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sabato 22 agosto 2015

LA VALLE SABBIA

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La Valle Sabbia è una valle prealpina situata nella parte orientale della provincia di Brescia.

Fisicamente costituisce un'unica valle con la Val di Chiese, appartenente alla Provincia autonoma di Trento.

Il suo territorio è compreso tra il Lago di Garda ad est, la Val Trompia ad ovest, le Valli Giudicarie a nord e la Pianura Padana a sud..

La Valsabbia attraversata dal fiume Chiese è bagnata dal lago di Garda e dal lago d'Idro.

Dall'ondulato altopiano carsico ai dolci rilievi morenici, dalla dura e nuda dolomia alle guglie slanciate e suggestive.
Una morfologia estremamente diversificata, quella sabbina, che trova il proprio indiscutibile fascino proprio in questo mutare dolce, graduale, raramente brusco e comunque sempre armonico.
Ne consegue una varietà e vivacità di presenze arboree ed animali, oltre che minerarie.
Interamente solcato dal fiume Chiese e dai suoi affluenti, il territorio della Valsabbia a sud si presenta come un'ampia conca. Percorrendo la strada statale che da Brescia (attraverso Virle Tre Ponti) porta verso il lago di Garda ed il Trentino, ben visibili sono le "ferite" a cielo aperto che la tradizionale attività estrattiva ha inferto agli ondulati rilievi. Il lato opposto, più a nord-est, è invece governato da alture meno pronunciate, più dolci.
Con Serle e Paitone, arroccati ad occidente, si entra nella Valle Sabbia amministrativa vera e propria. Quella che terminerà solo a Bagolino, sul confine con il Trentino, abbracciando ben 25 comuni e poco meno di 60 mila ettari di territorio.

E già a Serle si incontra la prima, importante peculiarità sabbina: l'altopiano "carsico", con le sue impenetrabili grotte, i suoi stretti inghiottitoi, le sue bianche doline.
La morfologia della zona è altamente accidentata, con una fitta rete di cunicoli sotteranei nei quali scorre abbondante l'acqua, mentre l'arida superficie, per l'assoluta mancanza di strati impermeabili, lascia filtrare le piogge erosive.
Suggestiva l'alternanza di verdi pascoli, densi boschi ed ampie radure con una presenza significativa di faggete (alcune dotate di esemplari secolari) favorite da fattori climatici specifici legati proprio all'arido microclima carsico, talora umido laddove le doline si incuneano verso il sottosuolo.
L'altopiano di Cariadeghe, così come viene chiamato, è stato dichiarato "riserva naturale" per tutelare il peculiare patrimonio ambientale e naturale (si pensi ad esempio ad una densità di doline pari a 250-300 per kmq).
Escluso dalla "riserva" è il territorio di Paitone, sebbene anch'esso presenti grotte e fenomeni carsici similari.

Seguendo il manto d'asfalto diretto verso il golfo di Salò, lasciato sulla sinistra l'altopiano di Serle, si entra nel territorio di Gavardo. Ad occidente, introdotta da una strettoia all'altezza del nucleo abitato di Sopraponte, si apre la conca di Vallio Terme, dove scorre il torrente Vrenda (omonimo di quello che percorre, più a nord, la Conca d'Oro). Sullo sfondo la cima della rocca di Bernasco ed il colle di San Eusebio.
Subito dopo, un verde lussureggiante e, in qualche caso, selvaggio, è intervallato dagli ultimi segni che manifestano il contatto con l'area carsica, più a sud, ed il gruppo montuoso del Magno, a nord.

Dal punto di vista della "costituzione" del territorio si registra infatti un graduale passaggio da stratificazioni calcaree e selciose, con interstrati marnosi, a grandi bancate della dolomia principale, responsabile di gran parte del "disegno" paesaggistico che caratterizza la zona più a nord.

Dopo Vobarno, sulla destra, sorgono i nuclei abitati di Pavone e Sabbio Sopra, che poggiano su un ampio terrazzo di origine fluvio-glaciale e mostrano, ben evidenti, massi duri scoperti dal dilavamento delle acque del fiume.

Sul lato opposto, all'altezza di Sabbio Chiese, si distende la cosiddetta Conca d'Oro, che ospita i nuclei di Preseglie, Odolo, Agnosine e Bione e che confina con Lumezzane in Valle Gobbia (valle laterale della Valle Trompia).
E' senza dubbio una delle zone più fertili dell'intera Valsabbia (e, per ironia della sorte, nella parte centrale anche una delle più industrializzate) dove scorre il torrente Vrenda.
Questo territorio è formato da una serie di falsopiani e dolci pendii; sullo sfondo, poggia su un substrato di arenarie tufacee, talvolta marnose.
Attorno, numerose cime montuose, spesso custodi di piccoli, ma secolari santuari, ancor oggi meta di pellegrinaggi devozionali.

Da Sabbio Chiese, proseguendo lungo la strada principale, si incontrano, stavolta sulla sinistra, nuovi ed ampi terrazzi fino a Barghe. Qui, sulla destra, inizia la strada che porta a Provaglio Valle Sabbia, mentre, poco più avanti, si incrocia la stretta di S. Gottardo, una delle più suggestive "forre" che, seguita da quella di Nozza, conduce a Vestone, capitale del comprensorio sabbino.
Anche in questa zona il paesaggio offre ampi terrazzi pleistocenici alluvionali, formatisi grazie al materiale che, trasportato dalle acque dell fiume, si è prima depositato e poi sedimentato ai lati del corso idrico.

Da Vestone si dipartono quattro valli laterali segnate da altrettanti corsi d'acqua: il Savallese con il torrente Nozza (che porta anche le acque del ridente laghetto di Bongi), Pertica Bassa e Pertica Alta con i corsi del Tovere e del Degnone, mentre ad oriente il territorio di Treviso Bresciano è solcato dal Gorgone.

Lasciato Vestone ale spalle, si sale a Lavenone dove si dirama la valle "selvaggia" bagnata dall'Abbioccolo.
Questo corso d'acqua segna il confine con il comprensorio lacustre dell'Eridio (o lago d'Idro), l'elemento naturalistico e morfologico che caratterizza l'alta Valle.
Scavato quasi interamente nelle rocce della dolomia principale mostra, lungo la costa, tratti particolarmente suggestivi, ed anche ameni, come il fianco orientale, verso il centro di Vesta (lascia senza fiato la vista di quelle guglie slanciate verso l'alto), ai quali si alternano tratti meno irti, come la sponda occidentale, interamente segnata dalla carreggiabile ad alto traffico che collega all'ormai attiguo territorio trentino.

Una strada, ad est di Idro, porta ai centri di Treviso Bresciano e Capovalle ed invita al giro dei tre laghi: lago d'Idro, lago di Valvestino e Lago di Garda.

Sulla sponda occidentale del lago "regna" invece il centro di Anfo, con la splendida rocca che domina l'Eridio.
Piccolo e caratteristico borgo, vanta anche, alle sue spalle, l'oasi del Baremone, raggiungibile dopo diversi chilomerti di stretta e sinuosa strada.

A nord del lago d'Idro si incontra Pian d'Oneda, l'ampia distesa, un tempo paludosa, formatasi nel corso dei secoli per accumulo di detriti e anticamente bonificata.

Ponte Caffaro, il borgo che vi si appoggia, separa il territorio bresciano da quello trentino e proprio qui il fiume Chiese si apre per confluire nell'Eridio, dopo aver accolto le risorse idriche del Caffaro, il torrente che solca l'omonimo comprensorio ricco di peculiarità naturalistiche.

Alla Valle del Caffaro, che ospita il centro suggestivo di Bagolino, vengono infatti rivolti ammirazione e sempre più qualificato interesse, soprattutto dal punto di vista ambientale e scientifico.
Di particolare rilevanza sono i laghetti alpini, come quello di Dasdana, di Vaja, del Mignolo e del Bruffione, nonché la presenza di specie rare e rarissime che, unitamente all'intrecciarsi del ricco sistema di valli e convalli, cime suggestive ed altopiani erbosi, fanno del territorio sabbino una preziosa "congerie" di sorprese.
La Valle Sabbia fa parte del comprensorio delle Tre Valli bresciane: Valle Sabbia, Valle Trompia con la laterale Valle Gobbia o Valle di Lumezzane e Valle Camonica.

Sin dal lontano Medioevo, i Valsabbini hanno attivamente partecipato agli avvenimenti della Città di Brescia, collegandosi molto spesso alle iniziative dei vescovi per condizionare l'influenza delle grandi famiglie di stampo feudale.
In tutto il periodo che va, all'incirca, dal mille fino all'affermarsi del dominio della Signoria viscontea prima e della Serenissima Repubblica poi, è un susseguirsi di vivaci interscambi tra la Valle Sabbia e la Città di Brescia, con il consolidarsi di un forte legame.
Ed anche con il progressivo estendersi dello Stato veneto, la terra valsabbina si vede riconosciuto un ruolo misurato nelle agevolazioni che ottiene nel campo economico e nell'amministrazione.
Per comprendere meglio la "vocazione" al confronto, tipica di questa terra, e la disponibilità a ricevere messaggi innovativi, bisogna far riferimento alla geografia.
La Valle Sabbia, o meglio l'insieme delle convalli che la compongono, a sud si salda al circondario bresciano, sino a confondersi con il suburbio.
A est si affaccia sulla Riviera di Salò, diventandone quasi naturale coronamento, vicino agli orizzonti veneti.
A nord si distingue dalle Valli Giudicarie più per una convenzione politico-amministrativa che per una reale diversità geografica.
Se a tutto ciò si aggiunge la strada di fondovalle, di grande comunicazione, che fino al secolo XVI è stata una delle vie più battute per il collegamento fra la Val Padana ed il mondo germanico, il quadro risulta completo.

Appare così un territorio continuamente coinvolto nelle vicende di Brescia e della Val Padana in generale, sensibile agli influssi veneti per la vicinanza a Verona e, nel medesimo tempo, aperto verso il Trentino e le suggestioni nordiche in senso lato.

La storia valligiana va letta tenendo sempre presente quest'ottica che è di fondamentale importanza per capire l'indole della gente, l'esperienza stessa del "vivere valsabbino" attraverso i secoli.
E naturalmente il patrimonio artistico locale, notevole per qualità e diversificato, risente di questa posizione geografica privilegiata, cosicché è possibile, attraverso un'analisi complessiva, cogliere influenze diverse nelle molte testimonianze di ingegno che ancora costellano i paesi.
Prioritariamente da questa analisi emerge un aspetto. Nel suo complesso la Val Sabbia è sempre stata capace di dare risposte in termini di produzione artistica anche autonoma.
L'ingegno finissimo della sua gente ed, in specie, dei suoi artisti si è sempre mosso con celerità nel riferirsi al mutamento dei gusti, sollecitato da correnti esterne, ma nel medesimo tempo ha saputo elaborare in maniera autonoma ed originale ogni spunto, ogni "provocazione" culturale.
È una produzione che attinge a ciò che si muove nel più vasto panorama extravalligiano e nel contempo è pure l'espressione di una "vocazione" locale per il gusto del bello, concretizzato nella realizzazione di opere importanti in tutto quel vasto contesto che va sotto il nome di "mondo artistico" e che abbraccia le manifestazioni di un altissimo artigianato nella lavorazione della pietra, del ferro e del legno.

Così il patrimonio artistico valligiano, non adeguatamente valorizzato e conosciuto, annovera, accanto ad espressioni popolaresche e locali, mai banali, autentici capolavori che, ad uno studio attento, permettono di far rivivere quella sottile e persistente maglia di intrecci ed influenze che hanno, nel corso dei secoli, legato la "valle dell'arte" al più vasto contesto dell'alta Italia, sconfiggendo così l'ipotesi di una "provincialità" del territorio valsabbino.

Delle antiche chiese delle Pievi rimane quasi nulla, perchè le trasformazioni successive ed, in particolar modo, la foga costruttiva dal Concilio di Trento in poi hanno sepolto, sotto le movenze di un barocco elegante, le severe linee delle primitive costruzioni.
Qualche traccia però sopravvive e basta per riportare la memoria del visitatore nel tempo in cui, nelle città della pianura Padana, sorgevano le grandi cattedrali romaniche, emblemi di una robusta concezione spirituale e nel medesimo tempo sintesi ideale del vivere civico.
Certo il romanico della Valle Sabbia, come nei diversi contadi, si piega ad una intuizione più popolare o, per meglio dire, campagnola.

Anche l'architettura civile residua dei secoli XIII e XIV abbonda di richiami a tipologie ed a motivi decorativi tipici in un'epoca come quella che segna il passaggio fra il mondo comunale, dominato dalle grandi moli romaniche, e l'affermarsi delle Signorie con il primo affacciarsi di elementi stranieri ed umanistici.
Valgano, come esempio assai significativo, le case torri di Ono Degno che presentano, frammisti insieme, decorazioni romaniche, elementi gotici ed affreschi quattrocenteschi, il tutto dominato da sculture-simbolo, enigmatiche teste di raffigurazioni umane e fantastiche, quasi a suggellare l'attività delle famiglie che vollero lacostruzione.

Il Trecento ed il Quattrocento sono straordinari per la Val Sabbia.
Per le sue contrade si spostano artisti di diversa provenienza. Specialmente nella pittura abbondano le testimonianze di presenze assai qualificate.

Arroccata tra i monti, aperta verso la Val Trompia e la Valcamonica attraverso passi impervi e spesso impediti, la comunità di quel borgo, assai ricca di commerci, chiama, di volta in volta, nel corso dei secoli, artisti di diversa provenienza, operanti nell'ambito di diverse scuole, non fermandosi all'offerta che avanza dalla città di Brescia e dai suoi circoli culturali.

Mentre le chiese poste in località significative per geografia e per importanza economica si arricchiscono di cicli pittorici importanti, per tutto il Quattrocento e per gran parte del Cinquecento c'è un'autentica esplosione di ex-voto, dovuti certo quasi sempre a pittori locali o di passaggio, ma operanti sotto l'influsso di correnti artistiche ben definite ed individuabili.

Con l'entrata della Val Sabbia nel dominio veneto, prima in maniera più duttile e poi, dopo l'esperienza dell'occupazione francese con l'apocalisse del sacco di Brescia, in modo definitivo e codificato, anche gli influssi artistici giungono mossi dalle pieghe di quell'universo veneto".
Venezia viene vista come coagulo di tutte le iniziative, splendida capitale, qualche volta odiata per la tassazione e l'immobilismo di uno status-quo volutamente mantenuto, ma sempre sognata per la sua ricchezza e per il suo enorme potenziale artistico e culturale.

La Valle Sabbia partecipa in qualche modo al Rinascimento bresciano, sia affidando opere a grandissimi artisti per decorare chiese, cappelle di confraternite o altro, sia contribuendo egregiamente con artisti propri a quella ricca e attiva pinacoteca che è la Brescia del Cinquecento.

Purtroppo un'alienazione nella seconda metà del 1800 ha fatto perdere le tracce dell'opera, privandola agli sguardi del fedele e dell'appassionato di cose d'arte.

La lezione del Moretto e degli altri grandi del "Rinascimento bresciano" lascia molte opere in Valle Sabbia attorno alle quali corrono i nomi di molti artisti.

Le chiese della Valle Sabbia abbondano di quadri di autori più o meno noti, manieristi nel senso migliore del termine che si muovono sui modelli dei grandi Foppa, Savoldo, Moretto e Romanino o che si rifanno alla scuola veneta.

Nel Cinquecento compaiono le prime sculture lignee, inaugurando quella vastissima serie di opere che, a partire da questo secolo sino a tutto il Settecento, andranno progressivamente ad arricchire le chiese della Val Sabbia.
Nella scultura lignea si è cimentato con maggior originalità l'ingegno dei valsabbini. Abituati a lavorare il legno, una materia offerta abbondantemente dai boschi, per diletto o per necessità, hanno liberato la loro potenzialità in una ininterrotta trama di creazioni che giunge sino ai nostri giorni.
Questo campo, dimostrandosi congeniale ai montanari, non è rimasto a livello di pura spontaneità, ma è cresciuto attingendo a spunti, a motivi culturali ed artistici di robusta levatura.

Dal santuario di Visello in quel di Preseglie, viene l'originalissimo gruppo scultoreo del Pianto per la Morte di Maria ora conservato nella Parrocchiale.
È una inconsueta rappresentazione sacra, un po' fuori dalla tradizione della pietà locale; richiama invece una devozione tutta orientale.
C'è qui un segno tangibile, e tutto da studiare, di influssi culturali impensati ed una considerazione non ancora approfondita.
Altre statue, rappresentanti la Vergine con il Bambino, concepite in maniera più confacente alla tradizione locale, sono pure da collocare nel secolo XVI, seppur con aggiunte posteriori che ne snaturano un po' l'originale purezza.

Appaiono anche sulla scena i primi intagliatori valsabbini che assurgono subito a sicura fama. Basti ricordare, fra i tanti, quel Lodovico da Nozza che, trasferito si a Ferrara nel 1530, vi lascia una testimonianza di altissimo livello nella scultura lignea, raffigurante S. Giorgio, posta in cattedrale e quell'Andrea Baruzzo di Sabbio Chiese, celebre fonditore di bronzo a Roma nella prima metà del Cinquecento.
Come conseguenza si affermano le prime scuole dovute ad imprese familiari come quei Ginamni di Vestone che incominciano a scolpire soase e statue nelle diverse chiese.

Il Seicento ed il Settecento sono i secoli delle grandi costruzioni, del rinnovamento edilizio ed anche due secoli di pittura e di scultura.
Aprono la serie due grandi opere: la chiesa parrocchiale di Bione che matura in una concezione ancora tutta classica e che si fa risalire ad un disegno della cerchia del Richino; e l'imponente facciata della chiesa di Vestone, non ancora sufficientemente studiata, ma sicuramente tassello importantissimo nella storia dell'arte valligiana per l'armonia dell'insieme e la purezza delle sue linee.
Una ricerca approfondita sulla presenza di molte famiglie di artisti comaschi riserverebbe sorprese e permetterebbe sicuramente di dar risposte esaurienti ad alcuni interrogativi.

Il Seicento ed il Settecento vedono in Valle Sabbia una lunga serie di artisti, gli stessi che operano nel più vasto contesto bresciano.
Nel campo dell'architettura è quasi d'obbligo il riferimento ad alcune grandi chiese. In ordine cronologico la prima a sorgere è la parrocchiale di S. Giorgio a Bagolino, opera documentata del Lantana, uno degli architetti del Duomo Nuovo di Brescia.
Questa chiesa, quasi cattedrale, è un po' il vessillo della disponibilità all'apertura artistica dimostrata dalla Valle Sabbia.
Qualche tempo prima, lo stesso Lantana è all'opera ad Ono Degno, tracciando il disegno del santuario della Madonna del Pianto, altro gioiello di quel gusto barocco che andava diffondendosi in Valsabbia, equilibrato e misurato nelle forme tanto da apparir classico.

Verso la fine del secolo a Mura sorge l'altra importante costruzione, cioè la chiesa plebana di S. Maria Assunta, grandiosa per dimensioni e per armonia delle forme.
Qui operano "magistri" comacini su uno schema d'insieme che si ispira alle costruzioni ideate dal Bagnadore.

Si giunge così al Settecento ove il fervore edilizio, anche sotto le precise indicazioni del cardinale Querini, raggiunge il massimo.
Ogni paese modifica o ricostruisce la sua chiesa. È una vera costellazione di opere d'arte.
Tra tutte spiccano però alcune, vere perle in questo firmamento artistico.
In particolare la parrocchiale di Preseglie, dovuta all'abate Gaspare Turbini, quella di Vobarno sempre dello stesso autore, la parrocchiale di Serle, quella di Comero di Carlo Corbellini ed, infine, quella di Ono Degno, la più bella chiesa tardo barocca di tutta la Valle Sabbia per unitarietà di stile architettonico ed armonia di decorazioni.
La chiesa è terminata nel 1770 su un disegno al quale verso il 1733 potrebbe essere stato interessato Antonio Biasio, altro architetto della fabbrica del Duomo Nuovo di Brescia, ad Ono per altri lavori nel santuario proprio in quegli anni.

Concludono la serie delle grandi chiese quella di Provaglio Valsabbia e quella di Lavenone, dovuta in parte al Turbini, esempio grandioso del gusto neoclassico e certamente la testimonianza più nobile di questo stile in Valle Sabbia.
Pure alcuni scultori assai noti a Brescia lasciano opere in Valsabbia come il Calegari che adorna di statue particolarmente espressive la chiesa di Vobarno.

Come in architettura, così in pittura è tutto un susseguirsi di testimonianze che si squadernano per due secoli. Parrocchie, confraternite e privati fanno a gara nell'adornare chiese, specialmente dopo la terribile pestilenza del 1630.
In Val Sabbia ci sono opere di molti degli artisti che animano la vita pittorica bresciana in quegli anni.

Nella seconda metà del Seicento la Valle Sabbia subisce l'ingegno versatile e splendido di Andrea Celesti che si protrae anche nei primi anni del Settecento.

Il Settecento vede gli impegni di Sante Cattaneo, di Pietro Corbellini e di molti altri validi e meno validi che si muovono nell'ambito delle scuole che dominano il mercato dell'arte.
Impera il clima veneto nelle forme e nei colori. Le chiese della Valle Sabbia, anche se in dimensioni più ridotte, si accostano a quelle della città lagunare, temperate però nelle linee da quel radicato realismo che le rende più essenziali, secondo una concezione tipica dei bresciani, ma ancor più delle valli montane.

Il Settecento, dopo tanta esplosione di creatività, si esaurisce lentamente insieme al dominio veneto, vittima in un certo senso del proprio immobilismo e dell'incapacità, dopo tanta passata saggezza, ad immaginare novità significative.
Se le maggiori espressioni artistiche si trovano naturalmente nelle chiese, anche l'architettura civile abbonda di esempi notevoli.
Nonostante le manomissioni, le trasformazioni spesso assurde ed una "massificazione" del gusto e dei materiali usati negli ultimi anni, i paesi conservano ancora molte dimore dei secoli XVII e XVIII, degne di essere conservate e rivalutate per la bellezza dei loro insiemi.
Nella media e nella bassa Valsabbia sono diffusi loggiati eleganti unitamente ad una concezione degli spazi più distesa.
Nell'alta Valle Sabbia invece le dimore tendono ad occupare meno spazio e si sviluppano in altezza.
Sono queste dimore che ancor oggi perpetuano il ricordo di una borghesia mercantile non banale nelle scelte e non digiuna di nozioni culturali.
Questa stessa borghesia, che traeva i proventi per una discreta agiatezza da un'economia integrata tra le rendite delle campagne e dei boschi ed i proventi del commercio della "ferrarezza", aperta e dinamica con frequenti spostamenti sui mercati di diverse città, chiamò in Valle Sabbia architetti ed affreschisti per avere dimore degne di un prestigio sociale acquisito.

Nell'architettura civile, nel passato, la Vallesabbia ha mostrato più autonomia, più originalità di oggi.
Ora, nonostante un tenore di vita complessivamente più elevato, c'è quasi l'assuefazione a mode sopportate, ma non vissute veramente.

Se si vuole però ricercare la vera "anima" della valle artistica, quella più autentica e locale, quella meno condizionata dalle mode esterne, anche se non chiusa e refrattaria alle innovazioni, bisogna riferirsi al vasto campo dell'intaglio ligneo.
L'antica consuetudine a lavorare una materia locale per ottenerne attrezzi utili e abituali ha favorito l'attitudine particolare dei montanari a trasformare il legno, a "piegarlo" all'intuizione, a ricavarne cioè oggetti artistici.
Quando poi a "piegare" questo legno sono stati artisti veri, ne sono nate cose eccelse, che si accompagnano degnamente alle altre manifestazioni artistiche, quali l'architettura, la pittura o la scultura del marmo.

La Valle Sabbia, ancor più di altre terre del Bresciano, è la valle dell'intaglio ligneo.
Le testimonianze di questa continuità di ispirazione e di ricerca di nuove forme vanno dal 1500 sino al 1800 o, per meglio dire, sino ai nostri giorni.
È il settore più genuino dell'espressività artistica valsabbina e anche qui è evidente l'abitudine di questa gente a non chiudersi mai in schemi troppo rigidi e localistici, ma ad assimilare e trasformare con la propria sensibilità ed esperienza motivi e spunti offerti da artisti di grande fama o da canoni consolidati dal buon gusto.
Se per gli autori che operano nel Cinquecento qualche elemento di riferimento è ancora dubbio, a partire dai primi anni del Seicento il panorama si fa più chiaro.
Nascono autentiche scuole locali, quasi sempre, all'origine, dovute all'iniziativa di un versatile valligiano, che ha imparato da artisti di passaggio l'arte dell'intaglio.

L'elenco è lungo e assai vario. Vale però la pena di ripercorrerlo per avere un quadro esauriente.
Agli inizi del Seicento opera la famiglia Ginamni di Vestone che lascia intagli a Bione, ad Avenone ed in altre chiese sparse per la Valle.
Questa è la prima bottega locale anche se molti altri artisti hanno lasciato testimonianze significative lungo tutto il Cinquecento.
Poi la produzione abbonda. Degli inizi del 1600 è la splendida porta della chiesa parrocchiale di Gavardo.
Artisti locali che hanno iniziato la loro carriera come umili "marengoni" si affermano e assumono commesse, alternandosi ad artisti che vengono da fuori.
È il caso dei Bonomi di Avenone che, attivi già verso la metà del Seicento, raggiungono il periodo di maggior splendore negli anni a cavallo tra il 1600 ed il 1700; oppure dei Montanino di Brescia presenti, in Valle Sabbia, a Ono ed a Bione ed in altri paesi dal 1667 in poi.
Ed infine dei più celebri Pialorsi di Levrange, noti come "Boscaì", che iniziano la loro attività in tono minore già nei primi anni del 1600 per avere poi un periodo di straordinario fervore artistico dal 1690 al 1750.

Accanto a queste famiglie, altre, seppur in tono minore, si affermano. Sono i Prandini di Nozza, attivi alla fine del 1600 e per buona parte del 1700, Marchiondo Bonomini di Bione, gli Arici di Mura ed i Bertoli di Prato.
Ma altri intagliatori, meno noti, ora sepolti nella dimenticanza per mancanza di documenti, devono essere stati presenti in molte parti della Valle Sabbia.

Le opere sono tante e tutte belle. I Bonomi hanno lasciato il meglio della loro arte nelle chiese delle Pertiche, di Bovegno, di Mura e di Bagolino.
Particolarmente importante il connubio tra un robusto trentino, Baldassar Vecchi di Ala di Trento e Gio. Pietro Bonomi, che, fra il 1680 ed il 1688, produce tre spendide soase e precisamente quella dell'altare maggiore della Parrocchiale di Avenone, quella dell'altare di S. Giovanni Evangelista a Bovegno ed infine quella dell'altare della Madonna di S. Luca nella chiesa di S. Giorgio a Bagolino.
La collaborazione artistica fra questi due intagliatori, vero miracolo di ingegno, fonde il realismo del modellato dei corpi di stampo nordico con una fantasia spigliata negli ornati e nelle scenografie d'insieme. La presenza di Baldassar Vecchi è un elemento per approfondire i legami artistici tra la Valle Sabbia ed il Trentino, sebbene tutti e due i territori abbiano risentito moltissimo dell'influsso veneto.
Nell'attività dei Pialorsi "Boscaì" si riassumono quasi tutti i motivi dell'arte dell'intaglio ligneo valsabbino.
Non c'è chiesa della Valsabbia che non abbia avuto qualche contatto con questi intagliatori.


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martedì 11 agosto 2015

CAPOVALLE



Capovalle (fino al 1907 Hano) è un comune dell'alta Valle Sabbia.

Capovalle è situato sulle montagne dell'alta Valle Sabbia sul confine con la Val Vestino, tra il lago d'Idro e il Lago di Garda. È raggiungibile sia percorrendo la provinciale che sale da Idro o da Gargnano. È uno dei venticinque comuni membri della Comunità Montana della Valle Sabbia con sede a Vestone e il suo territorio comprende il monte Stino e il monte Manos.

Il comune che si chiamava Hano fino alla promulgazione del RD 27 ottobre 1907, n. 464 in quanto l'antico termine era stato giudicato "trasparente e volgare", è composto dalle tre contrade di Zumiè, Vico e Viè.

Di probabile origine retica sarebbe il termine Zumiè da "zum" che indica un recinto abitato mentre le voci di Vico e Viè sembrano risalire all'epoca romana, Vico da "vicus" che significa villaggio e Viè da "viae" che indica un incrocio stradale. Le stesse etimologie dei nomi delle contrade confermano che Capovalle svolgeva un ruolo molto importante nelle comunicazioni tra Valle Sabbia, Riviera del Garda e Trentino.

La tesi di luogo di transito sembra avvalorata anche da alcuni ricercatori per i quali il toponimo deriverebbe dall'idioma latino "ianua" che significa appunto porta. Altri sostengono invece che derivi dalla parola latina "vannus" nel senso di conca per indicare quindi un villaggio costruito in una depressione o dalla voce armena utilizzata per giogo, oppure da una voce preceltica o retica come "anon", da cui deriva anche il nome della Val di Non, in Trentino.

Nei vari secoli le strade che attraversarono Capovalle furono percorse da mercanti, contrabbandieri ed eserciti.
Da qui passarono i soldati del Barbarossa (1162), del Piccinino (1437-39), i Lanzichenecchi del Frundsberg (1526), i fanti di Napoleone (1796), i bersaglieri di Durando (1848-49), la cavalleria del Cialdini (1859), le camicie rosse di Garibaldi (1866).
Dopo la caduta dell'Impero Romano, la zona fece parte dell'arimannia longobarda, che si estendeva dal Maniva a S. Pietro di Salò; quindi della Quadra vescovile di Bagolino.
I Visconti di Milano lo inclusero nella Quadra di Valle Sabbia; il governo di Venezia lo aggregò alla Quadra di Montagna della Riviera di Salò; la Repubblica Cisalpina nel 1798 lo fece frazione di Idro, dal quale comune ottenne la separazione col governo di Vienna, e tale rimase nell'ordinamento amministrativo del Regno d'Italia pubblicato nel 1868.
Nel periodo alto-medioevale tutta la comunità dipendeva ecclesiasticamente dalla Pieve di S. Maria ad Undas, dalla quale si emancipò nella seconda metà del XVII secolo, rendendosi autonoma parrocchia.
Capovalle ebbe un periodo sereno e di relativo benessere durante il dominio veneto che con le ducali del 1440, del 1449, del 1557 e del 1612 lo esentò dal pagamento dei dazi sullo scambio delle merci e dall'obbligo di alloggiare la milizia.
La crisi della seconda metà del 1800, le sopravvenute condizioni di povertà, alla fine della prima guerra mondiale, spinsero la popolazione ad emigrare in massa.
Dopo la ricostruzione del decennio '50-'60, con le rimesse degli emigranti e grazie al ritorno degli stessi, il paese si è incamminato in una graduale rinascita, sia sul versante artigianale che su quello turistico.
Anticamente il comune lo troviamo indicato con Ano (sec. XV) e con Hano (sec. XVI). Conservò il nome di Hano sino all'inizio del nostro secolo, quando il consiglio comunale (giugno 1907), presieduto dal sindaco Pietro Lombardi, deliberò di chiedere l'autorizzazione a cambiare il nome.
Nel novembre dello stesso anno fu emesso il decreto ed autorizzata la denominazione di Capovalle, che significa, appunto, posizione di inizio della Valle Sabbia.

A pochi Km dal centro abitato sorge il bellissimo Santuario di Rio Secco. Dietro la costruzione di questo santuario si racconta una singolare leggenda ...

Nella prima metà del XVII secolo (non si sa di preciso l’anno), alcuni montanari carbonai e custodi d’armamenti, videro fra il buio della notte, un vivo e arcano splendore circondare la roccia di Rio Secco, la quale è situata di fronte alla via che conduce al Passo della Fobbia, a circa un’ ora di cammino dal paese di Hano.
Meravigliati quegli uomini a tale inaspettato spettacolo, accorsero verso quel poggio.
Qui, con grande stupore, videro tra gli abeti e sopra un muretto, mai osservato prima, un grazioso dipinto raffigurante la Vergine con uno sguardo così dolce e maestoso da ispirare a chiunque viva devozione e tenera fiducia. Dopo aver attentamente contemplato con sguardo attonito tale apparizione, piegarono il ginocchio e per primi vennero e supplicarono la Madre del Signore. Ella aveva piantato le sue tende in quel luogo sperduto, che da quel momento divenne uno splendido teatro delle grazie e delle misericordie di Maria.
I montanari non aspettarono il levar del sole ad indorare le creste dei monti circostanti, ma immediatamente scesero nei vicini paesi, specialmente ad Hano a portare alla popolazione la lieta novella. Così la gente accorse da ogni parte, fra le meraviglie, lo stupore e le calde lacrime della pietà riconoscono la prodigiosa apparizione.
Fu quella la prima volta che centinaia di cuori e di lingue fecero echeggiare quelle cime e quelle vallette di devoti entusiastici inni alle glorie della Gran Vergine.
Si decise dunque di mettere al riparo dalle intemperie la cara immagine; ed i devoti che accorrevano sin dai primi giorni ad implorare la sua mercè, fecero sorgere sopra la ispida roccia di Rio Secco, una cappelletta.
La cappelletta fu eretta con le offerte della pietà del popolo di Hano.
Gli stucchi che ornano il volto della cappella, rivelano lo stile barocco che era in voga nel 1600.
Di anno in anno cresceva la folla dei devoti affluenti dai vicini paesi e, soprattutto dalla limitrofa Valvestino, venivano ad onorare la Madonna di Rio Secco. Il popolo decise dunque di edificare in quel luogo una chiesa, dove si poteva celebrare la Santa Messa e gli uffici divini in onore della Vergine. Una volta ottenuto il permesso dalla Suprema Autorità Ecclesiastica, raccolsero le offerte e s’accinsero all’opera. Si discusse dapprima circa il luogo più opportuno ove innalzare il tempio e, sembrando loro angusto il poggio di Rio Secco (luogo dell’apparizione), troppo malagevole la strada che vi fa capo e troppo solitaria quella posizione, stabilirono di fabbricare la chiesa a circa un chilometro di distanza da Hano, in un luogo ed in uno spazio più aperto. Scelto il luogo dunque iniziarono il lavoro per la fabbricazione della chiesa. Scavavano fosse per le fondamenta, trasportarono appresso pietre, mattoni, travi, badili, calce, leve, martelli, cazzuole, e tutti gli attrezzi di cui i muratori avevano bisogno per realizzare l’opera. Il secondo giorno, di buon mattino, molti muratori, manovali, ed altre persone addette ai lavori, s’ incamminarono lungo la via per raggiungere il “cantiere”. Quando però giunsero sul posto, ebbero una grossa sorpresa: videro spianate le fossa e tutti i materiali e gli attrezzi preparati il giorno prima erano spariti. Gli operai si guardarono in faccia l’uno con l’altro stupiti di tutto ciò, non sapendo cosa dire ne cosa pensare. Sarà opera dei ladri? Ma quella non era certo merce da far gola a dei ladri. In seguito pensarono che ci fosse un nemico o una persona ostile al progetto della nuova chiesa. Iniziarono dunque a guardarsi intorno, per cercare cosa mancava e con gran meraviglia trovarono tutto il materiale ben in ordine sulla rupe di Rio Secco vicino alla Cappella. La cosa strana che i poveri uomini non capivano era come avessero fatto i ladri a trasportare tutto il materiale nell’arco di una notte, da un luogo all’altro. Gli uomini dunque ripresero il materiale e senza pensare ad altro lo riportarono nel luogo dove si era stabilito di costruire la chiesa, impiegando cosi tutta la giornata. Durante la sera gli uomini tornarono al paese con l’intenzione dare inizio ai lavori il mattino seguente. Appena ritornata la luce del giorno, i muratori e una folla di popolo tornò sul luogo del lavoro. Nuova sorpresa e nuovo sbigottimento, il materiale e gli attrezzi erano nuovamente spariti, furono ritrovati nuovamente di fianco alla Cappella di Rio Secco. Fu dunque chiaro a tutti che tutto ciò non poteva essere opera dell’uomo, ma bensì di forze superiori: il prodigio era avvenuto. La Madonna Santissima, voleva che il suo tempio sorgesse nel luogo dove era apparsa la sua immagine. Nel giro di poco tempo dunque sorse un piccolo tempio per porre omaggio alla Madonna.

Era il 1° aprile 1899 quando nella parrocchia di Hano fece il suo ingresso il rettore e parroco Don Gaudenzio Squaratti. In seguito, sentendo quanto la popolazione era devota alla Madonna di Rio Secco, decise di ampliare il Santuario e di abbellirlo. Così dopo aver portato a termine alcune opere per la parrocchia, tra cui il nuovo concerto di 5 campane, nel gennaio 1906 radunò tutto il popolo in chiesa e parlò con persuasione dell’importanza dell’opera di ampliamento. Fu subito eletta una commissione che aveva il compito di dirigere i lavori. Questa commissione era composta dalle principali autorità del paese: il signor Sindaco Pietro Lombardi, il consiglio comunale al completo ed i fabbricanti d’allora. Si ordinò in seguito all’ingegnere Vaglia di Anfo di esaminare in che modo si potesse ampliare il tempio che era situato in un luogo stretto ed angusto.
L’ingegnere fece il progetto e con molta soddisfazione venne approvato dal comune. Iniziarono i lavori e fu inaugurato il 15 Agosto 1928.

Nel 1994 il quadro della Madonna di Rio Secco fu trafugato dal Santuario e  fu ritrovato per una casualità solo nel 2009. Nel frattempo, nel 1995 il Signor Gino Bianco, fece rifare il quadro della Madonna e lo donò alla comunità di Capovalle.

Da vedere sul Monte Stino il Museo dei reperti storici e bellici della guerra 1915/18.

Come ogni borgo che è rimasto legato alle tradizioni montanare, Capovalle festeggia particolarmente la vigilia dell'Epifania: la festa della stella; il 24 giugno la sagra di S. Giovanni Battista; il 15 luglio la festa del Monte Stino, organizzata dagli alpini presso la chiesetta; il 15 agosto la festa della Madonna di Rio Secco.


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PROVAGLIO DI ISEO

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Provaglio d'Iseo è un comune che fa parte della Franciacorta. Degni di note il Monastero di San Pietro in Lamosa e le Torbiere del Sebino.

Il paese è ubicato in Franciacorta, ai piedi del Monte Cognolo (674 m) e sopra la Riserva naturale Torbiere del Sebino. Ed è proprio da tale collocazione geografica che deriva il nome del paese, dal latino pro-vallem ("prima della valle"), che si riferisce alla depressione sottostante Provaglio in direzione del Sebino, dove si estende l'ampio bacino delle torbiere.

Il principale specchio d'acqua è quello della Riserva naturale Torbiere del Sebino, importante per la ricchezza di flora e fauna. Il paese è molto vicino al Lago d'Iseo.

Il territorio di Provaglio era sicuramente abitato in epoca preistorica. Reperti rinvenuti nelle torbiere fanno ritenere che vi esistesse un villaggio palafittico. Altri reperti archeologici attestano che Provaglio fu abitato ai tempi di Roma. Poi fece parte della pieve di Iseo, dalla quale si staccò attorno al 1200 coma parrocchia stabilita in San Pietro in Lamosa.
Provaglio fu per secoli località di transito dei prodotti agricoli e di legname del vicino mercato d'Iseo, mentre l'occupazione principale era quella agricola. Fu coinvolto nelle discordie, spesso violente, tra guelfi e ghibellini. Agli inizi del quattrocento Pandolfo Malatesta ne distrusse il castello. Lungo le dominazioni Veneta, durata circa tre secoli e mezzo, napoleonica e austriaca la grande storia sfiorò appena Provaglio.
Nel novembre del 1629, un reparto di lanzichenecchi in fuga dall'assedio di Mantova venne affrontato nei pressi di Provaglio. Ne rimasero uccisi una cinquantina e diciotto finirono prigionieri. Ma nella primavera successiva venne la peste a colpire duramente i due paesi: nel 1637 Provaglio scese a 744 abitanti e Provezze a 484. Nel secolo successivo la popolazione aumentò e nel 1766 Provaglio era abitato da 988 persone e Provezze da 573. Si ritenne che la chiesa di San Pietro in Lamosa fosse inadeguata a raccogliere i fedeli e sul finire del settecento si pose la prima pietra della nuova parrocchiale dei santi Pietro e Paolo terminata nel 1817. Il clarense Teosa la decorò con buoni affreschi.
Già dal finire del settecento era iniziato lo sfruttamento dei depositi di torba nelle lame che occupò sempre più addetti alle escavazioni fino a raggiungere i duecento operai alla fine dell'ottocento, quando erano aperte sette cave. Poi gli occupanti diminuirono perché alla torba si sostituì prima il carbone e poi l'energia elettrica nelle filande iseane.
L'escavazione di torba riprese durante la seconda guerra mondiale per cessare del tutto negli anni sessanta. Si accentuò così il fenomeno, già in corso ma in misura limitata, dei lavoratori pendolari soprattutto verso Brescia; negli anni ottanta essi salirono a quasi ottocento, malgrado iniziative locali avessero avviato piccole e grandi industrie soprattutto nei settori meccanico, elettronico, della plastica e delle costruzioni. Dai 3161 abitanti censiti nel 1931 dopo l'aggregazione del comune di Provezze, si sono superati i 4000 abitanti nel 1951 e i 5000 nel 1991, allorché gli occupanti erano 1439 di cui 536 nelle aziende metalmeccaniche, 406 nel settore tessile ed alimentare, 141 nelle costruzioni.
A Provaglio fino al 1850 prosperavano gli ulivi sulle pendici esposte al sole e al riparo dai geli. Da circa un ventennio la coltura dell'olivo è stata ripresa così che in Franciacorta Provaglio è secondo in tale coltura solo a Monticelli Brusati. Sempre negli anni settanta è diminuita invece di circa il 40 per cento la superficie riservata alla vite, benché rappresenti ancora un quinto della superficie agricola. Ciò coincide con un calo dei coltivatori diretti, mentre prospera e s'ingrandisce a circa trenta ettari la grande azienda vitivinivola Bersi Serlini del Cerreto. Al Fontanì, località di accesso alle torbiere di Provaglio, nel 1993 è stato aperto un piccolo museo illustrante le torbiere stesso con materiale vario, naturalistico ed etnografico.

Il territorio provagliese è adagiato in un anfiteatro morenico che si apre, a ovest, nella Riserva Naturale delle Torbiere Sebine, suggestivo scenario di vegetazione e specchi d'acqua prodotto dall'uomo attraverso le attività produttive di escavazione della torba, all'inizio del secolo scorso.
Gli insediamenti abitativi, lungo il monte e l'arco delle colline a oriente, mantennero una inalterata disposizione territoriale per oltre mille anni, fino all'Ottocento. La configurazione urbana che oggi possiamo apprezzare è conseguente ai processi di edificazione del secondo Novecento che hanno collegato i tanti piccoli nuclei originari.

In particolare, l'abitato di Provaglio ha avuto in anni recenti una significativa espansione a sud della ex-statale 510, l'arteria stradale, un tempo importante collegamento tra Brescia ed Iseo, che si è trovata così ad attraversare il centro abitato. Per risolvere questa incongruenza urbanistica, negli anni '90 si è proceduto ad un'importante ristrutturazione della viabilità che ha permesso di dirottare l'imponente traffico esterno al di fuori delle zone abitate.

Nel 1928 al comune fu aggregato il soppresso comune di Provezze. Dai 3161 abitanti censiti nel 1931 dopo l'aggregazione del comune di Provezze, si sono superati i 4000 abitanti nel 1951 e i 5000 nel 1991, allorché gli occupanti erano 1439 di cui 536 nelle aziende metalmeccaniche, 406 nel settore tessile ed alimentare, 141 nelle costruzioni.

Tra gli edifici religiosi da visitare a Provaglio si segnalano l’ottocentesca chiesa parrocchiale con affreschi del Teosa, la chiesetta dedicata a San Bernardo risalente alla seconda meta del ‘500 e la chiesetta della Madonna del Corno che sovrasta il paese dalle pendici del monte Cognolo, da cui si gode uno splendido panorama del paese e della campagna circostante. A Provezze si trovano invece la Chiesa Parrocchiale titolata a San Filastrio con la torre campanaria e le chiese di San Rocco di Sergnana e della Natività di Maria a Persaga. A Fantecolo sorge la chiesa di Sant’Apollonio.
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Tra gli edifici civili si segnalano a Provezze villa Gussalli-Beretta, dominata da due insolite torri laterali, e villa Soncini; a Fantecolo le due splendide ville Fenaroli. Da vedere anche Palazzo Francesconi a Provaglio, sede del municipio, il quale è un complesso edilizio pluristratificato, sorto alla fine del XV secolo sopra preesistenze medioevali.  Il palazzo è stato restaurato negli anni 1992-1993 dopo un attento studio architettonico - archeologico, attuato secondo le più moderne tecniche della ricerca stratigrafica, che ha evidenziato le preesistenze e la complessità della sua storia secolare.
Merita una visita infine la Riserva Naturale delle Torbiere che si estende su un’area di 360 ettari. Gli specchi d’acqua delle Lame e delle Lamette sono il risultato di scavi sistematici effettuati tra metà ottocento e metà novecento allo scopo di asportare i giacimenti di torba lì formatisi nel corso dei millenni precedenti.

L'edificio che ospita il Municipio di Provaglio è un complesso edilizio pluristratificato, sorto alla fine del XV secolo sopra preesistenze medioevali: il muro di recinzione a spina di pesce e una piccola costruzione rurale. L'edificio rinascimentale era costituito da due corpi di fabbrica con altezze diverse, che presentavano verso sud un ampio porticato sovrastato da logge. Le caratteristiche edilizie e la qualità delle decorazioni pittoriche, di cui si è trovata traccia, consentono di capire che si trattava di una dimora di prestigio, presumibilmente adibita ad uso di casa di campagna. Durante i secoli successivi il complesso subì alcune trasformazioni parziali, in grado di adattarlo alle nuove esigenze legate al progredire dell'agricoltura; in particolare fu aggiunta una nuova ala adibita a cantina ed a locali legati ad una corte rustica. I diversi adattamenti avevano sempre più compromesso l'immagine dell'antica dimora signorile, tanto che nel secolo XVII si sentì la necessità di promuovere una radicale opera di ristrutturazione dell'intero complesso. Con questo intervento la costruzione fu adattata al nuovo gusto neoclassico. Il corpo centrale, che mantenne una destinazione a uso signorile, fu dotato, al piano terra, di un nuovo porticato con colonne in pietra di Sarnico e di una torretta: gli interni, inoltre, furono decorati con pitture murali di carattere geometrico. Le due nuove barchesse erano invece destinate a deposito di prodotti e macchinari agricoli. In sostanza si costituì un grande complesso prestigioso e rispondente nella forma al gusto dei tempi, attento comunque nel riporre una commistione tra parti residenziali e parti più prettamente destinate al supporto di attività agricole. Nei secoli XIX e XX l'edificio subì nuovi adattamenti fino a diventare sede del Municipio di Provaglio d'Iseo (acquistato con delibera C.C. del 03.02.1952). Il palazzo è stato restaurato nel 1992-1993 dopo un attento studio architettonico-archeologico, attuato secondo le più moderne tecniche della ricerca stratigrafica, che ha evidenziato le preesistenze e la complessità della sua storia secolare.

La Chiesa della Madonna del Corno fu eretta intorno al 1500 e dedicata all'annunciazione della Madonna. Meta di numerose visite pastorali, viene descritta come una Chiesa piccola ma molto frequentata dalla popolazione locale.

Nel 1598 la Chiesa viene chiamata Madonna della Ceriola, come che però scompare per diventare Madonna del Corno, per via della sua posizione sulla montagna.

Nel 1992 il Comune di Provaglio d'Iseo inizia il recupero di questo monumento, consolidandone le strutture.

A partire dall'8 maggio 1994, la parte abitativa è stata concessa in comodato al gruppo CAI di Provaglio d'Iseo che, con opera di volontariato, rende la struttura fruibile da parte dell'intera popolazione.

Fantecoloè una frazione del comune di Provaglio.
Secondo il Mazza (1986), il toponimo deriverebbe dal latino fanticulus o fantecculus: piccola fonte.

La chiesa di Sant'Apollonio fu edificata fra il Quattrocento e il Cinquecento. Nel medioevo non è certo se la comunità appartenesse alla pieve d'Iseo o a quella di Bornato. Fino al 1946 fu dipendente dalla parrocchia di Provezze.

Dal punto di vista amministrativo, non vi sono testimonianze dell'esistenza di un comune autonomo: nella Descrizione Generale del 1764 la comunità risulta aggregata al comune di Provezze e sotto tale amministrazione vi rimase dall'epoca napoleonica fino al 1928, quando la municipalità provezzese fu soppressa.

Provezze fu comune autonomo fino al 1928.

Secondo il Mazza (1986), il toponimo deriverebbe dal latino proda: striscia di terreno coltivato.

In epoca romana fece parte del pagus d'Iseo, mentre in quella medievale è assodato la sua appartenenza alla pieve iseana. Fu poi donato al monastero di Rodengo.

Le prime testimonianze del comune autonomo risalgono al XIII secolo. In base all'Estimo Visconteo del 1385 risulta assegnato alla quadra di Gussago.

Il castrum era sorto in località Badia. Durante l'epoca comunale il fortilizio fu caposaldo dei Guelfi del comune di Brescia i quali si contrapponevano agli Oldofredi d'Iseo. Nel 1315 fu occupato da Francesco Malvelli, mentre nel XV secolo fu conteso fra i Visconti e la Venezia. I nobili di Provezze congiurarono nel 1415 in casa Artini a favore dei veneti: in virtù di questo episodio, dopo il passaggio alla Serenissima i Rettori della città di Brescia concedettero al paese l'esenzione daziaria sulle merci in transito dalla Franciacorta (1444). Durante l'epoca veneta il comune rimase aggregato alla quadra di Gussago.

Sulla base della Descrizione Generale del 1764, il comune apparteneva alla quadra d'Iseo e ad esso era aggregata la comunità di Fantecolo. Il toponimo era Provese e Fantecolo.

Durante l'effimera Repubblica bresciana (1797), il comune fu assegnato al Cantone del Mella per poi passare l'anno seguente al Distretto del Basso Sebino del Dipartimento del Mella della Repubblica Cisalpina. Nel maggio 1801 fu inglobato nel Distretto I di Brescia e in tale veste rimase sotto la napoleonica Repubblica Italiana. Durante il Regno d'Italia (1805) fu inserito nel Cantone II di Iseo a sua volta appartenente al Distretto II di Chiari. Nel 1809 la popolazione del comune di Provezze e Fantecolo era di 364 uomini e di 329 donne. Nel 1810 la municipalità fu soppressa e il territorio, comprendente anche Fantecolo, fu assegnato al comune di Monticelli Brusati.

Il paese riacquistò l'autonomia municipale con il passaggio del territorio bresciano al Regno Lombardo-Veneto, grazie alla notificazione del 12 febbraio 1816. Durante la dominazione asburgica, il comune fu denominato Provezze e Fantecolo e fu assegnato al Distretto X (dal 1853, XIII) di Iseo della provincia bresciana.

Nel 1859 il comune passò, assieme alle province lombarde, al Regno di Sardegna che dal 1861 divenne Regno d'Italia. Denominato con il termine di Provezze, pur mantenendo Fantecolo come sua frazione, fu assegnato al Mandamento IX di Iseo del circondario I di Brescia della nuova provincia avente il medesimo capoluogo. Il comune fu soppresso con Regio Decreto 28 giugno 1928, n. 1682 e il territorio fu aggregato al vicino comune di Provaglio d'Iseo.

La Parrocchiale di San Filastrio è stata completata fra il Settecento e l'Ottocento.

Della precedente cappella, si hanno le prime testimonianze in documenti del 1202 e fu sottoposta per un certo periodo alla pieve d'Iseo: stando al Catastico Bresciano di Giovanni da Lezze (1610) la chiesa in quel periodo era officiata da un curato.

L'affresco posto all'esterno è opera del Teosa (1842), mentre le quattro statue sono di Giuseppe Bianchi (1887). All'interno è presente una pala di scuola morettiana e donata alla Parrocchia dal nobile soncinese Antonio Corvini.

Palazzo Soncini costruito dai Fenaroli nel Seicento fu ereditato dai Soncini alla morte di Barbara, ultima discendente della famiglia.
Villa Gussalli costruita nel Settecento è caratterizzata da un giardino a terrazze.


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lunedì 10 agosto 2015

VALVESTINO



Valvestino è un comune sparso della provincia di Brescia.

Valvestino è situato nella valle omonima, tra la Valle Sabbia e il Lago di Garda. È composto dalle cinque frazioni di Armo, Bollone, Moerna, Persone e Turano. La sede municipale si trova nel paese di Turano. È uno dei nove comuni membri della Comunità Montana Parco Alto Garda Bresciano con sede a Gargnano e il suo territorio comprende la parte nord del lago di Valvestino.

Sull'origine del toponimo Val Vestino esistono varie ipotesi interpretative e secondo il geografo trentino Ottone Brentari la Val Vestino prenderebbe il nome dai monti Vesta e Stino che la chiudono nella parte sud occidentale, mentre per lo storico bresciano monsignor Paolo Guerrini, concordando con Claudio Fossati di Maderno, la vuole da Vest: luogo scosceso e boscoso. Altri ricercatori invece sostengono la derivazione da Ve, ossia da quei prati posti di fronte a nord al Molino di Bollone fino alla chiesetta di San Rocco a Moerna e Stino, il monte che sovrasta l'abitato di Moerna e in linea diretta con Ve.

Secondo la linguista Claudia Marcato, il toponimo sarebbe un composto di valle più Vestino, nome locale confrontabile con l'oronimo Vesta, il poleonimo Vestone e altri toponimi lombardi simili, "che sono da ritenere di origine incerta" e richiamano alcuni nomi personali come Vestus, Vestius, Vestonius (e Vestino anche l'etnico Vestini, popolo italico del centro della penisola). Sono in effetti attestati i nomi personali di origine celtica Vistus, Vistalus, Vestonius, Vessonius.

Un'ultima ipotesi di Natale Bottazzi, asserisce che l'origine del nome Vestino è ascrivibile alla voce latina “vastus” che significa luogo desolato. Sembra che non vi sia nessuna assonanza con l'antico popolo dei Vestini stanziati nell'Abruzzo e sottomessi dai Romani nell'89 a.C. anche se alcune analogie sono sorprendenti, tra queste il culto per la dea Vesta, il richiamo al nome del dio umbro Vestico, il "dio-libagione" associato al culto della terra dispensatrice di frutti e l'origine dell'etnonimo che secondo alcuni sarebbe formato dalle voci celtiche "Ves" che significa fiume o acqua e da "Tin" che significa paese indicando in tal modo un "paese delle acque", visto che il territorio occupato dai Vestini era particolarmente ricco di corsi d'acqua e sorgenti, come lo è anche la Val Vestino. Curiosa rimane anche la somiglianza con il toponimo della Valle del Vestina sita in Toscana nel comune di Monte San Savino o del comune veronese di Vestenanova.

Nel comune di Valvestino, il 21 e 22 settembre 2008, contemporaneamente al comune di Magasa si è tenuto il referendum per chiedere alla popolazione di far parte integrante della regione Trentino-Alto Adige sotto la provincia di Trento. Il risultato è stato positivo nonostante l'elevato quorum richiesto dal referendum (maggioranza degli aventi diritto al voto).

Il 7 ottobre 2009 il senatore Claudio Molinari, del Partito Democratico, ha presentato un disegno di legge per il ritorno del Comune di Valvestino e Magasa nella Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.

Il 18 maggio 2010 il Consiglio regionale Trentino-Alto Adige approvava quasi all'unanimità dei votanti una mozione per l'aggregazione alla Regione dei comuni di Magasa, Valvestino e Pedemonte attivando la Giunta per "sollecitare nelle sedi competenti, il tempestivo e positivo esame dei Disegni di legge costituzionale" depositati in Parlamento a Roma e il 14 aprile del 2015 il Consiglio regionale della Lombardia si esprimeva allo stesso modo approvando la mozione che esprimeva parere favorevole al passaggio al Trentino dei due comuni.

Una suggestiva e tortuosa strada che richiede attenzione, ma che ripaga ampiamente l'impegno con scorci panoramici dove la bellezza della natura è assolutamente coinvolgente, sale da Gargnano, sul Lago di Garda, in Valvestino. Un itinerario che propone panorami inaspettati unitamente ad una vegetazione che passa gradatamente da oleandri e olivi, tipicamente mediterranei, ai boschi di rovere e orniello fino ai faggi, agli aceri ed ai pini silvestri per raggiungere poi gli alti pascoli. Insenature verdi e rocce incombenti si rincorrono e si specchiano nel lago artificiale di Valvestino formato dalla grande diga costruita nel 1962. Un fiordo che si incunea nelle montagne dove le acque e la vegetazione diventano un tutt'uno.Interamente compresa nel Parco dell'Alto Garda bresciano e di notevole importanza ambientale anche per la presenza di flora endemica oggetto di studi già dal 1700, la Valvestino è anche ricca di storia. Abitata sin dalla preistoria, luogo di transito per i romani, e parte del ducato longobardo, essa fu, dall'XI secolo, feudo dei conti di Lodrone prima e sotto il dominio del principato vescovile di Trento poi. Da sempre terra di confine, dopo la dominazione asburgica, divenne italiana nel 1915. Percorsi e sentieri ben segnalati di interesse paesaggistico, naturalistico ma anche storico e militare ne illustrano le caratteristiche. Visitare i piccoli borghi che ne compongono i due comuni è una piacevole scoperta.
Il comune di Valvestino è composto dalle frazioni di Turano -Armo -Moerna -Persone e Bollone.

La zona sarebbe stata anticamente abitata dagli Stoni, popolo euganeo che pose la propria sede a Vestone. Seguirono gli Etruschi, una cui necropoli, secondo anonime annotazioni del secolo scorso, sarebbe stata rinvenuta ad Armo. I Galli cenomani costruirono case e fortificazioni, tra cui il castello di Turano, antecedente rispetto a quello eretto nel 1240 da Bonifacino di Bollone.

Sulla scorta dei reperti gallici rinvenuti in buona quantità nel Trentino occidentale e specialmente a Storo e a Tiarno di sotto fino alla lontana stazione di Peio in Val di Sole, si può discretamente dedurre che essi abitassero anche la Valle di Vestino lasciando il ricordo nei toponimi terminanti in -one come Bollone, Persone, Cablone, Caplone, Bondorìe, Lodrone.
Dato il modo di costruire i loro piccoli centri abitati e fortificati ad essi si possono pur far risalire i castelli o castellieri di Vico e Zumie in Capovalle, il Castello di Turano (toponimo preesistente alla costruzione di Bonifacino di Bollone nel 1240) il castello, divenuto poi Rocca Pagana, a Magasa con visibili muri a secco, il Castello di Cadria dominante la valle del Droanello.
Anche i toponìmi Magasa e Cadria sarebbero di origine celtica o gallica.
Si riconosce ai Cenomani il merito di aver dato notevole sviluppo all’agricoltura e specialmente all’allevamento del bestiame; pare anzi che ad essi sia dovuta l’introduzione e la diffusione dei bovini dì razza bigia.
Al contrario degli altri Galli, mantennero ottime relazioni con Roma anche se, nel 197 a.C., il console Gneo Pompeo Strabone concesse l’ìus romano (colonia romana) e nel 49 a.C. la cittadinanza romana con la lex Roscia; ma tutto riguardava la pianura fino alle colline: Roma non aveva ancora preso effettivo possesso della Valle e dei paesi limitrofi. Le nostre vai li erano continua zone di passaggio e di provvisorio accam pamento per gli Stoni, i Trìdentini, i Lepontini ed altri popoli che continuavano a far scorrerie in pianura e a moiestare i nuovi padroni.

La Valle di Vestino divenne sicuro dominio di Roma nel 15 a.C., allorché i figliastri di Augusto, Tiberio e Druso, portarono a compimento la nota guerra netica che vide domate tutte le popolazioni delle Valli Camonica e Trompia, del Trentino occidentale fino alle Alpi.
Così la Valle venne a far’ parte dell’impero romano per circa 500 anni ed inscritta alla tribù Fabia di Brescia unitamente alla Giudicarie, la Valle Sabbia, la VaI di Ledro, il territorio del Garda con Arco e Riva: il confine con la tribù Papiria di Trento avrebbe dovuto essere il fiume Sarca. Fu prima colonia romana e, nel primo secolo dopo Cristo, ebbe la cittadinanza romana.
In tutte le vallate di questa zona fino a Trento stanziava la XXI legione Rapaces, a presidio delle vie di comunicazione e a difendere gli abitanti dalle incursioni dei montanari ribelli e dei ladroni. La parte più alta del colle o dosso di Turano ove, dalla fine del 1500, sorge la chiesetta di San Rocco, conserva il nome di TORRE: ciò facilmente comprova che vi fu costruito un fortilizio romano dal quale poter controllare gran parte della Valle; si può ben ritenere che essa venisse demolita o per costruire nuove case o da Bonifacio da Bollone per la fortificazione del Castello di Turano.
L’esigua popolazione, con la venuta dei legionari romani, fu aperta a migliori relazioni con la Riviera del Garda, con la Valle Sabbia e con il Basso Trentino.
Incominciò un lungo periodo dì benessere e di pace favorevole specialmente allo sfruttamento degli estesi pascoli ed all’utilizzazione del legname ricavato dal le fitte selve che ricoprivano gran parte della Valle, Il presidio militare di Turano, le piccole proprietà terriere divennero pagi e vici (villaggi) e si fecero, per quei tempi, discretamente numerose.
Così i discendenti degli Etruschi e degli Steni e gli ultimi Cenomani assorbirono lentamente la civiltà, i costumi, la religione, la lingua romana.
Pochi, oltre il toponimo predetto, sono i ricordi romani: tombe romane rinvenute a Magasa-Capetel nel 1885 con monete e lucerne funerarie; il tutto fu portato nel Collegio di Desenzano da don Bartolomeo Venturini, ma purtroppo più nulla è colà reperibile; si hanno pure un peso di stadera romana del III secolo d .C. e una moneta romana dell’imperatore Maximino Pio Germanico (235-238 d.C.) trovata nel 1969 presso la Chiesa di San Giovanni Battista di Turano: è proprietà di un privato della Riviera, mentre il peso è custodito nel museo romano di Brescia. Di romano ci parlano I’ex castello di Magasa, ribattezzato Rocca Pagana, il Cingolo Rosso e le frazioni Vico e Vie di Capovalle.

Le persecuzioni, anche se furono seme di altri cristiani, ritardarono la diffusione del Cristianesimo che solo nel 313, con l’imperatore Costantino, ebbe libertà di culto; divenne religione di Stato con Teodosio, finché nel 415 l’imperatore Onorio comandò che le reliquie e le memorie dell’idolatria fossero abolite e distrutte,
Non si deve vedere la piccola valle di Vestino, con i finitimi paesi e valli, tutta cristiana nell’ultimo periodo romano; tutto fu lento e difficile per superare l’idolatria al gallico dio Bergirmo e ai romani Saturno, protettore dell’agricoltura, ai Mani, protettori della casa, a Pane, dio dei pastori, e a Flora e Proserpina, dee delle biade.
La tradizione vuole che la Valle sia stata convertita al Cristianesimo da San Vigilìo vescovo di Trento e martirizzato in Valle Rendena il 26 giugno del 400 dopo dodici anni di episcopato. Egli era giunto nella sede tridentina partendo da Milano: pertanto si è portati a credere, dalle chiese a lui dedicate, che il suo primo contatto sia stato con le popolazioni del Garda: Punta di San Vigilio, San Vigilio a Tignale e a Droane, San Vigilio in VaI Trompia sono una discreta catena entro la quale influì direttamente e, ancor meglio, con i suoi discepoli.

Nel 1185, il Conte Enrico d’Eppan cede i suoi possedimenti nelle Giudicarie al Vescovo di Trento, Alberto I. Tra i suoi vassalli figura Calapinus miles de Lodrone.
Emergono – nel frattempo – sempre più duri i contrasti tra Brescia e Trento, con l’investitura che, nel 1189, il vescovo Corrado fa agli illustri uomini di Storo del Castello e corte di Lodrone, con il patto però che non vengano ceduti ai bresciani.
Un secolo e mezzo appresso, Lodovico – il Conte del Tirolo – concede a Raimondo Lodrone i feudi di Bollone, Cadria e Droane. Questi vengono riconosciuti nel marzo 1363 da Albrigino e Pederzotto Lodrone, come provenienti dalla Contea del Tirolo e investiti dal Duca Rodolfo d’Austria il 13 gennaio 1396.
Un dominio, quello dei Lodrone, che si esprime nell’esercizio del diritto civile e criminale, con riscossione di tributi vassallatici da parte delle popolazioni locali sia in denaro che in natura. I paesi della Valle hanno un’amministrazione indipendente (Cadria è frazione di Magasa) e solo per le decisioni generali fanno riferimento al Generale Consiglio della Valle, che si riunisce a Turano.

Nel 1753, l’Impero d’Austria e la Repubblica di Venezia trovano un accordo per la delimitazione della linea di confine del Tirolo meridionale, che comprende la Valvestino. Il proclama viene emanato il 17 giugno, dopo i lavori della Commissione di Rovereto, cui sono presenti – in rappresentanza dell’Impero – il conte Paride di Wolckenstein e Giuseppe Ignazio de Hormayr. Per Venezia c’è il commissario Francesco Morosini.
A Rovereto, «rivolta con pari impegno l’attenzione al perpetuo stabilimento della reintrodotta pace», si decide che ogni anno, tra Pasqua e Pentecoste, dovrà essere esposto il proclama che si riferisce alle due comunità, austriaca e veneta. Vengono fissati i confini perché «se ne conservi presente la memoria e in caso di qualche mutazione questa si renda immediatamente osservabile in modo che non resti per l’avvenire alcun pretesto di ignoranza». Verranno quindi posti dei termini da revisionare ogni due anni, ma senza che vi sia pregiudizio per la strada comune o i sentieri. Si stabilisce che se la linea di confine viene oltrepassata «per ignoranza» da animali o pastori, non vi debbano essere «rappresaglie come accaduto per il passato, con tumulto popolare e toccando campana a martello».
Fissati i confini nel convegno di Rovereto, questi vengono resi visibili materialmente con la messa in opera di cippi in pietra dell’altezza di circa 80 centimetri e larghezza di 40. Ciascuno di essi porta un numero progressivo e l’indicazione dell’anno: 1753. È un lavoro che richiede costi che non vengono sollecitamente liquidati. Si fa sentire, per primo, il notaio Gio Pietro Marzadri che, il 27 settembre 1753, invia la nota spese per le «mercedi meritate» nell’operazione di stesura dei confini, per un totale di lire 14. Passano tre anni finché, nel 1756, è la Comunità di Magasa a rivendicare il rimborso delle spese per la revisione dei terreni a confine.
Dopo il 1796, la Valle assiste al passaggio di francesi ed austriaci.
Sono giorni caotici, aggravati dall’impossibilità di acquistare derrate alimentari nella Riviera bresciana del Garda a causa delle scorribande di briganti: in genere sbandati bresciani, veneti e bergamaschi. Condizioni alle quali si aggiungono ulteriori balzelli che gravano sulla gente per «spese belliche e contribuzioni somministrate ai Francesi di ragione propria della predetta Comunità  fiorini 1.920 da pagarsi ogni anno nel giorno della stipulazione del presente…». E’ il 1801 e l’evento va ad aggiungersi alla torrida estate che pochi anni prima – nel 1798 – aveva inaridito i raccolti, provocato un’epidemia di bovini e suini, cui era seguita una carestia.

1807: altra calamità naturale. Ne parla il tremosinese Tiboni:

«per istraordinaria impetuosa inondazione, i fianchi de’ monti si aprirono e franarono. Ogni convalle divenne torrente, onde il fiume [S. Michele o Campione] uscì dal suo letto e, sormontando le rive per tutto ove trovava pianura, si spanse, divelse e portò seco alberi antichi, scavò e travolse enormi macigni, abbatté i ponti, e tutto il fondo della Valle fu orrendamente sconvolto. E si reputò gran favore del cielo che veruno sia in tante rovine rimasto vittima».

L’evento ha ripercussioni anche sulla Valvestino. È in atto, infatti, ad inizio Ottocento, un fiorente commercio di materiale ferroso trasportato a Magasa e Cadria da Lorina di Tremosine.

La condizione economica della Valle è preoccupante.

Nel 1807, «stante la sua situazione produrrà all’incirca some di frumento 80,20 di segala, orzo galatico di poco buona qualità 70, sorgo turco 100, il tutto sufficiente per tre mesi all’anno. Mancano avena e formenton negro giungono dalla Riviera some 1.500 di miglio. Non vi è coltura di viti. Ufficialmente i boschi sparsi qua e là non ammettono misura certa. Per calcolo di approssimazione avranno l’estensione di 2.000 passi circa di sterile prodotto. I boschi non furono mai divisi in taglio ordinato e non esiste coltura forestale. Nella Valle non esiste commercio a motivo che le legne sono scarse e tardi giungono a maturazione. Egualmente, si può calcolare con difficoltà l’estensione dei pascoli e delle zone prative dei monti, perché questa Valle è per la maggior parte scoscesa. Gli abitanti, esclusi i pochi necessari al lavoro in campagna, devono cercare di guadagnare altrove da vivere. Non esistono manifatture, fabbriche o filande. Oltre ai poverissimi, la parte bisognosa della Valle ammonta a circa un quarto che sono occupati a guadagnarsi il vitto con fatiche giornaliere. La pulizia della campagna è affidata alla vigilanza di persone preposte, i camperai. Esiste qualche forno, ma provvisorio e solo per il bisogno del paese, vi si fabbricano mattoni d’occasione per il solo tetto, cioè fornaci per coppi e mattoni e calchere per calce. Non esiste alcuna cava di pietra, le case sono di sassi, ad eccezione del tetto».

Una realtà tragica, confermata dalla lettura di un contemporaneo documento del 1806: dalla “Tabella di coscrizione” delle persone obbligate alla classificata steora (del Distretto della giurisdizione della Val di Vestino) per il mese di novembre 1806, risulta che i contribuenti del Comune sono 247. Di questi, 61 figurano con la qualifica di operaio. Compare poi «un contadino con una vacca», 11 «contadini con due vacche», due «con tre vacche», uno «con 12 vacche», uno «con cinque vacche», due «con quattro vacche», uno «con sei vacche» ed anche tre «operai con tre vacche».
Tra le note a margine emergono preoccupanti situazioni personali: «senza dote e senza assegno vedovile», «vive con la terra già venduta e in più aggravato da debiti», «senza dote e senza pensione», «le vacche vengono mantenute con fieno altrui», «vacche mantenute con fieno la maggior parte comprato».

Alla statistica segue una nota esplicativa: «in questa classificazione sono state poste molte famiglie nella classe dei contadini perché possiedono una o l’altra vacca. Verità di fatto si è che la ristrettissima campagna viene coltivata dalle donne e gli omeni più della terza parte sono necessitati a portarsi nel limitrofo Regno d’Italia a procacciarsi il vitto mancante nel paese. In generale poi la totale posizione di questa valle è interamente montuosa ed alpestre, non produce vino di sorta, il terreno è sterile zappativo selvatico che appena porta a maturità, produce grano per tre mesi all’anno e gli abitanti sono costretti ad entrare in certi Paesi in tempo d’estate a procacciarsi vitto e impiego».

Un momento cruciale è segnato dal Congresso di Vienna (1814-1815) che, in parte, riporta l’Europa alla situazione pre-napoleonica. Risulta penalizzata Venezia, che finisce con l’essere sottomessa all’Austria. I domini della Serenissima subiscono in parte la stessa sorte e la Valle, che viene incorporata alla Contea principesca del Tirolo, fa ora riferimento al Capitanato Circolare di Rovereto.
I Conti di Lodrone si vedono restituire la proprietà feudale. Vi rinunciano il 29 giugno 1826.
La condizione economica della Valle peggiora: è di stenti e miseria ancora peggiori rispetto ad una ventina di anni avanti. Una congiuntura aggravata dalla carestia degli anni 1816-18l76.
Sono comunque attive calchere, fornaci da laterizi, fucine, cave di pietra nera. Si consolida la coltivazione del granoturco e, in breve, a seguito dell’occupazione francese, quella della patata e dei fagioli. I cereali finiscono al mulino di Magasa. Con il noce viene prodotto il mobilio e, con i suoi frutti, olio da illuminazione.
Tra le principali attività, figurano quelle del boscaiolo e del carbonaio come purtroppo attesta l’elevato numero di incidenti.
Qualche equivoco nasce attorno alla coltivazione del tabacco. Il 17 giugno 1859 la Pretura di Condino chiarisce che «la luogotenenza è venuta in cognizione che in molti Comuni è invalsa l’opinione che si può, nel corrente anno, coltivare liberamente tabacco per proprio uso, come negli anni 1848 e 1849. Si incarica di avvertire la popolazione di quei comuni nei quali fosse introdotta tale erronea opinione che la coltivazione del tabacco senza permesso è vietata».

Nel 1859 è in atto la Seconda Guerra d’Indipendenza che consegna la Lombardia al Piemonte.
L’Austria ammassa truppe al confine e il Capo Comune di Magasa viene raggiunto da un invito del Comune di Bondone.
Visto «il numero straordinario di militari accantonati nel territorio di Bondone che esige grande quantità di viveri e specialmente di carni, avendo questo Comune fino ad ora somministrato più di 15 armente, e converrà continuare, così si ordina anche a codesto Comune di prestare soccorso spontaneo col somministrare almeno tre armente da macello. Queste dovranno essere previamente peritate da persona intendente ed il Comune deve garantire a nome del Distretto il prezzo da pagarsi entro tre o quattro mesi corrispondendo frattanto l’interesse del 6% al venditore. Non si dubita che codesto Comune vorrà rifiutare tale requisizione, d’altronde spontanea, giacché in caso diverso verrebbero requisite forzosamente dalla forza armata, non senza subire le gravi conseguenze dispiacevoli a lui e dannose per i suoi amministratori».
In seguito, a Magasa giunge l’invito della Pretura di Condino a provvedere sollecitamente nel «fornire l’occorrente alle truppe sul monte Tombea e Comblone, specie vino, acquavite ed altri generi di cui abbisogna il militare», utilizzando per il trasporto «i muli per le provviste di carne da macello».
Nel 1862, la situazione di conflitto tra Austria e l’Italia continua a creare preoccupazioni.
Energico il richiamo della Pretura di Condino: «Per ordine superiore si avverte codesto Comune che attese le attuali relazioni politiche non si può tollerare senza una autorizzazione superiore le corrispondenze immediate fra i comuni tirolesi e quelli del Piemonte e che quindi, qualora le circostanze richiedessero una corrispondenza ufficiosa fra comuni di confine, il rispettivo comune avrà a rivolgersi alla soprascritta».
Una condizione, quella di terra di confine, che ingenera continui equivoci, specie per l’eventuale renitenza al servizio militare.
Nel 1889, Giovanni e Antonio Pace «appena sono entrati nel paese di Magasa essendo reduci dall’America si presentarono al Capo Comune affinché questo voglia fare cenno col rimettere il presente all’inclito Imperiale Regio Capitanato di Tione affinché questo voglia interporsi presso le autorità militari che gli sia più inclita la pena, la più mite essendo essi come refretari».
Assistenza medica carente, istruzione garantita da qualche persona più colta degli altri o dai preti che suppliscono anche all’assenza di notai dopo l’abolizione del collegio notarile della Valle. Chi non vuole ricorrere al clero si reca a Condino.
Modesta l’alimentazione: perlopiù polenta, pane e minestra, latte.
Intanto, crescono i contatti commerciali tra la Valle e l’Italia dove, tra il 1860 e il 1880, l’aumento della produzione agraria è il dato fondamentale dell’economia.
Il problema economico dell’Italia di quel periodo è, in verità, dato dalla mole crescente dei consumi, da porre in relazione con l’incremento fortissimo della popolazione passata dai 25 milioni del 1860 a oltre 29 milioni di vent’anni appresso.
Negli anni tra la Seconda e la Terza Guerra di Indipendenza (1859-1866), tra la frontiera italiana e quella austriaca della Valle vengono edificate alcune caserme.
L’Italia ne costruisce, per la Guardia di Finanza, al Casello di Dogana sul dosso della valle Rio di Vincerì, vicino allo sbarramento dell’attuale diga di Valvestino, a Cocca Veglie, nella zona di Capovalle, nelle vicinanze del Rio Secco, nelle vicinanze del passo Vesta e nella zona di Boccapaolone, in territorio di Gargnano.
Verso la fine dell’Ottocento, l’economia della Valle si basa sull’emigrazione. Gode di maggiore considerazione chi viaggia con passaporto austriaco.

Secondo lo storico bresciano Gabriele Rosa, la Valle di Vestino, «la più ricca di prodotti montani», versa a Gargnano intorno a mille quintali all’anno di carbone, che viene mandato fino a Torino, e offre pascolo a circa mille pecore.
Il gardesano Claudio Fossati descrive così la Valle, a fine Ottocento.
«Nessuna strada carreggiabile mette nella Valle, ma il sentiero più antico e più comodo è certamente quello che da Toscolano sale a ritroso del fiume e mette, in poco meno di sei ore, a Turano. Privi di industrie e di commerci, gli abitanti più agiati si dedicano all’allevamento del bestiame che hanno numeroso e di buona razza ed al caseificio, mentre i poveri validi emigrano in primavera nelle vicine province dell’Impero ed in Lombardia a esercitare il mestiere del carbonaio e taglialegna, nei quali sono abilissimi. Frugali e onesti, ritornano a tardo autunno ai loro monti con un gruzzolo di risparmi bastanti a svernare la famiglia. Anche i più poveri posseggono una casetta, l’orto e qualche palmo di terreno che viene lavorato a vanga dalle donne. I boschi comunali forniscono i poveri di legna per le famiglie e pascolo a qualche capra. Tutti sanno leggere e scrivere; hanno in generale ingegno acuto o parola immaginosa e facile, naturale disposizione a studiare ed apprendere, onde avviene che fra quei pastori e carbonai emersero spesso persone di vaglia. La criminalità è quasi affatto sconosciuta in Valle. Il solo contrabbando fomentato dalle ingiuste tariffe, dai facili guadagni, dalla povertà degli abitanti, è stimolo a violare le leggi. Le cime dei monti sono coperte di ricchi pascoli ove, durante l’estate, si nutriscono 600 vacche indigene premiatissime, circa 700 capre e altrettante pecore. Anche i prodotti del caseificio e il bestiame vengono esportati di preferenza per le vie di Gargnano. Fino a pochi anni fa i pascoli comunali, come anticamente, erano goduti insieme da Consorzi, cioè dei vari proprietari di bestiame i quali contribuivano un tanto per capo al municipio: ora la necessità di fare calcolo su somme determinate e certe fece dai comuni dare il sopravvento al sistema delle locazioni a lungo termine, perciò i più facoltosi dispongono essi soli dell’alpe con discapito dei piccoli allevatori. Sempre così: i governi aristocratici favoriscono i più poveri, i democratici i più danarosi. Strana fortuna delle parole. La popolazione è intelligente ma poco e mal nutrita, e traente origine da pochi ceppi, perciò è molto consanguinea e deve subire la triste influenza degli incroci. Tale situazione di fatto, sebbene gli effetti debbono essere stati contrariati dalla bontà dell’aria, dall’assenza di complicazioni sifilitiche, ha fatto espandere in Valle la scrofola e l’anemia che mietono vittime a preferenza sulle giovinette. Il dialetto della Valle è il bresciano con qualche rara forma trentina. Come tanti altri montanari pronunciano l’esse in principio di parola. Gli uomini vestono cappellaccio a cono con berretta di refe, camicia di lino aperta sul petto, brache a giustacuore di stoppa filata e tessuta in casa, gambiere di pignolato e zoccoli o scarpe basse. Le donne vestono succinte con la vita molto alta, come alla moda dell’Impero; sono resistenti alle fatiche: camminatrici, spesso accompagnano i mariti o vanno a visitarli e ad aiutarli alle baite, lontane sette o più ore di cammino, recando in spalla i bambini nelle loro culle di vimini, di assicelle di abete. Tre volte la settimana, un postino sale da Storo, il paese di notevoli dimensioni più vicino alla Valle, con lo scopo di distribuire le lettere che impiegano oltre sei giorni per giungere a destinazione. Per un pacchetto ci vogliono 14 giorni».
In merito all’istruzione, è diffusa l’abitudine di sottrarre i bambini alla frequenza scolastica.
Nel 1884, l’Imperiale Regio Capitanato di Tione scrive: «In non pochi comuni di questo Distretto si lamenta l’inconveniente che i genitori affidano i loro figli ancora obbligati alla frequentazione della scuola a terze persone, specialmente ad arrotini, spazzacamini, ecc. i quali li conducono il più delle volte in Stati esteri. Saranno avvertiti i genitori che l’obbligo della frequentazione della scuola dura fino all’età di 14 anni compiuti e che soltanto i fanciulli dell’età di 12 anni possono, da questo Capitanato, venire dispensati dall’ulteriore frequentazione dalla scuola, purché l’abbiano frequentata per sei anni (legge scolastica del 14 maggio 1869)».

Nel dicembre 1908, i comuni della Valle approvano all’unanimità i piani di Giulio Angelini, ispettore forestale di Brescia, per il rimboschimento di vaste plaghe boschive ormai denudate e quasi completamente improduttive. La posa di lanci e pino nero d’Austria dura dal 1900 al 1914.
Nel 1910, sorge a Magasa una cooperativa di consumo. Chiude nel 1930 per essere rilanciata nel 1933, ma ha vita breve.
Con la prima guerra mondiale, la Valle diviene italiana. Il 26 maggio 1913 entra in Turano una compagnia di soldati italiani ed i carabinieri occupano la gendarmeria lasciata dagli austriaci. Gli italiani «entrano prima per Moerna, Persone, Cadria, Magasa e vanno a posarsi sui prati di Magasa e quindi Tombea». I bersaglieri entrano in Magasa provenienti da Tignale, Cadria, Bocca Paolone e Costa di Gargnano.
Una Cassa Rurale aveva aperto i battenti nel 1910. Due anni prima un’analoga iniziativa era decollata a Moerna e nel 1921 anche Turano ha la sua Cassa Rurale, tuttora operativa sotto la denominazione di Banca di Credito Cooperativo di Bedizzole e Turano Valvestino.
Il 1914 potrebbe essere l’anno buono per la costruzione dell’impianto telefonico nella Valle, autorizzato dal Ministero del Commercio austriaco.
Tutto sembra procedere a dovere, ma la “Post telegrafen Direction di Innsbruk”, il 28 dicembre, scrive:
«La costruzione di un impianto telefonico nella Valle di Vestino si sarebbe incominciata coi lavori tosto che fosse stato disponibile un corrispondente numero di lavoratori adatti e fossero stati pronti i pali. In seguito al subentrare immediato della situazione creata dalla guerra non può purtroppo venire più mantenuta. Le condizioni finanziarie dello Stato non permettono più spese rilevanti per la costruzione di impianti telegrafici o telefonici; l’Imperiale Regio Ministero del Commercio ha perciò disposto che ora simili costruzioni telefoniche, fino a nuovi ordini, possono venire promesse solo quando gli interessati siano disposti a pagare anticipatamente l’introito tasse dell’ammontare di tutto l’importo della spesa di costruzione, che nel caso attuale importano 7.300 corone. Il rimborso di questo importo che sarebbe da dedicarsi senza interesse, verrebbe effettuato colla consegna degli introiti-tasse dei parlatori della Valle di Vestino agli interessati. Questo stato di cose durerà per lo meno per tutto il 1915; probabilmente però dovranno risentirne anche i prossimi anni. Essendoché escluso che gli interessati della Valle di Vestino siano o verranno ad essere in grado di dedicare il suddetto importo per la costruzione del telefono colà, la costruzione dell’impianto telefonico per la Valle di Vestino deve venire prorogata a tempo indeterminato».
Nell’autunno 1913 riprende l’insegnamento nelle sette scuole della Valle, con insegnanti del posto o inviati dal Commissariato Civile. Il Commissariato provvede anche a dispensare dalla frequenza alle lezioni i ragazzi che devono lavorare nei campi in primavera. Esonero anche in occasione dei tridui e per la festa patronale.
Ripresa l’attività abituale dopo la Grande Guerra, la gente della Valle ritorna ai lavori consueti, in specie l’allevamento. Riprende la coltivazione del foraggio, dei cereali, di patate e ortaggi.
Carbonai e boscaioli lavorano sul posto o emigrano.
Permane una situazione di disagio sotto l’aspetto sanitario: prosegue l’assistenza dei medici militari dopo il 1918, poi, nel 1924, ecco un medico condotto.
I Comuni di Armo, Bollone, Moerna, Persone, Turano e Magasa vengono unificati il primo marzo 1929. Nel 1931, il nuovo Comune prende il nome di Valvestino. Successivamente, in periodo fascista, la Valvestino entra a fare parte della provincia di Brescia, nel 1934.
Dal primo gennaio 1948, Magasa torna a formare Comune a se.
La carrozzabile che collega Magasa agli altri nuclei abitati della Valle viene messa a punto tra il 1931 e il 1932, negli anni – quindi – immediatamente successivi alla grave crisi economica mondiale del 1929 che riducono la possibilità di ricorrere all’emigrazione.
Una boccata di ossigeno per l’occupazione giunge dalla costruzione della Gardesana Occidentale nel suo tratto da Gargnano a Riva (1929-1931) e della Navazzo-Magasa (1934), tronco stradale, quest’ultimo, necessario per rivitalizzare la Valle. Il progettista è Federico Cozzaglio.
Il servizio di autocorriera da Magasa a Gargnano è operativo dal 1933.
La strada di collegamento con Cadria viene realizzata tra il 1958 ed il 1968.
Dal 1942 al 1946 opera nella Valle un cantiere per la raccolta della resina dei pini, denominata Resinera.
Un nuovo e notevole impulso alla vita della Valle viene offerto dal 1939 al 1962 con la costruzione della diga che sbarra il torrente Toscolano.

L'emigrazione valvestinese nei territori del Principato vescovile di Trento è documentata in atti notarili, già a partire dal XIII secolo, ove i valligiani compaiono come testimoni in compravendite, nelle successioni ereditarie o nelle deliberazioni delle comunità che li ospitavano. Il nome del primo valligiano compare in una pergamena del 1202, quando, lunedì 18 novembre, ad Arco di Trento, in un terreno di proprietà dei sacerdoti della Pieve di Santa Maria, un certo diacono Laçari "de Vestino" presenzia come testimone alla vendita di "un fitto annuo di due gallette di frumento corrisposto da Otebono figlio di Marsilio arciere" tra l'arciprete della stessa pieve e il presbitero Isacco. Sempre ad Arco, il 21 novembre del 1257, un altro valvestinese, "Odorici de Valvestino" testimonia alla stesura delle ultime volontà di Zavata, figlio del fu Antonio da Caneve. Una compravendita del 17 aprile 1277 avvenuta a Civezzano, nei pressi di Trento, rivela anche in quel luogo una presenza di emigranti di Valle, difatti una certa "domina Bonafemina", moglie del defunto notaio Martino "de Vestino", comprò per 4 lire veronesi un casale agricolo sito a Vallorchia.

Nella cittadina di Riva del Garda si stabilì una piccola ma operosa comunità di emigrati. Il 23 febbraio 1371, sotto il porticato del Comune, "Tonolo condam Iohannis de Vestino" riunito in pubblico consiglio con altri cittadini di Riva, su mandato del podestà Giovanni di Calavena per conto di Cansignorio della Scala, vicario imperiale di Verona, Vicenza e della stessa Riva, partecipa all'elezione dei procuratori della comunità. Altro caso è quello di "Antonii sartoris de Vestino condam Melchiorii" che il 12 febbraio 1417 è convocato per l'elezione dei procuratori della comunità rivana nella vertenza con gli uomini di Tenno che si oppongono al pagamento delle collette dei beni posseduti nel loro territorio. Tra il 1400 e il 1500 una forte emigrazione di mano d'opera costituita da mastri muratori, falegnami e lapicidi proveniente dai laghi lombardi interessò Verona e la sua provincia e in special modo la Valpolicella; una parte di questi emigranti era originaria della Val Vestino ed alcuni operarono nell'edificazione di casa Capetti a Prognol di Marano di Valpolicella.

Un'emigrazione stagionale come carbonai in Val di Fiemme è attestata invece il 29 maggio 1522 quando a Cavalese Bartolomeo Delvai, "scario", concede in locazione per un anno a Giovanni Zeni di Val Vestino il taglio del legname nei boschi di Scales e nel 1569 a Mestriago in Val di Sole con Valdino fu Giovanni de Vianellis di Magasa.

Bonifacino da Bollone vissuto nei primi decenni del Duecento. Fu un condottiero ghibellino e castellano di Turano e Bollone. Nel 1240 fu investito da Sodegerio da Tito, podestà di Trento su mandato dell'imperatore Federico II di Svevia, del permesso di edificare un castello sul dosso di Turano per difendere la Valle dalle incursioni dei guelfi bresciani.
Il sacerdote-brigante don Giovanni Antonio Marzadri (Gargnano, 1568 ca.-Salò, 4 luglio 1609), figlio di Tommaso di Turano. Ex rettore della Pieve di San Giovanni a Turano dal 1594 al 1603, fu bandito dai territori della Serenissima il 19 agosto 1603 dal provveditore veneto di Salò, Filippo Bon, per aver commesso omicidi e nefandezze varie. Rivale della banda di Giovanni Beatrici detto Zanzanù di Gargnano, fu da costui il 19 dicembre 1608 assediato nel campanile di Pieve di Tremosine e poi, grazie all'intervento della popolazione locale, consegnato alla giustizia. Interrogato dal provveditore ammetterà di essere un bandito e fu giustiziato sulla pubblica piazza di Salò nella mattina del 4 luglio 1609.
Eliseo Baruffaldo (o Baruffaldi), vissuto tra il XVI e il XVII secolo, fu un noto brigante della banda di Giovanni Beatrice detto Zanzanù di Gargnano che si macchiò, tra il 1602 e il 1617, di oltre 200 omicidi compiuti nell'Alto Garda. Eliseo Baruffaldo nell'estate del 1603 uccise Giacomo Sette detto il Chierico, nemico giurato di Giovanni Beatrice e noto bandito di Maderno; ne portò la testa per il rituale riconoscimento al fine di poterne incassare la taglia al provveditore veneto di Salò e di usufruire inoltre della facoltà di liberarsi da un bando che gli era stato comminato negli anni precedenti dalla magistratura veneta. Baruffaldo fu a sua volta ucciso nel 1606 assieme a Giovan Pietro Sette detto Pellizzaro da alcuni cacciatori di taglie e da alcuni nemici del Beatrice che il Provveditore generale in Terraferma, Benedetto Moro, in tutta segretezza, aveva inviato sulle loro tracce. I due vennero catturati e poi uccisi sul posto l’11 novembre 1606 in un agguato notturno teso nella Vallata del Droanello, a Lignago e al Covolo del Martelletto, e le loro teste mozzate vennero esposte nella piazza di Salò per il loro riconoscimento.
Don Bartolomeo Corsetti, nacque a Turano il 5 giugno del 1597 da Michele e Zuannina, presbitero benacense, curato a Muslone di Gargnano poi preposito e vicario foraneo di San Pietro di Liano nel Comune di Roè Volciano. Nel 1683 pubblicava a Brescia, in latino, lo scritto “Memorie dell'antica Casa di Lodrone” dedicandola al nobile bresciano monsignor Carlantonio Luzzago, vicario capitolare e generale della diocesi di Brescia per ben 36 anni.
Il notaio Domenico Salvadori vissuto tra la fine del Seicento e il 1700: nel 1709 "Dominicus filius quondam Michaelis de Salvadoribus de Bollono Vallis Vestini caesarea auctoritae notarius; et anno 1712 (Magasiae)", operava in Valle.
La famiglia Andreoli di Armo che, nel capostipite Donato, trovò nel corso del Settecento fortuna e ricchezza a Toscolano nella produzione della carta presso la cartiera di Maina Superiore nella Valle delle Cartiere.
Antonio Marzadri, sacerdote. Nacque a Turano il 2 aprile 1721; fu curato a Molveno nel 1768 e premissario a Bollone nel 1789 e nel 1793, infine curato a Turano nel 1786 e a Moerna dal 1793. Nel 1798, insieme a Francesco Rizzi detto Spezier, speziale di Moerna, fu arrestato e carcerato in Trento nel Castello del Buonconsiglio, con la terribile accusa di tradimento di Stato, probabilmente compromesso a causa di fatti, a noi oscuri, legati all'invasione napoleonica del 1797, ma il 15 settembre 1798 entrambi furono dichiarati innocenti dal Consiglio di Trento e tali furono dichiarati nella "Gazzetta di Trento" del 18 settembre al foglio numero 75. Morì a Moerna nel 1803.
Dottor Leopoldo Bartolomeo Corsetti, primo medico chirurgo di Val Vestino, nacque il 21 febbraio del 1788 da Martino e Domenica Giorgi. Studiò medicina all'università di Pavia con i professori Berda e Antonio Scarpa laureandosi il 21 gennaio del 1822 e servì la Valle sempre gratuitamente, così risulta scritto nell’Archivio Parrocchiale di Turano. Ebbe una vita travagliata. Morì il 15 ottobre del 1853 e fu sepolto nel locale cimitero di San Rocco.
Andrea Springhetti (Cles, 25 gennaio 1815-Levico Terme, 22 maggio 1876), sacerdote e patriota. Parroco di Turano, nell'aprile del 1848, con lo scoppio della prima guerra di indipendenza, fu tra i propugnatori dell'adesione dei comuni valvestinesi all'unità d'Italia e al Governo provvisorio bresciano. Capellano dei Corpi Volontari Lombardi sul monte Stino, fu condannato a morte dagli austriaci e costretto alle dimissioni da sacerdote il 18 novembre 1848 e a riparare a Brescia e poi in Piemonte come cappellano militare dell'esercito sabaudo. Usufruì dell'amnistia dell'agosto del 1849. Parroco a Condino fu rimosso dal posto per le insistenze della polizia austriaca presso il vescovo di Trento. Ritiratosi a Levico Terme come prete privato, le sue mosse furono continuamente sorvegliate dalle autorità di polizia e nel 1866, con l'invasione del Trentino fu "qualificato come favoreggiatore aperto con parole e con fatti all'invasione, come seduttore dei parrocchiani perché essi abbraccino il partito della rivolta consigliando l'arresto dei più devoti cittadini dell'Austria".
Don Bartolomeo Corsetti nacque a Turano il 20 settembre del 1823, figlio di Bartolomeo e Domenica Stefani di Magasa, sorella del noto professor don Giovanni Stefani morto a Parigi. Frate cappuccino nell'arcidiocesi di Trento col nome di padre Bernardo da Turano, si secolarizzò il 3 aprile del 1865. Fu sacerdote a Persone, Treviso Bresciano e nel mantovano a Castellucchio. Ereditò dallo zio professor Stefani varie opere in francese che, con altre, donò al convento dei cappuccini di Condino. Morì a Turano il 20 giugno del 1903 e una campana della chiesa di San Rocco, a quando si raccontava in paese, portava il suo nome.
Don Pietro Porta (1832-1923) il botanico di Moerna.
L'operaio Domenico Corsetti (1869-?) di Turano fu il primo emigrante valvestinese documentato che sbarcò nel 1880 negli Stati Uniti d'America nel centro di smistamento di Castle Clinton a New York a soli 11 anni d'età, presumibilmente con il padre.


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