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sabato 25 luglio 2015

IL SACRO MONTE DI CERVENO



Cerveno è una località della Val Camonica, ai piedi del massiccio montuoso di natura dolomitica della Concarena. La parte più antica del paese ha mantenuto un aspetto tipicamente medioevale con i suoi stretti vicoli, gli ampi archivolti di accesso alle corti, i due mulini ad acqua, le numerose fontane. In questo scenario, ogni dieci anni, prende vita la Sacra rappresentazione della Santa Crus.
L'intera popolazione di Cerveno celebra la memoria della passione di Cristo con un corteo di personaggi in costume ispirati ai riti processionali ed alle sculture di Beniamino Simoni raffigurati nelle cappelle del Santuario della Via Crucis. E' come se i personaggi raffigurati nel percorso devozionale interno alla chiesa, improvvisamente si animassero per lasciare il santuario e percorrere tutto il paese insieme ad una moltitudine di pellegrini.
La particolare data di svolgimento della manifestazione, che non avviene durante la Settimana Santa ma nel mese di maggio, è legata alla festa dell'Invenzione della Croce" che cadeva il 3 maggio prima della Riforma liturgica. La prima edizione documentata della Santa Crus risale al 1894; interrotta nel 1933 fu ripresa dopo la guerra e, dal 1972, si svolge con regolarità rispettando la cadenza decennale.

La preparazione dell'avvenimento comporta mesi e mesi di lavoro per gli abitanti di Cerveno, impegnati oltre che come figuranti, nella realizzazione artigianale dei costumi e dei particolari addobbi ottenuti con rami di abete ed innumerevoli fiori di carta di incredibile varietà e perfezione che abbelliscono ogni portone e finestra del paese. Numerosissime le persone che, per curiosità o pratica devozionale, si radunano nei luoghi delle diverse stazioni della Via Crucis e si uniscono al corteo fino a raggiungere, in alto, sul pendio della montagna , la radura in cui avviene la Crocifissione. Il momento è molto intenso: le tre croci si stagliano all'orizzonte dominato dalla sagoma irregolare della Concarena. La mestizia dei canti ed il profondo silenzio degli astanti sottolineano la tragicità dell'evento.
Dopo la deposizione di Gesù, l'urna con la scultura del Cristo deposto, dal Cimitero viene riportata in processione all'interno della chiesa parrocchiale in cui è normalmente custodita.
Il Cristo deposto è una pregevole opera scultorea di Andrea Fantoni di cui la Parrocchiale, dedicata a S. Martino di Tours, conserva numerose opere realizzate dall'artista stesso e dalla sua bottega tra il 1700 e il 1729. Oltre che alla loro presenza, l'eccezionale valore artistico e devozionale di questa chiesa deriva dal fatto di costituire un unico complesso monumentale che comprende l'Oratorio della Madonna del Carmine, ornata da affreschi del XV e XVI secolo, ed il Santuario della Via Crucis.
Quest'ultimo, meta continua di pellegrinaggio, è un singolare esempio di Sacro Monte interamente dedicato alla Passione di Cristo. Il percorso devozionale, articolato in quattordici stazioni che ripercorrono il viaggio di Gesù dal pretorio di Pilato al Monte Calvario, si snoda ai lati di una Scala Santa che sembra trovare ideale collocazione tra le cime delle montagne circostanti. Da una lato la Concarena, dall'altro il Pizzo Badile con il quale l'edificio del Santuario è disposto perfettamente in asse.

Il meno conosciuto, ma forse il più straziante dei Sacri Monti alpini. Con le sue 14 cappelle animate da quasi 200 statue a dimensione naturale che rievocano gli episodi della Via Crucis come su un palcoscenico dove il pubblico è libero di muoversi e commuoversi, quello di Cerveno, in Val Camonica, è un santuario dove l'arte fa davvero miracoli. Merito dello scultore bresciano Beniamino Simoni (1712-1787) che a metà del Settecento completò il suo capolavoro di intaglio dedicato alle stazioni del Calvario, inno alla fede ma anche al realismo della rappresentazione. Tanto da aver messo in ginocchio Giovanni Testori che lo scoprì fra i primi nella sua caccia appassionata ai "gran teatri montani", come definì le succursali alpine dei luoghi sacri della Terra Santa, e celebrò Cerveno in un testo storico lodandone «l'urto e la concretezza» in quel «accumulo di teste e di "crape" che sporgon giù, come sassi e pietre, dal balcone dell'Incoronazione di spine».

Molto è stato detto e da critici d’arte famosi, sulle 198 statue, scolpite in legno, ricoperte di stucco e dipinte, che costarono una fortuna ai poveri abitanti di Cerveno. Di certo non si esce dal santuario senza aver provato forti emozioni sia spirituali che artistiche. Il Cristo è al centro d’ogni stazione: il suo volto è del tutto spirituale, lontano, quasi non fosse partecipe della violenza e della ferocia che si scatenano tutt’intorno. È come se accettasse ciò che inevitabilmente gli deve succedere. Il suo corpo, di contrasto, è forte e giovane, richiama la vita non la morte. I volti delle donne sono di pena sgomenta, d’angoscia intima e profonda, con urla nella gola. Le facce dei carnefici e dei soldati romani esprimono crudeltà e rancore: l’atteggiamento dei loro corpi si adegua perfettamente ai sentimenti espressi dal loro viso. Ma occorre capire da soli perché i sentimenti e le emozioni cambiano secondo il tuo stato d’animo. È difficile in questo caso mantenersi equilibrati nel giudizio estetico.

Il Santuario della Via Crucis è notissimo in tutta la zona e meta di pellegrinaggi da ogni parte della valle; consiste in una sorta di galleria a gradoni in salita, eretta a lato della parrocchiale, sui due fianchi della quale si aprono quattordici cappelle-stazioni, capolavoro dell'intaglio ligneo nel '700. Le cappelle, raccolte ai lati di una scalinata, custodiscono un unico edificio la cui facciata dà sulla piccola piazza di Cerveno.

Le stazioni VIII -IX - X sono state completate dai nipoti del Fantoni, mentre la XIV è dell'artista milanese Selleroni (quella originale del Simoni è conservata nel Duomo di Breno). Gli affreschi alle pareti sono dello Scotti e dei fratelli Corbellini. L'entrata abituale al Santuario avviene attraverso la porta principale della chiesa parrocchiale, che si apre di fronte alla prima cappella; la altre stazioni seguono sul muro settentrionale in discesa e poi risalgono sul lato opposto fino alla grande cappella della Deposizione, situata sul fondo dell'edificio stesso. La quattordicesima stazione finì in una cappella privata di Breno e si trova oggi in Duomo, quella che occupa il suo posto nel santuario fu realizzata nel 1869 dal milanese Selleroni. Gli affreschi alle pareti sono dello Scotti e del Corbellini.

La prima stazione della Via Crucis non si trova accanto alla porta d'ingresso del Santuario ma nella parte alta della Scala, vicina all'ingresso interno della chiesa parrocchiale. Discesi fino alla VII stazione dove Gesù cade per la seconda volta, si incomincia a salire verso l'ultima cappella in cui è rappresentato Gesù posto nel sepolcro.
Ideatore di questa monumentale Via Crucis fu don Pietro Bellotti da Villa d'Allegno, parroco di Cerveno dal 1692 al 1732 che fu anche promotore delle principali opere d'arte della Parrocchiale.
Il suo progetto, condiviso dalla popolazione, prevedeva la realizzazione di tutte le Cappelle presso la chiesa parrocchiale contrariamente a quanto proposto da Andrea Fantoni a cui, pare, ci si fosse rivolti in un primo tempo per la realizzazione dell'opera. Dopo la morte del Fantoni, il nuovo parroco, don Andrea Boldini di Saviore si affidò al bresciano Beniamino Simoni , eccellente artista del legno e dello stucco che, per realizzare l'incarico assegnato, soggiornò a Cerveno per circa undici anni.
La fabbrica delle cappelle della Via Crucis iniziò il 1 gennaio 1752 essendo parroco don Giovanni Gualeni da Lovere che vide completata l'opera dal suo successore don Bartolomeo Bressanelli di Sellero.
A Beniamino Simoni sono da attribuire la maggior parte delle 198 statue a grandezza naturale in legno e stucco che popolano le cappelle, figure che ricordano visi e costumi della popolazione locale. L'VIII, la IX e la X stazione sono invece da attribuire alla scuola di Andrea Fantoni mentre la XIV venne realizzata nel secolo successivo.
Per la costruzione delle cappelle furono chiamati tre capimastri e numerosi operai; per le decorazioni delle architravi, dell'interno delle cappelle e della galleria di accesso prestarono la poro opera i pittori Bernardino Albrici di Scalve, Paolo Corbellini di Laino della Val d'Intelvi e Giosuè Scotti.
L'ingente impegno economico per la realizzazione della Via Crucis fu sostenuto dalle generose offerte della popolazione di Cerveno, della Valcamonica, della Valtellina e del Bergamasco. Per regolarizzare la raccolta delle offerte fu anche nominata una persona addetta a questo compito chiamata " romito de le capele de Servè".
Nel 1763 il parroco don Bressanelli si rivolse ai Fratelli Fantoni perché completassero le parti non ultimate dal Simoni; la nota dettagliata delle spese di completamento dell'opera è minuziosamente descritta nel registro dei conti della Parrocchia di Cerveno.
L'inaugurazione della Via Crucis avvenne nel 1783; nella XIV cappella, non completata, venne collocato il "Cristo Deposto" realizzato nel 1709 da Andrea Fantoni per la Parrocchiale. Circa cento anni dopo, nel 1869, fu scolpito dal milanese Giovanni Selleroni il gruppo di statue che rappresentano Gesù posto nel sepolcro. La realizzazione della nuova cappella comportò la trasformazione dello spazio originario e la perdita dell'affresco di Corbellini raffigurante la Resurrezione.
Alcuni studiosi ipotizzano che il gruppo del Compianto di Beniamino Simoni, collocato nella chiesa di S. Maurizio di Breno, possa considerarsi la conclusione ideale ed artistica della Via Crucis di Cerveno. Forse l'artista realizzò quest'opera proprio per la XIV cappella.

Alla scelta dell’artista non è forse estranea una possibile ascendenza ebraica, ascendenza che comunque si può solo intuire dal nome e dal cognome-patronimico: Beniamino figlio - o discendente di Simone. Dunque il messaggio è chiarissimo: coloro che hanno crocifisso Cristo, che lo crocifiggono ogni giorno sono i contadini stessi che guardano le cappelle. Sono loro, con la loro fisionomia e i loro strumenti che crocifiggono un uomo “con quella professionale attenzione necessaria per la perfetta esecuzione del lavoro, senza turbarsi troppo, come se quello fosse un lavoro di tutti i giorni” (Frandi - Cagnoni, 1969, p. 144). Dunque il contadino-spettatore deve interiorizzare la colpa e sperare nella salvezza seguendo i dettami dell’autorità costituita (religiosa e politica), quella stessa che ha fatto erigere la monumentale via crucis. Il carattere persuasorio dell’insieme dell’opera è dimostrato anche dal fatto che le cappelle sono disposte in maniera tale che esiste un punto di osservazione privilegiato e in qualche modo obbligato come, secondo le indicazioni di Eugenio Battisti (Battisti, 1983, p. 14) accade anche nei vari sacri monti: bisogna passivamente osservare quello che i committenti vogliono che lo spettatore osservi e nel modo in cui essi hanno deciso che lo si osservi così: “la passione, suggerita dall’imitazione di Cristo, è prosaico e quotidiano consenso, entro un noioso quadro catechistico. Il realismo è un’arma dolce di persuasione silenziosa” (Battisti, 1983, p. 15). La lettura in chiave populistica della via crucis di Cerveno, quella lettura proposta con grande enfasi da Giovanni Testori nel 1966 e ripresa dieci anni dopo (Testori, 1976), una lettura “di opposizione collettiva, muovendo dal basso, e di recupero delle proprie tradizioni arcaiche” (Battisti, 1983, p. 10) va dunque abbandonata. Né si può leggere in Simoni un artista in ritardo, tutt’altro. Dalle opere emerge “la complessità dei linguaggi e della cultura artistica del suo autore, molto più vasta, molto al di là di quella che venne definita caratteristica della ‘gran falegnameria camuna’ (Testori), cioè di quella dei Ramus, del Piccini, degli Zotti eccetera. Si tratta di una cultura che è anche molto al di là della pura pittorica, come ha visto lo stesso Testori: così Simoni non si limita al Romanino di Breno e di Bienno - che pure rimane uno dei suoi referenti continui , né a tutta la tradizione che risale al Savoldo; la sua cultura tocca le epoche più lontane e più varie, dal romanico al gotico italiano al gotico franco-borgognone a cui si ispira moltissimo, al gotico tedesco al ‘400 toscano, fino all’area dei Compianti lombardo-emiliana  della fine del ‘400” (Minervino, 1992, pp. 29-30). Simoni a Cerveno usa gli strumenti tipici del linguaggio controriformista di un secolo prima. Ma altre sue opere sono ben diverse, soprattutto quelle bresciane scolpite dopo il 1761, cioè quando Simoni interrompe le cappelle. Ma anche restando in Valle, ben diverso dalle sculture di Cerveno è il Compianto recentemente ricollocato nella sua sede naturale della chiesa di san Maurizio di Breno “che rivela una sintassi ‘colta’, per esplorare dell’animo umano i recessi più intimi e dolenti, quelle profondità dove solamente può avvenire ‘la compartecipazione totale del credente alla passione di Cristo’. Un comunicare sommesso, carica di affetti e di dolore trattenuto, di silenziosa disperazione e intima solidarietà, unisce il gruppo della Vergine, delle pie donne, della Maddalena e di Giovanni intorno al corpo di Cristo morto” (Ferri Piccaluga, 1989 -1-, pp. 79-80). Il   Compianto di san Maurizio è di composta e contenuta teatralità, i gesti sono equilibrati; la categoria di “classico” che domina nel secondo settecento si può applicare a quest’opera e proprio per i caratteri formali così diversi da quelli cervenesi è da escludere che questa sia la quattordicesima cappella di Cerveno, come vuole la “leggenda popolare”. Gabriella Ferri Piccaluga (1989 – 1- e 1980), indagando il significato storico e politico della chiesa di san Maurizio come santuario della via crucis e, quindi, della funzione in essa del Compianto di Simoni, giunge proprio a tale conclusione. Dunque Simoni è perfettamente in grado di utilizzare un linguaggio moderno e non “dialettale”. Se a Cerveno ricorre al realismo barocco di un secolo prima, piegando la sua innegabile capacità ottica e prospettica, la scienza anatomica e l’abilità di rappresentare l’espressione dei moti dell’animo e del corpo in una vera e propria estetica del bello a rovescio, è evidente che si tratta di una scelta. E, per essere sintetici fino alla brutalità, si tratta di una scelta funzionale alla persuasione voluta dalla committenza. A Cerveno c’è l’evidente anomalia di un “sacro monte” non costituito da cappelle sparse su un pendio, ma al coperto, anomalia che, evidenzia la Minervino , “Cerveno condivide solo con quello di Valperga Canavese, anch’esso svolgentesi su una grande scala santa, e anch’esso settecentesco” (Minervino, 1992, p. 29). In effetto “La via crucis cervenese non è un prodotto atipico nelle intenzioni della committenza. Attorno alla metà del ‘700 si assiste, infatti, a una consistente ripresa del culto della via crucis. Nel 1741 - undici anni avanti che il Simoni ponesse mani alla commessa cervenese - san Leonardo da Porto Maurizio ne erige una imponente in Roma, su diretto invito di Benedetto XIV; ma già dieci anni prima un altro papa, Clemente XII,  aveva accordato ai Minori Osservanti la facoltà di erigere via crucis in qualunque luogo, facoltà poi estesa ai Minori Riformati, mantenendo gli stessi privilegi indulgenziali. È questa ripresa del culto cristologico che giustifica storicamente anche la via crucis cervenese e la quasi contemporanea - sebbene assai più modesta via crucis della chiesa di san Maurizio in Breno” (Lorenzi, 1983 -1-, p. 154 ). Il santuario di Cerveno, anche se promosso dai parroci, è di sicura ispirazione francescana e si pone come il nucleo centrale del culto cristologico in un luogo relativamente avanzato della Valle Camonica verso il “confine del nord” (per riprendere il bel titolo del testo della Piccaluga) cioè verso le terre protestanti. La funzione suasoria di far interiorizzare la colpa ai villici refrattari si unisce alla funzione di difesa dell’ortodossia contro il pericolo dell’infezione luterana “todesca”. Per completezza è bene aggiungere che neppure all’interno della chiesa e del clero questa proposta di spettacolarizione delle manifestazioni religiose con intenti persuasivi e colpevolizzanti era universalmente condivisa. Questa è la tesi vincente, delle gerarchie ecclesiastiche rappresentate dal vescovo di Brescia Giovanni Nani, filogesuita, e dei francescani, ma avversata in loco dal vicario foraneo e parroco di Cividate Camuno Giovan Battista Guadagnini, uno dei più rappresentativi giansenisti italiani, più attento ad una religiosità meno esteriorizzata e che non rifiuta l’analisi razionale di credenze e di pratiche. Fra queste ultime proprio il “pio esercizio” della via crucis pare al dotto arciprete scritturalmente poco fondato (Cfr. Signorotto, 1983, pp. 121-142) e quindi, di fatto, rispondente ad altre esigenze rispetto a quelle di vera religiosità. Del tutto diverse da quelle simoniane sono le tre cappelle (VIII, IX, X) di Francesco Donato e Grazioso Fantoni, nipoti del più celebre Andrea, alla cui scuola risalgono le altre opere lignee conservate nella chiesa. Ritorna in queste cappelle la tipicizzazione somatica dell’Ebreo e la rappresentazione delle figure popolari torna ai canoni del grottesco che Simoni aveva abbandonato per scelte più realistiche; anche la stessa figura del Cristo è meno “bella”. In tal modo la finalità di costringere i contadini spettatori ad immedesimarsi nelle figure dei persecutori di Cristo, che è tipico dell’operazione simoniana, viene ad essere del tutto abbandonata: il coro degli aguzzini è costituito da “altri” come Ebrei, Romani, personaggi stereotipati secondo i canoni del grottesco, non più dai Cervenesi realisticamente rappresentati con le loro espressioni e  i loro attrezzi. Insomma la bottega di Rovetta sforna un’opera assai più tradizionale, certo di abile mestiere ma nulla più.


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mercoledì 24 giugno 2015

IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DEL BISBINO



L'antico santuario della Beata Vergine del Bisbino, costruito nel sec. XVII, ma rimaneggiato all'inizio dell'Ottocento. Il santuario è meta di numerosi pellegrinaggi, soprattutto durante le festività mariane. Testimonianza di questa devozione popolare sono i numerosi exvoto, alcuni risalenti anche al secolo scorso, conservati all'interno del santuario stesso.

È frequente imbattersi per le vie di Rovenna, ma anche di Cernobbio, in edicole che recano un’effige della Beata Vergine del Bisbino, molto venerata dalle popolazioni locali nel santuario a lei dedicato sulla sommità del monte.
L’origine di questo santuario si perde nella leggenda. Vuole la tradizione che fino al XIV secolo la vetta di questo monte fosse acuminata; i pastori ne avrebbero spianato la sommità, impiegando la roccia ricavata per realizzare un piazzale e costruire una cappella dedicata alla Madonna, usata anche come riparo dagli orsi e dalle intemperie. Il primo documento che attesta la presenza di una chiesa sulla cima del monte è un atto di vendita datato 26 luglio 1368. Ma la celebrità del luogo risale al 1630: in quell’anno la peste colpì pesantemente il territorio. Il 20 maggio la comunità di Rovenna, guidata dal parroco, si recò in processione alla Madonna del Bisbino, facendo voto, se fosse stata preservata dal contagio, di ripetere il pellegrinaggio ogni primo mercoledì del mese per un anno intero. Anche Sagno fece lo stesso, e pure il vescovo di Como, Lazzaro Carafino. Le comunità uscirono salve dall’epidemia e la popolarità della chiesa crebbe notevolmente, i pellegrini diventavano sempre più numerosi.
Nelle numerose raffigurazioni devozionali presenti nelle cappellette della zona la Madonna del Bisbino non è sempre rappresentata nello stesso modo. A volte è raffigurata in piedi, con il Bambino in braccio, come nella grande statua marmorea presente sull’altare maggiore già al tempo del vescovo di Como Feliciano Ninguarda (1592) e riportata nella sua sede originaria solo nel 1933.
L’altra raffigurazione della Madonna la vede seduta, con il Bambino sul ginocchio sinistro, come nel piccolo simulacro ligneo ora conservato nello spazio retroaltare, e già presente in Santuario nella seconda metà del secolo XVIII. Questa statua è stata venerata sull’altare maggiore quale immagine miracolosa per tutto il XIX secolo fino al 1933, diventando il simbolo del santuario stesso. Secondo la tradizione popolare questo simulacro proverrebbe infatti dal sottostante alpeggio detto Boeucc. La raffigurazione di questa statua è quella più frequente nei numerosi ex-voto conservati nel santuario, preziosa testimonianza della grande devozione popolare. Storie in cui l’ordinario e lo
straordinario si intrecciano, da cui emerge la profonda gratitudine alla Madonna del Bisbino, sempre accanto all’uomo di ieri e di oggi nei pericoli e nelle difficoltà.


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lunedì 22 giugno 2015

TREMEZZO E IL SUO MONTE

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Tremezzo, è un ex comune della provincia di Como. Dal 21 gennaio 2014 è compreso nel comune di Tremezzina.

Dal 1928 al 1947 Tremezzo fu già una volta frazione di un comune denominato Tremezzina che in quell'anno venne soppresso.
Nota località turistica sulle coste del Lago di Como. Ai piedi dei monti Crocione e Poncione di Tremezzo si trova il centro urbano, che si estende per lo più sulla strada Regina.

Tremezzina è un comune istituito il 4 febbraio 2014 dalla fusione dei comuni di Lenno, Mezzegra, Ossuccio e Tremezzo. L'iter ha previsto nei quattro enti un referendum consultivo, svolto il 1º dicembre 2013, in cui il 63% dei votanti si è espresso favorevolmente al progetto di istituzione.

Il comune di Tremezzina venne istituito una prima volta nel 1928, in seguito alla fusione dei comuni di Lenno, Mezzegra e Tremezzo.

Venne soppresso nel 1947, e al suo posto furono ricostituiti i comuni preesistenti.

Il comune è stato istituito nuovamente nel 2014 dalla fusione dei comuni di Lenno, Mezzegra, Ossuccio e Tremezzo.
Nella notte fra il 29 e 30 aprile 1945 un aereo bombardò la costa occidentale del lago di Como antistante la Tremezzina, ossia la zona ove avvenne la fucilazione di Mussolini, distruggendo a Tremezzo l'albergo Bazzoni e uccidendo sedici civili presenti nell'edificio. La nazionalità del bombardiere sembrerebbe sconosciuta. Secondo i racconti di abitanti di Griante, paese dell'area bombardata, il bombardiere si avvalse di bengala per illuminare l'area sulla quale effettuò due passaggi; dopo il bombardamento gli abitanti temettero che si fosse trattato di un aereo tedesco, cui le voci del tempo aggiunsero la presenza, impossibile, a bordo del figlio di Mussolini. L'ipotesi di un bombardamento tedesco, per rappresaglia contro l'uccisione di Mussolini, è contenuta anche in un lancio di agenzia della Australian Associated Press (AAP) intitolato Germans Avenge Mussolini's Execution (I tedeschi vendicano l'uccisione di Mussolini), pubblicato il 3 maggio 1945. Secondo ipotesi avanzate da alcuni storici, il bombardamento sarebbe stato una rappresaglia degli inglesi, indispettiti dal fatto che la cattura e l'esecuzione di Mussolini fosse avvenuta al di fuori del controllo delle forze alleate, causando anche il mancato recupero del presunto carteggio "Churchill Mussolini". La cronologia dell'attività dell'aviazione americana indica che, quella notte, vicino al lago di Como, vennero compiuti, da parte del Twelfth Air Force, degli attacchi tattici con A-20 e A-26 contro dei convogli motorizzati.

Tremezzo, terra di mezzo. Il nome deriva probabilmente dalla posizione geografica centrale rispetto alla costa del Lario, a metà strada tra la Pianura Padana e il valico del Canton Grigioni.

Il piccolo Comune rivierasco è diviso in dieci frazioni: a lago Portezza, Azzano, Bolvedro, e Tremezzo che dà il nome a tutto il territorio. A monte troviamo Bolvedro Superiore, Balogno, Susino, Rogaro, Volesio, Intignano e Viano.

La celebre Villa Carlotta (XVIII secolo), oggi museo con splendido giardino botanico. La passeggiata sul lungo lago passa per alcune delle ville più belle del territorio. Si comincia con il parco di Villa Mayer (oggi di proprietà comunale), risultato della ristrutturazione, a cura dell’architetto razionalista Pietro Lingeri, di una villa ottocentesca danneggiata da un incendio nel 1919. Bellissimo il parco a lago, in cui Lingeri ripropose il giardino all’italiana di Villa Colonna a Roma. Oggi il parco Teresio Olivelli è un’area attrezzata aperta al pubblico, dove è bello passeggiare, bere un bicchiere sulla terrazza della Darsena o prendere il sole vicino alla Tarocchiera. Ma Lingeri a Tremezzo è anche autore della particolarissima Villa Amila, simile a una nave in mezzo agli alberi: posta all’imboccatura del torrente Bolvedro e affacciata sul lago, fu edificata nel 1931-32 per conto dell’Associazione Motonautica Italiana Lario. Proseguendo verso Bolvedro si incontra Villa La Quiete. Oggi residenza privata, fu fatta erigere all’inizio del XVIII secolo dai duchi Del Carretto, passò poi ai Serbelloni, che le diedero l’aspetto attuale, impreziosendola con il giardino all’italiana, la cancellata di ferro battuto, la scenografica scalinata a lago (1813). Esaurito il giro delle ville, possiamo andare alla scoperta dei borghi in collina. Il percorso più invitante della frazione di Tremezzo è quello che si sviluppa attorno ai Portici Sampietro. Sotto il porticato si trovano numerosi locali, bar, ristoranti e negozi di artigianato locale. Sulla riva di fronte all’imbarcadero si incontra la Chiesa di S. Bartolomeo. Dell’edificio originale, risalente al XII secolo, restano solo alcune parti della struttura in pietra. Il resto è il frutto di un restauro in epoca barocca. Da qui attraverso una serie di stradine in acciottolato si possono raggiungere i borghi collinari. Il primo è Rogaro, arroccato in un ambiente incontaminato con una magnifica vista sul lago. Il nucleo antico è costituito da case sei-settecentesce riunite attorno alla piazzetta barocca su cui si affaccia il Santuario della Madonna degli eremiti. Unico in Italia a portare il titolo di Madonna di Einsiedeln, o “degli Eremiti”, il santuario ha una storia da raccontare. Con la riforma luterana un gruppo di cattolici svizzeri fuggì dalla confederazione elvetica sconvolta da aspre tensioni religiose e si rifugiò sul lago di Como, portando con sé l’effige della Madonna Nera venerata nell’Abbazia di Einsiedeln. Ricavata da un tronco di ebano nero, la scultura ha probabili origini orientali. La Festa del Santuario si tiene ogni anno, la terza domenica di ottobre. Da Rogaro e da Brughée si diramano i sentieri montani che conducono ai Monti di Nava, al Monte Crocione e a San Martino sopra Griante. Volesio e Balogno sono due piccoli borghi collegati da un acciottolato. Al centro dell’abitato si trovano alcuni palazzi signorili di fine Seicento circondati da campi e case coloniche, percorsi da viottoli con arcate e cunicoli per l’accesso ai fondi oltre un torrente, vicoli interni con larghi scalini acciottolati. La chiesa di San Pietro è a struttura romanica preceduta da un portico. Restaurata nel 1732 circa, è ancora in buono stato. La navata unica è in stile barocco con pavimentazione originale. Alle pareti sono posti due dipinti secenteschi, il presbiterio risale al Settecento. Meritano una visita anche tutti gli altri piccoli borghi.

La gastronomia lariana è legata ai prodotti che offrivano la terra e il lago. Polenta di mais e farina, farina di grano saraceno, latticini, zuppe di verdure, pesce. Piatto forte della tradizione è il risotto al pesce persico. Si tratta di un risotto all’onda servito con filetti di pesce persico dorati nel burro e aromatizzati con salvia. Nelle cucine della Tremezzina è molto diffuso in stagione l’asparago, prodotto tipico della frazione di Rogaro. Tra i dolci il paradell, frittella rotonda, grande, ripiena di mele, servita con zucchero spolverizzato.

Il Monte di Tremezzo è una montagna alta 1.700 metri s.l.m. e prende il nome dall'omonima località situata sotto il suo versante est.

La vetta è raggiungibile senza particolari problemi anche perché non molto lontano sorge il Rifugio Venini-Cornelio (1.576 metri s.l.m.) collegato da una strada militare ai paesi di Pigra e Ponna e costruita nel periodo della prima guerra mondiale. Infatti, nella parte di tracciato tra il rifugio e la cima, sono presenti quattro postazioni d'artiglieria, un tempo blindate, costruite durante la realizzazione della Frontiera Nord, il sistema difensivo italiano verso la Svizzera popolarmente noto come Linea Cadorna. Sulla sommità è posto un piccolo monumento con una statuetta stilizzata della Vergine.
Dal Monte di Tremezzo si possono raggiungere comodamente a piedi il Monte Crocione (1.641 m s.l.m.) ed il Monte Galbiga (1.698 m s.l.m.).



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martedì 2 giugno 2015

LA COMUNITA' EBRAICA A CASTEL GOFFREDO

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La presenza di un nucleo ebraico è attestata a partire dal 1468. Il banco di prestito fu gestito per tre secoli da alcuni membri delle famiglie Norsa e Finzi, provenienti da Mantova e Ferrara, e da altri ashkenaziti fra cui i Basilea e i da Praga. I Gonzaga, signori di Castel Goffredo, concessero agli ebrei residenti a "Castel Giuffrè" condizioni particolarmente favorevoli per l'esercizio del prestito, la gestione di altre attività commerciali e l'appalto del dazio di alcuni beni, assieme ad una piena libertà di praticare la loro religione e di vivere secondo le loro tradizioni. Richiesto inizialmente dalla comunità locale con supplica al principe, il banco ebraico fu in seguito alternativamente osteggiato da uomini d'affari del luogo, che ne temevano la concorrenza, e difeso dall'autorità civica per il ruolo indispensabile che svolgeva a favore delle fasce più povere della popolazione. Quando nel secondo Cinquecento a Castel Goffredo sorse anche un Monte di pietà, il banco degli ebrei convisse con esso per quasi un secolo e mezzo senza particolari conflitti, data la loro natura insieme diversa e complementare. La comunità ebraica di Castel Goffredo costituì per circa trecento anni un'importante componente del sistema creditizio locale, sovvenendo anche alle necessità del Comune e mantenendo vivi i rapporti economici con Mantova e le realtà circostanti.

L'edificio della sinagoga sorgeva nella zona compresa tra il vecchio ospedale e vicolo Cannone, corrispondente all'attuale vicolo Remoto.

Della presenza della sinagoga non resta neppure una lapide e le stanze che accoglievano il luogo di culto sono andate irrimediabilmente perdute nel corso del 2010, durante l'abbattimento dell'edificio che le ospitava.



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lunedì 1 giugno 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA DEL CONSORZIO A CASTEL GOFFREDO





Primo edificio di culto eretto entro le mura del borgo di Castelvecchio nel 1288, nel quale aveva sede il Consorzio della Misericordia, fu ricostruita nel 1434. Il marchese Aloisio Gonzaga ne fece il mausoleo di famiglia e successivamente fu trasformata in Monte di Pietà. Attualmente della chiesa non resta che il campanile, quattrocentesco, con bifore e monofore e l'abside poligonale affrescato.

Dell'antica chiesa di Santa Maria del Consorzio, ricostruita nel 1434 in stile tardo gotico ed abbattuta nel 1986, si conserva solo l'abside poligonale affrescata con volta a ombrello, il campanile quattrocentesco, con bifore e monofore, ed alcune epigrafi del marchese Luigi Gonzaga e il portale in marmo bianco del 1532, poste attualmente sul fianco della Chiesa parrocchiale di Sant'Erasmo. Di interesse gli affreschi cinquecenteschi dell’abside.

Nel 1532 il marchese Aloisio Gonzaga la fece restaurare e, in una cappella aderente al presbiterio, vi fece erigere la cappella funeraria di famiglia, che accolse inizialmente le spoglie sue il 19 luglio 1549 e del figlio Alfonso, assassinato alla Corte Gambaredolo il 6 maggio 1592 dai sicari del nipote Rodolfo. Nello stesso anno Ippolita Maggi, vedova di Alfonso, fece traslare il suo corpo assieme a quello di Aloisio nel Santuario della Madonna delle Grazie presso Mantova: una lapide in marmo bianco all'interno ne ricorda l'evento.

Nel 1798 venne adibita ad uso monte pegni.

Durante gli anni venti fu adibita a laboratorio di falegnameria e successivamente trasformata in ufficio postale della città e a civile abitazione. In alcune stanze ebbe sede la biblioteca comunale e il comando dei vigili urbani, prima della attuale sistemazione definitiva.

Dopo l'abbattimento della chiesa, avvenuto nel 1986 per fare posto ad nuovo edificio civile, sono venuti alla luce importanti reperti altomedievali (VIII e IX secolo) riguardanti la fortificazione di Castelvecchio e l'esistenza del castello medievale.

Della chiesa si conserva solo l'abside poligonale con volta a ombrello, alcuni affreschi del Cinquecento, il campanile quattrocentesco, con bifore e monofore, tre epigrafi aloysiane e il portale in marmo datato 1532, tutti posti sul fianco della Chiesa Prepositurale di Sant'Erasmo.

Da alcuni documenti presenti all'Archivio di Stato di Mantova risulta che nel 1468 venne istituita a Castel Goffredo una “banca di prestito”, sollecitata da una lettera scritta dal Comune al marchese Ludovico Gonzaga. L'autorizzazione fu concessa a Leone Norsa.

La sede del banco venne inizialmente posta nel Torrazzo, sito sul fianco destro del Palazzo Gonzaga-Acerbi. Nel 1477 però il Comune chiese al marchese la soppressione del banco in quanto dannoso per la popolazione, ma la richiesta cadde nel vuoto.

Nel 1540 il marchese Aloisio Gonzaga concesse alla famiglia Jacobo Norsa autorizzazione decennale per la costituzione del banco dei pegni che venne rinnovata nel 1568 dal marchese Alfonso Gonzaga a favore della famiglia di Giacomo e Prospero Norsa di Mantova. Il banco dei pegni continuò la sua attività sino agli inizi del Settecento con Mosè Coen.

Intorno al 1570 risale l'istituzione del Monte di Pietà, che si affiancò all'attività degli ebrei e che venne aperto nella Chiesa di Santa Maria del Consorzio a seguito delle predicazioni dei Frati Minori nel mantovano. Il primo amministratore fu B. de Reb. L'istituzione fallì nel 1578 e il marchese Alfonso Gonzaga concesse di ricostruire nuovamente il Monte, che sopravvisse anche per merito di donazioni e lasciti di cittadini castellani.

Nel 1877 il Monte di Pietà venne trasferito dal comune nell'edificio posto in Vicolo Monte Scuole e qui rimase sino alla cessazione della sua attività.




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lunedì 11 maggio 2015

IL MONTE SUELLO

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Posto sul lungo crinale che separa la Valle della Berga dal Lago d’Idro, il Monte Suello diede il proprio nome a una famosa battaglia della terza guerra d’indipendenza che vide contrapposti fra loro due reggimenti dei Volontari Italiani di Garibaldi e gli austriaci dell’8° Divisione del generale Von Kuhn.

Il generale von Kuhn aveva predisposto un piano offensivo per espugnare la Rocca d'Anfo in tre direttrici d'attacco ordinando al tenente colonnello Heribert Höffern von Saalfeld di occupare il 30 giugno Riccomassimo, Monte Macao, Vessil e Col Bruffione e di proseguire il 1º luglio a Bagolino, facendo delle diversioni verso il Passo del Maniva e Passo di Crocedomini sopra Breno; al centro dello schieramento, al capitano Ludwig von Gredler con quattro compagnie della brigata di Bruno Freiherr von Montluisant e una compagnia di volontari viennesi-tirolesi, di attestarsi, per la giornata del 2, nella Valle del Chiese a Monte Suello con il compito di sbarrare il passo alla fortezza di Rocca d'Anfo e infine a sud, al tenente colonnello Hermann Thour von Fernburg con la sua mezza brigata, dopo essersi assicurato il controllo di tutti i passi della Valle di Ledro (Passo Nota e Tremalzo), di occupare Magasa, Turano e la Val Vestino, il 1º luglio, e il 2, per il monte Vesta e Manos, rispettivamente sopra Bollone e Capovalle, di procedere al completo accerchiamento della Rocca d'Anfo scendendo a Treviso e a Idro. L'operazione in Val Camonica fu invece affidata alla mezza brigata del maggiore Alexander von Metz.

Il generale Giuseppe Garibaldi, la mattina del 3 luglio, osservando da Rocca d'Anfo i movimenti degli austriaci che occupavano la chiesetta di Sant'Antonio nei pressi di Ponte Caffaro ordinò perentoriamente al colonnello Clemente Corte, comandante della 4ª Brigata Volontari Italiani, composta dal 1º e dal 3º Reggimento, supportata dal 1º Battaglione Bersaglieri genovesi del maggiore Antonio Mosto e una Batteria di artiglieria da montagna del Regio esercito, di “cacciare quei mosconi” dalle loro posizioni.

Alle 14.00 del pomeriggio si accesero i primi violenti scontri. Il colonnello Corte avanzò con sei compagnie del 1º Reggimento in colonna per quattro sulla strada che sale a Bagolino fiancheggiato a sinistra, sulle falde del monte, dalla compagnia di Bersaglieri genovesi, e sostenuto alle spalle da una sezione di artiglieria e dalla riserva del 3º Reggimento di Giacinto Bruzzesi. Gli austriaci, circa 868 uomini, inquadrati in quattro compagnie di Kaiserjäger, la 31ª, 32ª, 35ª e 36ª, del VI Battaglione della mezza Brigata del colonnello Heribert Höffern von Saalfeld comandati dal capitano Ludwig von Gredler, appostati strategicamente sulle falde del monte e distesi lungo la strada cominciarono a sparare all'avanzata delle camicie rosse.

Alcuni ufficiali furono subito uccisi o colpiti, lo stesso generale Garibaldi accorso sul posto fu ferito alla coscia sinistra da un maldestro suo soldato e, sostenuto dal capitano Ergisto Bezzi, fu immediatamente trasportato nei pressi di un casolare di San'Antonio per essere curato dal medico palermitano Enrico Albanese e da Jessie White Mario e successivamente trasferito all'interno della Rocca d'Anfo.

Gli austriaci imbaldanziti, credendo di avere la vittoria a portata di mano, iniziarono ad avanzare minacciosamente lungo le pendici del monte con tutte le loro forze, cinque compagnie di 7-800 uomini, costringendo i garibaldini a mettersi “al coperto dai fuochi troppo micidiali del nemico ed a cui era impossibile di rispondere”. Poco prima, alle ore 13.00, una colonna austriaca al comando del capitano Schiffler era avanzata minacciosamente sulla strada di Ponte Caffaro fino alla chiesa di San Giacomo, ove era caduta sotto il tiro di due cannoncini delle due imbarcazioni della Dogana di confine operante in prossimità delle sponde del lago d'Idro. Alle 15.00 gli austriaci furono fermati da il contrassalto di una Compagnia dei Bersaglieri genovesi con il concorso di quattro pezzi di artiglieria.

Tutto sembrava perso per gli italiani premuti dall'ultimo assalto nemico, anche se tra le file degli austriaci si annoveravano caduti e feriti tra cui il capitano Spagnoli, comandante della 31ª e 32ª Compagnia, che ferito ad un occhio dovette ritirarsi dal combattimento cedendo il comando al capitano Walter. La giornata fu salvata, come ebbe a dichiarare Giuseppe Garibaldi, per “il sangue freddo e il coraggio” del colonnello Giacinto Bruzzesi che occupate le alture di Sant'Antonio vi posizionò due cannoni della Batteria da montagna del Regio esercito iniziando un tiro micidiale sulla colonna degli austriaci e infine lanciò un ultimo risolutivo assalto con sette compagnie. Gli austriaci cedettero all'impeto e in breve furono costretti, verso le 19.00, a ritirarsi sul dosso del Monte Suello che poi abbandonarono furtivamente nel corso della notte, coperti in retroguardia dal capitano Schiffler e dalla 1ª Compagnia Tiragliatori volontari viennesi-tirolesi (Wien-Tiroler Scharfschützen), riparando a Ponte Caffaro e Lodrone e poi successivamente una parte nei forti di Lardaro, l'altra in quello d'Ampola.

Più a nord anche il colonnello Heribert Höffern von Saalfeld, che aveva tentato inutilmente da Bagolino di raggiungere la Valle di Levrazzo per piombare alle spalle degli italiani, aveva cominciato la ritirata su posizioni più arretrate, azione completata il 4 luglio sulla malga di Bruffione e la retrocessione successiva verso Roncone e i Forti di Lardaro.

Lo stesso generale Giuseppe Garibaldi descrisse così nelle sue "Memorie" i fatti accaduti in quella giornata: "Per un pezzo tutto andava bene, ed il nemico ripiegava davanti alla bravura dei nostri; ma essendo esso rinforzato dalle riserve che coronavano le alture di monte Suello, e trovando i nostri militi posizioni sempre più formidabili, furono alla fine fermati nel loro slancio. Infine la giornata restò indecisa, e si rimase nelle posizioni sotto monte Suello. Ferito alla coscia sinistra, fui obbligato a ritirarmi".

L’esito della battaglia rimase in ogni modo incerto per molte ore e il Corte, temendo un contrassalto della mezza brigata del colonnello Hermann Thour von Fernburg a Moerna, ordinò l’immediata ritirata di tutti reparti operanti nella Val Vestino al comando del maggiore Luigi Castellazzo e quella dei suoi uomini nella Rocca d'Anfo.

Durante la notte dal 3 al 4 arrivarono di rinforzo ad Anfo i primi reparti del 9º Reggimento di Menotti Garibaldi, e nel giorno successivo, il 1º Battaglione di questo comandato dal maggiore Enrico Cairoli, occupò la vetta di Monte Suello, mentre il 2º Battaglione si stabilì a presidio di Bagolino.

Con quest'ultima operazione si concludeva quasi completamente il piano predisposto dal generale Von Kuhn che non raggiungeva gli obiettivi preventivati, ossia la cacciata degli italiani dal Trentino mediante l'accerchiamento della Rocca d'Anfo, mentre l'unica azione austriaca ancora in atto e di una certa entità rimaneva quella in Valcamonica. Gli italiani con la vittoria occupavano la piana del fiume Chiese, la Val Vestino apprestandosi a porre l'Assedio del Forte d'Ampola e la marcia di avvicinamento verso i forti di Lardaro.

Le truppe volontarie italiane accusarono 70 morti (3 ufficiali), 266 feriti (14 ufficiali), 22 dispersi. I dati sono discordanti per quanto riguarda le perdite nemiche che, secondo fonti italiane, furono di 15 morti (1 ufficiale) e 43 (2 ufficiali) feriti mentre le relazioni militari austriache riportano 10 morti e 18 feriti.

Il sacrario di Monte Suello venne eretto a ricordo dei caduti garibaldini.

Il 19 marzo 1879 per iniziativa di alcuni patrioti e veterani della battaglia si teneva un’adunanza nel teatro di Vestone al fine di pianificare l’edificazione di un sacrario per raccogliere le spoglia dei volontari che non avevano ancora ricevuto degna sepoltura: infatti i caduti vennero seppelliti all’indomani dello scontro del 3 luglio frettolosamente sotto pochi centimetri di terra in nove fosse comuni contrassegnate da croci di legno a lato della strada per Bagolino e li rimasero fino al 1879 quando i poveri resti furono portati nella chiesa di San Giacomo posta sulla strada per Ponte Caffaro e ricomposti grazie all’interessamento del dott. Luigi Riccobelli di Vestone. Nella chiesa di San Giacomo per un certo periodo si celebrò messa per commemorare la battaglia, la cui data “3 luglio 1866” è dipinta sul campanile della stessa.

Nell’adunanza del 1879 venne deciso di creare due comitati, uno onorario a Firenze presieduto dal generale Clemente Corte ed uno esecutivo a Vestone presieduto dal ex maggiore Giuseppe Guarnieri, anima del progetto. Nel 1883 dopo regolare bando vinse il progetto dell’architetto Armano Pagnoni, tecnico del comune di Bagolino e cominciarono i lavori di costruzione dell’Ossario che terminarono nel 1884.

L’imperversare di una epidemia di colera fece slittare l’inaugurazione al 5 luglio 1885, giornata nella quale i feretri furono traslati dalla chiesetta di Sant’Antonio, (lì portati nella precedente giornata del 4 luglio dalla chiesa di San Giacomo) fino all’ossario e con atto notarile lo stesso giorno la proprietà passava alla Deputazione provinciale di Brescia, la quale ne assumeva la custodia e relativa manutenzione. Nel 1907 il monumento venne dotato di una cancellata su tre lati che fu completata sul lato a lago nel 1914.

L’ossario di Monte Suello sorge sul luogo dove l’architetto Armanno Pagnoni venne catturato dagli austriaci proprio nella battaglia del 3 luglio 1866. Infatti ancora giovanissimo e all’insaputa della famiglia prese parte alle operazioni belliche e fatto prigioniero. Dopo un anno di detenzione nel castello del Buon Consiglio a Trento venne liberato in uno scambio di prigionieri e poté rientrare in patria.

Il monumento in stile bizantino si presenta esternamente in pianta quadrata rivestito di graniti e piastre in calcare, sormontato da un tetto conico di forma piramidale, ricoperto di piastre in piombo. Sono presenti una serie di lapidi che ricordano gli scontri avvenuti a Monte Suello nel 1848 e nel 1866. La sala interna o edicola è di forma ottagonale con intercolonne in lavagna e avelli riportanti i nomi dei caduti in marmo di botticino. Al centro dell’edicola campeggia un busto in marmo di carrara raffigurante Giuseppe Garibaldi, interessante opera dello scultore rezzatese Pietro Faitini. Il cancello di entrata in ferro e ghisa fu disegnato e donato da Francesco Glisenti. Nella parte semi-interrata è presente una cripta con volta a botte che racchiude i resti dei caduti.




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martedì 5 maggio 2015

ISOLE DEL LAGO D' ISEO : MONTE ISOLA

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Monte Isola è un comune italiano di 1.770 abitanti della provincia di Brescia in Lombardia, che copre l'isola omonima del Lago d'Iseo. Si tratta di un comune sparso: la sede comunale si trova nella frazione di Siviano.

In Europa sono presenti isole lacustri di maggior estensione, come l'isola di Visingso nel lago svedese di Vättern (24 km²) e l'isola artificiale di Sääminginsalo, ma Montisola è la prima come altezza sul livello del mare, raggiungendo un'altitudine di 600 m s.l.m.

L'isola è raggiungibile in traghetto dalla sponda bresciana; i principali approdi sono i porti di Sulzano e Sale Marasino dai quali si raggiungono rispettivamente le frazioni di Peschiera Maraglio e Carzano. L'isola è raggiungibile anche dalla sponda bergamasca partendo da Tavernola Bergamasca con collegamenti giornalieri.

Monte Isola, l’isola più grande dei laghi europei, è una montagna verde al centro del Lago d'Iseo.
L’attuale comune si formò nel 1928 con l’unione degli antichi paesi di Peschiera Maraglio e Siviano, per decisione del governo fascista, con il nome di Comune di Siviano. L’attuale nome è stato deciso negli anni cinquanta. Il Comune di Monte Isola comprende anche le due isolette di San Paolo e di Loreto, la prima a sud, l’altra a nord.
I nuclei abitati del comune di Monte Isola sono 11, alcuni in stretta relazione con il lago, punti di collegamento con la "terraferma" come: Peschiera Maraglio, Sensole, Porto di Siviano e Carzano.
Altri sono situati lungo la fascia pianeggiante di media collina: Siviano e Menzino; alcuni verso la sommità della montagna: Olzano, Masse, Cure e Senzano. Gli abitanti risolvono i loro problemi di spostamento interno con motocicli e con un autobus a 30 posti, che svolge il servizio di trasporto e collegamento tra le frazioni dell’Isola, e verso i due principali punti di attracco dalle cinque del mattino alla mezzanotte.
A Monte Isola sono da sempre abolite le automobili; le uniche autorizzate sono adibite ad alcuni servizi importanti (ambulanza, medico, parroco, vigili, taxi). I motocicli sono un'esclusiva dei residenti; il turista può utilizzare solamente il mezzo pubblico o la bicicletta. Nella stagione turistica (da Marzo a Ottobre) è possibile noleggiare biciclette o tandem presso i due punti di noleggio situati a Peschiera e Carzano. Si può iniziare con un giro in bici, che si compie in un’ora, la conoscenza di Monte Isola. A piedi, oltre al periplo, si possono percorrere le mulattiere ed i sentieri che dal Lago portano alla cima dell' Isola dove si trova il Santuario della Madonna della Ceriola, luogo estremamente interessante, non solo sotto l'aspetto naturalistico e panoramico, ma anche artistico, per le bellezze racchiuse nella sua piccola chiesa, la più antica dell' Isola, che rappresenta un punto di riferimento per tutto il Lago. Nei percorsi verso il Santuario è essenziale fermarsi nelle antiche frazioni più in quota dell' Isola, dove si sono maggiormente conservate le caratteristiche di una millenaria cultura contadina: artistiche chiesette circondate da piccole piazze, grosse case di pietra bianca del luogo, attrezzi agricoli di legno, portici, cortili, panorami stupendi. Un' architettura rude e semplice rende le frazioni di Senzano, Cure, Masse, Olzano, Novale, "autentici centri storici" da visitare non senza un obiettivo fotografico.
A Siviano, la frazione più popolata e capoluogo dell' Isola, trovano sede il Municipio, le scuole, l'ufficio postale, gli ambulatori, la banca e due piccoli supermercati. È un paese con caratteristiche medioevali, esposto al sole dall'alba al tramonto in ogni stagione, che si trova di fronte a Tavernola Bergamasca. Siviano è raggiungibile anche via lago scendendo dal battello in località Porto di Siviano.
Peschiera Maraglio è un interessante paese di pescatori da sempre profondamente legati all'acqua.
Anche Carzano era un paese di pescatori e conserva quasi intatte le sue caratteristiche legate all'acqua, alla pesca e alla conservazione del pesce.

Gran parte dell’isola, dal livello del lago fin quasi alla sommità, è costituita da un’unica formazione geologica: il cosiddetto medolo, una serie fitta e regolare di strati calcarei biancastri. Si tratta di una roccia depositata, per precipitazione chimica, sul fondo marino. I frequenti fossili di ammoniti che essa contiene, permettono di individuare l’età di formazione nella prima parte del periodo giurassico, intorno a 180 milioni di anni fa.
In quel periodo i materiali rocciosi che oggi formano le Alpi ricoprivano il fondo di un mare profondo e caldo, esteso fra l’Africa e l’Europa centro-settentrionale: il mare della Tetide. Il medolo di Monte Isola era dunque una piccola porzione dell’immensa distesa di fanghi calcarei che si andavano depositando sul fondo marino, ed è per questo che oggi lo stesso tipo di roccia si ritrova estesamente in tutte le Prealpi bergamasche e bresciane, a oriente e occidente del lago d’Iseo. Al di sotto del medolo troviamo ovunque una roccia di aspetto più compatto, formata da potenti bancate di calcare dolomitico: nell’area bergamasca e sebina è indicata con nome di dolomia o conchodon (dal nome di un grosso bivalve che si trova fossilizzato), mentre nell’area bresciana è chiamata corna e corrisponde al notissimo marmo di Botticino.
La dolomia, il medolo e tutte le altre formazioni precedenti o successive a queste, emersero dal mare all’inizio dell’era terziaria (intorno a 70 milioni di anni fa): l’Europa centro-settentrionale e l’Africa si avvicinavano e il fondo marino interposto, con tutti i suoi sedimenti, era costretto a corrugarsi, sollevarsi, accavallarsi a grandi scaglie sovrapposte, aumentando di spessore e affiorando dal mare della Tetide con la forma di una lunga catena montuosa.
La piccola porzione di fondo marino, destinata a diventare Monte Isola, fu coinvolta nel corrugamento prodotto dalla pressione che veniva da nord a sud. I suoi strati si incurvarono in forma di sinclinale, cioè di piega concava verso l’alto (come una tegola capovolta), allungata in direzione est-ovest .Tutta la regione fu poi sollevata, ma in misura maggiore dal lato bresciano, e gli strati di Monte Isola rimasero, oltre che incurvati, anche inclinati verso la sponda bergamasca.
Questa asimmetria dell’Isola si riflette sui due versanti: ripido quello bresciano, più dolce quello verso Tavernola.
La forma definitiva di Monte Isola è stata impressa, in gran parte, dall’azione geologicamente “recente” (l’ultimo milione di anni, in piena era quaternaria) delle grandi glaciazioni, che videro quasi tutte le valli alpine (per almeno quattro volte) percorse da imponenti lingue glaciali, fino allo sbocco nella pianura padana.
Anche la Valle Camonica e il Lago d’Iseo sono stati più volte ampliati e approfonditi dal passaggio della lingua glaciale che scendeva dal Tonale e andava a sciogliersi nella Franciacorta. L’enorme spessore del ghiaccio, in lento movimento, premeva sul fondo della valle, scavando fino ad un livello addirittura inferiore a quello del mare. La massima profondità di scavo fu raggiunta nel fondovalle che separa Monte Isola da Tavernola mentre il più stretto “canale” tra l’Isola e la sponda bresciana è di 150 metri meno profondo.
Monte Isola appare quindi come una propaggine dei monti di Sale e Marone, che il ghiacciaio ha isolato. Intorno a 180 mila anni fa, l’ultima lingua glaciale cominciò a ritirarsi dalle più alte cerchie moreniche della Franciacorta e contemporaneamente la sua superficie cominciò ad abbassarsi, Monte Isola iniziò ad affiorare dalla grande fiumana di ghiaccio.

Le origini remote del Santuario della Madonna della Ceriola risalgono circa alla metà del V secolo, quando San Vigilio, Vescovo di Brescia, portò la fede nella zona del Sebino sopprimendo il culto della dea pagana Iside (da cui deriva il nome Iseo). La fede del Cristo Salvatore si divulgò ben presto e San Vigilio portò devozione anche alla  Madonna.
Pensò, infatti, di fare erigere sulla cima dell’ Isola una piccola cappella, dedicandola alla Beata Vergine Maria, come simbolo delle purificazioni dalle superstizioni pagane e simbolo della nuova luce del Cristianesimo. La piccola chiesa fu la prima parrocchia dell'isola, chiamata “Santa Maria de curis” come appare nel catalogo dei beni della diocesi di Brescia, compilato nel 1410. Inoltre fu anche la prima chiesa del lago dedicata alla Madonna. Successivamente divenne Madonna della Ceriola, probabilmente perché l' effige della Madonna (XII sec.) venne scolpita in un ceppo di cerro. E' stata intagliata seduta su di un trono, con un ampio manto, con in braccio il Bambino.
Il 14 marzo del 1580, San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, passando in visita sulle strade bresciane, mandò il suo convisitatore Don Ottavio Abbiati sull'Isola a visitare il Santuario. Di questa visita stende una relazione in cui scrive:" Santuario ampio e decente, altare unico consacrato, come pure la chiesa, pitture avariate, trittico con la statua della vergine". Dopo questa visita il rettore della parrocchia, Francesco Augustinelli, ne ordinò il restauro cambiando quasi completamente la struttura originaria. Nell' ampliamento si costruì un nuovo presbiterio che portò maggior proporzione all' insieme. Venne posta l' artistica cancellata in ferro battuto, dividendo così la zona sacra dalla zona riservata ai fedeli. Il vecchio tetto a capanna fu sostituito dalla volta a botte e vennero aperte le due cappelle laterali dove sarà collocato l' altare di San Fermo e più tardi la pala raffigurante il Transito di San Giuseppe, realizzata dall’artista bresciano Antonio Paglia nel 1763. I lavori finirono all'inizio del Seicento (come attesta la scritta sull'architrave del portale della facciata"Francesco Augustinelli presbiteris Rettoris Ope 1600").
Nel 1750 venne radicalmente mutata la facciata con la costruzione, sulla base dell'antichissimo santuario, del massiccio campanile in granito.
Fortunatamente nel 1815, un fulmine scrostò una parte di muro, all'interno della facciata est, evidenziando un affresco in perfetto stato di conservazione, che raffigurava un Cristo Ecce Homo legato con una fune ad una colonna e coronato di spine. Quest' opera è stata attribuita a Giovanni da Marone.
Nel 1836 in Lombardia si diffuse il colera, gli abitanti di Monte Isola, disperati per le numerose vittime, si rivolsero alla “loro” Madonna salendo in processione verso il Santuario dove fecero voto di consacrare quella domenica se fosse cessato quel castigo. Da quel giorno la malattia si indebolì fino a scomparire. Da allora, ancora oggi, ogni seconda domenica di luglio si festeggia la venerata Madonna del Colera, in nome della malattia sconfitta.
Il Santuario è lungo 23 metri, largo 7,5 e alto 10, composto da un unica navata e caratterizzato da una volta a botte che poggia su di un cornicione in cotto che corre lungo tutto il perimetro della chiesa, sostenuto da lesene con capitelli in stile Barocco, come il resto dei fregi e degli ornamenti che caratterizzano la volta e la cupola del presbiterio. L'altare maggiore è costruito in marmo nero e bianco e su di esso si innalza una soasa in legno del 1400. La cornice è stata aggiunta nel 1620 ed è costituita da due colonne in stile corinzio che sostengono la trabeazione e il timpano. Il trittico è composto dalla Madonna al centro e dalle statue in legno dorato dei Santi Faustino e Giovita (patroni di Siviano). Sia la Vergine che Gesù Bambino indossano una vecchia corona d'oro. La lunetta sovrastante l'altare maggiore ritrae la Nascita di Gesù, nella cupola sopra il presbiterio è raffigurata la Purificazione di Maria Vergine, mentre i tre medaglioni che ornano la navata ritraggono L'Incoronazione della Madonna, L'Assunta e L'Annunciazione. Una targa in stucco, posta sull'arco trionfale, riporta la scritta che rievoca il mistero a cui è dedicato il Santuario: "Suscepimus Deus Misericordiam Tuam In Medio Templi Tui".
Lateralmente all'altare maggiore sono situate due cappelle: a sinistra la cappella di S. Firmo, con altare in legno intagliato, risalente al 1600, mentre a destra, la cappella di San Giuseppe con la pala del Paglia. Entrando sulla sinistra si possono ammirare i resti degli affreschi della chiesa precedente, una Madonna col Bambino molto simile alla statua, ordinata probabilmente da una famiglia di cui solo in parte si possono leggere i nomi, perchè manca il resto della bellissima opera, decurtata quando venne aperta una porta per la visita vescovile. Sempre nella parte interna della facciata, sopra la porta, si trova un affresco del 1924 che rappresenta il vescovo San Vigilio, apostolo che portò fede e devozione nel Sebino. Ai lati del presbiterio vi sono due affreschi dell'artista Locatelli , raffiguranti Santa Bartolomea Capitanio, protettrice di Lovere e Sant'Angela Merici. Tra l'altare maggiore e la navata centrale è posta una cancellata in ferro battuto del 1600.
Dedicate sempre alla Madonna, sono le tavolette votive, quadri recenti ed antichi, appesi sul fondo della parete sinistra, chiamati anche "ex voto". Se ne contavano 82, alcuni datati anche 1620, ma i più numerosi sono del 1800. Simboleggiavano la devozione e la gratitudine del fedele nei confronti della Madonna. Ancora oggi c'è questa usanza, anche se al posto delle tavolette dipinte, vengono appese delle fotografie. Sono presenti anche molte preghiere dedicate alla Madonna, poesie di
Emilia Belli (poetessa del Lago d'Iseo) e canzoni in onore dell'Incoronazione della Madonna, avvenuta il 30 agosto 1924. Durante l'attesa di quel fatidico giorno, i fedeli di Monte Isola, offrirono una parte dei loro averi, fino ad arrivare al peso di un Kg d'oro, permettendo così la fusione di una splendida corona incastonata di pietre preziose per la Madonna ed una per il Bambino.
Oggi il Santuario, giuridicamente nel territorio isolano è il simbolo dell' unità civile di tutti i cittadini dell' unico comune di Monte Isola, che porta nel suo sistema proprio la figura del Santuario della Madonna della Ceriola.

Il castello che si erge sopra il golfo di Sensole, tra Peschiera e Siviano, é uno dei monumenti più caratteristici del posto. Come punto per l'erezione del castello Oldofredi fu scelto, nel XIV secolo, uno sperone roccioso rivolto sulla sponda bergamasca, di fronte a Tavernola, da dove era possibile controllare tutto il lago da nord a sud. Il castello non sorgeva nel punto più alto dell'Isola, già occupato dal Santuario della Ceriola, e non si preoccupava di controllare la sponda bresciana in quanto anche questa era sotto la giurisdizione degli Isei, poi Oldofredi, e da essa non potevano venire offese. Non si sa quando i Martinengo acquistarono la rocca, ma si può supporre che sia stato Antonio Prevosto attorno alla metà del XV secolo.
In quel secolo si può ricordare la grande rovina degli Oldofredi a causa della loro amicizia con i Visconti, con la necessità per essi di vendere, mentre al contrario i Martinengo, per i servizi resi alla Serenissima, appena piantata nel bresciano, potevano avere grandi possibilità economiche. Dopo il 1427 quando il territorio bergamasco passò sotto Venezia, la funzione difensiva della rocca venne meno e fu quindi ridotta alla funzione di palazzo. Cosi fanno supporre le cornici e le montature nelle finestre e nell'ampio portale, scolpiti in pietra di Sarnico, fino allora mai usata sull'Isola. Quest'opera è stata compiuta forse dal valoroso Girolamo o ancora prima da suo padre Antonio II. Ma in seguito, pur essendo stato modificato, l'edificio non dovette essere di grande gradimento per i signori. Questa dimora, in un isola lontana dal mondo, senza terreni adiacenti e lontana anche dai loro diretti interessi, fu così abbandonata. Dalla fine del 500 sarà denunciata nelle loro polizze come "rocchetta mezzo rovina". Oggi il castello è di proprietà privata Si presenta su base quadrata, imperniato attorno ad un'imponente torre a pianta circolare e base scarpata, origine e fulcro del castello, con il lato verso monte adibito a residenza, tutto costruito nel secolo XV. Ogni castello nasce con torre di avvistamento e di segnalazione, che si protegge poi con un muro distanziatore cui in seguito si addossano le costruzioni e quello di Monte Isola ne è un esempio chiaro. La torre cilindrica, a base troncoconica, era impiantata sulla roccia al piano dell'odierno circuito al primo livello, coperto dal cortile in un secondo tempo.
Una leggenda narra che un tempo un perfido castellano colpiva a cannonate le barche dei pescatori se questi, giunti sotto il castello, dinanzi al roccione di Herf (Serf), non ammainavano la vela in segno di sottomissione. Dopo l’affondamento di alcune barche qualcuno pensò di trasformare questo gesto obbligato in un devoto omaggio alla Vergine Maria, ardentemente venerata sull’Isola. A questo punto fu dipinta sullo scoglio di Herf l’immagine della Madonna della Ceriola. La leggenda narra che il castellano morì annegato nel tentativo di cancellare l’immagine della Madonna.

L’abitato di Menzino, situato nella zona a sud-ovest dell’isola, conserva particolare fascino ed interesse storico-architettonico, giustificato dalla presenza di un caratteristico Borgo Medievale, della Rocca Martinengo e di Palazzo Zirotti, noto agli isolani con il soprannome di “casa del dottore”. Il percorso storico-architettonico consente di scoprire e conoscere le peculiari caratteristiche che connotano questi edifici, apprezzandone l’indiscusso fascino e scoprendo le sorprendenti testimonianze di un tempo passato che, oggi più che mai, è importante non dimenticare.

La Chiesa di San Michele, Peschiera Maraglio venne costruita sulle rovine della chiesa precedente nel Seicento; consacrata poi nel 1648. La facciata è a due ordini e timpano triangolare liscio, con una croce in metallo, alla fine di una scalinata in marmo di Sarnico di sette gradini a sezione piramidale. Il portale del XVII sec., in marmo di Sarnico lineare, è decorato da lesene tuscaniche. La porta è in ebano e reca due eleganti cornucopie in altorilievo. L’interno ad una navata con volta a botte, è decorato riccamente con degli stucchi: motivi floreali, cornici mistilinee, semicircolari, ogivali intorno a numerosi affreschi abbelliscono tutta la parrocchia.

Alla Villa Oldofredi, Peschiera Maraglio vi si giunge direttamente a piedi percorrendo il vicolo che dalla piazzetta risale parte del paese fino a giungere alla Chiesa di San Michele, che si trova proprio a ridosso del Castello Oldofredi. L'accesso è vietato dato che il castello è di un proprietario privato. Il Palazzo è stato costruito in pieno stile Rinascimentale con portico ad archi su colonne in pietra di Sarnico.
Dall’esterno si può vedere la facciata più caratteristica dell'antica fortezza, nella quale gli Oldofredi nel 1497 ospitarono la Regina di Cipro Caterina Cornaro, sorella del podestà di Brescia. La torre non esiste più, ma si hanno prove ormai certe della sua esistenza, dato che, già negli scritti a nostra disposizione, Giovanni da Lezze faceva riferimento ad una “Torre alta ed antiqua”. Le mura sono state abbattute oppure inglobate dalle abitazioni di recente costruzione, ma facendo un rapido esame alle case adiacenti possiamo immaginarci la linea delle ipotetiche mura del castello.

La chiesa di San Giovanni Battista fu ricostruita nel Settecento, con la facciata ad est, sulle vestigia della chiesetta già esistente. La facciata a due ordini è tripartita da lesene tuscaniche con quattro nicchie con le statue dei Santi Pietro e Paolo ai lati del finestrone, Giovanni Battista (con il bastone crociato, la fiamma e l’agnello) e Ambrogio. Il portale in marmo di Botticino (XVII), alla sommità di una gradinata, appartiene alla facciata della chiesa precedente ed é chiuso da una cancellata in ferro battuto, ricca di decorazioni floreali. L’interno è ad una navata a pianta poligonale con cupola; due sono gli altari laterali: altare dalla Madonna in legno marmorizzato, acquistato all’inizio del XX sec. in occasione della demolizione del Monastero dell’Isola di San Paolo, e l’antico altare maggiore del Crocifisso “in legno, ma alquanto deperito” . Sulle pareti si notano quattro nicchie con statue di arcangeli. La pala d’altare raffigura la Natività di san Giovanni Battista; ai lati sempre nel presbiterio si possono osservare un’Assunta e una Sacra Famiglia realizzate da Giacomo Colombo (XVIII-XIX sec.). Gli affreschi del soffitto sono settecenteschi: la cupola del presbiterio rappresenta il Battesimo di Cristo mentre sopra il corpo centrale della chiesa sono raffigurate Storie di san Giovanni Battista e vari episodi biblici.

Il borgo medievale, Novale è un gruppo di abitazioni posizionato sopra Carzano con forma a balconata, che si collega al paese tramite un sentiero che poi si prolunga sino ad Olzano. Cresciuto nel Medioevo, nascosto tra piante di ulivo, castagno e boschi cedui, è costituito dalle caratteristiche case dei vecchi abitanti costruite con muri di conci squadrati di medolo, portali ad arco a pieno centro, piccole volte al pianterreno, balconi in legno sotto agli spioventi dei tetti intorno ad una vecchia piazza di piccole dimensioni. Vi è anche una casa signorile che è stata la residenza estiva del vescovo mons. Marco Morosini (1645-1654). Con il tempo il borgo ha subito moltissime modifiche, di medievale oggi rimangono soltanto la struttura, gli archi e i balconi.

La chiesa di Siviano dedicata ai Santi Faustino e Giovita é costruita sulla cima della collina di Siviano, in parte creata sul terrapieno che costituisce il sagrato, sorretto da due grossi muri in pietra. La facciata è ad un ordine, con portichetto neoclassico. L’interno, ad una  navata, pianta centrale con cupola su quattro archi a pieno centro, ha quattro altari laterali; è decorato da stucchi di “sobrio ed elegante stile corinzio, misto a barocco” ed affreschi settecenteschi. L’altare maggiore è in marmo di Ome e marmo rosso di Caprino Veronese. Alle pareti si può notare una pala ad olio su tela, di Giacomo Colombo da Palazzolo sull’Oglio con la Madonna della Ceriola e i santi Faustino e Giovita (XVIIIXIX sec). Si distingue per i visi “paffutelli e tondeggianti con i nasini a punta e il modo saettante ed un poco metallico di condurre i panneggi, il gusto per le tonalità cromatiche accese e contrastanti, un’abitudine nei confronti di composizioni dense di personaggi posti sopra l’altro “.
Inoltre è presente anche un’Ultima cena di Ottavio Amigoni, del 1651.

Sbarcando alla frazione Porto, alla sinistra di un nucleo che risale al XVIII secolo, sulla riva, si può ammirare la Villa Ferrata (o Villa Solitudo), d’impianto cinquecentesco e restaurata all’inizio del Novecento. Un’ala verso il lago termina con una bella loggia trabeata; aderente al corpo della villa èstata eretta una cappella secentesca con cupola prospettica; sul portale vi è scolpito lo stemma Fenaroli: la famiglia cui si deve la costruzione. Dietro la villa si estende un ampio brolo chiuso, con viti ed ulivi. La villa è di proprietà privata, quindi si può osservare solo dall’esterno.

La Chiesa di San Rocco, Masse è sulla strada che sale sino a Senzano s'incontra Masse, una piccola frazione. Poco più in alto proprioattaccato al piccolo paese, vi è il Santuario di S. Rocco posizionato lì per proteggere il luogo. Questa chiesa venne innalzata ed intitolata a due Santi, S. Rocco e S. Pantaleone medico. La chiesa è sorta probabilmente nell'epoca in cui venne introdotta la devozione al Santo per la peste, ossia nel 1400 circa, ma non aveva le attuali dimensioni. Prima era così piccola da sembrare quasi una catacomba.
Eppure erano presenti due piccoli altari, il maggiore ed uno più piccolo sul lato della sacrestia. San Carlo Borromeo, dopo la visita del 1580, ordinò di togliere il più piccolo e chiudere la porta sul fianco facendone costruire una sulla facciata. Però, dopo una decina d'anni, non era ancora stato realizzato nulla, allora il Vescovo di Brescia, tramite un suo cancelliere vietò la celebrazione della Santa Messa, fino a quando non fossero stati eseguiti i lavori ordinati dal Santo. Così gli abitanti comprarono l'attuale altare, allungarono la chiesa, aprirono il portale in facciata e fecero erigere il campanile.
La facciata a capanna è preceduta da un portico che si trova all'inizio di tre gradini, chiuso da un cancello in ferro battuto, con il timpano mistilineo e la volta crociera su di quattro colonne in pietra di Sarnico. Anche questa chiesa è a pianta longitudinale, con affreschi di Domenico Voltolini. Al centro della soasa dell’altare maggiore è presente una statua di San Rocco. Il calice presente in questa chiesa è una creazione di Giuseppe Lugo.

Il Naèt si dice sia nato in un cantiere nautico di Monte Isola molto tempo fa: la forma, lunga e stretta ricorda moltissimo la famosa gondola di Venezia. Per gli isolani era un veicolo di trasporto eccezionale e al tempo stesso indispensabile per raggiungere la terra ferma e dedicarsi alla pesca. Alcuni anziani dell'isola raccontano storie riguardanti una persona di nome Archetti che fuggita dalle carceri Veneziane si rifugiò a Monte Isola e ideò il Naèt. Era una barca molto utile per i pescatori in quanto leggera, agile e veloce. Si potevano percorrere parecchi km a remi e risultava essere molto versatile per i pescatori. Oggi sono solamente due i costruttori di barche che operano a Monte Isola, i proprietari dei cantieri nautici di nome Archetti. Gli strumenti di lavoro erano e sono tutt’ora molto semplici: martello, scalpello, ascia e pialla. Il tipo di legno usato era ed è tutt’ora il castagno per l’intelaiatura ed il larice per il resto della barca. La lunghezza era di 7 metri, rispettata fino al 1958 quando con l’introduzione del motore venne ridimensionata a metri 6,40, la larghezza è di metri 1,40 ed il fondo nel punto centrale è largo 80 cm. Prima dell’introduzione del motore, al naèt si applicava la vela aggiungendo alla barca solo due pali di castagno incrociati, uno alto 3,5,metri ed uno 4 metri.

Fino a non molti anni fa era impossibile entrare in una casa di Monte Isola e non trovarvi una rete da pesca. La sua fabbricazione comporta un lavoro lungo e minuzioso, in quanto ne vanno studiate le misure delle maglie, la lunghezza e la larghezza, tanto che la quantità e la qualità del pesce pescato dipende appunto solo dalla rete stessa.
La tradizione vuole che i primi “retai” siano stati i monaci cluniacensi dell’isola di San Paolo: da loro i pescatori avrebbero appreso ad intrecciare i rami di salice e poi il filo di seta. Fin dai tempi più remoti la rete fu oggetto di molte liti tra i pescatori ricchi e quelli poveri, in quanto le reti dei primi, essendo costruite in materiale più forte e senza risparmio di filo, potevano essere immerse nelle acque più alte, catturando il pesce prima dei pescatori poveri che avevano a disposizione solo reti piccole immerse vicino alla riva. Le liti tra i pescatori continuarono ancora per molti anni, sentendosi i pescatori di Monte Isola in diritto di poter pescare su tutto il lago mentre Pisogne voleva delimitare i tratti. Nacquero degli scontri veri e propri con armi, furti di reti e di barche. Questi furti trascinarono nella miseria molte famiglie isolane, basti pensare che la fabbricazione di una rete vedeva impegnata l’intera famiglia per tutto l’inverno.
Già nel Quattrocento le grandi corti umanistiche compravano sull’isola le reti da caccia. Nel Settecento il reddito derivante dalla lavorazione delle reti superava già quello proveniente dalla pesca. Nel 1857 nacque il primo vero retificio a Monte Isola, il “Retificio Mazzucchelli” che vedeva impegnati 70 operai. Grazie alla forte domanda i retai montisolani si spostarono anche nella città di Brescia, dove in pochi anni aprirono 5 piccole botteghe. L’industrializzazione e la concorrenza dei paesi asiatici ha provocato un brusco calo di questa produzione che però, ultimamente, si sta riprendendo grazie ad alcune imprese artigianali a conduzione familiare che, oltre alle tradizionali reti da caccia e da pesca, fabbricano reti per lo sport che vengono esportate anche a livello mondiale: le reti degli ultimi Mondiali di calcio erano una produzione montisolana.

A Carzano, ogni 5 anni si rinnova un’antica tradizione dove, per 4 giorni, nell’intreccio di sacro e profano, un paese cerca di affermare la propria identità. E’ una festa attesa e ormai famosa in tutto il Sebino e richiama migliaia di turisti: “ol festù del deaol” (il festone del diavolo) la chiamano i dirimpettai di Sale Marasino per sottolineare lo sfarzo ritenuto un tempo eccessivo rispetto alle possibilità dei pescatori; “è l’anno delle feste di Carzano” dicono a Iseo; “le feste della nostra Santa Croce” per gli abitanti di Carzano. La singolarità di questa tradizione è data dalla rigorosa ciclicità rispettata da più di un secolo e mezzo (alcuni sostengono addirittura dal Seicento) e dalla laboriosa preparazione che coinvolge ogni abitante e con lo stesso rigore esclude da tutte le fasi chi non fa strettamente parte della piccola comunità. La festa per gli abitanti delle altre frazioni deve sempre rappresentare una sorpresa:stupire, meravigliare è il fine, anche se i canoni di svolgimento devono rimanere inalterati. “Arcate” di legno ricoperte di rami di pino, fiori di carta, luminarie, spari di cannone, processione, fuochi sono il copione fisso intorno al quale ruotano attese, sentimenti, competizioni, emozioni.
Onori e oneri sono interamente a carico degli abitanti che si autotassano ogni mese ed eleggono un’apposita commissione, che gestisce la parte finanziaria e organizzativa. Questa tassa fu sempre pagata anche dai più poveri. Se ne meravigliava agli inizi del secolo un curato, don Bartolomeo Giudici, mandato nella frazione nel 1922, che annotava nel suo diario: “esiste in contrada la pia associazione di S. Croce a cui tutti indistintamente fanno parte per sostenere le solennità quinquennali, ogni membro di famiglia paga la sua tangente mensile”.L’origine della festa è da riportare alla prima epidemia di colera: “le solennità quinquennali in onore di S. Croce risalgono ai tempi in cui queste plaghe erano travagliate dal cosiddetto colera asiatico. La popolazione ricorse alla protezione della S. Croce ed il morbo cessò come per incanto”. Il colera scoppiato nel 1817 in India, atteso e temuto per anni in tutta Europa, raggiunse l’Italia nel 1835 e Brescia nel 1836. In questa prima epidemia si ebbero le punte più alte di mortalità e sorsero molti culti votivi di ringraziamento dei superstiti. A Monte Isola i più colpiti furono gli abitanti dei paesi sul lago, i pescatori, più esposti al contagio poiché erano continuamente a contatto con le acque sporche e stagnanti e vivevano in stanze umide in presenza delle reti bagnate. Nel luglio 1836 viene riportato ufficialmente nel “registro dei morti” il primo caso di colera a Carzano e i morti si susseguono poi al ritmo di due tre al giorno, circoscritti sempre nella frazione; l’ultimo caso di decesso (il 31°) è registrato il 26 luglio su un totale di circa 200 abitanti; i morti sono tutti in fascia d’età compresa fra i 30 e i 55 anni.
A questo punto il voto: la processione di una reliquia indicata come un pezzo della S. Croce e “il morbo cessò come per incanto”. Solo il miracolo aveva potuto sconfiggere la malattia esotica, che più di ogni altra aveva colpito la fantasia popolare che concepiva le epidemie come sciagure naturali o come “flagello divino” da subire impotenti. Di fronte ad una paura così grande anche il voto, la festa dei superstiti doveva essere grandiosa, coinvolgere tutto il paese.
Gli “archi” furono costruiti prima con il verde dei canneti che allora crescevano sulle rive, poi, man mano che diminuiva questa vegetazione, con rami di pino acquistati sulla “terraferma”, perché quasi inesistenti nella vegetazione locale e quindi più preziosi. Le luminarie erano costruite da gusci di lumache riempite di olio. Ogni famiglia esponeva inoltre alle finestre i ricami più cari di un corredo che conservava gelosamente. Forse la mancanza di fiori freschi di giardino, un lusso insostenibile per gli abitanti, determinò la tradizione della creazione di fiori di carta che diventarono oggetto di una specie di competizione tra famiglie. Oggi sono ancora confezionati in segreto con procedimenti tramandati di madre in figlia; ogni famiglia addobba diversi archi sui quali i fiori vengono esposti solo all’ultimo momento. Sono migliaia, di tutti i tipi, dalle rose, considerate le più semplici, ai grappoli di glicine, alle orchidee, imitati con tale precisione e abilità da essere confondibili con i veri. Le antiche luminarie a olio oggi sono state sostituite da 12.000 lampadine coloratissime che attraversano ogni strada, vicolo, porta, arricchendo l’effetto cromatico con giochi di intermittenza.
Gli archi di legno rivestiti di pino erano lo scorso settembre circa 300, costruiti dagli abitanti, alla sera, dopo il lavoro, in una lunga e movimentatissima preparazione che durava fino a notte inoltrata.
I rami di pino sono stati acquistati in Val di Scalve, trasportati con camion e chiatte fino all’Isola, spostati con carrucole e carretti per le strettissime vie. Poi la festa è cominciata, con gli spari del cannone a intervalli regolari, la banda, la processione di S. Croce seguita dal Vescovo di Brescia, l’esposizione dei ricami, i fuochi d’artificio, i traghetti stracolmi, migliaia di turisti che si spingevano strappando furtivamente un fiore di carta e nelle luci riflesse dall’acqua la confusione della sagra.
La parte più autentica dell’esperienza collettiva è stata vissuta nei mesi di lavoro, nell’agitazione dei preparativi, nelle tensioni della vigilia, nell’attesa di essere, per quattro giorni, i protagonisti di un paese fiabesco.

La vegetazione è caratterizzata da bosco ceduo, cespuglioso, misto di roverella, carpino, frassino, nocciolo, castagno, querce, faggi, aceri, corniolo, sanguinella, agrifoglio. La flora è quella tipica delle zone collinari e lacustri. Nei boschi, lungo i versanti a nord, si possono trovare genziane, bucanevi; numerosi le rose di natale, i ciclamini, gli anemoni. Sui versanti a sud - ovest fioriscono le ginestre. Il clima ha prodotto un ambiente vegetale di tipo submediterraneo, con coltivazioni di ulivi fino a mezzacosta. I fitti boschi di ulivi di Monte Isola sono stati descritti e dipinti innumerevoli volte nel corso dei secoli. Più sviluppata un tempo era anche la coltivazione della vite, soprattutto fra Menzino e Siviano, una zona compresa in una grande mezzadria, dove si produceva un vino pregiato. L’agricoltura, data la conformazione naturale (che rende difficile la lavorazione dei terreni), non ha mai esercitato un ruolo rilevante nell’economia del Comune, anche se oggi molte sono le piccole piantagioni di ulivo, che permettono agli abitanti di produrre olio nostrano, non solo per la consumazione privata, ma anche per la vendita. Per quanto riguarda l’avifauna, oltre gli uccelli di passo, il nibbio bruno è presente assieme al germano reale; non mancano tutto l’anno gabbiani, folaghe, svassi, marzaiole, aumentate anche dalla vicinanza delle torbiere.



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