevano il segreto, che celava la Cà del Maestro: un condotto sotterraneo dipartiva da uno dei locali, posti sul lato strada, portava ad un vano di forma cilindrica con copertura a volta, adibito a ghiacciaia. È una splendida struttura rimasta intatta, nonostante abbia un paio di secoli o forse più. Sulla volta è visibile l’apertura con la botola, dalla quale nei mesi invernali veniva introdotta la neve. Il Museo Valdimagnino occupa i due locali antistanti il cunicolo, che porta alla ghiacciaia. Dopo un recente restauro ora ospita tanti oggetti del passato valdimagnino. Molto interessante il camino con “nicia”, scoperto dopo la demolizione di una parete, che lo nascondeva. Seduto nella nicchia sta Pierino, il fantasma della ghiacciaia! Nelle visite, compiute dagli alunni di alcune scuole elementari della Valle Imagna al Museo Valdimagnino, i bambini si sono affezionati a questo particolare nonno, che provvede a curare gli oggetti custoditi nel museo.

In località Amagno edifici nobili del paese tra cui palazzi del ‘400/’500, la piazzetta medioevale con la casa del maestro del 1400. Da segnalare inoltre il nucleo rurale di Cà Ligier.
Sempre nel Borgo di Amagno, l’Antica Ghiacciaia di Strozza il cui imbocco è situato nella piazzetta retrostante alla “Cà del Maestro” e le cui origini non sono oggi ben note.
Interessanti escursioni che si possono intraprendere da Strozza verso Roncola S.B. o per salire al Monte Ubione 900 mt.


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domenica 12 luglio 2015

CORTENOVA

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Cortenova è un comune italiano della provincia di Lecco.

Nel dicembre del 2002 una frana ha causato numerosi danni distruggendo buona parte dell'abitato di Bindo. Dopo anni la frazione è rinata e la strada è stata ricollegata con una galleria riaprendo così al traffico nel 2009 la Strada Provinciale SP62.

Posto sulla sponda sinistra del torrente Pioverna, sulle pendici della Grigna, nel cuore della Valsassina. Da qui parte la strada per Parlasco che, dopo 16 km e molte curve mette in comunicazione la Valsassina con la valle dell'Esino.

Bindo è una frazione posta a nord del centro abitato verso Taceno.
Bindo fu un antico comune del Milanese.
Collegato già da tempo immemorabile a Cortenova per taluni servizi, nel 1786 entrò per un quinquennio a far parte della Provincia di Como, per poi cambiare continuamente i riferimenti amministrativi nel 1791, nel 1797 e nel 1798.
Portato definitivamente sotto Como nel 1801, alla proclamazione del regno d'Italia napoleonico nel 1805 risultava avere 157 abitanti. Nel 1809 il municipio fu soppresso su risultanza di un regio decreto di Napoleone che lo annesse per la prima volta a Cortenova, ma il comune di Bindo fu tuttavia ripristinato con il ritorno degli austriaci. Nel 1853 risultò essere popolato da 223 anime, scese a 190 nel 1871. Nel 1921 si registrarono solo 186 residenti, segno del progressivo spopolamento della montagna: fu quindi il regime fascista a decidere nel 1927 di sopprimere definitivamente il comune, unendolo nuovamente a Cortenova.

Situato in una posizione amena, come scriveva una guida d'inizio secolo, con il Pioverna  davanti e le prime propaggini delle Grigne alle spalle, Cortenova ha nel turismo una delle voci più importanti della sua economia.
Certamente è soprattutto un paese di officine: qui il ferro viene lavorato sin dall'epoca romana e le cronache registrano, nel Seicento, le lotte tra le famiglie Fondra e Mornico, per il primato sui forni fusori. A questo proposito all'ingresso del paese è stato recentemente posto un grande macchinario a simbolo della tradizione artigianale di Cortenova.

Cortenova non è un paese molto grande. La sua estensione è di un paio di chilometri lineari. Conta un centro paese attorno a cui si svolgono la maggior parte delle manifestazioni. Come attrazione c'è la statua della Madonna costruita in una grotta e illuminata perennemente e una villa dalla forma bizzarra costruita sul fianco della montagna. La villa è abbandonata e viene chiamata "la villa stregata" perché viene utilizzata, si pensa, da satanisti.
Cortenova è il punto di partenza per molte escursioni montane .La più importante, la possibilità di salire sulla Grigna (2200 metri) attraverso il sentiero che parte proprio da questa zona. Molto vicine sono anche le strade che portano alle passeggiate montane di Biandino e del Pian delle Betulle.
Da Cortenova parte anche una lunghissima pista ciclabile che attraversa tutta la Valsassina per oltre 10 chilometri di pianura fino a Barzio, un percorso che costeggia il torrente Pioverna.

L'economia è basata soprattutto sull'artigianato. Ci sono infatti tante piccole industrie di legname ricavato dalla gran quantità di verde presente nei dintorni. Conta numerose frazioni che costituiscono la sua periferia. Bindo, paesino vittima della famosa frana che nel 2002 ha investito la zona distruggendone gran parte. Bindo prima era un paese a sè stante, ora, ricostruito, è diventato una frazione di Cortenova. La frana ha causato parecchi disagi in quel periodo e non solo per il danno materiale, ma anche perché tutto il paese è stato evacuato venendo trasformato per un piccolo periodo di tempo in una vera città fantasma fino a che il pericolo non è stato arginato.
Oltre a Bindo, c'è Prato San Pietro, altra piccola frazione staccata dal centro paese.

La chiesa di San Fermo venne benedetta nel 1691 e appartenne alla famiglia Mornico. All'interno un oratorio con arredi tipici del seicento con grandi sculture. L'altare è dedicato a San Carlo. Particolari e rare le vetrate dipinte della fine del cinquecento. Il portale e il campanile sono opere del settecento.



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lunedì 8 giugno 2015

LA FRAZIONE DI MAGENTA : PONTENUOVO

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Il borgo di Ponte Nuovo è caratterizzato da un ambiente prevalentemente pianeggiante, tipico della Pianura padana, con avvallamenti solo nei pressi del Naviglio Grande, prevalentemente adatto a boschi o coltivazioni, che occupano quasi i 2/4 del territorio della frazione. Idrograficamente è notevole la presenza del Naviglio Grande che costituisce l'aspetto tipico della conformazione del borgo.

La frazione è suddivisa storicamente al suo interno dalla presenza del Naviglio Grande che definisce le due aree amministrative, l'una sottoposta al comune di Magenta, l'altra al comune di Boffalora sopra Ticino. La parte a nord, prevalentemente produttiva e legata prima alla presenza della dogana austriaca e poi allo sviluppo industriale della S.A.F.F.A., ha creato una vocazione essenzialmente industriale, mentre nella parte meridionale che degrada nella vallata del Ticino, si trovano in prevalenza abitazioni e costruzioni coloniche sparse.

Ponte Nuovo di Magenta è soprattutto noto per la battaglia che ebbe luogo il 4 giugno 1859, durante la Seconda Guerra d'Indipendenza, combattuta tra i piemontesi e i loro alleati francesi contro gli austro-ungarici; fu vinta dai franco-piemontesi e aprì la strada alla conquista della Lombardia. La battaglia si svolse nel territorio dell'odierno comune di Magenta e del comune adiacente di Boffalora. Prende il nome di Magenta il colore rosso-viola, probabilmente con riferimento alle divise di quel colore indossate dal reparto di zuavi francesi che combatté nella battaglia.
Il borgo di Ponte Nuovo è la più giovane tra le poche frazioni del comune di Magenta. Esso è sorto a partire dal 1808, ovvero dall'anno della costruzione del ponte napoleonico sul Ticino che consentiva un rapido collegamento tra Milano e il Piemonte. Ovviamente, questo utilizzo strategico del territorio, portò alla costruzione poco dopo di un ponte simile sul Naviglio Grande, che si trovava a scorrere all'estremo del territorio magentino, proprio nella località che venne definita Ponte Nuovo, per distinguerla dalla frazione di Ponte Vecchio, ove si trovava un ponte seicentesco già utilizzato per passare il Naviglio da una sponda all'altra.

Rilevante fu in quest'epoca la costruzione della dogana austriaca (1836), divenuta in seguito nota per essere stata uno dei principali luoghi di scontro della famosa Battaglia di Magenta nonché, successivamente, sede della famosa fabbrica di fiammiferi SAFFA.

In tempi più recenti, la frazione è divenuta famosa per essere stata la residenza di Santa Gianna Beretta Molla e del marito Pietro, il quale era dirigente proprio della società SAFFA.

La Chiesa di San Giuseppe lavoratore è la chiesa parrocchiale di Pontenuovo di Magenta; venne consacrata il 1º maggio 1963, dall'allora Card. Giovanni Battista Montini, che di lì a poche settimane sarebbe stato eletto Papa col nome di Paolo VI. In suo ricordo la piazza antistante la chiesa porta ora il suo nome, a benedizione di tutto il paese. Solo nel 1984 la Chiesa di Pontenuovo venne proclamata Parrocchia, dal Card. Carlo Maria Martini; prima di allora era una vicarìa curata, dipendente dalla Parrocchia di San Martino in Magenta.

La chiesa possiede un concerto di 5 campane in Sib3 Maggiore, fuso da Roberto Mazzola di Valduggia (VC) nel 1962. Le campane suonano a sistema ambrosiano.

La Chiesa della Madonna del Buon Consiglio fu costruita nel 1903 come luogo di culto per il villaggio di operai della già citata fabbrica SAFFA ed ebbe anche lo scopo di commemorare i defunti negli scontri del 4 giugno 1859. Per questi motivi, la cappella venne eretta non distante dal luogo degli scontri, lungo l'asse stradale che conduce all'ex dogana austriaca ed al ponte sul Naviglio Grande. Esternamente, la cappella si presenta in stile neogotico, con un portale ligneo a sesto acuto contornato da un rivestimento in cotto a vista, elemento fondamentale che riprende la maggior parte delle decorazioni della chiesetta.

L'interno, ampiamente decorato, presenta un altare marmoreo con inserti in ottone e bronzo dorato, il tutto sovrastato da una statua della Madonna. L'ambiente prende luce dalla presenza di alcuni finestroni decorati con vetri policromi istoriati. La chiesa è divenuta famosa soprattutto per essere stata uno dei luoghi di culto preferiti da santa Gianna Beretta Molla, la quale si recava in preghiera in questo luogo sacro tutte le mattine. Dal 1994, anno della beatificazione di Gianna Beretta Molla, fa bella mostra di sé nella detta Chiesetta una scultura, in marmo bianco di Carrara, eseguita dallo scultore bergamasco Pietro Brolis, raffigurante un bimbo che viene salvato dalle macerie del terremoto dalle braccia di sua madre. Tale splendida opera è stato un prezioso regalo della moglie dello scultore defunto, e si collega bene con l'atto d'amore di Santa Gianna, che ha dato la vita per poter partorire la sua quarta figlia, nel 1962.

La struttura della dogana austriaca che ancora oggi sorge in posizione strategica presso il ponte sul Naviglio Grande, costituì dalla sua fondazione al 1859 uno dei punti obbligati di passaggio per quanti volessero valicare il confine tra il Regno Lombardo-Veneto ed il Regno di Sardegna. La struttura era costituita da un complesso di edifici che comprendevano una caserma propriamente detta, comprendente una vasta area e circondata da spesse mura di difesa che confinavano con l'alzaia del Naviglio, uffici doganali ed un portico per le ispezioni.

Sul lato opposto si trovavano invece gli edifici residenziali del comandante della dogana e della sua famiglia, oltre alle case degli ufficiali di posto ed alle residenze degli impiegati. Tutte queste strutture si sono conservate praticamente intatte dal 1836, anno in cui venne fondata la dogana per merito dell'Imperatore Ferdinando I d'Austria.

Fu questo complesso, dopo la storica Battaglia di Magenta a fornire una delle basi per la creazione del villaggio operaio della fabbrica SAFFA, la quale venne rilevata dall'industriale garibaldino Giacomo Medici.

Oggi, sulla facciata del portico delle ispezioni doganali, si trova una targa commemorativa degli eventi del 4 giugno 1859 che consacrarono la vittoria dei franco-piemontesi in un punto strategico che permise non solo l'ingresso alla città di Magenta, ma anche il successivo passaggio a Milano, compiendo il primo passo verso l'unità nazionale.

La denominazione della località è invece certamente successiva e risale agli inizi del 1800 quando le venne dato l'appellativo di "Pontevecchio" per distinguerla dalla comunità nata attorno a un ponte appena costruito qualche chilometro più a sud e denominata appunto "Ponte Nuovo". Il ponte venne poi ricostruito nel 1859, a seguito dei danneggiamenti subiti durante la Battaglia di Magenta, della quale peraltro fu uno dei più cruenti scenari in quanto accesso strategico e dunque molto conteso.

Oggi Pontevecchio resta una località piccola, separata e diversa dalla più urbanizzata Magenta, la cui vitalità gravita ancora attorno al ponte sul Naviglio. Sulle strade di questo incrocio si trovano gli ultimi scampoli di traffico "cittadino" mentre al di sotto scorre placido il canale costeggiato dalla sempre popolata pista ciclabile.

Proprio nei pressi del ponte si trova Villa Castiglioni, risalente al XVI secolo e attuale sede del Parco del Ticino. Oltrepassato il ponte una lunga discesa porta nel cuore della valle del Ticino. Qua gli incroci spariscono, le costruzioni si diradano e si aprono paesaggi di grande respiro con campi coltivati, rogge e cascinali sparsi nell'aperta campagna. Muovendovi verso il Parco del Ticino potrete dunque incontrare stradine sterrate che conducono alla cascina Pietrasanta, alla Cascina Salazzara, alla Cascina Bergamasca fino alla Cascina Bullona e al Centro per Visitatore della "Riserva Naturale La Fagiana", oltre la quale si trovano solamente i boschi e i sentieri del parco.





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lunedì 11 maggio 2015

LE FRAZIONI DI BAGOLINO : PONTE CAFFARO

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Ponte Caffaro è una frazione del comune di Bagolino ed è posta a nord del Lago d'Idro nella piccola piana chiamata Pian d'Oneda, dove i fiumi Chiese e Caffaro si immettono nel lago. È il luogo dove si combatté il 25 giugno 1866 la battaglia di Ponte Caffaro tra le forze garibaldine e austriache.

Il Caffaro che dà nome alla frazione fa da confine con la frazione di Lodrone di Storo (TN) in Trentino-Alto Adige.

I primi documenti scritti che riguardano Bagolino risalgono al 1.000 d.C. e "parlano" di un territorio posto a sud del paese chiamato Pian d'Oneda in località Ponte Caffaro. Questo piano, che in seguito entrerà a far parte dei territorio di Bagolino, era un luogo paludoso ed insalubre formato dal delta dei fiume Caffaro e le acque del lago d'Idro.
Verso l'anno 1100, è incerto il momento preciso, e più d'una sono le versioni, sembra che queste terre siano state donate al Monastero di S. Pietro in Monte di Serle da re franchi o longobardi che, sotto il loro dominio, rafforzarono il culto cristiano.
I Monaci ebbero il compito di bonificare il territorio e di costruirvi un ostello per i viandanti che passavano numerosi su quella strada.
Anche i bagolinesi dovevano transitare per quel luogo. Prima di costruire il ponte di Prada, l'unica via per andare a Brescia - in alternativa a quella che passava per il valico del Maniva - era rappresentata dal ponte di Romanterra; si costeggiava a destra il Caffaro sino al bivio delle Armadure, dove per la strada detta "Bagozzina" si giungeva in Pian d'Oneda.
Un'altra versione vuole che queste terre siano state affidate ai Benedettini dagli Uomini di Storo, Darzo, Lodrone; Bovile e Villa di Ponte, antichi paesi scomparsi in seguito ad inondazioni, che nell'anno mille all'incirca avrebbero incaricato i Monaci di sanare l'intero Piano e di costruirvi un Ostello ed una Chiesa in onore di S. Giacomo.
A comprova di ciò il Panelli asserisce che la notizia era riportata in una lettera da lui trovata, scritta da un certo G. Bonardelli, il 20 marzo 1597, al parroco Manzoni.
L'unico brano di questo invito, che si data intorno all'anno 1000 è quello trascritto dal Panelli nel suo manoscritto:
"... rogamus vos domine Pater Abbas de Monte, ut veniatis in locus nostri de casalis et ibi edificetis ecclesia et Monasterum in onore sti Jacopi apostoli Majori, et ibi permaneatis laborando in honore Dei... "
Un altra testimonianza dice che i Monaci subentrarono solo verso il 1213 poiché sino a quell'anno l'intero piano era affittato ad un certo Petro de Tosino ed altri di Anfo, con un canone di 8 libre d'argento in moneta milanese (Odorici).
Di fatto i Benedettini iniziano la bonifica cercando di risanare tutta la zona con ampie piantagioni di ontani (ones) che daranno poi il nome a quella terra: Pian d'Oneda. I Benedettini costruiscono anche una chiesa che viene dedicata a S. Giacomo patrono dei pellegrini, ed un ospizio gratuito ("Xenodochio'9 per dare rifugio e ristoro ai tanti viandanti che transitavano per quella strada.
I contadini che aiutano i Monaci a coltivare il Piano abitano in piccole cascine dette "caselle" che sorgono vicino alla Chiesa.

Dal 1861 al 1918 qui vi passava il confine tra Regno d'Italia e Austria Ungheria, dopo che per secoli era stato il punto di confine tra Repubblica di Venezia, a cui fu sempre fedele e Contea principesca del Tirolo, dopo la parentesi napoleonica fu confine tra il Lombardo Veneto e l'Impero d'Austria.

A Ponte Caffaro ogni anno si svolge una nuotata di 2 km nel lago d'Idro e una manifestazione velistica nazionale. Nella frazione si trova la Chiesa di San Giacomo di cui si hanno notizie dall'IX secolo.

Nei pressi si trova il sacrario militare di Monte Suello che ricorda il luogo della battaglia fra garibaldini e austriaci.

Dopo la bonifica del Pian d'Oneda completata nel 1863 si rende necessaria, causa l'aumento dell apopolazione stabile, la costruzione di una nuova chiesa in luogo del millenario eremo di San Giacomo ormai insufficiente e situato fuori muro rispetto al nucleo del paese.
La decisione viene presa nell'inverno del 1873 da un gruppo di padri di famiglia riuniti in casa del curato.
A donare il terreno su cui sorgerà la parrocchiale è la signora Bignota ved. Scalvini mentre il progetto viene affidato all'architetto Pellini di Varese che disegna la chiesa su copia del duomo di Breno. Alla costruzione concorre il popolo che offe calce e sabbia in misura sufficiente anche per le murature dell'anno dopo. Manovali e muratori, a titolo gratuito, scavano le fondamenta; in meno di due mesi i muri della parrocchiale sono già alti m. 1.20 con una minima spesa di L 830. Sopravvengono difficoltà finanziarie talchè viene organizzata una questua in loco e nei paesi vicini che porta i suoi frutti: la Fabbriceria di Bagolino offre un assegno di L 1.100; i f.lli Fenoli raccolgono offerte in piante di larice e abete necessarie per i lavori; il parroco di San Giacomo rinuncia al suo stipendio che versa al Comitato, al suo vitto provvedono a turno le famiglie del paese. Nel limite della loro disponibilità le donne donano le uova che in quei tempi difficili costituiscono preziosa moneta di scambio per piccoli acquisti (bottoni, refe, ecc.); seguono altre offerte anche dai paesi vicini.
Grazie ai numerosi contributi la Parrocchiale viene portata a termine nell'anno 1880:
A ricordo dei lavori resta un'epigrafe scritta sull'arcata del volto:

ERECTIONI PERVENIT
OPTATIS AUSPICATISQUE
DIEBUS JIUBILEI EPISCOPALIS
PII PAPAE IX

La nuova chiesa è ancora congiunta con la Parrocchiale di Bagolino da cui dipende e bisognerà attendere sino all'anno 1958 quando, con il decreto ufficiale del Vescovo Giacinto Tredici, la chiesa di Ponte Caffaro viene eletta a parrocchia indipendente e divisa dalla Parrocchiale di San Giorgio in Bagolino.

All'erigenda chiesa di Ponte Caffaro che prende il titolo di Parrocchiale di san Giuseppe, informa il Dionisi, vengono assegnati beni mobili per l'importo di di L 1.200.000 e beni immobili quali: casa di canonica abitazione mapp. n. 8376; terreno al mapp. n. 3995 prato arborato di Ea. 023.90; mapp. n. 9625 (fabbr. acc. urbano Ea. 0.0010 R.D - R.A..) ceduto dalla fabbriceria parrocchiale di Bagolino.

A ricordo di questo avvenimento il decreto vescovile recita: "in memoria di questo dismembramento ed erezione ed in segno di riconoscenza verso la chiesa matrice di San giorgio in Bagolino, quello che sarà il Parroco di San giuseppe in Ponte Caffaro inviterà il Parroco di Bagolino nel giorno del titolare o in altra festa solenne a celebrare la S. Messa ed a cantare i Vespri".

Conserva gli affreschi del Trainini che adornano il presbiterio ed i medaglioni della volta ed una tela di Josephus Salviatus (G. Porta) che rappresenta la Madonna col Bambino.

E' documentato che a Ponte Caffaro, in cima alla strada dei Palus, vi era una chiesetta dedicata a San Valentino, protettore contro le febbri maligne che infestavano la zona.
La chiesetta era ancora esistente nella seconda metà del secolo XVII. Un estimo sel Pian d'Oneda del 1674 da le misure e la pianta della chiesa, braccia 11x6, e della sacrestia, braccia 7x6".
Fappani cita anche il testamento di Francesco q. Vincenzo Fanzoni detto Gogella (luglio 1705) dove si legge che vengano disposti 100 troni per San Valentino "che si va fabbricando".
Dopo che un'inondazione del Caffaro avvenuta nel 1840 distrugge la chiesetta, il culto di San Valentino viene trasferito in una cappella di San Giacomo ora adibita a sacrestia.

L'Eremo di San Giacomo situato sull'antica strada reale che conduce nel Trentino si presenta, oggi, come un insolito quadro d'altri tempi.
Fondato verso il decimo secolo, unitamente ad un ostello per pellegrini, dai monaci Benedettini di San Pietro in Monte Orsino di Serle che avevano il compito di bonificare la zona.
La chiesa è ricca di storia data la sua ubicazione: costruita su terra di confine fu spesso il centro di violente contese tra il Comune di Bagolino ed i Conti di Lodrone che, come signori dei luoghi, rivendicavano il possesso del Pian d'Oneda, terra su cui sorge la chiesa.
San Giacomo rivestì sempre una grande importanza per la diocesi di Trento che già nel tredicesimo secolo, in persona del Vescovo Vanga, sollecitava i fedeli con indulgenze per ottenere elemosine ed aiuti per restaurare la chiesa e l'ostello. I bagolinesi si occupavano del mantenimento della chiesa e pagavano ogni domenica un curato perché celebrasse una messa in San Giacomo; il Comune si faceva carico di nominare un "massaro" che provvedeva ad amministrare la chiesa ed i beni annessi, compresa l'osteria.
Si elencano di seguito alcuni eventi nei quali fu coinvolta questa chiesa:

24 LUGLIO 1475: i Lodrini portano un loro sacerdote a celebrare la messa e i bagolinesi vengono presi ad Archibugiate. Il giorno dopo, festa di San giacomo, i bagossi si presentano armi alla mano e i Conti devono allontanarsi.

25 LUGLIO 1476: i Conti di Lodrone tentano di impedire la celebrazione della festa del patrono: i bagossi scendono nel Piano con 300 uomini armati, ma i Lodroni se ne sono già andati.

16 APRILE 1477: la Serenissima intima, pena una multa di mille ducati a Bagolino e di duemila ai Lodroni, la cessazione di lotte e uccisioni tra i contendenti.

ANNO 1520: per permettere la festa del patrono i Conti di Lodrone pretendono dal Comune la somma di 60 ducati; Bagolino si oppone. I Lodroni allora si portano in San Giacomo e ivi feriscono un oste e la moglie. La repubblica di Venezia, informata dell'accaduto, attua l'embargo e vieta il passaggio sul suo territorio delle vettovaglie dirette ai Lodroni. I Conti sono costretti a patteggiare con i bagossi.

28 LUGLIO 1535: il Comune, rimarcando l'importanza politica e religiosa che aveva la chiesa di San Giacomo, arriva addirittura ad imporre multe salate ai paesani che non partecipano alla festa del Patrono.

5 AGOSTO 1535: i Conti di Lodrone pugnalano nell'ostello di San Giacomo, un certo Giovanni Ambrosi di Bagolino.

ANNO 1569: non solo i rappresentanti di ogni famiglia devono portare armi proprie, ma il Comune stesso elegge annualmente i "capi per la festa di San Giacomo" e altri uomini a quali vengono date delle armi che nell'anno 1569 erano: tre armi d'asta, cinque archibugi, uno schioppo. In più venivano eletti appositi incaricati con il compito di potare le bandiere e "sonar li tamburi".

16 FEBBRAIO 1636: viene tolto l'interdetto voluto per motivi politico-amministrativi dal Vescovo di Trento E. Madruzzo, nel 1633, che impediva di celebrare la messa in San Giacomo.

I bagolinesi continuarono a frequentare la loro antica chiesa che ancora nella seconda metà dl diciannovesimo secolo ospitava stabilmente fino alla costruzione della nuova chiesa di San Giuseppe in Ponte Caffaro, un coadiutore parrocchiale dedito a celebrar messa, alle confessioni, ai battesimi, alla predicazione cristiana e all'insegnamento scolastico.

La chiesa millenaria si presenta con la facciata a capanna ed un pronao a tre arcate, aggiunto nel 1600, che reca ancora tracce di antichi affreschi; all'esterno del portico, sulla destra, compare un grande San Cristoforo mentre, al centro, vi era il leone alato simbolo di Venezia. Il campanile, della seconda metà del diciannovesimo secolo, alto sei metri, sostituisce quello più vecchio, alto solo tre metri, che non permetteva al suono delle campane di raggiungere tutti gli abitanti del Piano. L'antico ostello posto accanto alla chiesa reca impresso, sulla porta, lo stemma di Bagolino.

Della primitiva costruzione la chiesa, a navata unica, conserva l'abside ed i gradini che discendono nell'ex cappella dedicata al culto di San Valentino, oggi sacrestia.

La navata, con le capriate del tetto sostenute da due archi, riceve una pioggia di luce dalle finestre che corrono alte lungo le pareti della chiesa. L'interno spoglio e suggestivo nella sua semplicità, conservava chiusa nella soasa lignea dell'abside una preziosa tela, ora nella parrocchia di Ponte Caffaro, unica opera rimasta in territorio bresciano del pittore Josephus Salviatus (G. Porta). Il quadro che raffigura la Madonna col Bambino ed i Santi marco, Filippo Valentino e Jacopo è stato acquistato dal Comune di Bagolino nell'anno 1568.

L'altare di sinistra era dedicato alla Madonna di San Luca e conservava un dipinto, oggi collocato sull'altare maggiore, che raffigurava in copia la taumaturga Madonna di Bagolino. La coppia dipinta agli inizi del diciasettesimo secolo per il Cpnvento di bagolino, è opera del Raminca (pittore locale). Questo quadro sfuggito al saccheggio del Convento avvenuto durante il tempo della Cisalpina, dopo alterne vicende, viene donato alla chiesa di San Giacomo nel 1860 dai discendenti di M. Dagani detto "Scagn" che, nel frattempo, ne erano venuti in possesso.

Sotto la sacrestia di sinistra si può vedere la cappella dedicata ai santi Filippo Neri e Antonio da Padova.
Interessanti sono gli affreschi della volta.
Ricca e armonica è la soasa dell'unico altare che racchiude una tela con i due Santi e la Vergine.




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martedì 5 maggio 2015

CIAO PROSPIANO

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Prospiano (Pruspiàn in dialetto varesotto), è una frazione di Gorla Minore, in provincia di Varese, nella Valle Olona.

Prospiano era un piccolo centro del Milanese di antica origine, appartenente alla Pieve di Olgiate Olona del Ducato di Milano. Abitato da 157 abitanti al censimento del 1751, nel 1786 entrò nella neocostituita Provincia di Varese, soppressa dopo cinque anni. Qui vi ebbe terra la famiglia dei Nobili Forni di Milano nel XVIII secolo. Al censimento del 1805 si registrarono 150 abitanti. Il governo napoleonico decretò la soppressione del comune nel 1809, aggregandolo dapprima a Olgiate Olona e poi a Gorla Minore. La politica restauratrice degli austriaci portò nel 1816 al ristabilimento del Comune di Nizzolina nel 1816, con la costituzione del Regno Lombardo-Veneto, e l'abitato cominciò lentamente a crescere, giungendo a 265 residenti nel 1853, e 310 nel 1861. Nel 1870, con regio decreto di Vittorio Emanuele II il comune fu nuovamente soppresso e aggregato di nuovo a Gorla Minore.

Prospiano, il toponimo è di etimologia incerta: forse deriva da "Principius", nome di un patrizio romano al quale sarebbero state assegnate, per particolari e sconosciuti meriti, le terre di queste località; da "Principiano" si sarebbe arrivati a "Precipiano" e, infine, a Prospiano.
I reperti archeologici venuti alla luce nella zona di Gorla e di Prospiano risalgono all’epoca della dominazione romana; si tratta di un’ara votiva di serizzo dedicata da una certa Rivasia alla dea Diana, in ringraziamento per lo scampato pericolo del padre, dei resti del pavimento di una casa trovati nel 1905 e di un vasto sepolcreto scoperto nel 1951 nel corso della costruzione di alcune villette sul declivio di un terrazzamento prospiciente l’Olona. Oltre a 25 loculi di cremati, si rinvennero anfore, vasi cinerari, bronzi dell’età degli imperatori Claudio, Traiano e Costantino Pio, lucernette ed oggetti fittili.
Nel 1963, durante la posa delle tubature del metanodotto, furono portate alla luce altra 24 tombe con balsamari, lacrimatoi ed altri recipienti, anelli, chi odi, coltelli, forbici per tosare, raschiatoi, fusarole e monete. I longobardi hanno lasciato un chiaro segno del loro passaggio in molti vocaboli del dialetto locale che conserva, a differenza delle località vicine, celtizzate, un evidente sostrato linguistico ligure: l’isolamento secolare dei villaggi della valle Olona ha consentito la sopravvivenza di forme fonetiche singolari, immediatamente avvertibili anche ai nostri giorni nell’idioma di questa zona. Quasi sicuramente il "nobilissimo" giovane nominato nella carta del 1074 fu di origine longobarda, come indica il nome "Aebertus". I suoi possessi di Gorla Minore sono stati posti in relazione con l’esistenza, fin da allora, della dinastia Terzaghi, che tanta importanza avrà nella storia del paese: qui infatti si insediò un ramo di quella nobile famiglia milanese che nel 1195 dette un arcivescovo alla Chiesa ambrosiana. Non è da escludere che proprio quest’ultimo abbia dato il consenso ai parenti per l’apertura di un oratorio dedicato a San Maurizio nella loro residenza. La cappella era inserita nel complesso fortificato che si ergeva sul pendio della valle, in posizione strategica, proprio nello stesso luogo in cui, alcuni secoli dopo, il Collegio degli Oblati del Santo Sepolcro avrebbe accolto i giovani desiderosi di apprendere la grammatica e i buoni costumi.
Il documento più antico dell’archivio parrocchiale è un atto del 1388, col quale "Giacomo Terzagho" lascia ai cappellani del capitolo della Pieve di Olgiate Olona un legato per la celebrazione di un ufficio religioso annuale nella "ecclesia Sancti Laurentis, loci Gorla Minori".
Infatti la chiesa dei SS. Lorenzo e Vincenzo di Gorla Minore, così come quella di S. Nazaro a Prospiano, apparteneva alla Pieve di Olgiate; la loro esistenza è documentata nel XIII secolo dal "Liber notitiae Sanctorum Mediolani" di Goffredo da Bussero, ma nel 1398 risulta dal "Notitia cleri mediolanensis" che la chiesa di Gorla Minore era dedicata solo a San Lorenzo, quella di Prospiano invece anche a San Celso.
Nel 1650, regnando sua maestà cattolica Filippo IV, i territori di Gorla Minore, Prospiano, Gorla Maggiore e Solbiate vennero costituiti in feudo: le comunità tentarono di opporsi a tale provvedimento, riscattando la propria indipendenza, ma monsignor Carlo Giovanni Giacomo Terzaghi, prelato domestico di Papa Innocenzo X e canonico della regia ducale basilica collegiata di Santa Maria della Scala, riuscì ad aggiudicarsi il feudo. In quel tempo la popolazione di Gorla contava poco più di 60 famiglie e quella di Prospiano non arrivava alle 20; i terreni erano coltivati a segale e a miglio e il pane veniva da Castellanza. Nonostante la presenza di estesi vigneti che davano un ottimo vino profumato, cantato anche dal poeta Carlo Porta, le condizioni di vita erano assai dure: poche e malsane le abitazioni, frequenti le pestilenze e le guerre.
Nel 1700 la popolazione è di circa 650 anime; nascono 25 30 bambini l’anno, di cui il 30% muore nel primo anno di vita, il 20% entro i dieci anni, il 23% dai 10 ai 50 anni, il 12% dai 50 ai 60 anni, il 10% arriva ai 70 anni e meno del 5% tocca gli 80 anni.Nel 1763 viene stipulato il contratto dotale tra la marchesa Maria Teresa Terzaghi, ultima discendente dei marchesi di Gorla Minore e Prospiano, e il conte Carlo Durini, esponente di un ramo della famiglia dei ricchi mercanti lariani che si fregiavano del titolo di conti di Monza.
Il conte restaura ed amplia la vecchia "casa da nobile" (Villa Magna), che diventerà dimora stabile dei suoi discendenti.
Tra gli altri avvenimenti della storia del comune, va segnalata la creazione a Prospiano dell’Ospedale Raimondi, dovuta al lascito del parroco di San Giorgio su Legnano, don Gaspare Raimondi, che muore il 24 marzo 1821.
Vale la pena di ricordare anche il funerale quasi clandestino del patriota Giuseppe Durini (21 ottobre 1850), tenace oppositore degli austriaci, membro del governo provvisorio durante le Cinque Giornate di Milano: la salma giunge a Gorla di sera, i gendarmi austriaci impediscono alla popolazione di partecipare alle esequie e la gente deve accontentarsi di seguire il corteo dalle finestre o dagli angoli bui delle strade.
Nel 1870 una decisione conciliare sancisce l’accorpamento di Gorla Maggiore e di Prospiano al comune di Gorla Minore. Il 14 dicembre 1901 la luce elettrica giunge anche a Gorla Minore: il comune stipula un contratto per l’illuminazione pubblica (venti lampade da 25 candele) e poco dopo un intraprendente gorlese apre la prima sala cinematografica, ma gli spettacoli devono subire il controllo di un severo censore comunale. Il 17 luglio 1904 viene inaugurato il tronco ferroviario Castellanza Lonate Ceppino e il "tramway a vapore" sosta per la prima volta a Gorla. Nel 1910 un terribile ciclone devasta i raccolti e scoperchia molte case; nello stesso periodo le spinte separatistiche, che da qualche tempo agitano la comunità formata da Gorla Maggiore e Gorla Minore, portano alla divisione territoriale e amministrativa dei due centri (1920).

La fondazione Raimondi si deve a due fratelli, proprietari terrieri della zona, vissuti tra il 1700 e il 1800. Il Sacerdote, Gaspare Raimondi, avendo accumulato con un’abile gestione dei propri affari una notevole fortuna in case e terreni, volle devolverne per testamento una buona parte in opere di beneficenza, fra le quali spicca il sostanzioso lascito all’Ospedale Maggiore di Milano; l’altro fratello, Francesco Raimondi, ebbe invece l’idea di utilizzare l’intero suo patrimonio, ereditato dopo la morte di Don Gaspare, per istituire un Ospedale che servisse alla popolazione dei piccoli centri contadini di Prospiano, Gorla Maggiore, Gorla Minore e San Giorgio su Legnano.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1826, il progetto, pur delineato con precisione nel testamento, stentò a prendere piede per una quantità notevole di impedimenti, tra cui le cause intentate dai nipoti di Francesco Raimondi per rivendicare l’eredità e la serie di pessimi raccolti  che negli anni ’50 del 1800 fece diminuire di molto le rendite dei beni destinati a questo scopo.

Si costituì tuttavia la Causa Pia Raimondi, amministrata dai parroci di Prospiano, di Gorla Minore, e San Giorgio sul Legnano, che, in attesa di poter fare di più, utilizzava le rendite dei terreni per assistere gli ammalati nelle loro case. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia il progetto originario venne ripreso con decisione e, una volta eseguiti gli opportuni adattamenti all’edificio, si arrivò nel 1866 all’apertura di un piccolo Ospedale nella casa di abitazione di Francesco Raimondi, capace di sette posti letto. Poco dopo i posti salirono a venti e si avvertì la necessità di disporre di personale preparato per fornire un’assistenza adeguata, perciò ci si rivolse alle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret.
Dopo una cinquantina di anni di attività, le esigenze delle comunità interessate erano a tal punto cresciute che fu necessario provvedere ad una nuova sede: l’edificio appositamente costruito e tuttora in uso fu inaugurato, un secolo fa, precisamente nel 1909.

Qui in questo ospedale sono nata io.



Notevole interesse riveste  la chiesa dei SS. Nazaro e Celso, di antiche origini. La tradizione considera i due Santi titolari i protomartiri della Chiesa milanese: furono infatti martirizzati nell’anno 64, durante la persecuzione neroniana.
Il gesuita padre Clivone, nella relazione della sua visita effettuata a Prospiano nel 1566, annota brevemente: “La chiesa è antica ma piccola”. La vetustà dell'edificio viene riconfermata da Carlo Borromeo nella relazione della sua visita pastorale del 1582; dopo aver rilevato che la chiesa è a navata unica, divisa in tre campate, con una lunghezza di dieci metri, una larghezza di metri 6,50 ed un’altezza di metri 5,50, prosegue sottolineando che l’esiguità e la povertà della popolazione non consentono certamente opere straordinarie ed è già molto se si riesce a sopperire alla manutenzione ordinaria.
Soltanto verso la metà del ‘600 il tempio subirà una prima trasformazione che, modificando l’originaria struttura, probabilmente romanica, gli conferirà l’aspetto attuale. Alla metà dell’Ottocento risalgono i fregi in cotto della facciata, il rosone e il bel portale. Nel 1933 al campanile quadrato fu sovrapposta una cuspide.
Nel 1961, poichè la chiesa non era più in grado di contenere l’accresciuta popolazione di Prospiano, furono iniziati i lavori per la costruzione di un nuovo edificio, su progetto dell’architetto Enrico Castiglioni. Consacrata nel 1964 con la stessa intitolazione, la chiesa venne considerata da molti uno dei migliori esempi di architettura contemporanea.





La chiesa dei SS. Nazaro e Celso a Gorla Minore è stata progettata da Enrico Castiglioni (1962-1965), edificio completato mentre era in corso il Concilio Vaticano II, dove segni caratterizzanti sono le molteplici absidi e l'altissimo campanile.
“Le masse potenti, lo spazio unitario e la luminosità astratta testimoniano la capacità di Castiglioni di attingere a un linguaggio “originario” (così come definito da Gio Ponti) e al tempo stesso contemporaneo, superando le semplici categorie oppositive di tradizione/innovazione”.

Enrico Castiglioni, a differenza di altri maestri suoi contemporanei, quali Gio Ponti o Giovanni Michelucci, non ha (ancora) acquisito la fama che la sua opera meriterebbe.
Questa chiesa di Prospiano rivela la grande sensibilità di un linguaggio nuovo in cui lo spazio architettonico può esprimersi, tra la memoria storica e l'apertura al futuro, quando forma e struttura fanno tutt'uno nel manifestare una completa adesione al tema.

Ha scritto Gio Ponti: «Questa chiesa di Castiglioni insegna come un'architettura religiosa possa essere nobile, nuova e inedita, ed essere tuttavia fra le espressioni giuste (vere). La sua originalità è una "originarietà", è una fedeltà: essere originario significa di più che essere tradizionale». Il commento è tanto autorevole quanto appropriato e sintetico. Il progetto della chiesa di Prospiano prende forma nei tempi "eroici" a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta: l'epoca in cui venivano maturando i temi che avrebbero informato il dialogo fecondo del Concilio Vaticano II. La riforma liturgica era vissuta, discussa e partecipata con l'intensità che è propria del momento trepidante della novità che implica il ritrovamento delle radici. È infatti dal profondo dibattito liturgico e architettonico di quell'epoca che sorgono quelli che sono ancora gli esempi più significativi e importanti di chiesa "nuova" esistenti in Italia. Tra questi va collocata la chiesa di Prospiano.

In Castiglioni troviamo una particolare accentuazione: egli è, oltre che architetto, anche ingegnere, e tratta la struttura con la stessa familiare confidenza con cui si disegna la forma. Quest'armonico evolversi di forma e struttura assieme conferisce ai suoi progetti una particolare coerenza, una intrinseca forza. Si tratta di architettura organica, non nel senso dell'imitazione della natura, ma della identificazione tra forma e contenuto, tra struttura e "vestito": lo stesso genere di organicità che ravvisiamo con stupore nella semplice armonia del romanico. Qui ci troviamo di fronte a una evoluzione coerentemente postconciliare del tema della basilica: in pianta e in sezione si legge l'accostarsi e il sovrapporsi di tre corpi basilicali biabsidati. Questi tre involucri basilicali (denotati internamente dalle volte "a botte") si uniscono per dar luogo ad un unico, più ampio (e in questo senso coerentemente postconciliare) spazio celebrativo. L'ampia aula trova una sistemazione processionale dell'assemblea verso l'altare, mentre allo stesso tempo si allarga e si articola nei diversi e connessi luoghi liturgici. Lo spazio basilicale mediano definisce l'asse di entrata, alla sinistra di questo si trova un più piccolo "involucro" spaziale che ospita, nell'abside accanto all'entrata, il battistero e in quella opposta il tabernacolo. Lo spazio basilicale maggiore, sulla destra dell'entrata, ospita l'altare, l'assemblea e, nell'abside opposta a quella dell'altare, la porta grande per le cerimonie solenni. Lo sfalsamento di questi "involucri" genera una pluralità di percorsi. Le absidi sono sormontate da vetrate ricche di colore vivificante e simboli che risaltano nella semioscurità. Il gioco delle rotondità absidali è variamente ripreso nell'interno: come conchiglia dietro l'altare, come incavi sui soffitti che sottolineano il differenziarsi degli ambiti liturgici. All'esterno lo stesso gioco del sommarsi e unirsi di absidi, coperture "a botte", tetti a capanna, identifica con chiarezza il carattere della chiesa, ma ne segnala anche (per esempio nell'elemento aperto, a ponte, che sormonta l'entrata) la trasparenza e l'abbraccio protettivo, e (nella concavità istoriata sopra l'entrata) l'accoglienza. Un campanile in cemento a vista si erge altissimo staccato dal corpo della chiesa: due setti verticali accostati che pur nella straordinaria dimensione, ben visibile da lontano nella campagna circostante, non dà alcuna sensazione di fragilità. I materiali, cemento a vista e lastre di graniglia martellinata per le facciate, porfiroide sulla copertura, conferiscono unitarietà all'insieme. Un deciso stacco tra dentro e fuori è dato dalla luce: i volumi esterni accarezzati dal sole, la penombra all'interno, infranta dal colore delle vetrate.
La grande vetrata al di sopra dell'ingresso, dedicata al "Cantico dei cantici": "Uno squarcio di poesia irrompe nella narrazione biblica. Un inno alla Vita e all'Amore impaziente e insofferente di indugi" scrive Castiglioni, autore anche delle vetrate. A sinistra: l'abside dietro l'altare è conclusa a conchiglia, per quanto lo spazio dell'aula si estenda sulla sinistra nell'involucro basilicale che ospita il tabernacolo. La vetrata è "L'albero della scienza del bene e del male".

"La materia si arricchisce di significati nella sua non arbitraria presenza fino a sentirsi partecipe dello spazio, come l'uomo - nella vita - ritrova il senso della sua esistenza non più arbitraria, fino a sentirsi partecipe dell'universo. La struttura, identificando la sua azione fra le due realtà della materia e dello spazio, partecipa di entrambi; così nella struttura rientra anche la decorazione in quanto estende, o limita, o modifica comunque e dà compimento all'estensione spaziale. Infine, lo spazio vive fin nelle parti più nascoste dell'organismo architettonico e rivela l'ordine ideale che lo governa... Ho insistito nel parallelismo fra la realtà dell'uomo e la realtà dell'architettura perché proprio in questa simile strutturazione il procedimento dell'architettura si rivela come procedimento di vita... L'architettura è attività che documenta, nella stessa strutturazione del suo procedimento, la soprannaturalità dell'uomo. Riconoscere l'architettura, e poi ripercorrerla nella storia, significa assaporare tutta la storia nei suoi atti ancora presenti al nostro giudizio; uomini, generazioni trascorse, avvicinati in una contemporaneità stupefatta."

Castiglióni, Enrico. - Ingegnere e architetto (Busto Arsizio 1914 - ivi 2000); formatosi nell'ambito del razionalismo nei progetti degli anni Cinquanta (concorsi per la chiesa di Montecatini, 1953; per la stazione ferroviaria di Napoli, 1954; per il santuario di Siracusa, 1957), sperimenta l'esibizione enfatizzata degli elementi strutturali approdando a una ricerca incentrata sulle strutture a membrana in cemento armato: scuola elementare di Gorla Minore (1959); chiesa parrocchiale di Prospiano (1962); progetti per grattacielo Peugeot a Buenos Aires (1962), aerostazione di Venezia (1978).



Il Santuario della Madonna dell’Albero a Prospiano, è anticamente indicato come “Chiesa di Santa Maria in Arbore”.
In origine semplice cappella, nel ‘700 la chiesa venne ampliata con l’aggiunta di un altro locale.
Il campanile è utilizzato usando un rialzo della facciata.
Oggetto del culto e devozione popolare, è l’affresco raffigurante la Madonna incoronata su un albero tra i santi Nazaro e Celso.
Databile alla seconda metà del ‘400 è attribuito al pittore Gianfranco Lampugnani.

Sempre a Prospiano si trova il santuario della Madonna dell’Albero, anticamente indicato come “chiesa campestre di Santa Maria in Arbore”. Il ciclo di affreschi che orna l’interno è attribuito al frate umiliato Giacomo Lampugnani e risale agli ultimi anni del ‘400; probabilmente fu commissionato da qualche nobile locale. Il nome del santuario deriverebbe da una miracolosa apparizione della Madonna dell’Albero, con l’obbligo di due messe settimanali e di una festa solenne in onore della Vergine, da celebrarsi nel giorno dell’Assunzione.
Nel 1597 l’orientamento della chiesa appare mutato e corrispondente a quello attuale. Nel 1603, infine, il cardinale Federico Borromeo, rendendo omaggio alla Madonna dell’Albero, annota le dimensioni del santuario (14 braccia di lunghezza) e dispone che l’apposita cassetta per la raccolta delle offerte venga munita di una doppia serratura, dotata di due chiavi: una in custodia al curato, l’altra ai nobili di Prospiano.

Con affetto un caro saluto a tutti voi.



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