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sabato 12 settembre 2015

PONTE NIZZA

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Ponte Nizza è un comune dell'Oltrepò Pavese, nella vallata del torrente Staffora alla confluenza con il Nizza che forma una valle laterale.

Questo paese fa parte del territorio culturalmente omogeneo delle Quattro province (Alessandria, Genova, Pavia, Piacenza), caratterizzato da usi e costumi comuni e da un importante repertorio di musiche e balli molto antichi. Strumento principe di questa zona è il piffero appenninico che accompagnato dalla fisarmonica, e un tempo dalla müsa (cornamusa appenninica), guida le danze e anima le feste.

Il comune di Ponte Nizza è stato costituito nel 1928 (21 giugno) unendo i comuni di Pizzocorno, Trebbiano Nizza, San Ponzo Semola e Cecima, che nel 1956 riottenne l'autonomia. I comuni di Pizzocorno, San Ponzo e Trebbiano nel XIX secolo Pizzocorno (CC G723) apparteneva alle terre del marchesato dei Malaspina, e fu castello principale di uno dei tre rami in cui si divise la linea della famiglia detta dello Spino Fiorito, che era signora della valle Stàffora; tale ramo, detto anche di Olivola da un castello in Lunigiana, fu interrotto nel 1413 con l'assassinio di tutti i suoi componenti avvenuto a Olivola. I Malaspina peraltro, già nel 1158, avevano ceduto la signoria su Pizzocorno agli abati di Sant'Alberto di Butrio. Dopo l'estinzione dei Malaspina di Olivola e Pizzocorno non fu possibile agli abati mantenere la signoria, di cui i duchi di Milano disposero come di un qualunque feudo camerale: in effetti Pizzocorno non fu, come tutte le terre circostanti, una giurisdizione separata dotata di ampia autonomia, ma il più meridionale dei normali comuni dell'Oltrepò. Dopo varie brevi infeudazioni fu riacquistato dai Malaspina del ramo di Godiasco, che lo tennero sino all'abolizione del feudalesimo nel 1797. 
Trebbiano appartenne al marchesato dei Malaspina fin dalla sua costituzione (diploma imperiale del 1164), e nelle suddivisioni ereditarie rimase ai Malaspina della linea di Oramala e Godiasco. Per motivi non chiari risulta che almeno nel XVII secolo non apparteneva alla giurisdizione di Godiasco, ma costituiva una piccola giurisdizione a sé stante. Si chiamava allora Valle Trebbiana, poi Trebbiano e dal 1863 Trebbiano Nizza. 
San Ponzo fu donato dai re Ugo e Lotario al vescovo di Pavia nel 943, insieme alla vicina Cecima; e di Cecima condivise poi sempre le sorti. Fu sede di un'importante pieve della diocesi di Tortona, da cui dipendevano molti paesi vicini. Con Cecima nel 1164 passò sotto il dominio pavese, costituendo una sorta di exclave in mezzo alle terre dei Malaspina, da cui si mantenne sempre indipendente, rimanendo sotto la signoria del vescovo di Pavia, da cui fu nel XVI secolo subinfeudato agli Sforza di Santa Fiora, feudatari di Varzi. Nell'ambito del Principato di Pavia, costituiva con Cecima una giurisdizione separata. Nel 1863 prese il nome di San Ponzo Semola. Nella parte dell'ex comune di San Ponzo situata alla destra della Staffora si è sviluppato l'attuale capoluogo comunale, Ponte Nizza. 
Da Ponte Nizza transitava la via del sale lombarda, percorsa da colonne di muli che percorrendo il fondo valle raggiungevano Genova attraverso il passo del Giovà e il monte Antola.

Da Ponte Nizza transitava la via del sale lombarda, percorsa da colonne di muli che percorrendo il fondo valle raggiungevano Genova attraverso il passo del Giovà e il monte Antola.

Nel territorio comunale si trova il famoso Eremo di Sant'Alberto di Butrio.
Nella frazione San Ponzo Semola sono situate le "Grotte di San Ponzo".
A poca distanza dall'Eremo di S. Alberto di Butrio si trova la località Carmelo con case in sasso, testimonianza dell'antica civiltà contadina dell'Oltrepò Pavese.

L'Abbazia fu fondata nell'XI secolo dal monaco eremita Alberto sui ruderi di una fortificazione romana. In origine era una chiesa dedicata alla Vergine, ma la raccolta di altri fedeli portò alla fondazione dell'Abbazia, che oggi è costituita da quattro edifici sacri addossati e comunicanti.
L'Abbazia di Sant'Alberto fu anche meta di personaggi illustri: sembra vi abbia sostato il Barbarossa e che vi sia stato sepolto il sovrano inglese Edoardo II.
Nel sec. XVI papa Leone X aggregò il monastero a quello pavese di San Bartolomeo in Strada. Seguì una perdita d'importanza dell'Abbazia ma nel 1921 il centro tornò operativo grazie a Don Orione e in questo secolo ha avuto nel tra le sue figure di spicco l'eremita cieco Frate Ave Maria.

L’eremo raggiunse il suo massimo splendore nei secoli XIII e XIV, abbellito da affreschi e da pregiati quadri. L’abbazia è costituita da tre piccole chiese intercomunicanti tra loro: Santa Maria (XI secolo), S. Alberto e S. Antonio.Pozzo 
La tradizione vuole che lo stesso Federico Barbarossa nel 1167 avesse soggiornato per alcuni giorni a S. Alberto, dimorando nella piccola torretta trapezoidale, dalla quale si dominava tutto il paesaggio sottostante, torretta della quale rimangono ora solo pochi resti.
Dal 10 gennaio 1921, dopo un periodo di relativa decadenza dell’eremo, la parrocchia di S. Alberto fu assegnata alla Congregazione di don Orione, che porterà a una completa rinascita e a nuovo sviluppo l’abbazia,disponendo anche restauri alle strutture e alle opere d’arte custodite.

Ponte Nizza, circondata da campi coltivati a erba, granturco e frutteti, è un paese moderno come lo testimoniano le abitazioni, villette moderne e condomini, e la chiesa. La parrocchia è un edificio moderno con murature di cemento armato alternate con mattoni a vista e ampie vetrate decorate con disegni allegorici.
San Ponzo, frazione di Ponte Nizza, ha conservato negli anni il suo fascino e l’isolamento. In età romana S. Ponzo fu meta di rifugiati cristiani tra cui il Santo, soldato della legione Tebea, che prese dimora in una grotta e convertì molte persone. Le spoglie di Tebea, in seguito chiamato San Ponzo, sono, dal 1903, custoditi nella chiesa del paese. La chiesa presenta una facciata in stile romanico ed un campanile a base quadrata. La parte originale dell’antico edificio potrebbe essere il presbiterio. In origine la cappella del battistero era ubicata esternamente rispetto alla chiesa e vi si accedeva attraverso una entrata separata, ancora oggi ben visibile. La chiesa fu restaurata nel 1435 e in quella occasione si persero   gran parte delle strutture originarie.

Trebbiano è una frazione di Ponte Nizza che perse il suo isolamento quando furono collegate le valli Nizza ed Ardivestra. Circondati da campi e frutteti sono dislocati piccoli gruppi di case.

La vegetazione della Valle Staffora è molto varia. Comprende in prevalenza formazioni di tipo boschivo, tra cui spiccano i castagneti ma anche altre formazioni vegetali, come i prati di vetta e le vegetazioni di roccia e di zone umide. Ciascuna di esse possiede le sue caratteristiche e può dare utili indicazioni sugli ambienti.
La vegetazione considerata spazia fra le quote dei quattrocento e quelle degli oltre millesettecento metri variando numerose volte in base alle fasce altitudinali.
Intorno ai quattrocento metri si trovano gli ultimi campi coltivati che lasciano poi spazio ai boschi di querce, ontani, carpini, frassini. Fra i seicento ed i novecento metri compaiono estesi boschi di castagni, ormai in stato di abbandono.
Dagli ottocento ai mille metri si incontrano boschi di faggio sui versanti nord. Intorno ai milleduecento sino ai millequattrocento metri si trovano i boschi di abete rosso, misti a pino nero e larice che sono stati usati in anni passati come rimboschimento per fronteggiare il dissesto idrogeologico. Oltre i millequattrocento metri si trovano prati di vetta, con macchie di lamponi e mirtilli.

La fauna in Valle Staffora è tipicamente appenninica e risente fortemente della presenza dell’uomo che ne ha limitato sia il numero di specie, che di individui.
In Valle Staffora e nelle valli circostanti sono presenti i seguenti animali: Lo scoiattolo, la donnola, il toporagno, il tasso, la faina, la lepre, la volpe, il cinghiale in forte espansione. Il capriolo, pur non facendo parte della fauna della valle è arrivato dalla Val Trebbia dove è stato introdotto di recente.
Per quanto riguarda gli uccelli si segnala la presenza di rapaci, indice di salute della Valle.
La poiana è presente sul massiccio del monte Lesina e Chiappo. Fra i falchi, il gheppio è il più comune. Tra i rapaci notturni vi sono: la civetta, il gufo, il barbagianni. Nei boschi: il fringuello, la ghiandaia, il picchio, il pettirosso, il cuculo, lo scricciolo. I rettili sono rappresentati da ramarri, lucertole, bisce d’acqua. Negli ambienti umidi vi sono gli anfibi come rospi, rane, salamandre.

Tutta la valle Staffora è ricca di boschi di castagne, i luoghi nei quali è possibile trovare le castagne. 

Fin dalla preistoria l'uomo ha cercato di sopravvivere dalle carestie conservando il cibo, soprattutto la carne degli animali cacciati, con l'unico metodo possibile: l'essicazione. 
La scoperta del fuoco apportò nuove tecniche quale l'affumicatura e la cottura.
Per quanto riguarda la conservazione della frutta e la verdura, essa avveniva attraverso la sua essicazione al sole.
Ben presto la conservazione in salamoia e quella sottoaceto prese piede e soltanto dopo millenni si giunse alla conservazione con lo zucchero. 
La conservazione in vaso fatta in casa è una pratica che ha solo due secoli di vita e fu per primo il francese Appert nel 1795 a scoprire il metodo per conservare i cibi in barattoli di metallo o bottiglie di vetro ermeticamente sigillati impedendo in questo modo la fermentazione e di conseguenza la decomposizione delle sostanze  organiche.








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sabato 18 luglio 2015

ALMENNO SAN SALVATORE



Almenno San Salvatore è un comune della provincia di Bergamo.

Il toponimo "Almenno San Salvatore" deriva da "Lemine", la cui etimologia è incerta. Già in epoca romana, Almenno S.S. era già dotato di un ampio comprensorio territoriale strutturato in pagus . Il centro amministrativo si trovava nell'area del Castello in prossimità del ponte di Lemine, noto come Ponte della Regina.

Il territorio almennese, antropizzato fin dalla protostoria, ha visto il passaggio dei Celti, dei Galli Cenomani, dei Romani, che oltre al ponte sul Brembo lasciarono diverse testimonianze archeologiche, per diventare, dopo la conquista longobarda, una corte regia.

Già duemila anni fa i Romani vi avevano condotto opere di bonifica e di centuriazione del territorio, fondandovi un vicus chiamato Lemennis, capoluogo di un pagus omonimo, e lasciandovi il ricordo di opere imponenti, quali la Via Militare della Rezia e il Ponte della Regina, che con otto grandiose arcate superava il fiume Brembo.
Seguirono poi i secoli bui delle invasioni barbariche, ma Almenno conservò la sua posizione di preminenza su tutto il territorio circostante: fu Corte Regia longobarda e franca (sec. Vlll-IX), successivamente parte della Contea rurale di Lecco (sec. X), dal 975 feudo del vescovo di Bergamo e, a partire dal 1220, libero Comune, soggetto nei secoli XIV e XV agli orrori delle lotte fra la fazione guelfa e ghibellina.
Divenne poi con la Signoria Viscontea sede di un Vicariato, che si mantenne anche sotto il dominio veneto fino agli ultimi anni del XVIII secolo.

Nel corso di queste vicende Almenno si é arricchito di importanti testimonianze artistiche; vi si trovano alcune delle più note architetture in stile romanico della Bergamasca.

La più celebre è senza dubbio la rotonda di San Tomé, le cui origini restano avvolte nel mistero, ma che, é certo, sorse su un'area sepolcrale romana.

Edificio a pianta circolare, uno dei pochi rimasti nel Nord Italia, secondo gli studi più recenti risalirebbe agli anni 1130-1150 e sarebbe stato costruito sulle fondazioni di una preesistente basilica altomedioevale.
Attaccato alla chiesa c'era un monastero femminile, documentato nell'anno 1203, il quale, dopo vicende alquanto travagliate, esaurì la propria esistenza nel 1407.
Il complesso di San Tomè da allora si trasformò in un cascinale, nel quale soggiornarono fino a tempi recentissimi i contadini del Beneficio Parrocchiale di Almenno San Salvatore.

Più importante sotto l'aspetto storico e non meno preziosa sotto l'aspetto artistico é la Pieve di San Salvatore di Almenno, che sorge nella parte bassa del paese. La più antica chiesa del territorio, dalla quale sono nati tutti i luoghi di culto delle valli Brembana, Imagna e Brembilla. Le sue origini si fanno risalire al periodo longobardo, quando Almenno era Corte Regia e talvolta ospitò anche re di quel popolo, come Astolfo nel 755 d.C..
Il monumento ha aspetti artistici notevoli, come alcuni affreschi fra i più antichi della Bergamasca, un pulpito del 1130 circa in arenaria con scolpiti i simboli dei quattro evangelisti, altri affreschi dei sec. IV-XVI, ma soprattutto la cripta del IX secolo, che nel suo genere è forse l'unico esempio rimasto nella diocesi di Bergamo.

Davanti alla facciata della Pieve venne poi edificata agli inizi del Cinquecento un'altra chiesa, detta della Madonna del Castello, che è un santuario sorto per un prodigio operato dalla Vergine.

Vi si trova uno splendido ciborio ottagonale in stile rinascimentale, che richiama le architetture dell'Isabello; sul tamburo sono effigiate esternamente le Sibille, bellissime figure femminili che reggono dei cartigli con profezie, e internamente episodi della Vita della Vergine, dipinti che sembrerebbero del Previtali o del Cariani i primi, del Boselli i secondi.

Altro edificio di Almenno degno di essere visitato è la basilica di San Giorgio in Lemine, sorta intorno all'anno 1150.

È una chiesa ora immersa nel verde della campagna, mentre anticamente era circondata da un borgo medioevale, distrutto dalla Repubblica Veneta nel 1443. Pare sia stata fatta edificare dall'Episcopato di Bergamo nel periodo in cui si ricostruiva la basilica di San Maria Maggiore in città; vi avrebbero lavorato le medesime maestranze, utilizzando gli stessi materiali e tecnica costruttiva.

Dopo la fase iniziale, i lavori subirono un’interruzione e furono conclusi sulla fine del XII secolo con una muratura diversa. L'aspetto più importante di San Giorgio è la decorazione pittorica.
La chiesa conserva il più consistente campionario di affreschi due-trecenteschi che in Bergamasca si possano ammirare raccolti in un solo luogo.
Sulle pareti delle navate laterali e sui pilastri ci sono affreschi votivi, il cui soggetto riguarda la Vergine o Santi particolarmente venerati, ma i più importanti si trovano sulla navata centrale e formano un ciclo completo della Vita di Cristo, il più antico conosciuto in Bergamasca. Pittori ignoti della fine del Duecento e degli inizi del Trecento di scuola romana, assisiate e lombarda ne sarebbero gli autori.

Spostandosi nella parte alta del paese si può ammirare un altro gioiello di Almenno, la chiesa di San Maria della Consolazione, detta comunemente di San Nicola.

Sorta nel 1488 per un voto della popolazione, fu affidata all'ordine degli Agostiniani, per i quali si edificò vicino anche un monastero con un magnifico chiostro in stile tardogotico.
Il complesso si trova in un’incantevole posizione sulla sommità di una collina ammantata di vigneti.
Nella chiesa si conservano alcune tele di valore, come la "Trinità" del Previtali, datata 1517, la "Sacra Famiglia" di Francesco da Ponte detto il Bassano (XVI sec.).

Numerosissimi sono poi gli affreschi dei secoli XV-XVIII, che coprono le pareti delle dodici cappelle laterali, molti dei quali attribuiti ad Antonio Boselli; splendido il soffitto originario a formelle in cotto decorate a mano e alcune lastre tombali degli inizi del XVI secolo.
In San Nicola si trova anche il più antico organo della Bergamasca; fabbricato nel 1588 dagli Antegnati e recentemente restaurato, è spesso usato per concerti di grande richiamo.

Altri monumenti di rilievo sono le parrocchiali di San Salvatore Nuovo e di San Bartolomeo. La prima, sorta nel 1455 circa, è stata pesantemente ristrutturata nella prima metà del Settecento.
La seconda, fondata nel 1426, è stata modificata per ben tre volte; l’edificio attuale è della seconda metà del Settecento.
Ambedue sono ricche di numerose opere d'arte: quadri, statue, paramenti e suppellettili sacri.

Il ponte di Lemine, imponente opera militare romana oltre che stradale, si trovava nelle immediate vicinanze dell'attuale Almenno San Salvatore. Non si hanno notizie certe sulla sua data di costruzione che, tuttavia, è stata fatta risalire all'epoca di Traiano.

Lemine, un vasto comprensorio a occidente di Bergamo o più esattamente ad occidente del fiume Brembo, rivestiva una particolare importanza strategico-militare per Roma in quanto area di congiungimento con il territorio di Como e quindi con l'Europa centrale.

Questo territorio era, infatti, attraversato dalla strada militare che, passando per Bergamo, collegava il Friuli alla Rezia inserendosi così nella ragnatela stradale che faceva capo a Roma.

Il punto più importante del segmento che interessava Lemine era costituito dal ponte con cui scavalcava il Brembo. Attorno a questa opera e a sua difesa i Romani costruirono diverse opere difensive, castra, che indussero inevitabilmente un'immigrazione e un aumento demografico che si sovrappose all'originaria popolazione costituita dai Galli Cenomani, tradizionali alleati di Roma.

Dell'insediamento romano rimangono numerose testimonianze archeologiche la più importante delle quali è un'ara dedicata al dio Silvano trovata proprio nell'area circostante il ponte.

Questa strada militare che attraversava tutto il territorio di Lemine e di cui non rimane traccia è documentata dalla cosiddetta Tavola Peutingeriana.

La strada usciva da Bergamo dalla porta di San Lorenzo e, dopo avere attraversato gli attuali territori di Valtesse, Petosino, Almè, Almenno San Salvatore, Almenno San Bartolomeo, Barzana raggiungeva Cisano Bergamasco per proseguire in direzione di Como.

Il percorso successivo a Cisano è controverso: alcuni autori hanno sostenuto che dopo Cisano deviasse per la val San Martino e, attraversati Calolziocorte e Vercurago, raggiungesse Lecco e quindi Como; altri invece hanno sostenuto che dopo Cisano continuasse per Brivio, scavalcandovi l'Adda, per raggiungere poi Como.

Questa seconda ipotesi appare la più logica e attendibile in quanto rappresenta il tragitto più breve e veloce per raggiungere Como, essenziale per una strada militare.

Il punto nevralgico di questa strada, come si è visto, era costituito dal ponte, un'opera imponente e solida tanto da durare e svolgere la sua funzione fino al XV secolo.

Il ponte aveva una lunghezza di circa 184 metri, poggiava su otto arcate di cui sei avevano una corda di circa 15 metri e due di circa 21, un'altezza di oltre 24 metri e una larghezza di quasi 6 metri. Queste misure, per altro non certe in quanto calcolate sui ruderi superstiti, danno l'idea della struttura del ponte.
Anche dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente il ponte mantenne la sua importanza, ora prevalentemente viaria, e continuò a essere usato per tutto il Medioevo come è provato dalle spese di manutenzione previste e imposte dagli statuti di Bergamo. Il suo crollo avvenne il 31 agosto 1493 a causa di un'eccezionale piena del Brembo che aveva colpito e devastato tutta la valle Brembana.

Del ponte di Lemine, una volta orgoglio dell'architettura militare romana, sopravvivono pochi resti lapidei e il suo ricordo che, ironia della storia, lo ha tramandato con il nome di ponte della Regina attribuendone la costruzione alla regina longobarda Teodolinda.

Dalla sua costruzione e per tutto il Medioevo il ponte di Lemine era conosciuto e denominato, nei diversi atti a noi pervenuti, con tale nome.

Un codice del 1493 lo descrive come ponte di Almenno, fabbricato ha più di mill'anni certificandone così, fino a tale data, non solo il nome d'uso ma anche l'attribuzione della sua costruzione ai romani.

Solo dopo il suo crollo iniziò a essere indicato con il nome di ponte della Regina e questo senza alcuna spiegazione logica se non quella del mito e della credenza popolare che voleva tutti i resti di opere antiche come volute e create dai Longobardi o dai loro esponenti più prestigiosi.

Alcuni individuarono questa regina in Teodolinda altri in Teutperga, la moglie ripudiata del franco Lotario II, con una preferenza per la prima, tutti accomunati, però, nell'oblio della matrice romana dell'opera.

Ancora oggi per individuarne i resti occorre chiedere, agli organi del comune di Almenno San Salvatore come alla gente comune, del ponte della Regina e non altrimenti, tanto forte è stato ed è il mito.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/07/la-valle-imagna.html



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venerdì 5 giugno 2015

LE VILLE DI LODI



Il Centro direzionale della Banca Popolare di Lodi, noto anche come Bipielle Center o Bipielle City è la sede dell'omonimo istituto bancario.

Progettato da Renzo Piano e sorto nei pressi della stazione ferroviaria a pochi passi dal centro storico di Lodi, è una struttura di grandi dimensioni che rappresenta la costruzione più interessante della città sotto il profilo architettonico tra quelle della seconda metà del Novecento.

È stato scelto come ambientazione per alcuni spot pubblicitari televisivi.
Il complesso si sviluppa su oltre tremila metri quadrati e comprende diversi edifici che ospitano – oltre alla sede centrale della banca – spazi sociali (come un auditorium), negozi e bar. L'edificio principale presenta una facciata di oltre 250 metri di larghezza con pannelli modulari in cotto.

Lo spazio interno è in parte coperto da una tensostruttura in vetro e cavi d'acciaio, che si estende dall'edificio principale all'auditorium, una struttura circolare con circa 800 posti; al centro è ospitata una fontana in movimento perenne creata dall'artista giapponese Susumu Shingu.

Il teatro alle Vigne è il principale teatro della città di Lodi. Originariamente si trattava di una chiesa, canonica dell'ordine degli Umiliati, ma nel 1570 passò ai padri barnabiti che lo convertirono in istituto superiore di teologia, morale e filosofia. Dopo numerosi cambiamenti di destinazione d'uso ed una radicale ristrutturazione, nel 1985 divenne sede del teatro; il suo primo direttore artistico fu Carlo Rivolta.

In origine si trattava di una chiesa appartenente all’ordine religioso degli Umiliati (chiesa di San Giovanni e Ognissanti alle Vigne). Nel 1604, in seguito alla soppressione dell'ordine da parte di Papa Pio V, la struttura venne donata ai Barnabiti, i quali, su progetto dell'architetto Giovanni Ambrogio Mazenta, nel 1618 fecero apportare alcune modifiche secondo le esigenze di solennità della Controriforma: lo spazio interno fu trasformato in una grande aula e il presbiterio venne reso ben visibile da tutti. La chiesa fu quindi consacrata nel 1627, anche se i lavori continuarono fino al 1693, per poi riprendere nuovamente in periodo austriaco (1731-1734) quando furono rifatte le volte, il pavimento e la sagrestia. Negli anni successivi la chiesa divenne sempre più ricca e sfarzosa grazie all'installazione delle campane (1752) ed una serie di arredi e tappezzerie; tuttavia nel 1810, sul finire dell'epoca napoleonica, l'ordine fu sciolto e la chiesa, spogliata di tutti gli ornamenti, divenne prima deposito di granaglie, ed in seguito (1874) palestra. Le operazioni di recupero iniziarono nel 1976, ma l'attività teatrale ebbe inizio solo nel 1985.

Casa Biancardi ha una planimetria irregolare e si affaccia su un cortile in comune. In origine al suo posto vi si trovava la fabbrica di ceramiche dei fratelli Coppellotti, che produceva oggetti decorati in stile Vecchia Lodi, ma nel 1930 dopo un incendio al suo posto viene costruita Casa Biancardi.
Bello il contrasto tra il colore rosso quasi pompeiano ed il bianco-grigio dei bassorilievi che contengono al loro interno le finestre.
Le principali decorazioni Liberty sono il balcone, con motivi floreali, e le colonnine su cui è costruito.
Al primo piano gli ornamenti superiori delle finestre sono caratterizzati da bassorilievi in calcestruzzo che rappresentano severi visi femminili incorniciati da nastri fluenti, fiori e foglie; le finestre del piano superiore sono abbellite da fiori (girasoli o margherite), mentre all'ultimo piano troviamo esclusivamente forme geometriche.
 
La Casa degli Angeli si articola attorno a un cortile rettangolare porticato. Il lato che si affaccia su via Solferino è a quattro piani (l'ultimo è un loggiato aperto); gli altri tre lati sono a tre piani.

Casa Joli Riccardo ha una pianta irregolare e si articola intorno a un vasto cortile quadrato.
Il corpo principale, che si affaccia su corso Adda, ha una struttura su quattro piani fuori terra, con il portone d'ingresso situato in posizione leggermente asimmetrica. Il fabbricato che occupa il lato destro del cortile, è a due piani; gli altri due lati  sono a tre piani.
L'edificio venne costruito su un antico convento "San Cristoforino" appartenuto alle Umiliate: dell'antico monastero rimangono le tracce degli archi a tutto sesto nel cortile interno.
 
Casa Piontelli fu progettata e costruita nel 1903 dall'arch. Maisetti su commissione dell'ing. Piontelli.
Tipica architettura di una residenza privata. Edificio a pianta a L, con struttura a pilastri intonacata. Si distinguono 2 corpi separati, ma la suddivisione interna ed i collegamenti sono in comune. Le due parti hanno subito differenti trattamenti decorativi.                                    
La costruzione è riccamente decorata, a partire dal pianterreno dove le finestre delle cantine presentano un contorno curvilineo con decorazioni raffiguranti foglie e bacche di ippocastano incavate. Le ringhiere in ferro battuto sono curvilinee con fiori. Anche le inferriate delle finestre sono in ferro battuto, ma sono più lineari. Sculture a foglie di ippocastano ornano le finestre del primo e del secondo piano. La decorazione continua anche al terzo ed ultimo piano con bassorilievi intorno alle finestre, una fascia dipinta ad affresco con motivi floreali stilizzati. Nei due settori laterali, che hanno caratteristiche diverse rispetto al resto della costruzione, all'ultimo piano, due visi femminili affiancano le finestre.      
 
Casa de Vizzi è un'elegante palazzina che nel tratto prospiciente Corso Roma ospita al piano terra alcuni negozi.
E' caratterizzata da accurate decorazioni Liberty, soprattutto ai piani superiori.
Sono da ammirare anche alcune finestre che mantengono i vetri colorati originali. Spicca il lungo balcone d'angolo del primo piano con rilievi floreali di papaveri in calcestruzzo e ringhiere in ferro battuto che rappresentano foglie di ippocastano e bacche. Gli stessi bassorilievi coronano le finestre del primo piano. Al secondo piano ritroviamo le ringhiere in ferro battuto mentre le decorazioni intorno alle finestre sono di tipo geometrico.
All'ultimo piano le finestre hanno il profilo superiore curvilineo e diventano quasi delle bifore, mentre permane la decorazione floreale nelle ringhiere. Una cornice racchiude la fascia pittorica con motivi floreali presente nel sottotetto.
Alcuni tondi che decorano le finestre del secondo e terzo piano hanno una colorazione a smalto.di e arancioni.
L'ultima parte di questa palazzina si discosta da tutto il resto.
Il piano terra è occupato da un negozio mentre i piani superiori sono occupati da tre finestre affiancate, quasi delle bifore, che presentano un coronamento curvilineo. Al primo piano notiamo un balcone, realizzato in ferro battuto, con la ringhiera a motivi floreali riproducenti foglie di quercia.
Ritroviamo la stessa decorazione nei balconcini dei piani superiori mentre un bassorilievo decora il sottotetto.
Sono interessanti i due pilastri che racchiudono la facciata: a fianco del balcone del primo piano, infatti, troviamo due tondi a bassorilievo contornati da pigne e aghi di pino mentre una ricca decorazione conclude in alto i pilastri stessi.
L'edificio si articola intorno a un cortile rettangolare; tre lati sono a tre piani , mentre il fabbricato collocato nel lato di fondo è a un solo piano.

Casa Subinaghi si trova nel centro abitato, integrato con altri edifici.
Casa Subinaghi è un'elegante palazzina, forse progettata dall'architetto Maisetti, che si sviluppa prevalentemente in altezza. L'ingresso del negozio posto al pianterreno è caratterizzato da eleganti pilastri decorati da foglie d'edera che sembrano uscire dal calcestruzzo. Tipicamente Liberty sono anche i capitelli floreali.
Il primo piano presenta un lungo balcone con decorazioni floreali a bassorilievo e una ringhiera curvilinea rifinita con vetri colorati.
La stessa decorazione si ripete nei balconi poco sporgenti presenti nei due piani superiori.
Una fascia pittorica decora la curva zona del sottotetto.

Casa Arosio, una delle palazzine Liberty più eleganti di Lodi, è sorta come sede del Cinema Mignon, su progetto dell'ingegnere Piontelli.
Sulla facciata sono presenti elementi caratteristici Liberty: dalla decorazione pittorica e scultorea floreale, alle vetrate colorate, al ferro battuto.
Al piano terra le parti superiori delle vetrine conservano vetri colorati gialli, verdi e blu.
Subito sopra corre una fascia marcapiano riccamente decorata: si possono notare anche splendidi mascheroni (forse teste di leoni o di fauni) anteposti a cetre, antichi strumenti musicali spesso identificativi delle muse dell'arte e della musica.
Al di sopra corre la decorazione pittorica che ha come soggetto tralci di rose.
Ritroviamo gli stessi fiori in calcestruzzo sugli angoli delle cornici delle finestre e sul lungo balcone.
La ringhiera invece si stacca dal contesto naturalistico, diventando quasi astratta.
Il lungo balcone del piano superiore presenta rose in bassorilievo solo sugli angoli inferiori, mentre la ringhiera riprende il motivo del piano sottostante.
 
Villa Braila fu ideata nel 1901 dall'architetto Gallavresi ed è ora sede di Associazioni e di una sede distaccata della Biblioteca Laudense. L'imponente costruzione si sviluppa su tre piani fuori terra ed uno seminterrato, ed è circondata da un ampio parco riccamente piantumato, le annesse scuderie e la casa dei custodi. La villa vera e propria, situata in mezzo al parco, conta diverse aperture tra cui la principale sul lato est, preceduta da un porticato ligneo con solaio a cassettoni decorato con motivi floreali e sostenuto da colonnine in cemento armato. Le diverse aperture in questo lato (sette portefinestre e otto finestre, accostate a bifore ed intervallate da decorazioni con soggetto naturalistico) sono chiuse da serramenti in legno o inferriate. La decorazione ricorre anche su altri lati che presentano ulteriori motivi ornamentali: su quello sud il balcone, l'unico della villa, presenta una ringhiera in ferro battuto che richiama il disegno delle inferriate di alcune finestre; sul lato ovest si staglia, invece, un alto porticato vetrato a veranda, sempre sorretto da colonnine in cemento armato.
Il quarto lato presenta l'ingresso di rappresentanza sopra al quale posiamo leggere la scritta, voluta dagli antichi proprietari, "Domus Amica".
Altri elementi Liberty sono le inferriate delle finestre delle cantine e la fascia pittorica che, all'altezza delle finestrelle dell'ultimo piano, gira tutto intorno all'edificio.

Il Ponte sull'Adda ad archi ribassati che, attraversando il fiume, collega il quartiere Borgo Adda con Revellino-Campo di Marte. Fu costruito nel 1864 per rimpiazzare l'originario ponte di legno dove si svolse la battaglia di Lodi, bruciato dalle truppe austriache nel 1859, durante la seconda guerra di indipendenza.

La sua struttura, costituita da otto archi in muratura a sostegno del piano stradale, fu realizzata nel 1864; doveva rimpiazzare l'antico ponte di legno, distrutto nel 1859.

Le prime testimonianze storiche di un'opera che permettesse l'attraversamento dell'Adda parlano di un ponte “del Fanzago” Torretta, che gli abitanti di Laus Pompeia usavano per recarsi verso Crema, Brescia e Bergamo, ma si trattava più propriamente di una passerella per pedoni.

Nel 1158, Federico Barbarossa permise la costruzione di un nuovo ponte a nord-est della nuova città; fu eretto dall'architetto Muzio della Gatta e divenne fonte di guadagno per i lodigiani.

Cento anni più tardi, nel 1258, fu edificato un secondo ponte a Vallicella (Borgo Adda), in corrispondenza dell'attuale via XX settembre.
Durante la Guerra tra gli Sforza e la Repubblica di Venezia, nel 1447, i veneziani entrano vittoriosi in città attraversandolo, ma con la Pace di Lodi, l'esercito dovette lasciare la città.

Nel 1454, Francesco Sforza fece erigere un nuovo ponte, ma già nel 1473 Andrea da Foligno, ingegnere ducale, dovette procedere a lavori di riparazione; all'inizio del Cinquecento il ponte fu distrutto nuovamente, ma venne ricostruito molte volte già a partire dal 1508, come ponte di barche.

Nel 1649 transitò sul ponte Marianna d'Austria, figlia dell'imperatore Ferdinando III, la quale stava andando in Spagna da Vienna per sposare Filippo IV. In suo onore furono fatti festeggiamenti speciali.

Il 10 maggio 1796 Napoleone vi combatté contro l'esercito austriaco, in quella che rimase nella storia come la battaglia del ponte di Lodi. All'epoca il ponte di legno era lungo circa 200 metri e largo 8. Era formato da 57 campate, 31 delle quali poggiavano nel corso principale del fiume e altre 5 in un ramo secondario, le rimanenti poggiavano su terra.

Nel 1859 durante la seconda guerra di indipendenza, gli austriaci bruciarono il ponte che fu ricostruito in cotto, su progetto dell'architetto Gualini di Milano, nel 1864, 15 metri più a monte rispetto al precedente. Il nuovo ponte, dal 1880 al 1931, fu percorso dalle tranvie interurbane per Bergamo e Soncino.

Nel 2000 furono realizzate due passerelle ciclopedonali. Nel novembre dell'anno seguente venne inaugurato un secondo ponte, 500 metri più a sud.

Porta Cremona, nota anche come Porta Cremonese, è l'unica rimasta tra le antiche porte di accesso alla città, impiegate per secoli come barriere daziarie.

In epoca medievale, per accedere alla città da sud bisognava attraversare un ponte levatoio sulla roggia Molina, e quindi la porta detta "cremonese". Per difendere e controllare il territorio della sottostante palude di Selvagreca, l’imperatore Federico II, nipote di Federico Barbarossa, nel 1234 fece erigere in questa zona anche un castello che ebbe però vita breve: dopo la morte dell'imperatore, nel 1251 i milanesi, entrati in città con l'aiuto di Sozzo Vistarini, ne imposero la distruzione. Al giorno d'oggi, dalla scalinata che porta il nome dell'imperatore si può vedere una torretta di guardia, detta specola. La porta cremonese presenta tre ingressi: quello centrale veniva utilizzato dai carri con le merci e dai nobili a cavallo, e veniva chiuso con un portone in legno al tramonto, i due laterali erano riservati ai pedoni. L'aspetto attuale è dovuto al completo rifacimento realizzato tra il 1790 e il 1792 dall'architetto Antonio Dossena.

La barriera daziaria a Lodi venne abolita il 30 aprile 1911, in esecuzione della deliberazione del Consiglio Comunale del 23 aprile 1910; a ricordo dell'evento venne posta sulla Porta una lapide commemorativa.





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lunedì 11 maggio 2015

LE FRAZIONI DI BAGOLINO : PONTE CAFFARO

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Ponte Caffaro è una frazione del comune di Bagolino ed è posta a nord del Lago d'Idro nella piccola piana chiamata Pian d'Oneda, dove i fiumi Chiese e Caffaro si immettono nel lago. È il luogo dove si combatté il 25 giugno 1866 la battaglia di Ponte Caffaro tra le forze garibaldine e austriache.

Il Caffaro che dà nome alla frazione fa da confine con la frazione di Lodrone di Storo (TN) in Trentino-Alto Adige.

I primi documenti scritti che riguardano Bagolino risalgono al 1.000 d.C. e "parlano" di un territorio posto a sud del paese chiamato Pian d'Oneda in località Ponte Caffaro. Questo piano, che in seguito entrerà a far parte dei territorio di Bagolino, era un luogo paludoso ed insalubre formato dal delta dei fiume Caffaro e le acque del lago d'Idro.
Verso l'anno 1100, è incerto il momento preciso, e più d'una sono le versioni, sembra che queste terre siano state donate al Monastero di S. Pietro in Monte di Serle da re franchi o longobardi che, sotto il loro dominio, rafforzarono il culto cristiano.
I Monaci ebbero il compito di bonificare il territorio e di costruirvi un ostello per i viandanti che passavano numerosi su quella strada.
Anche i bagolinesi dovevano transitare per quel luogo. Prima di costruire il ponte di Prada, l'unica via per andare a Brescia - in alternativa a quella che passava per il valico del Maniva - era rappresentata dal ponte di Romanterra; si costeggiava a destra il Caffaro sino al bivio delle Armadure, dove per la strada detta "Bagozzina" si giungeva in Pian d'Oneda.
Un'altra versione vuole che queste terre siano state affidate ai Benedettini dagli Uomini di Storo, Darzo, Lodrone; Bovile e Villa di Ponte, antichi paesi scomparsi in seguito ad inondazioni, che nell'anno mille all'incirca avrebbero incaricato i Monaci di sanare l'intero Piano e di costruirvi un Ostello ed una Chiesa in onore di S. Giacomo.
A comprova di ciò il Panelli asserisce che la notizia era riportata in una lettera da lui trovata, scritta da un certo G. Bonardelli, il 20 marzo 1597, al parroco Manzoni.
L'unico brano di questo invito, che si data intorno all'anno 1000 è quello trascritto dal Panelli nel suo manoscritto:
"... rogamus vos domine Pater Abbas de Monte, ut veniatis in locus nostri de casalis et ibi edificetis ecclesia et Monasterum in onore sti Jacopi apostoli Majori, et ibi permaneatis laborando in honore Dei... "
Un altra testimonianza dice che i Monaci subentrarono solo verso il 1213 poiché sino a quell'anno l'intero piano era affittato ad un certo Petro de Tosino ed altri di Anfo, con un canone di 8 libre d'argento in moneta milanese (Odorici).
Di fatto i Benedettini iniziano la bonifica cercando di risanare tutta la zona con ampie piantagioni di ontani (ones) che daranno poi il nome a quella terra: Pian d'Oneda. I Benedettini costruiscono anche una chiesa che viene dedicata a S. Giacomo patrono dei pellegrini, ed un ospizio gratuito ("Xenodochio'9 per dare rifugio e ristoro ai tanti viandanti che transitavano per quella strada.
I contadini che aiutano i Monaci a coltivare il Piano abitano in piccole cascine dette "caselle" che sorgono vicino alla Chiesa.

Dal 1861 al 1918 qui vi passava il confine tra Regno d'Italia e Austria Ungheria, dopo che per secoli era stato il punto di confine tra Repubblica di Venezia, a cui fu sempre fedele e Contea principesca del Tirolo, dopo la parentesi napoleonica fu confine tra il Lombardo Veneto e l'Impero d'Austria.

A Ponte Caffaro ogni anno si svolge una nuotata di 2 km nel lago d'Idro e una manifestazione velistica nazionale. Nella frazione si trova la Chiesa di San Giacomo di cui si hanno notizie dall'IX secolo.

Nei pressi si trova il sacrario militare di Monte Suello che ricorda il luogo della battaglia fra garibaldini e austriaci.

Dopo la bonifica del Pian d'Oneda completata nel 1863 si rende necessaria, causa l'aumento dell apopolazione stabile, la costruzione di una nuova chiesa in luogo del millenario eremo di San Giacomo ormai insufficiente e situato fuori muro rispetto al nucleo del paese.
La decisione viene presa nell'inverno del 1873 da un gruppo di padri di famiglia riuniti in casa del curato.
A donare il terreno su cui sorgerà la parrocchiale è la signora Bignota ved. Scalvini mentre il progetto viene affidato all'architetto Pellini di Varese che disegna la chiesa su copia del duomo di Breno. Alla costruzione concorre il popolo che offe calce e sabbia in misura sufficiente anche per le murature dell'anno dopo. Manovali e muratori, a titolo gratuito, scavano le fondamenta; in meno di due mesi i muri della parrocchiale sono già alti m. 1.20 con una minima spesa di L 830. Sopravvengono difficoltà finanziarie talchè viene organizzata una questua in loco e nei paesi vicini che porta i suoi frutti: la Fabbriceria di Bagolino offre un assegno di L 1.100; i f.lli Fenoli raccolgono offerte in piante di larice e abete necessarie per i lavori; il parroco di San Giacomo rinuncia al suo stipendio che versa al Comitato, al suo vitto provvedono a turno le famiglie del paese. Nel limite della loro disponibilità le donne donano le uova che in quei tempi difficili costituiscono preziosa moneta di scambio per piccoli acquisti (bottoni, refe, ecc.); seguono altre offerte anche dai paesi vicini.
Grazie ai numerosi contributi la Parrocchiale viene portata a termine nell'anno 1880:
A ricordo dei lavori resta un'epigrafe scritta sull'arcata del volto:

ERECTIONI PERVENIT
OPTATIS AUSPICATISQUE
DIEBUS JIUBILEI EPISCOPALIS
PII PAPAE IX

La nuova chiesa è ancora congiunta con la Parrocchiale di Bagolino da cui dipende e bisognerà attendere sino all'anno 1958 quando, con il decreto ufficiale del Vescovo Giacinto Tredici, la chiesa di Ponte Caffaro viene eletta a parrocchia indipendente e divisa dalla Parrocchiale di San Giorgio in Bagolino.

All'erigenda chiesa di Ponte Caffaro che prende il titolo di Parrocchiale di san Giuseppe, informa il Dionisi, vengono assegnati beni mobili per l'importo di di L 1.200.000 e beni immobili quali: casa di canonica abitazione mapp. n. 8376; terreno al mapp. n. 3995 prato arborato di Ea. 023.90; mapp. n. 9625 (fabbr. acc. urbano Ea. 0.0010 R.D - R.A..) ceduto dalla fabbriceria parrocchiale di Bagolino.

A ricordo di questo avvenimento il decreto vescovile recita: "in memoria di questo dismembramento ed erezione ed in segno di riconoscenza verso la chiesa matrice di San giorgio in Bagolino, quello che sarà il Parroco di San giuseppe in Ponte Caffaro inviterà il Parroco di Bagolino nel giorno del titolare o in altra festa solenne a celebrare la S. Messa ed a cantare i Vespri".

Conserva gli affreschi del Trainini che adornano il presbiterio ed i medaglioni della volta ed una tela di Josephus Salviatus (G. Porta) che rappresenta la Madonna col Bambino.

E' documentato che a Ponte Caffaro, in cima alla strada dei Palus, vi era una chiesetta dedicata a San Valentino, protettore contro le febbri maligne che infestavano la zona.
La chiesetta era ancora esistente nella seconda metà del secolo XVII. Un estimo sel Pian d'Oneda del 1674 da le misure e la pianta della chiesa, braccia 11x6, e della sacrestia, braccia 7x6".
Fappani cita anche il testamento di Francesco q. Vincenzo Fanzoni detto Gogella (luglio 1705) dove si legge che vengano disposti 100 troni per San Valentino "che si va fabbricando".
Dopo che un'inondazione del Caffaro avvenuta nel 1840 distrugge la chiesetta, il culto di San Valentino viene trasferito in una cappella di San Giacomo ora adibita a sacrestia.

L'Eremo di San Giacomo situato sull'antica strada reale che conduce nel Trentino si presenta, oggi, come un insolito quadro d'altri tempi.
Fondato verso il decimo secolo, unitamente ad un ostello per pellegrini, dai monaci Benedettini di San Pietro in Monte Orsino di Serle che avevano il compito di bonificare la zona.
La chiesa è ricca di storia data la sua ubicazione: costruita su terra di confine fu spesso il centro di violente contese tra il Comune di Bagolino ed i Conti di Lodrone che, come signori dei luoghi, rivendicavano il possesso del Pian d'Oneda, terra su cui sorge la chiesa.
San Giacomo rivestì sempre una grande importanza per la diocesi di Trento che già nel tredicesimo secolo, in persona del Vescovo Vanga, sollecitava i fedeli con indulgenze per ottenere elemosine ed aiuti per restaurare la chiesa e l'ostello. I bagolinesi si occupavano del mantenimento della chiesa e pagavano ogni domenica un curato perché celebrasse una messa in San Giacomo; il Comune si faceva carico di nominare un "massaro" che provvedeva ad amministrare la chiesa ed i beni annessi, compresa l'osteria.
Si elencano di seguito alcuni eventi nei quali fu coinvolta questa chiesa:

24 LUGLIO 1475: i Lodrini portano un loro sacerdote a celebrare la messa e i bagolinesi vengono presi ad Archibugiate. Il giorno dopo, festa di San giacomo, i bagossi si presentano armi alla mano e i Conti devono allontanarsi.

25 LUGLIO 1476: i Conti di Lodrone tentano di impedire la celebrazione della festa del patrono: i bagossi scendono nel Piano con 300 uomini armati, ma i Lodroni se ne sono già andati.

16 APRILE 1477: la Serenissima intima, pena una multa di mille ducati a Bagolino e di duemila ai Lodroni, la cessazione di lotte e uccisioni tra i contendenti.

ANNO 1520: per permettere la festa del patrono i Conti di Lodrone pretendono dal Comune la somma di 60 ducati; Bagolino si oppone. I Lodroni allora si portano in San Giacomo e ivi feriscono un oste e la moglie. La repubblica di Venezia, informata dell'accaduto, attua l'embargo e vieta il passaggio sul suo territorio delle vettovaglie dirette ai Lodroni. I Conti sono costretti a patteggiare con i bagossi.

28 LUGLIO 1535: il Comune, rimarcando l'importanza politica e religiosa che aveva la chiesa di San Giacomo, arriva addirittura ad imporre multe salate ai paesani che non partecipano alla festa del Patrono.

5 AGOSTO 1535: i Conti di Lodrone pugnalano nell'ostello di San Giacomo, un certo Giovanni Ambrosi di Bagolino.

ANNO 1569: non solo i rappresentanti di ogni famiglia devono portare armi proprie, ma il Comune stesso elegge annualmente i "capi per la festa di San Giacomo" e altri uomini a quali vengono date delle armi che nell'anno 1569 erano: tre armi d'asta, cinque archibugi, uno schioppo. In più venivano eletti appositi incaricati con il compito di potare le bandiere e "sonar li tamburi".

16 FEBBRAIO 1636: viene tolto l'interdetto voluto per motivi politico-amministrativi dal Vescovo di Trento E. Madruzzo, nel 1633, che impediva di celebrare la messa in San Giacomo.

I bagolinesi continuarono a frequentare la loro antica chiesa che ancora nella seconda metà dl diciannovesimo secolo ospitava stabilmente fino alla costruzione della nuova chiesa di San Giuseppe in Ponte Caffaro, un coadiutore parrocchiale dedito a celebrar messa, alle confessioni, ai battesimi, alla predicazione cristiana e all'insegnamento scolastico.

La chiesa millenaria si presenta con la facciata a capanna ed un pronao a tre arcate, aggiunto nel 1600, che reca ancora tracce di antichi affreschi; all'esterno del portico, sulla destra, compare un grande San Cristoforo mentre, al centro, vi era il leone alato simbolo di Venezia. Il campanile, della seconda metà del diciannovesimo secolo, alto sei metri, sostituisce quello più vecchio, alto solo tre metri, che non permetteva al suono delle campane di raggiungere tutti gli abitanti del Piano. L'antico ostello posto accanto alla chiesa reca impresso, sulla porta, lo stemma di Bagolino.

Della primitiva costruzione la chiesa, a navata unica, conserva l'abside ed i gradini che discendono nell'ex cappella dedicata al culto di San Valentino, oggi sacrestia.

La navata, con le capriate del tetto sostenute da due archi, riceve una pioggia di luce dalle finestre che corrono alte lungo le pareti della chiesa. L'interno spoglio e suggestivo nella sua semplicità, conservava chiusa nella soasa lignea dell'abside una preziosa tela, ora nella parrocchia di Ponte Caffaro, unica opera rimasta in territorio bresciano del pittore Josephus Salviatus (G. Porta). Il quadro che raffigura la Madonna col Bambino ed i Santi marco, Filippo Valentino e Jacopo è stato acquistato dal Comune di Bagolino nell'anno 1568.

L'altare di sinistra era dedicato alla Madonna di San Luca e conservava un dipinto, oggi collocato sull'altare maggiore, che raffigurava in copia la taumaturga Madonna di Bagolino. La coppia dipinta agli inizi del diciasettesimo secolo per il Cpnvento di bagolino, è opera del Raminca (pittore locale). Questo quadro sfuggito al saccheggio del Convento avvenuto durante il tempo della Cisalpina, dopo alterne vicende, viene donato alla chiesa di San Giacomo nel 1860 dai discendenti di M. Dagani detto "Scagn" che, nel frattempo, ne erano venuti in possesso.

Sotto la sacrestia di sinistra si può vedere la cappella dedicata ai santi Filippo Neri e Antonio da Padova.
Interessanti sono gli affreschi della volta.
Ricca e armonica è la soasa dell'unico altare che racchiude una tela con i due Santi e la Vergine.




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domenica 19 aprile 2015

IL CIVICO MUSEO PARISI VALLE A MACCAGNO

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Il Parisi-Valle di Maccagno è il “museo-ponte”. Un nome che deriva dalla struttura architettonica progettata da Maurizio Sacripanti che ha particolare valenza simbolica perché unisce Maccagno Superiore e Maccagno Inferiore, fino a quel momento divise dal fiume Giona. L'idea di fondare un museo così avveniristico a Maccagno, piccolo comune della provincia di Varese che conta soli 2200 abitanti, iniziò a prendere corpo nel 1977. Quando Giuseppe Vittorio Parisi, un artista nato a Maccagno nel 1915, una volta divenuto docente e operatore di ricerca visiva, tornò nel suo paese natale per una vacanza. Rimase talmente affascinato dall’ambiente che iniziò subito a dare corpo all’idea di creare un museo che fosse portatore già nella sua struttura di un messaggio culturale. Nel 1998 ne fu ultimata la costruzione e nel 1992 il "museo-ponte" ottenne il "Premio Nazionale IN/ARCH 1991-92 per un complesso edilizio direzionale, culturale e di servizio". Un riconoscimento prestigioso assegnato da una commissione giudicatrice composta dagli architetti Giuliano Gresleri, Sergio Lenci, Manfredi Nicoletti, Enzo Zacchiroli e Bruno Zevi. Particolarità dell’edificio è quella di riuscire a intrecciare elementi naturali (acqua, aria, cielo, alberi) e renderli materiali costruttivi dell'architettura. Il progetto di Maccagno di Sacripanti si collega ad altri celebri lavori dell’artista, tutti testimonianza del piacere per la mutazione, l'invenzione continua, l'oscillazione tra razionalismo e organicismo, l'incompiuto e la creazione aperta. La collezione permanete, donata da Parisi-Valle, comprende complessivamente 2085 opere, tra cui spiccano le firme di Guttuso, Balla e Birolli. In questi anni il museo non ha smesso di crescere e ha acquisito Morandini, Tadini, Rognoni, Longaretti. Ogni anno, inoltre, il museo ospita quattro o cinque mostre che portano i riflettori sulla struttura e allargano il respiro della collezione permanente.

Le 2085 opere presenti si dividono in 915 grafiche, 439 bidimensioni e 325 tridimensioni e rappresentano una gran parte della produzione artistica italiana intercorsa tra gli anni Trenta e Ottanta del secolo scorso.

Oltre alle opere di Parisi, rivolte all’arte informale e alle arti visive, il Museo espone disegni, dipinti e sculture di artisti dell’avanguardia artistica del calibro di Balla, De Chirico, Picasso, Fiume, Guttuso.

Numerose sono inoltre le manifestazioni culturali e artistiche che si susseguono durante tutto l’arco dell’anno, tra queste la manifestazione annuale “Acquisizioni”, in occasione della quale vengono presentate le nuove opere che verranno successivamente conferite al Civico Museo di Maccagno.







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LE CITTA' DEL LAGO MAGGIORE : MACCAGNO

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Maccagno è un ex comune italiano della provincia di Varese in Lombardia, dal 4 febbraio 2014 frazione del comune di Maccagno con Pino e Veddasca (di cui è sede municipale).

Il paese vanta una storia del tutto particolare, che ne ha fatto per quasi un millennio un'entità giuridica di natura quasi statale.

Per comprendere la storia di Maccagno bisogna innanzitutto considerare l'elemento di divisione geografica del nucleo urbano, escluse quindi le frazioni esterne, rappresentato dal torrente Giona. Il primo insediamento abitativo si sviluppò sul lato meridionale del fiume, e fu questa Maccagno ad accogliere, nel 962, l'imperatore Ottone I, impegnato nelle guerre di dominio contro il Re d'Italia Berengario I. Se è forse da ascrivere a leggenda il fatto che i maccagnesi addirittura salvarono la vita all'augusto sovrano nel corso di una tormentata traversata del Verbano in cui la barca dell'imperatore sarebbe stata sorpresa da un temporale, è certo che il soggiorno di Ottone in paese fu tanto ben allietata dagli abitanti che alla località fu concesso un diploma che la definì "curtis imperialis", autonoma e sovrana e successivamente concessa ai conti Mandelli.

Nel Basso Medioevo la crescita edilizia del villaggio portò le prime case edificate a nord del Giona, che tuttavia segnava il limite del territorio privilegiato concesso da Ottone: fu così che si originò quell'originale divisione in cui Maccagno visse per quasi mille anni. A sud del Giona prosperò Maccagno Inferiore o Maccagno imperiale, comune libero imperiale che godette di totale autogoverno amministrativo rispetto alle varie autorità che si avvicendarono nei secoli, e che ingaggiò con i sovrani di Milano una mai risolta lotta nel rivendicare addirittura un autogoverno politico; a nord del Giona si evolse invece il Comune di Maccagno Superiore, un normalissimo municipio che seguì le vicende secolari della Pieve di Val Travaglia in cui era inserito.

Nel 1622 Giacomo III Mandelli - conte di Maccagno imperiale - ebbe dall'imperatore Ferdinando II la conferma del diritto di coniare monete nel suo feudo, già riconosciuto da Carlo V. Nel 1692 Carlo Borromeo, marchese di Angera, acquisì il feudo da Gian Battista Mandelli e mantiene la concessione imperiale del diritto di zecca fino alla soppressione dei feudi imperiali nel 1798 con il marchese Giberto Borromeo (1778-1837). Fu infatti l'arrivo di Napoleone a cancellare la peculiare condizione di Maccagno: seguendo i dettami politici e ideologici della Rivoluzione francese che vedevano nel feudalesimo un retaggio anacronistico del Medioevo, il generale corso fece anche di Maccagno Inferiore un normale comune della Repubblica Cisalpina, abolendone ogni privilegio ed autonomia.

La cancellazione del feudo imperiale non coincise però con quella delle autorità comunali, dato che gli austriaci al loro ritorno nel 1815 emanarono un decreto, anch'esso ispirato da motivi ideologici seppur contrapposti a quelli napoleonici, che riportò tutti i comuni della Lombardia alla loro giurisdizione esistente vent'anni prima. Le due Maccagno continuarono dunque la loro vita separata, e come tali sopravvissero anche dopo l'unità d'Italia. Fu il fascismo a chiudere definitivamente un anacronismo storico, riproponendo i decreti napoleonici che erano stati cancellati dagli austriaci: fu così che nel 1927 Maccagno Superiore annesse Maccagno Inferiore, come pure Campagnano, Garabiolo e Musignano, divenendo successivamente e semplicemente Maccagno.

Durante la Seconda guerra mondiale, nel periodo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, il maresciallo dei carabinieri Enrico Sibona, nato a Torino nel 1904 e in servizio a Maccagno dal 1939 al 1946, protesse dalla deportazione alcuni ebrei lì residenti, favorendo la loro fuga. Tradito da un delatore, Sibona fu internato in un campo di concentramento tedesco dal quale a stento sopravvisse. Per questo suo impegno di solidarietà, pagato a così caro prezzo, il 4 ottobre 1992, l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito al maresciallo Sibona l'alta onorificenza dei giusti tra le nazioni.

Nel 1955 ha ceduto la frazione di Colmegna al comune di Luino.

Dal 4 febbraio 2014, a seguito di un referendum consultivo tra la popolazione, il comune di Maccagno è stato sciolto ed è confluito, insieme con quelli di Pino sulla sponda del Lago Maggiore e Veddasca nel comune di Maccagno con Pino e Veddasca.

Il borgo, sino a qualche decennio fa, era diviso in Inferiore e Superiore dal torrente Giona: i due paesini avevano vita amministrativa autonoma; ancora adesso la differenza fisica dell'impianto urbanistico è rilevante. Caratteristica la Contrada Maggiore, il nucleo antico del borgo, dalle strette viuzze gremite da case addossate, dominata da una Torre imperiale e dal piccolo santuario della Madonnina della Punta (sec. XVI), sorretto da poderose arcate, a balcone sulla scintillante distesa del lago: da qui si scorgono i Castelli di Cannero, posti su di un isolotto poco discosto dalla riva piemontese.
L'abitato di Maccagno superiore, più moderno, è sede del Municipio. Degna di nota la Casa Branca, con cortile a loggiati. Ma ciò che conquista di Maccagno è il panorama mozzafiato, che consente di spaziare su quasi tutto il Verbano: dalle vette del Canton Ticino, al golfo Borromeo. La spiaggia, creata dal Giona, è introvabile altrove, per la lunghezza e la profondità: è un luogo privilegiato, tra i molti splendidi centri turistici del Verbano. Per ammirare tali bellezze, ogni anno, migliaia di turisti arrivano a Maccagno; li ospitano diversi alberghi, due campeggi attrezzati e numerose case per vacanze.
A partire dal 1979 in un avveniristico edificio-ponte gettato sul Giona è stato realizzato il Civico Museo Parisi Valle, che ospita la collezione d’arte moderna donata dal suo ideatore: Giuseppe Vittorio Parisi. Fra le manifestazioni ricorrenti, il “risotto con luganega” che si può gustare ogni Carnevale. Recentemente il Comune dispone, anche per gli eventi e le manifestazioni cittadine, di un edificio polifunzionale, il Parco delle Feste.
Nel 1971 entra in funzione la Centrale elettrica di Roncovalgrande (centrale ENEL), situata lungo la statale 394, a nord dell'abitato di Maccagno, alimentata dalle acque del Lago Delio: è possibile visitarla su prenotazione.

Da Maccagno partono diversi sentieri che si snodano nelle valli circostanti: sono descritti in base alla lunghezza, al grado di difficoltà e all’abilità richiesta. Alcuni di essi sono percorribili in mountain bike. Le cartine dei sentieri sono reperibili presso l’ufficio turistico locale. Chi predilige gli sport acquatici deve sapere che il paese rappresenta uno dei migliori campi di regata dell'intero Lago Maggiore, la posizione ventilata rende inoltre lo specchio d'acqua antistante il borgo uno dei luoghi favoriti per gli amanti del windsurf e della vela. Per i pescatori è utile sapere che il comune ospita una società di pesca sportiva, denominata “La Madonnina”.



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martedì 7 aprile 2015

IL CASTELLO DI DESENZANO

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Il castello che domina la città, sorto su un castrum romano a difesa delle invasioni barbariche, fu ricostruito in epoca comunale e rafforzato nel XV secolo, quando racchiudeva 120 case ed una chiesa dedicata a S. Ambrogio. Dell'imponente costruzione restano le mura, percorse nel perimetro da quattro torri, ed il mastio d'ingresso con i resti di un ponte levatoio. Alla fine dell'800 fu trasformato in caserma, in funzione fino al 1943.
Il recupero delle mura permette la visita del camminamento di ronda e la salita al mastio d'ingresso, dal quale si gode di uno dei più bei panorami sul lago di Garda. Negli ex alloggi degli ufficiali sono state ricavate sale per mostre e convegni.

Il castello si presenta come un’imponente costruzione con solide mura e torri rettangolari la cui pianta segue la forma di un rettangolo con una torre massiccia che, dall’ingresso, proteggeva il ponte levatoio e serviva da punto di avvistamento per le incursioni nemiche.
Dell’antico castello rimangono solo alcune parti murarie, le quattro torri sono per la maggior parte crollate e inagibili, l’unica parte conservatasi nel tempo è la terrazza dalla quale si gode di uno dei più bei panorami del Lago di Garda.
Alla fine del Quattrocento il castello fu ampliato nella parte sud per ospitare una guarnigione militare, continuando però ad essere principalmente un rifugio per la popolazione.

Il castello è l'edificio che caratterizza l'aspetto della città di Desenzano, sia che la si visiti  arrivando dall'entroterra, sia che la si guardi dal porto o dal lago.


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lunedì 23 marzo 2015

LA SCOGLIERA DEI GROSGALLI

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Scendendo verso Como, Lezzeno è preceduta da Villa Lucertola e dalla scogliera dei Grosgalli, in gran parte disabitata e ancora memore di antiche credenze legate alla stregoneria.

L'ultimo tratto di sponda verso Bellagio è quasi deserto, con pareti a strapiombo, gole e forre impressionanti: sono i Sassi Grosgalli, con il ponte del Diavolo presso una piccola galleria e la grotta dei Carpi o dei Bulberi (dal nome dei pesci che vi si rifugiano), detta oggi pomposamente Grotta Azzurra, attorno alla quale sorse nel secolo scorso una triste leggenda d'amore e di tragedia.
Le scogliere dei Grosgalli possono essere gustate appieno solamente dal lago, con le loro erosioni, i loro meandri e spaccature in cui si addentrano ombre e specchi d'acqua; la grotta dei Carpi è visitabile in barca.
 
La Grotta dei Bulberi o Grotta Azzurra, Si apre a filo dell'acqua nei pressi dei Sassi Grosgalli (nome d'origine celtica), affascinanti scogliere con pareti a strapiombo sul lago collocati sul litorale occidentale del Triangolo Lariano che da Lezzeno porta a Bellagio. La grotta del Bulberi si può raggiungere in barca ed è famosa per gli effetti di colore che vi suscita al suo interno la luce solare. Gli storici lariani ricordano che in questo antro si rifugiavano i più grossi pesci del lago, i leggendari "bulberi" (da cui prende il nome la grotta), di Paolo Giovio, grandi quanto un uomo, impossibili da catturare perché la loro mole spezzava le reti e la loro corazza di squame spezzava le fiocina.

Con un’escursione in barca fra i paesi di Lezzeno e Bellagio è possibile ammirare sia le abitazioni a mezza costa sia le pareti a strapiombo sul lago ricche di fenditure ed erosioni provocate dalle acque, veri e propri fenomeni carsici. Secondo un’antica leggenda in questi luoghi solitari e selvaggi si radunavano, per partecipare ai loro sabba, maghi e streghe. Tra le scogliere, dette Sassi Grosgalli, in prossimità del celebre Ponte del diavolo, si cela la suggestiva Grotta dei Carpi, detta anche dei Bulberi, o Grotta Azzurra. Quest’ultimo appellativo nasce dai giochi di luce delle sue acque che ricordano la celebre grotta di Capri. Nel corso degli anni alcune parti della grotta, ricca di stalattiti e stalagmiti, hanno subito parziali crolli.

Situato sulla costa della S.S. 583 tra Bellagio e Lezzeno il Ponte del Diavolo si staglia sopra una forra sovrastata da balze di calcare dolomitico del Monte Nuvolone. Il Ponte, dall'aspetto cupo e misterioso, è noto, secono leggenda, per essere stato sede di incontri esoterici con riti di stregoneria. Si tratta forse dell'unico manufatto della regia rimasto intatto, senza rimaneggiamenti. Il ponte è il punto di chiusura della strada Regia, riprendendo la provinciale verso Bellagio dopo pochi metri si incontra la fermata del bus che riporta a Como.


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martedì 17 marzo 2015

IL CASTELLO DI MELEGNANO

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Il maniero sorse nel 1243 per affrontare gli attacchi di Federico II, impegnato a conquistare Milano. Nei decenni successivi, i Visconti lo ampliarono, conferendogli la forma a quadrilatero e dotandolo di torri. Risale invece al Cinquecento il "passaggio di proprietà" alla famiglia de' Medici. Oggi la fortificazione si presenta con una pianta a U, a delimitare Piazza della Vittoria. Dei quattro corpi di fabbrica ne sono rimasti tre e solo due delle torri sono giunte a noi.

La facciata è l'unica a essere rimasta intatta, ma i restauri terminati nel 2001 hanno restituito un edificio dal fascino senza tempo.

L’origine di questo castello è da riportarsi alla crescente potenza della famiglia Visconti, signori di Milano: nel 1243 il podestà di Milano, Cattellano Carbone, responsabile della difesa della città e della campagna circostante, ordinò la costruzione di una fortezza in Melegnano. Questa fortezza venne chiamata con il nome di ”receptum”, un vocabolo che identifica un luogo dove si potessero raccogliere cose e persone, sia per difendersi che per attaccare. La fortezza fu chiamata anche con il nome di “motta”, che significa rialzo di terra formato appositamente nella pianura e munito di fosse, bastioni e torrette (Galvano Fiamma “Manipolus florum 1243: ”Isto anno receptum de Melegnano factum fuit”.  La necessità della costruzione di una fortezza a Melegnano era sorta per contrastare le offese che Federico II°, nipote di Barbarossa, portava continuamente contro Milano, attaccando dalla parte del Ticino e da quella dell’Adda. Entro questo territorio Milano dovette sostenere uno sforzo assai grande negli anni 1244-1245, ma alla fine i Milanesi riuscirono vittoriosi così che Federico II° rinunciò alla conquista della Lombardia.

Dopo gli anni della signoria milanese della famiglia dei Torriani che governarono dal 1259 al 1277, ebbe il potere Ottone Visconti nella duplice carica di arcivescovo e di capo del governo. Egli volle accanto a sé un suo nipote, Matteo, come valido collaboratore e finalmente come suo successore nel governo l’anno 1289.  Matteo con un’accorta politica divenne signore anche di Novara, Mortara, Vercelli, Vigevano e strinse patti di amicizia e di alleanza con le città di Brescia, Cremona, Piacenza, Pavia, Tortona, Genova, Alessandria, Asti. Tuttavia il suo dominio non fu senza contrasti procurati da ribelli e da perturbatori dell’equilibrio politico, ma alla fine Matteo potè essere riconosciuto pieno signore di Milano e anche vicario imperiale, cioè rappresentante dell’imperatore per la città di Milano e per tutto il territorio rurale circostante, dove tra l’altro vi era anche Melegnano.  Matteo Visconti morì l’anno 1322. Ebbe cinque figli: Galeazzo, Marco, Lucchino, Giovanni, Stefano. Giovanni Visconti, arcivescovo e capo del governo che morì l’anno 1353, aveva sotto di sé Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Bologna, Cremona, Brescia, Bergamo, Como, Novara, Alessandria, Vercelli, Alba, Asti, Genova, Savona; i suoi discendenti, dunque, ereditavano una vasta signoria.  Da Stefano Visconti invece nacquero tre figli, e tra questi il terzo era Bernabò, un nome che sarebbe diventato famoso nella storia della Lombardia e dell’Italia.

L’unico corpo fabbrica che ci è giunto intero è quello che guarda la piazza e che rappresenta la facciata.  Il lato di fondo, dunque, è tutto mancante, ma certamente esisteva e fu atterrato nella settimana dal 1° al 6 marzo 1449 da Francesco Sforza, quando colpì con le macchine da guerra e atterrò due torri e le mura che erano tra le due torri.  L’intera costruzione è sviluppata su due piani. La facciata, austera, prospiciente la piazza Vittoria, è interrotta da finestrelle quadrate al piano terreno e da grandi finestroni rettangolari al primo piano. Gli ampi finestroni sono testimonianza del passaggio, dopo il 1532, da fortezza a palazzo signorile.  In alto sotto il tetto sono visibili ancora le merlature di tipo guelfo.  Oggi è ancora visibile parte del fossato che circondava il castello, un fossato molto profondo originariamente e in comunicazione con il fiume Lambro. Oggi la fossa è parzialmente scomparsa per la terra che vi è stata buttata dentro ricavandola dagli scavi per le fondamenta delle case melegnanesi. Nelle diverse mappe la fossa è ricordata come fossa Medici, ed è rimasta la denominazione ad un’osteria collocata nella parte sinistra della facciata, chiamata osteria della fossa.  Nelle raffigurazioni più vecchie del castello appare anche, nella sua integrità, il rivellino, come avamposto offensivo e difensivo.  Oggi è ridotto a due pareti con segni di feritoie e buche per cannoni.  Il ponte, una volta era originariamente levatolo, è stato tolto e le sue tracce sono scomparse.  Attraverso il ponte in muratura - che una volta, come abbiamo detto, era levatoio - si accede al monumentale ingresso costituito da un imponente grosso arco fregiato in cotto.  Il cortile interno è diviso in tre parti ed è circondato su due lati da un porticato sostenuto da archi a tutto sesto e ricoperto da un bugnato. Il portico interno della facciata centrale conserva, sotto le arcate, i segni di abitazioni o di locali di servizio. Il portico dell’ala est, con tredici arcate e l’inizio di un’altra, era usato per le stalle ed i depositi del fieno per le cavalcature.  Il terzo lato interno, oggi nascosto da un muro divisorio, presenta archi ciechi anch’essi decorati con bugnato.  Guardando attentamente le attuali finestre si notano le tracce dei finestroni originari ribassati e aperti in corrispondenza simmetrica nella parte superiore a ogni arcata, per dare luce all’interno delle sale e dei saloni.  Alle sale superiori si arriva mediante due scale. Una è lo scalone che inizia a destra subito dopo il grande arco centrale di accesso: è formato da scaglioni di mattoni disposti a spina di pesce separati da cordoni di sasso, è così disposto per permettere la salita anche con i cavalli, per questo si chiama anche scala cavallara. La seconda scala più piccola si apre da sotto il lungo porticato ed è una scala con le pareti tutte affrescate.  Oggi il castello si presenta come la risultante di molti interventi per adattamenti, riparazioni, aggiunte e per i vari lavori che sono stati compiuti.

Secondo alcune leggende nel castello di Melegnano si nasconde il diavolo, che vi si è insinuato all'epoca della morte di Gian Galeazzo Visconti. Quando alla mezzanotte del 3 settembre 1402 il signore di Milano, rinchiuso da qualche giorno nel castello di Melegnano, morì straziato dalla peste, si dice che il diavolo fosse accanto a lui, accucciato in un angolo per rubargli l'anima, e che non se ne sia più andato.


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