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martedì 5 maggio 2015

ISOLE DEL LAGO D' ISEO : MONTE ISOLA

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Monte Isola è un comune italiano di 1.770 abitanti della provincia di Brescia in Lombardia, che copre l'isola omonima del Lago d'Iseo. Si tratta di un comune sparso: la sede comunale si trova nella frazione di Siviano.

In Europa sono presenti isole lacustri di maggior estensione, come l'isola di Visingso nel lago svedese di Vättern (24 km²) e l'isola artificiale di Sääminginsalo, ma Montisola è la prima come altezza sul livello del mare, raggiungendo un'altitudine di 600 m s.l.m.

L'isola è raggiungibile in traghetto dalla sponda bresciana; i principali approdi sono i porti di Sulzano e Sale Marasino dai quali si raggiungono rispettivamente le frazioni di Peschiera Maraglio e Carzano. L'isola è raggiungibile anche dalla sponda bergamasca partendo da Tavernola Bergamasca con collegamenti giornalieri.

Monte Isola, l’isola più grande dei laghi europei, è una montagna verde al centro del Lago d'Iseo.
L’attuale comune si formò nel 1928 con l’unione degli antichi paesi di Peschiera Maraglio e Siviano, per decisione del governo fascista, con il nome di Comune di Siviano. L’attuale nome è stato deciso negli anni cinquanta. Il Comune di Monte Isola comprende anche le due isolette di San Paolo e di Loreto, la prima a sud, l’altra a nord.
I nuclei abitati del comune di Monte Isola sono 11, alcuni in stretta relazione con il lago, punti di collegamento con la "terraferma" come: Peschiera Maraglio, Sensole, Porto di Siviano e Carzano.
Altri sono situati lungo la fascia pianeggiante di media collina: Siviano e Menzino; alcuni verso la sommità della montagna: Olzano, Masse, Cure e Senzano. Gli abitanti risolvono i loro problemi di spostamento interno con motocicli e con un autobus a 30 posti, che svolge il servizio di trasporto e collegamento tra le frazioni dell’Isola, e verso i due principali punti di attracco dalle cinque del mattino alla mezzanotte.
A Monte Isola sono da sempre abolite le automobili; le uniche autorizzate sono adibite ad alcuni servizi importanti (ambulanza, medico, parroco, vigili, taxi). I motocicli sono un'esclusiva dei residenti; il turista può utilizzare solamente il mezzo pubblico o la bicicletta. Nella stagione turistica (da Marzo a Ottobre) è possibile noleggiare biciclette o tandem presso i due punti di noleggio situati a Peschiera e Carzano. Si può iniziare con un giro in bici, che si compie in un’ora, la conoscenza di Monte Isola. A piedi, oltre al periplo, si possono percorrere le mulattiere ed i sentieri che dal Lago portano alla cima dell' Isola dove si trova il Santuario della Madonna della Ceriola, luogo estremamente interessante, non solo sotto l'aspetto naturalistico e panoramico, ma anche artistico, per le bellezze racchiuse nella sua piccola chiesa, la più antica dell' Isola, che rappresenta un punto di riferimento per tutto il Lago. Nei percorsi verso il Santuario è essenziale fermarsi nelle antiche frazioni più in quota dell' Isola, dove si sono maggiormente conservate le caratteristiche di una millenaria cultura contadina: artistiche chiesette circondate da piccole piazze, grosse case di pietra bianca del luogo, attrezzi agricoli di legno, portici, cortili, panorami stupendi. Un' architettura rude e semplice rende le frazioni di Senzano, Cure, Masse, Olzano, Novale, "autentici centri storici" da visitare non senza un obiettivo fotografico.
A Siviano, la frazione più popolata e capoluogo dell' Isola, trovano sede il Municipio, le scuole, l'ufficio postale, gli ambulatori, la banca e due piccoli supermercati. È un paese con caratteristiche medioevali, esposto al sole dall'alba al tramonto in ogni stagione, che si trova di fronte a Tavernola Bergamasca. Siviano è raggiungibile anche via lago scendendo dal battello in località Porto di Siviano.
Peschiera Maraglio è un interessante paese di pescatori da sempre profondamente legati all'acqua.
Anche Carzano era un paese di pescatori e conserva quasi intatte le sue caratteristiche legate all'acqua, alla pesca e alla conservazione del pesce.

Gran parte dell’isola, dal livello del lago fin quasi alla sommità, è costituita da un’unica formazione geologica: il cosiddetto medolo, una serie fitta e regolare di strati calcarei biancastri. Si tratta di una roccia depositata, per precipitazione chimica, sul fondo marino. I frequenti fossili di ammoniti che essa contiene, permettono di individuare l’età di formazione nella prima parte del periodo giurassico, intorno a 180 milioni di anni fa.
In quel periodo i materiali rocciosi che oggi formano le Alpi ricoprivano il fondo di un mare profondo e caldo, esteso fra l’Africa e l’Europa centro-settentrionale: il mare della Tetide. Il medolo di Monte Isola era dunque una piccola porzione dell’immensa distesa di fanghi calcarei che si andavano depositando sul fondo marino, ed è per questo che oggi lo stesso tipo di roccia si ritrova estesamente in tutte le Prealpi bergamasche e bresciane, a oriente e occidente del lago d’Iseo. Al di sotto del medolo troviamo ovunque una roccia di aspetto più compatto, formata da potenti bancate di calcare dolomitico: nell’area bergamasca e sebina è indicata con nome di dolomia o conchodon (dal nome di un grosso bivalve che si trova fossilizzato), mentre nell’area bresciana è chiamata corna e corrisponde al notissimo marmo di Botticino.
La dolomia, il medolo e tutte le altre formazioni precedenti o successive a queste, emersero dal mare all’inizio dell’era terziaria (intorno a 70 milioni di anni fa): l’Europa centro-settentrionale e l’Africa si avvicinavano e il fondo marino interposto, con tutti i suoi sedimenti, era costretto a corrugarsi, sollevarsi, accavallarsi a grandi scaglie sovrapposte, aumentando di spessore e affiorando dal mare della Tetide con la forma di una lunga catena montuosa.
La piccola porzione di fondo marino, destinata a diventare Monte Isola, fu coinvolta nel corrugamento prodotto dalla pressione che veniva da nord a sud. I suoi strati si incurvarono in forma di sinclinale, cioè di piega concava verso l’alto (come una tegola capovolta), allungata in direzione est-ovest .Tutta la regione fu poi sollevata, ma in misura maggiore dal lato bresciano, e gli strati di Monte Isola rimasero, oltre che incurvati, anche inclinati verso la sponda bergamasca.
Questa asimmetria dell’Isola si riflette sui due versanti: ripido quello bresciano, più dolce quello verso Tavernola.
La forma definitiva di Monte Isola è stata impressa, in gran parte, dall’azione geologicamente “recente” (l’ultimo milione di anni, in piena era quaternaria) delle grandi glaciazioni, che videro quasi tutte le valli alpine (per almeno quattro volte) percorse da imponenti lingue glaciali, fino allo sbocco nella pianura padana.
Anche la Valle Camonica e il Lago d’Iseo sono stati più volte ampliati e approfonditi dal passaggio della lingua glaciale che scendeva dal Tonale e andava a sciogliersi nella Franciacorta. L’enorme spessore del ghiaccio, in lento movimento, premeva sul fondo della valle, scavando fino ad un livello addirittura inferiore a quello del mare. La massima profondità di scavo fu raggiunta nel fondovalle che separa Monte Isola da Tavernola mentre il più stretto “canale” tra l’Isola e la sponda bresciana è di 150 metri meno profondo.
Monte Isola appare quindi come una propaggine dei monti di Sale e Marone, che il ghiacciaio ha isolato. Intorno a 180 mila anni fa, l’ultima lingua glaciale cominciò a ritirarsi dalle più alte cerchie moreniche della Franciacorta e contemporaneamente la sua superficie cominciò ad abbassarsi, Monte Isola iniziò ad affiorare dalla grande fiumana di ghiaccio.

Le origini remote del Santuario della Madonna della Ceriola risalgono circa alla metà del V secolo, quando San Vigilio, Vescovo di Brescia, portò la fede nella zona del Sebino sopprimendo il culto della dea pagana Iside (da cui deriva il nome Iseo). La fede del Cristo Salvatore si divulgò ben presto e San Vigilio portò devozione anche alla  Madonna.
Pensò, infatti, di fare erigere sulla cima dell’ Isola una piccola cappella, dedicandola alla Beata Vergine Maria, come simbolo delle purificazioni dalle superstizioni pagane e simbolo della nuova luce del Cristianesimo. La piccola chiesa fu la prima parrocchia dell'isola, chiamata “Santa Maria de curis” come appare nel catalogo dei beni della diocesi di Brescia, compilato nel 1410. Inoltre fu anche la prima chiesa del lago dedicata alla Madonna. Successivamente divenne Madonna della Ceriola, probabilmente perché l' effige della Madonna (XII sec.) venne scolpita in un ceppo di cerro. E' stata intagliata seduta su di un trono, con un ampio manto, con in braccio il Bambino.
Il 14 marzo del 1580, San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, passando in visita sulle strade bresciane, mandò il suo convisitatore Don Ottavio Abbiati sull'Isola a visitare il Santuario. Di questa visita stende una relazione in cui scrive:" Santuario ampio e decente, altare unico consacrato, come pure la chiesa, pitture avariate, trittico con la statua della vergine". Dopo questa visita il rettore della parrocchia, Francesco Augustinelli, ne ordinò il restauro cambiando quasi completamente la struttura originaria. Nell' ampliamento si costruì un nuovo presbiterio che portò maggior proporzione all' insieme. Venne posta l' artistica cancellata in ferro battuto, dividendo così la zona sacra dalla zona riservata ai fedeli. Il vecchio tetto a capanna fu sostituito dalla volta a botte e vennero aperte le due cappelle laterali dove sarà collocato l' altare di San Fermo e più tardi la pala raffigurante il Transito di San Giuseppe, realizzata dall’artista bresciano Antonio Paglia nel 1763. I lavori finirono all'inizio del Seicento (come attesta la scritta sull'architrave del portale della facciata"Francesco Augustinelli presbiteris Rettoris Ope 1600").
Nel 1750 venne radicalmente mutata la facciata con la costruzione, sulla base dell'antichissimo santuario, del massiccio campanile in granito.
Fortunatamente nel 1815, un fulmine scrostò una parte di muro, all'interno della facciata est, evidenziando un affresco in perfetto stato di conservazione, che raffigurava un Cristo Ecce Homo legato con una fune ad una colonna e coronato di spine. Quest' opera è stata attribuita a Giovanni da Marone.
Nel 1836 in Lombardia si diffuse il colera, gli abitanti di Monte Isola, disperati per le numerose vittime, si rivolsero alla “loro” Madonna salendo in processione verso il Santuario dove fecero voto di consacrare quella domenica se fosse cessato quel castigo. Da quel giorno la malattia si indebolì fino a scomparire. Da allora, ancora oggi, ogni seconda domenica di luglio si festeggia la venerata Madonna del Colera, in nome della malattia sconfitta.
Il Santuario è lungo 23 metri, largo 7,5 e alto 10, composto da un unica navata e caratterizzato da una volta a botte che poggia su di un cornicione in cotto che corre lungo tutto il perimetro della chiesa, sostenuto da lesene con capitelli in stile Barocco, come il resto dei fregi e degli ornamenti che caratterizzano la volta e la cupola del presbiterio. L'altare maggiore è costruito in marmo nero e bianco e su di esso si innalza una soasa in legno del 1400. La cornice è stata aggiunta nel 1620 ed è costituita da due colonne in stile corinzio che sostengono la trabeazione e il timpano. Il trittico è composto dalla Madonna al centro e dalle statue in legno dorato dei Santi Faustino e Giovita (patroni di Siviano). Sia la Vergine che Gesù Bambino indossano una vecchia corona d'oro. La lunetta sovrastante l'altare maggiore ritrae la Nascita di Gesù, nella cupola sopra il presbiterio è raffigurata la Purificazione di Maria Vergine, mentre i tre medaglioni che ornano la navata ritraggono L'Incoronazione della Madonna, L'Assunta e L'Annunciazione. Una targa in stucco, posta sull'arco trionfale, riporta la scritta che rievoca il mistero a cui è dedicato il Santuario: "Suscepimus Deus Misericordiam Tuam In Medio Templi Tui".
Lateralmente all'altare maggiore sono situate due cappelle: a sinistra la cappella di S. Firmo, con altare in legno intagliato, risalente al 1600, mentre a destra, la cappella di San Giuseppe con la pala del Paglia. Entrando sulla sinistra si possono ammirare i resti degli affreschi della chiesa precedente, una Madonna col Bambino molto simile alla statua, ordinata probabilmente da una famiglia di cui solo in parte si possono leggere i nomi, perchè manca il resto della bellissima opera, decurtata quando venne aperta una porta per la visita vescovile. Sempre nella parte interna della facciata, sopra la porta, si trova un affresco del 1924 che rappresenta il vescovo San Vigilio, apostolo che portò fede e devozione nel Sebino. Ai lati del presbiterio vi sono due affreschi dell'artista Locatelli , raffiguranti Santa Bartolomea Capitanio, protettrice di Lovere e Sant'Angela Merici. Tra l'altare maggiore e la navata centrale è posta una cancellata in ferro battuto del 1600.
Dedicate sempre alla Madonna, sono le tavolette votive, quadri recenti ed antichi, appesi sul fondo della parete sinistra, chiamati anche "ex voto". Se ne contavano 82, alcuni datati anche 1620, ma i più numerosi sono del 1800. Simboleggiavano la devozione e la gratitudine del fedele nei confronti della Madonna. Ancora oggi c'è questa usanza, anche se al posto delle tavolette dipinte, vengono appese delle fotografie. Sono presenti anche molte preghiere dedicate alla Madonna, poesie di
Emilia Belli (poetessa del Lago d'Iseo) e canzoni in onore dell'Incoronazione della Madonna, avvenuta il 30 agosto 1924. Durante l'attesa di quel fatidico giorno, i fedeli di Monte Isola, offrirono una parte dei loro averi, fino ad arrivare al peso di un Kg d'oro, permettendo così la fusione di una splendida corona incastonata di pietre preziose per la Madonna ed una per il Bambino.
Oggi il Santuario, giuridicamente nel territorio isolano è il simbolo dell' unità civile di tutti i cittadini dell' unico comune di Monte Isola, che porta nel suo sistema proprio la figura del Santuario della Madonna della Ceriola.

Il castello che si erge sopra il golfo di Sensole, tra Peschiera e Siviano, é uno dei monumenti più caratteristici del posto. Come punto per l'erezione del castello Oldofredi fu scelto, nel XIV secolo, uno sperone roccioso rivolto sulla sponda bergamasca, di fronte a Tavernola, da dove era possibile controllare tutto il lago da nord a sud. Il castello non sorgeva nel punto più alto dell'Isola, già occupato dal Santuario della Ceriola, e non si preoccupava di controllare la sponda bresciana in quanto anche questa era sotto la giurisdizione degli Isei, poi Oldofredi, e da essa non potevano venire offese. Non si sa quando i Martinengo acquistarono la rocca, ma si può supporre che sia stato Antonio Prevosto attorno alla metà del XV secolo.
In quel secolo si può ricordare la grande rovina degli Oldofredi a causa della loro amicizia con i Visconti, con la necessità per essi di vendere, mentre al contrario i Martinengo, per i servizi resi alla Serenissima, appena piantata nel bresciano, potevano avere grandi possibilità economiche. Dopo il 1427 quando il territorio bergamasco passò sotto Venezia, la funzione difensiva della rocca venne meno e fu quindi ridotta alla funzione di palazzo. Cosi fanno supporre le cornici e le montature nelle finestre e nell'ampio portale, scolpiti in pietra di Sarnico, fino allora mai usata sull'Isola. Quest'opera è stata compiuta forse dal valoroso Girolamo o ancora prima da suo padre Antonio II. Ma in seguito, pur essendo stato modificato, l'edificio non dovette essere di grande gradimento per i signori. Questa dimora, in un isola lontana dal mondo, senza terreni adiacenti e lontana anche dai loro diretti interessi, fu così abbandonata. Dalla fine del 500 sarà denunciata nelle loro polizze come "rocchetta mezzo rovina". Oggi il castello è di proprietà privata Si presenta su base quadrata, imperniato attorno ad un'imponente torre a pianta circolare e base scarpata, origine e fulcro del castello, con il lato verso monte adibito a residenza, tutto costruito nel secolo XV. Ogni castello nasce con torre di avvistamento e di segnalazione, che si protegge poi con un muro distanziatore cui in seguito si addossano le costruzioni e quello di Monte Isola ne è un esempio chiaro. La torre cilindrica, a base troncoconica, era impiantata sulla roccia al piano dell'odierno circuito al primo livello, coperto dal cortile in un secondo tempo.
Una leggenda narra che un tempo un perfido castellano colpiva a cannonate le barche dei pescatori se questi, giunti sotto il castello, dinanzi al roccione di Herf (Serf), non ammainavano la vela in segno di sottomissione. Dopo l’affondamento di alcune barche qualcuno pensò di trasformare questo gesto obbligato in un devoto omaggio alla Vergine Maria, ardentemente venerata sull’Isola. A questo punto fu dipinta sullo scoglio di Herf l’immagine della Madonna della Ceriola. La leggenda narra che il castellano morì annegato nel tentativo di cancellare l’immagine della Madonna.

L’abitato di Menzino, situato nella zona a sud-ovest dell’isola, conserva particolare fascino ed interesse storico-architettonico, giustificato dalla presenza di un caratteristico Borgo Medievale, della Rocca Martinengo e di Palazzo Zirotti, noto agli isolani con il soprannome di “casa del dottore”. Il percorso storico-architettonico consente di scoprire e conoscere le peculiari caratteristiche che connotano questi edifici, apprezzandone l’indiscusso fascino e scoprendo le sorprendenti testimonianze di un tempo passato che, oggi più che mai, è importante non dimenticare.

La Chiesa di San Michele, Peschiera Maraglio venne costruita sulle rovine della chiesa precedente nel Seicento; consacrata poi nel 1648. La facciata è a due ordini e timpano triangolare liscio, con una croce in metallo, alla fine di una scalinata in marmo di Sarnico di sette gradini a sezione piramidale. Il portale del XVII sec., in marmo di Sarnico lineare, è decorato da lesene tuscaniche. La porta è in ebano e reca due eleganti cornucopie in altorilievo. L’interno ad una navata con volta a botte, è decorato riccamente con degli stucchi: motivi floreali, cornici mistilinee, semicircolari, ogivali intorno a numerosi affreschi abbelliscono tutta la parrocchia.

Alla Villa Oldofredi, Peschiera Maraglio vi si giunge direttamente a piedi percorrendo il vicolo che dalla piazzetta risale parte del paese fino a giungere alla Chiesa di San Michele, che si trova proprio a ridosso del Castello Oldofredi. L'accesso è vietato dato che il castello è di un proprietario privato. Il Palazzo è stato costruito in pieno stile Rinascimentale con portico ad archi su colonne in pietra di Sarnico.
Dall’esterno si può vedere la facciata più caratteristica dell'antica fortezza, nella quale gli Oldofredi nel 1497 ospitarono la Regina di Cipro Caterina Cornaro, sorella del podestà di Brescia. La torre non esiste più, ma si hanno prove ormai certe della sua esistenza, dato che, già negli scritti a nostra disposizione, Giovanni da Lezze faceva riferimento ad una “Torre alta ed antiqua”. Le mura sono state abbattute oppure inglobate dalle abitazioni di recente costruzione, ma facendo un rapido esame alle case adiacenti possiamo immaginarci la linea delle ipotetiche mura del castello.

La chiesa di San Giovanni Battista fu ricostruita nel Settecento, con la facciata ad est, sulle vestigia della chiesetta già esistente. La facciata a due ordini è tripartita da lesene tuscaniche con quattro nicchie con le statue dei Santi Pietro e Paolo ai lati del finestrone, Giovanni Battista (con il bastone crociato, la fiamma e l’agnello) e Ambrogio. Il portale in marmo di Botticino (XVII), alla sommità di una gradinata, appartiene alla facciata della chiesa precedente ed é chiuso da una cancellata in ferro battuto, ricca di decorazioni floreali. L’interno è ad una navata a pianta poligonale con cupola; due sono gli altari laterali: altare dalla Madonna in legno marmorizzato, acquistato all’inizio del XX sec. in occasione della demolizione del Monastero dell’Isola di San Paolo, e l’antico altare maggiore del Crocifisso “in legno, ma alquanto deperito” . Sulle pareti si notano quattro nicchie con statue di arcangeli. La pala d’altare raffigura la Natività di san Giovanni Battista; ai lati sempre nel presbiterio si possono osservare un’Assunta e una Sacra Famiglia realizzate da Giacomo Colombo (XVIII-XIX sec.). Gli affreschi del soffitto sono settecenteschi: la cupola del presbiterio rappresenta il Battesimo di Cristo mentre sopra il corpo centrale della chiesa sono raffigurate Storie di san Giovanni Battista e vari episodi biblici.

Il borgo medievale, Novale è un gruppo di abitazioni posizionato sopra Carzano con forma a balconata, che si collega al paese tramite un sentiero che poi si prolunga sino ad Olzano. Cresciuto nel Medioevo, nascosto tra piante di ulivo, castagno e boschi cedui, è costituito dalle caratteristiche case dei vecchi abitanti costruite con muri di conci squadrati di medolo, portali ad arco a pieno centro, piccole volte al pianterreno, balconi in legno sotto agli spioventi dei tetti intorno ad una vecchia piazza di piccole dimensioni. Vi è anche una casa signorile che è stata la residenza estiva del vescovo mons. Marco Morosini (1645-1654). Con il tempo il borgo ha subito moltissime modifiche, di medievale oggi rimangono soltanto la struttura, gli archi e i balconi.

La chiesa di Siviano dedicata ai Santi Faustino e Giovita é costruita sulla cima della collina di Siviano, in parte creata sul terrapieno che costituisce il sagrato, sorretto da due grossi muri in pietra. La facciata è ad un ordine, con portichetto neoclassico. L’interno, ad una  navata, pianta centrale con cupola su quattro archi a pieno centro, ha quattro altari laterali; è decorato da stucchi di “sobrio ed elegante stile corinzio, misto a barocco” ed affreschi settecenteschi. L’altare maggiore è in marmo di Ome e marmo rosso di Caprino Veronese. Alle pareti si può notare una pala ad olio su tela, di Giacomo Colombo da Palazzolo sull’Oglio con la Madonna della Ceriola e i santi Faustino e Giovita (XVIIIXIX sec). Si distingue per i visi “paffutelli e tondeggianti con i nasini a punta e il modo saettante ed un poco metallico di condurre i panneggi, il gusto per le tonalità cromatiche accese e contrastanti, un’abitudine nei confronti di composizioni dense di personaggi posti sopra l’altro “.
Inoltre è presente anche un’Ultima cena di Ottavio Amigoni, del 1651.

Sbarcando alla frazione Porto, alla sinistra di un nucleo che risale al XVIII secolo, sulla riva, si può ammirare la Villa Ferrata (o Villa Solitudo), d’impianto cinquecentesco e restaurata all’inizio del Novecento. Un’ala verso il lago termina con una bella loggia trabeata; aderente al corpo della villa èstata eretta una cappella secentesca con cupola prospettica; sul portale vi è scolpito lo stemma Fenaroli: la famiglia cui si deve la costruzione. Dietro la villa si estende un ampio brolo chiuso, con viti ed ulivi. La villa è di proprietà privata, quindi si può osservare solo dall’esterno.

La Chiesa di San Rocco, Masse è sulla strada che sale sino a Senzano s'incontra Masse, una piccola frazione. Poco più in alto proprioattaccato al piccolo paese, vi è il Santuario di S. Rocco posizionato lì per proteggere il luogo. Questa chiesa venne innalzata ed intitolata a due Santi, S. Rocco e S. Pantaleone medico. La chiesa è sorta probabilmente nell'epoca in cui venne introdotta la devozione al Santo per la peste, ossia nel 1400 circa, ma non aveva le attuali dimensioni. Prima era così piccola da sembrare quasi una catacomba.
Eppure erano presenti due piccoli altari, il maggiore ed uno più piccolo sul lato della sacrestia. San Carlo Borromeo, dopo la visita del 1580, ordinò di togliere il più piccolo e chiudere la porta sul fianco facendone costruire una sulla facciata. Però, dopo una decina d'anni, non era ancora stato realizzato nulla, allora il Vescovo di Brescia, tramite un suo cancelliere vietò la celebrazione della Santa Messa, fino a quando non fossero stati eseguiti i lavori ordinati dal Santo. Così gli abitanti comprarono l'attuale altare, allungarono la chiesa, aprirono il portale in facciata e fecero erigere il campanile.
La facciata a capanna è preceduta da un portico che si trova all'inizio di tre gradini, chiuso da un cancello in ferro battuto, con il timpano mistilineo e la volta crociera su di quattro colonne in pietra di Sarnico. Anche questa chiesa è a pianta longitudinale, con affreschi di Domenico Voltolini. Al centro della soasa dell’altare maggiore è presente una statua di San Rocco. Il calice presente in questa chiesa è una creazione di Giuseppe Lugo.

Il Naèt si dice sia nato in un cantiere nautico di Monte Isola molto tempo fa: la forma, lunga e stretta ricorda moltissimo la famosa gondola di Venezia. Per gli isolani era un veicolo di trasporto eccezionale e al tempo stesso indispensabile per raggiungere la terra ferma e dedicarsi alla pesca. Alcuni anziani dell'isola raccontano storie riguardanti una persona di nome Archetti che fuggita dalle carceri Veneziane si rifugiò a Monte Isola e ideò il Naèt. Era una barca molto utile per i pescatori in quanto leggera, agile e veloce. Si potevano percorrere parecchi km a remi e risultava essere molto versatile per i pescatori. Oggi sono solamente due i costruttori di barche che operano a Monte Isola, i proprietari dei cantieri nautici di nome Archetti. Gli strumenti di lavoro erano e sono tutt’ora molto semplici: martello, scalpello, ascia e pialla. Il tipo di legno usato era ed è tutt’ora il castagno per l’intelaiatura ed il larice per il resto della barca. La lunghezza era di 7 metri, rispettata fino al 1958 quando con l’introduzione del motore venne ridimensionata a metri 6,40, la larghezza è di metri 1,40 ed il fondo nel punto centrale è largo 80 cm. Prima dell’introduzione del motore, al naèt si applicava la vela aggiungendo alla barca solo due pali di castagno incrociati, uno alto 3,5,metri ed uno 4 metri.

Fino a non molti anni fa era impossibile entrare in una casa di Monte Isola e non trovarvi una rete da pesca. La sua fabbricazione comporta un lavoro lungo e minuzioso, in quanto ne vanno studiate le misure delle maglie, la lunghezza e la larghezza, tanto che la quantità e la qualità del pesce pescato dipende appunto solo dalla rete stessa.
La tradizione vuole che i primi “retai” siano stati i monaci cluniacensi dell’isola di San Paolo: da loro i pescatori avrebbero appreso ad intrecciare i rami di salice e poi il filo di seta. Fin dai tempi più remoti la rete fu oggetto di molte liti tra i pescatori ricchi e quelli poveri, in quanto le reti dei primi, essendo costruite in materiale più forte e senza risparmio di filo, potevano essere immerse nelle acque più alte, catturando il pesce prima dei pescatori poveri che avevano a disposizione solo reti piccole immerse vicino alla riva. Le liti tra i pescatori continuarono ancora per molti anni, sentendosi i pescatori di Monte Isola in diritto di poter pescare su tutto il lago mentre Pisogne voleva delimitare i tratti. Nacquero degli scontri veri e propri con armi, furti di reti e di barche. Questi furti trascinarono nella miseria molte famiglie isolane, basti pensare che la fabbricazione di una rete vedeva impegnata l’intera famiglia per tutto l’inverno.
Già nel Quattrocento le grandi corti umanistiche compravano sull’isola le reti da caccia. Nel Settecento il reddito derivante dalla lavorazione delle reti superava già quello proveniente dalla pesca. Nel 1857 nacque il primo vero retificio a Monte Isola, il “Retificio Mazzucchelli” che vedeva impegnati 70 operai. Grazie alla forte domanda i retai montisolani si spostarono anche nella città di Brescia, dove in pochi anni aprirono 5 piccole botteghe. L’industrializzazione e la concorrenza dei paesi asiatici ha provocato un brusco calo di questa produzione che però, ultimamente, si sta riprendendo grazie ad alcune imprese artigianali a conduzione familiare che, oltre alle tradizionali reti da caccia e da pesca, fabbricano reti per lo sport che vengono esportate anche a livello mondiale: le reti degli ultimi Mondiali di calcio erano una produzione montisolana.

A Carzano, ogni 5 anni si rinnova un’antica tradizione dove, per 4 giorni, nell’intreccio di sacro e profano, un paese cerca di affermare la propria identità. E’ una festa attesa e ormai famosa in tutto il Sebino e richiama migliaia di turisti: “ol festù del deaol” (il festone del diavolo) la chiamano i dirimpettai di Sale Marasino per sottolineare lo sfarzo ritenuto un tempo eccessivo rispetto alle possibilità dei pescatori; “è l’anno delle feste di Carzano” dicono a Iseo; “le feste della nostra Santa Croce” per gli abitanti di Carzano. La singolarità di questa tradizione è data dalla rigorosa ciclicità rispettata da più di un secolo e mezzo (alcuni sostengono addirittura dal Seicento) e dalla laboriosa preparazione che coinvolge ogni abitante e con lo stesso rigore esclude da tutte le fasi chi non fa strettamente parte della piccola comunità. La festa per gli abitanti delle altre frazioni deve sempre rappresentare una sorpresa:stupire, meravigliare è il fine, anche se i canoni di svolgimento devono rimanere inalterati. “Arcate” di legno ricoperte di rami di pino, fiori di carta, luminarie, spari di cannone, processione, fuochi sono il copione fisso intorno al quale ruotano attese, sentimenti, competizioni, emozioni.
Onori e oneri sono interamente a carico degli abitanti che si autotassano ogni mese ed eleggono un’apposita commissione, che gestisce la parte finanziaria e organizzativa. Questa tassa fu sempre pagata anche dai più poveri. Se ne meravigliava agli inizi del secolo un curato, don Bartolomeo Giudici, mandato nella frazione nel 1922, che annotava nel suo diario: “esiste in contrada la pia associazione di S. Croce a cui tutti indistintamente fanno parte per sostenere le solennità quinquennali, ogni membro di famiglia paga la sua tangente mensile”.L’origine della festa è da riportare alla prima epidemia di colera: “le solennità quinquennali in onore di S. Croce risalgono ai tempi in cui queste plaghe erano travagliate dal cosiddetto colera asiatico. La popolazione ricorse alla protezione della S. Croce ed il morbo cessò come per incanto”. Il colera scoppiato nel 1817 in India, atteso e temuto per anni in tutta Europa, raggiunse l’Italia nel 1835 e Brescia nel 1836. In questa prima epidemia si ebbero le punte più alte di mortalità e sorsero molti culti votivi di ringraziamento dei superstiti. A Monte Isola i più colpiti furono gli abitanti dei paesi sul lago, i pescatori, più esposti al contagio poiché erano continuamente a contatto con le acque sporche e stagnanti e vivevano in stanze umide in presenza delle reti bagnate. Nel luglio 1836 viene riportato ufficialmente nel “registro dei morti” il primo caso di colera a Carzano e i morti si susseguono poi al ritmo di due tre al giorno, circoscritti sempre nella frazione; l’ultimo caso di decesso (il 31°) è registrato il 26 luglio su un totale di circa 200 abitanti; i morti sono tutti in fascia d’età compresa fra i 30 e i 55 anni.
A questo punto il voto: la processione di una reliquia indicata come un pezzo della S. Croce e “il morbo cessò come per incanto”. Solo il miracolo aveva potuto sconfiggere la malattia esotica, che più di ogni altra aveva colpito la fantasia popolare che concepiva le epidemie come sciagure naturali o come “flagello divino” da subire impotenti. Di fronte ad una paura così grande anche il voto, la festa dei superstiti doveva essere grandiosa, coinvolgere tutto il paese.
Gli “archi” furono costruiti prima con il verde dei canneti che allora crescevano sulle rive, poi, man mano che diminuiva questa vegetazione, con rami di pino acquistati sulla “terraferma”, perché quasi inesistenti nella vegetazione locale e quindi più preziosi. Le luminarie erano costruite da gusci di lumache riempite di olio. Ogni famiglia esponeva inoltre alle finestre i ricami più cari di un corredo che conservava gelosamente. Forse la mancanza di fiori freschi di giardino, un lusso insostenibile per gli abitanti, determinò la tradizione della creazione di fiori di carta che diventarono oggetto di una specie di competizione tra famiglie. Oggi sono ancora confezionati in segreto con procedimenti tramandati di madre in figlia; ogni famiglia addobba diversi archi sui quali i fiori vengono esposti solo all’ultimo momento. Sono migliaia, di tutti i tipi, dalle rose, considerate le più semplici, ai grappoli di glicine, alle orchidee, imitati con tale precisione e abilità da essere confondibili con i veri. Le antiche luminarie a olio oggi sono state sostituite da 12.000 lampadine coloratissime che attraversano ogni strada, vicolo, porta, arricchendo l’effetto cromatico con giochi di intermittenza.
Gli archi di legno rivestiti di pino erano lo scorso settembre circa 300, costruiti dagli abitanti, alla sera, dopo il lavoro, in una lunga e movimentatissima preparazione che durava fino a notte inoltrata.
I rami di pino sono stati acquistati in Val di Scalve, trasportati con camion e chiatte fino all’Isola, spostati con carrucole e carretti per le strettissime vie. Poi la festa è cominciata, con gli spari del cannone a intervalli regolari, la banda, la processione di S. Croce seguita dal Vescovo di Brescia, l’esposizione dei ricami, i fuochi d’artificio, i traghetti stracolmi, migliaia di turisti che si spingevano strappando furtivamente un fiore di carta e nelle luci riflesse dall’acqua la confusione della sagra.
La parte più autentica dell’esperienza collettiva è stata vissuta nei mesi di lavoro, nell’agitazione dei preparativi, nelle tensioni della vigilia, nell’attesa di essere, per quattro giorni, i protagonisti di un paese fiabesco.

La vegetazione è caratterizzata da bosco ceduo, cespuglioso, misto di roverella, carpino, frassino, nocciolo, castagno, querce, faggi, aceri, corniolo, sanguinella, agrifoglio. La flora è quella tipica delle zone collinari e lacustri. Nei boschi, lungo i versanti a nord, si possono trovare genziane, bucanevi; numerosi le rose di natale, i ciclamini, gli anemoni. Sui versanti a sud - ovest fioriscono le ginestre. Il clima ha prodotto un ambiente vegetale di tipo submediterraneo, con coltivazioni di ulivi fino a mezzacosta. I fitti boschi di ulivi di Monte Isola sono stati descritti e dipinti innumerevoli volte nel corso dei secoli. Più sviluppata un tempo era anche la coltivazione della vite, soprattutto fra Menzino e Siviano, una zona compresa in una grande mezzadria, dove si produceva un vino pregiato. L’agricoltura, data la conformazione naturale (che rende difficile la lavorazione dei terreni), non ha mai esercitato un ruolo rilevante nell’economia del Comune, anche se oggi molte sono le piccole piantagioni di ulivo, che permettono agli abitanti di produrre olio nostrano, non solo per la consumazione privata, ma anche per la vendita. Per quanto riguarda l’avifauna, oltre gli uccelli di passo, il nibbio bruno è presente assieme al germano reale; non mancano tutto l’anno gabbiani, folaghe, svassi, marzaiole, aumentate anche dalla vicinanza delle torbiere.



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lunedì 6 aprile 2015

I RETI



I Reti erano una antica popolazione stanziata nelle Alpi centro-orientali, inserita nel contesto culturale di Fritzens-Sanzeno, che aveva come epicentro il Trentino e il Tirolo, sviluppandosi fino all'Engadina, nel Canton Grigioni in Svizzera, e alla Germania meridionale.

Secondo lo storico romano Plinio il vecchio essi erano divisi in vari gruppi, riconducibili però a una unica entità etnico-culturale di origine etrusca; questa molteplicità di comunità pone serie difficoltà agli studiosi nel delineare con precisione l'area da loro occupata.

A seguito della conquista dell'arco alpino effettuata sotto l'imperatore Augusto tra il 15 e il 16 a.C. i popoli retici furono sottomessi a Roma, e successivamente inseriti nella provincia di Rezia.

Cinquecento anni avanti Cristo gli Etruschi si spinsero anche a nord, verso le Alpi e oltre, ove fondarono numerose colonie. Quelle terre presero il nome di Raetia, i suoi abitanti furono i Reti, e nelle Alpi Retiche si trovano Valtellina ed Engadina. Plinio nella sua opera Naturarum Historia (III,133) afferma che i Reti, discendenti degli Etruschi, sotto il loro capo Reto, siano stati cacciati dai Galli.

Il popolo che abitò nel Trentino Alto Adige nella età del ferro, identificato archeologicamente con la cultura di Fritzens-Sanzeno, è il primo di cui si hanno non solo documenti materiali, ma anche fonti scritte. Infatti storici, geografi e poeti romani e greci parlano di questa popolazione definendola "Reti". Anche se questo termine non è esatto dal punto di vista archeologico, perché, come vedremo, indica in realtà un insieme di popoli diversi, lo useremo anche noi per brevità.
Nel I secolo a.C. le informazioni si intrecciano definendo un quadro in parte contraddittorio.
Sul monumento alla vittoria di La Turbie presso Monaco, sul quale sono menzionate le popolazioni sottomesse con la forza dai Romani tra il 25 e il 14/13 a.C. non è nominato il popolo dei Reti. Le popolazioni alpine nominate come vinte sono numerose e tra queste compaiono anche i Venostes e gli Isarci. Da informazioni di altri autori antichi e da iscrizioni, si possono citare altre popolazioni che ci riguardano, ma non è possibile indicare precisamente il luogo in cui abitavano. Tra questi vi sono anche alcuni popoli che potrebbero aver vissuto nella nostra regione come gli Anauni (Val di Non), i Tulliasses e i Sinduni (forse Val di Sole o Val d'Adige tra Merano e Salorno), i Tridentini (forse Val d'Adige tra Merano, Salorno e Rovereto).
Caio Svetonio Tranquillo, nella sua opera "Le vite dei dodici Cesari", descrivendo la vita di Cesare Augusto nel volume I al capitolo 21, dice:
«Domuit autem partim ductu partim auspiciis suis Cantabriam Aquitaniam, Pannoniam, Dalmatiam cum Illyrico omni, item Raetiam et Vindelicos ac Salassos, gentes Inalpinas».
Sottomise o egli stesso o per mezzo di luogotenenti, la Cantabria, l'Aquitania, la Pannonia, la Dalmazia con tutto l'Illirico, inoltre la Rezia, i Vindelici e i Salassi, genti alpine.
Le prime notizie di questo popolo si riferiscono al suo vino. Infatti la più antica notizia indiretta sui Reti si trova in M. Porcius Cato che loda il vino retico coltivato, come si deduce da Plinio il Vecchio, nei dintorni di Verona. Anche Caio Svetonio, descrivendo le abitudini alimentari di Augusto ( op.cit. I,77) dice che:
«Et maxime delectatus est Raetico, neque temere interdiu bibit».
E particolarmente gli piaceva il vino retico, ma raramente ne beveva durante il giorno.
Abbiamo notizie su città che in qualche modo ebbero a che fare con i Reti: Como venne distrutta dai Reti , fra i quali Strabone nomina anche i Lepontii. Plinio il Vecchio menziona, oltre ad altre, anche Trento come città retica (Raetica oppida). Dalle antiche fonti storiche si deduce dunque che i Reti abitavano il territorio alpino tra il Lago Maggiore e il Piave, tra il Lago di Costanza e la Bassa Valle dell'Inn. Plinio afferma che «Raeti in multas civitates divisi» (I Reti erano divisi in molte popolazioni).
Non si può però capire da queste fonti se i Reti fossero una confederazione di popoli di natura culturale e/o politica oppure una comunità con lingua, cultura e/o religione affini. Per rispondere dunque al quesito chi fossero i Reti si possono avere indicazioni solo dagli studi linguistici e dall'archeologia.
Riguardo all'origine dei Reti, nell'antica storiografia si trova più volte l'indicazione che essi siano di stirpe etrusca e che guidati, secondo la leggenda, dal loro capo Reto, si siano spinti nelle Alpi. Tito Livio, nella sua "Storia di Roma", V, cap.33, afferma infatti:
«Tuscorum ante Romanum imperium late terra marique opes patuere... Et in utrumque mare vergentes incoluere, prius cis Appenninum, postea trans Appenninum coloniis missis, quae trans Padum omnia loca - excepto Venetorum angulo - usque ad Alpes tenuere. Alpinis quoque ea gentibus haud dubie origo est, maxime Raetiis, quos loca ipsa efferarunt ne quid ex antiquo praeter sonum linguae nec eum incorruptum retinerent».
«Il potere degli Etruschi, prima della supremazia dei Romani, si stese largamente sulla terra e sul mare….Essi posero le loro sedi sulle regioni che si affacciano sui due mari (Tirreno ed Adriatico.), prima al di qua dell’Appennino, poi, mandando al di là di esso delle colonie, occuparono tutto il territorio al di là del Po fino alle Alpi, eccetto la zona dei Veneti. Senza dubbio questa è l’origine anche delle genti alpine, specialmente dei Reti, resi così selvaggi dalla natura stessa dei luoghi che della loro origine conservarono solamente il suono della lingua e nemmeno questo incorrotto».
Più cauto, a questo proposito, è Plinio che nella sua opera Naturarum Historia (III,133) afferma: «Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto» (Si ritiene che i Reti, discendenti degli Etrusch, sotto il loro capo Reto, siano stati cacciati dai Galli)
In realtà non vi sono indicazioni e prove per stabilire precisamente la loro origine. Tra le ipotesi più accettate c'è quella che li indica come un insieme di popoli autoctoni, in qualche modo simili, soprattutto per cultura e in parte per lingua (scritta). Interessante comunque è riflettere come i Romani li abbiano indicati tutti con un nome generico e li abbiano descritti secondo il loro punto di vista. Già Livio infatti li presenta come gente selvaggia e come abbiamo visto Strabone li indica come dediti al brigantaggio. Anche in Orazio troviamo delle indicazioni sui popoli delle Alpi.
«.... qaulemve laetis caprea pascuis
intenta......
...... leonem,
dente novo peritura, vidit;
videre Raetis bella sub alpibus
Drusum gerentem Vindelici......
sed diu
lateque victrices catervae,
consiliis iuvenis revictae,
sensere quid mens ....
nutrita ..... sub penetralibus
posse....»(Odi, IV,IV: per le vittorie di Druso)
«...come una cerbiatta intenta a dolci pascoli, vede un leone e già si sente preda delle sue giovani zanne, così i Vindelici videro Druso far guerra sulle Rezie Alpi...; ma quell'orda, vincitrice sempre e dovunque, sconfitta dall'intelligenza di un giovane, conobbe quanto valesse una mente educata in una reggia». Come si vede, in quest'ode Orazio esalta la forza e l'intelligenza di Druso che ha saputo sottomettere i Vindelici, popolo delle Rezie, indicato come orda temibile. In un'altra ode ( IV,XIV: pace romana) il poeta, esaltando la pace di Augusto e le imprese di Druso, dice:
«Augustus.........
.... maxime principum
quem, legis expertes latinae,
Vindelici didicere nuper
quid Marte posses? Milite nam tuo
Drusus Genaunos, implacidus genus,
Breunosque veloces et arces
Alpibus impositas tremendis
deiecit acer, plus vice simplici;
maior Neronum mox grave proelium
commisit immanesque Raetos
auspiciis pepulit secundis,
... quantis fatigaret ruinis
..... impiger hostium
vexare turmas».
«Augusto, il più grande dei principi, che or ora i Vindelici, ignari della legge latina, hanno conosciuto come persona forte in guerra? Con le tue milizie, Druso abbattè con aspra rappresaglia i Genauni, popolo irrequieto, i Breuni veloci e le rocche poste sulle fosche Alpi; il maggiore dei Neroni fece una fierissima battaglia e, con auspici favorevoli, volse in fuga i Reti immani ... (li) incalzava con strage immensa, .... alacre a respingere le torme nemiche».
Anche in questo brano, viene esaltata la forza e la civiltà di Roma, fondata sulle leggi, nei confronti di un popolo selvaggio e certamente non incline a sottomettersi alla volontà dell'imperatore. Leggendo questi versi, però, bisogna tener sempre presente la loro funzione che è quella di esaltare la grandezza di Augusto e del suo figliastro Druso che hanno saputo allargare i confini dell'impero e portare ovunque la civiltà di Roma. Per fare questo Orazio mette in massimo risalto le opere dei Romani, sia descrivendo come feroci gli avversari, e quindi sottometterli è stata una grande impresa, sia sottolineando la loro inciviltà, per esaltare così ancor di più l'importanza dell'opera civilizzatrice dell'impero.
Ma i Reti erano davvero così come venivano descritti? Solo l'archeologia può dare una risposta, perché noi possediamo documenti scritti solo dalla parte dei Romani, avversari di questi popoli, ma non ne abbiamo da parte dei Reti che non ci hanno lasciato nessuna descrizione scritta di sé stessi, ma solo brevi iscrizioni per lo più a carattere sacro.
Ma da che cosa deriva il nome di Reti? Anche se dare una risposta certa è difficile si può supporre che esso derivi forse da quello della dea Reitia, raffigurata tra animali con un velo in testa e una chiave in mano. Nella zona di Este esisteva un santuario dedicato a questa dea, in cui arrivavano popolazioni dal Nord e quindi gli antichi, soprattutto Romani, indicarono tutti gli abitanti a Nord che abitavano sulle Alpi, col nome generico di Reti.

Secondo lo storico latino Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.) i Reti discenderebbero dagli etruschi, ritirati sull'arco alpino a seguito delle invasioni celtiche nel nord Italia.

Lo storico greco Strabone (58 a.C.-25 d.C. circa) descrive i Reti associandoli ai Vindelici, collocandoli tra Elvezi e Boi sopra "Verona e Como"; precisa inoltre che alla "stirpe retica" appartengono sia i Leponzi che i Camuni:

« Ἑξῆς δὲ τὰ πρὸς ἕω μέρη τῶν ὀρῶν καὶ τὰ ἐπιστρέφοντα πρὸς νότον Ῥαιτοὶ καὶ Ὀυινδολικοὶ κατέχουσι, συνάπτοντες Ἐλουηττίοις καὶ Βοίοις· ἐπίκεινται γὰρ τοῖς ἐκείνων πεδίοις. Οἱ μὲν οὖν Ῥαιτοὶ μέχρι τῆς Ἰταλίας καθήκουσι τῆς ὑπὲρ Οὐήρωνος καὶ Κώμου. Καὶ ὅ γε Ῥαιτικὸς οἶνος, τῶν ἐν τοῖς Ἰταλικοῖς ἐπαινουμένων οὐκ ἀπολείπεσθαι δοκῶν, ἐν ταῖς τούτων ὑπωρείαις γίνεται· διατείνουσι δὲ καὶ μέχρι τῶν χωρίων, δι' ὧν ὁ Ῥῆνος φέρεται· τούτου δ' εἰσὶ τοῦ φύλου καὶ Ληπόντιοι καὶ Καμοῦνοι. Οἱ δὲ Ὀυινδολικοὶ καὶ Νωρικοὶ τὴν ἐκτὸς παρώρειαν κατέχουσι τὸ πλέον· μετὰ Βρεύνων καὶ Γεναύνων, ἤδη τούτων Ἰλλυριῶν. Ἅπαντες δ' οὗτοι καὶ τῆς Ἰταλίας τὰ γειτονεύοντα μέρη κατέτρεχον ἀεὶ καὶ τῆς Ἐλουηττίων καὶ Σηκοανῶν καὶ Βοίων καὶ Γερμανῶν. Ἰταμώτατοι δὲ τῶν μὲν Ὀυινδολικῶν ἐξητάζοντο Λικάττιοι καὶ Κλαυτηνάτιοι καὶ Ὀυέννωνες, τῶν δὲ Ῥαιτῶν Ῥουκάντιοι καὶ Κωτουάντιοι. »

« Vi sono poi, di seguito, le parti dei monti rivolte verso oriente e quelle che declinano a sud: le occupano i Reti e i Vindelici, confinanti con gli Elvezi e i Boi: infatti si affacciano sulle loro pianure. Dunque i Reti si estendono sulla parte dell'Italia che sta sopra Verona e Como; e il vino retico, che ha fama di non essere inferiore a quelli rinomati nelle terre italiche, nasce sulle falde dei loro monti. Il loro territorio si estende fino alle terre attraverso le quali scorre il Reno; a questa stirpe appartengono anche i Leponzi e i Camunni. I Vindelici ed i Norici invece occupano la maggior parte dei territori esterni alla regione montuosa, insieme ai Breuni e ai Genauni; essi appartengono però agli Illiri. Tutti questi effettuavano usualmente scorrerie nelle parti confinanti con l'Italia, così come verso gli Elvezi, i Sequani, i Boi e i Germani. Erano considerati più bellicosi dei Vindelici i Licatti, i Clautenati, e i Vennoni; dei Reti i Rucanti e i Cotuanti. »
(Strabone, Geografia, IV, 6.8)
Nel libro VII sempre Strabone descrive il territorio dei Reti, che si trova a cavallo delle Alpi tra il lago di Costanza e le terre degli Insubri in Italia:

« Προσάπτον ται δὲ τῆς λίμνης ἐπ' ὀλίγον μὲν οἱ Ῥαιτοί, τὸ δὲ πλέον Ἑλουήττιοι καὶ Ὀυινδολικοί. + καὶ ἡ Βοίων ἐρημία. Μέχρι Παννονίων πάντες, τὸ πλέον δ' Ἑλουήττιοι καὶ Ὀυινδολικοί, οἰκοῦσιν ὀροπέδια. Ῥαιτοὶ δὲ καὶ Νωρικοὶ μέχρι τῶν Ἀλπείων ὑπερβολῶν ἀνίσχουσι καὶ πρὸς τὴν Ἰταλίαν περινεύουσιν, οἱ μὲν Ἰνσούβροις συνάπτοντες, οἱ δὲ Κάρνοις καὶ τοῖς περὶ τὴν Ἀκυληίαν χωρίοις. »

« I Reti toccano per poca parte col loro territorio il lago (Lago di Costanza), mentre la maggior parte ricade sotto gli Elvezi, i Vindelici e il gruppo dei Boi. Tutti, fino ai Pannoni, ma in special modo Elvezi e Vindelici, abitano gli altipiani. I Reti ed i Norici si estendono dai passi delle Alpi fino verso l'Italia, confinando i primi con gl'Insubri, i secondi con i Carni e le terre d'Aquileia. »
(Strabone, Geografia, VII, 1.5).

Utilizzando sia i documenti materiali rimasti, sia le prime fonti scritte, si può delineare una breve storia dei Reti.
Nel V secolo a.C. abbiamo una forte espansione della cultura Fritzens-Sanzeno, che si estende sia verso Sud sia oltre il Brennero, nella valle dell'Inn, con influssi che giungono fino all'Oglio e all'Adda.
Al V secolo a.C. risalgono anche le prime iscrizioni in alfabeto reto-etrusco, la cui introduzione è dovuta certamente ad influssi etruschi, conseguenza dei rapporti economici e commerciali che vi erano tra queste popolazioni, soprattutto lungo l'asse dell'Adige.
Le invasioni celtiche del V/IV secolo a.C., che modificarono la situazione della pianura Padana, non ebbero grande influenza sui Reti, che imitarono alcuni loro ornamenti in bronzo e alcune armi. Dai documenti archeologici i Reti sembrano essere una zona con cultura aperta agli influssi sia da sud che da nord, che però vengono assunti e rielaborati in forma autonoma.
La scomparsa di molti insediamenti nel II secolo a.C. è da ricollegare forse alle incursioni dei Cimbri, che nel 101-102 con un'irruzione nella val d'Adige, riescono a respingere verso il Po le truppe del console Q.Lutezio Catulo. In seguito sono documentati frequenti contatti tra gli insediamenti dei Reti e i Romani, confermati da oggetti ornamentali e monete sia repubblicane, sia imperiali.
La penetrazione economica e la pressione strategica romana culmina nel 15 a.C. con la conquista del territorio del Trentino Alto Adige da parte di Druso, figlio adottivo di Ottaviano Augusto. Da questo momento la cultura Fritzens-Sanzeno decade fino a scomparire, ad eccezione di alcuni suoi aspetti che continueranno ad essere presenti nelle valli laterali, più isolate.

Lo storico latino Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua Storia naturale ricorda che "Feltre, Trento e Belluno sono centri dei Reti, e Verona è dei Reti e degli Euganei; inoltre:

« His contermini Raeti et Vindolici, omnes in multas civitates divisi. Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto. »

« Con loro (i Norici) confinano i Reti e i Vindelici, tutti divisi in molte comunità. Si ritiene che i Reti, discendenti degli etruschi, condotti da Reto, furono scacciati dai Galli. »
(Plinio il Vecchio, Naturalis historia, III, 133)
Durante l'età del ferro, soprattutto dal VI secolo a.C., si afferma nell'area tra il Tirolo ed il Trentino la cultura di Fritzens-Sanzeno, che perdurerà fino alla conquista dell'area da parte di Roma, nel I secolo a.C., che segnerà appunto la fine di quest'epoca.

Dal VI secolo a.C. si segnala anche una significativa influenza etrusca nel nord-Italia, ponendosi di fatto come cultura mediatrice tra le popolazioni mediterranee e quelle transalpine. Il territorio della valle dell'Adige si presentava come la via più breve per giungere oltralpe, attraverso i due passi della Resia e del Brennero.

Tra la fine del V e l'inizio del IV secolo le popolazioni celtiche si insediano nella pianura Padana; tra i vari gruppi quello dei Celti Cenomani s'inserisce tra i fiumi Oglio ed Adige, sostituendo gli etruschi nei traffici con i Reti.

L'azione romana di conquista è descritta dallo storico romano di lingua greca Cassio Dione (155-229): a seguito delle incursioni dei Reti nei territori romanizzati d'Italia, e delle loro pratiche cruente ("uccidevano persino tutti i maschi che c'erano tra i loro prigionieri, non solo quelli già nati, ma anche quelli che si trovavano ancora nel ventre delle donne, scoprendone il sesso in base ai responsi oracolari") Augusto inviò Druso e Tiberio alla conquista del loro territorio. Tiberio li assalì dal versante nord, attraversando il Lago di Costanza con delle imbarcazioni. Dopo averli sconfitti in battaglia, i romani si preoccuparono di deportarne in altri luoghi un numero sufficiente, affinché non fossero progettate delle rivolte, lasciandone sul posto un numero esiguo, appena sufficiente per popolarne la terra.

Nelle antiche descrizioni i Reti appaiono come un popolo portato alla guerra e selvaggio, che non perdeva occasione per effettuare scorrerie ed attacchi verso i fondovalle già romanizzati. D'altro lato essi stessi erano visti come un ostacolo al transito tra i versanti nord e sud delle Alpi, in quanto obbligavano al pagamento di pedaggi e assalivano convogli. Si suppone che queste descrizioni siano state volutamente enfatizzate per giustificare la conquista delle Alpi da parte dei romani.

I siti archeologici più importanti sono Sanzeno e Mechel in val di Non, il Doss Castel, il castelliere sul Col de Pigui nei pressi di Mazzin, e Laives: per tali insediamenti è possibile parlare di strutture protourbane. Si definisce Cultura di Fritzens-Sanzeno la cultura materiale retica, che prende il nome da queste due località (l'una nella valle dell'Inn e l'altra in Val di Non), che andò a sovrapporsi alle precedenti Cultura di Luco-Meluno e cultura di Hallstatt.

Come in altre parti della regione, anche nella zona di Merano, gli insediamenti dell'età del ferro e, in particolare quelli retici, si trovano per lo più vicino al fondovalle o a mezza costa.
La zona di Castel Juval e di Naturno ha dato reperti di ceramica, 2 macine e resti di mura di 2 case retiche, che fanno pensare che il sito abbia continuato ad essere abitato fino a tutto il I secolo. Lo stesso vale anche per il Burgsatllknott (Plars) con le sue ciclopiche mura, mentre a Rifiano sono stati trovati i resti di una casa retica con corridoio di accesso probabilmente coperto. Sul Kronsbichl (Lagundo) sono stati trovati i resti di mura di un edificio che comprendeva probabilmente 4 vani. A sud della conca di Merano ricordiamo il Kobaltbühel (Foiana) con resti di ceramica e mura di un'abitazione, S.Ippolito, con resti di ceramica e vari oggetti in bronzo. Anche nei dintorni di Tesimo sono stati trovati resti di abitazioni, fibule e soprattutto un'ascia di bronzo con iscrizioni in alfabeto di "Bolzano". In questo periodo anche la zona di Meltina ha dato reperti interessanti, purtroppo in gran parte perduti, che fanno pensare ad un sepolcreto.
Molto importante è una scoperta abbastanza recente in val d'Ultimo, a S.Valpurga, dove è stata trovata una zona sacra, un rogo votivo di cui parleremo più avanti.
Reperti singoli provengono da Tell, Lagundo, Lana e castel Labers. Macine a tramoggia sono state trovate a Naturno, Scena e Lana. Importanti siti da ricordare sono quelli nella val Venosta: Tartscherbühel (Malles), Ganglegg (Sluderno), Talatsch (Silandro), Castelbello, nella val Passiria: Stuls (Moso) mentre nella val d'Adige rilevanti sono i ritrovamenti di Settequerce.
Ma il fatto più importante per quanto riguarda la storia che stiamo raccontando è che finalmente, in questo periodo, anche nella vera e propria conca di Merano si hanno dei ritrovamenti importanti che indicano come in questo periodo si possa parlare finalmente anche di stabile popolamento di questa zona.
Un ritrovamento molto ricco di oggetti di bronzo è quello dell'Hochbühel (Tirolo), la cui funzione molto probabilmente era quella di sepolcreto, anche se non si possono del tutto escludere altre ipotesi che lo indicano come insediamento o come deposito forse a carattere votivo.
Sul SINICHKOPF, il primo sito archeologico conosciuto in Alto Adige, si sono trovati resti già del periodo del bronzo. Al periodo del ferro risalgono le "mura ciclopiche" con segni di abitazioni (buchi per i pali di sostegno), ceramiche, resti di focolare, una macina.

La scelta della posizione degli insediamenti stabili in area alpina è particolarmente condizionata dalle caratteristiche del territorio. Le valli principali, rese paludose dalle inondazioni dei fiumi, il pericolo di frane, la necessità d'acqua e l'opportunità di rispettare i terreni fertili destinati all'agricoltura, costrinsero l'uomo a scegliere come sedi abitative i terrazzi, le sommità e i conoidi formati dai torrenti laterali.
Sulla estensione e sulla struttura degli abitati sappiamo molto poco. Le superfici per lo più ristrette delle sommità e dei versanti vennero utilizzate nel migliore dei modi. Accanto a fattorie isolate tipo i masi vi sono piccoli villaggi, con 5-15 edifici, e abitati più grandi con 30 e più costruzioni.

Contrariamente ad un'opinione molto diffusa, gli insediamenti fortificati sono in numero modesto. Infatti essi dapprima sorgevano in luoghi poco difesi e solo in seguito, a causa soprattutto dell'avanzare dei Romani, i Reti si spostarono in zone più difese naturalmente, e quindi più difficili da distruggere. All'esterno o nelle vicinanze dell'insediamento si trovavano impianti produttivi, per la lavorazione del metallo e della ceramica.

Nel 1960 Osmund Menghin ha avanzato l'ipotesi che i Reti non fossero una popolazione, quanto invece un "gruppo di culto", a cui si associa, per assonanza, il culto della divinità Reitia.

I luoghi di culto, documentati anche nelle immediate vicinanze degli insediamenti, nella maggior parte dei casi sono santuari dedicati alla natura, in modo particolare i Brandopferplätze, roghi votivi.
Nel territorio del gruppo Fritzens-S. Zeno, a partire dal VI secolo a.C., soprattutto in val d'Adige e in val d'Isarco, è documentato un tipo di abitazione seminterrata a uno o più vani con cantina in muratura (muri per lo più a secco) e ingresso talvolta ad angolo, detta appunto "casa retica". Le stanze si trovavano nel "piano superiore" e le cantine potevano essere utilizzate per varie funzioni: come magazzino o laboratorio o anche stalla. In tal caso avrebbero potuto servire anche per riscaldare le stanze che si trovavano sopra. Accanto alle case interrate scavate in tipi di roccia meno dura, sono documentate costruzioni di legno con basamento in pietra e strutture di supporto. Zone ricoperte con pietre squadrate o piani di argilla servivano da focolari. La copertura del tetto variava a seconda delle zone: paglia, scandole o lastre di profido. L'accesso era di solito formato da un corridoio, che spesse volte formava un angolo retto, forse per impedire al vento di penetrare nella casa. Legati alla costruzione della casa vi erano anche cerimonie di culto.

Elemento fondamentale nella vita della maggior parte della popolazione retica fu l'agricoltura. Nei campi si raccoglievano cereali (farro orzo segale avena miglio) e legumi (fave piselli lenticchie). Si raccoglievano frutti selvatici come funghi, bacche, miele ed erbe. I Reti avevano aratri con ruote e come animali da tiro si utilizzavano bovini e probabilmente anche uomini. Nel V secolo a.C. , nella valle dell'Adige si usavano "macine a leva" che vennero sostituite nel I secolo a.C. dalla macina a tornio. I cereali erano conservati in casse di legno o cesti. Nel II e I secolo a.C. gli storici antichi affermano che il vino retico era molto apprezzato, anche alla corte imperiale. Vasellame in bronzo conferma l'ipotesi che fosse prodotto vino nella zona alpina. Per la presenza tra i reperti del coltello da vite e di alti strumenti tipici si può concludere che probabilmente, a partire dal V sec. a.C. la vite era coltivata in tutto il territorio sud-alpino. Tra gli animali domestici prevalentemente c'erano piccoli ruminanti (pecora, capra) ma anche bovini. Meno importanti erano i suini e rari i cani e cavalli. Tra gli animali da caccia il preferito era il cervo, per le sue corna, usate per costruire impugnature, ma la caccia ormai è poco importante.
Passiamo ora all'artigianato, che era molto vario e sviluppato. Un grande ruolo è assunto dalla lavorazione del legno, usato nella costruzione delle case, delle suppellettili domestiche e dei mezzi da trasporto. Gli oggetti di piccole dimensioni e le impugnature vennero generalmente ricavati dall'osso e dal corno. Nei piccoli paesi dovevano esserci stati artigiani che lavoravano il cuoio, cordai, cestai ed impagliatori. I numerosi telai rinvenuti nelle case sono testimoni di un avanzato artigianato tessile. Scalpellini produssero macine in pietra e coti per affilare. Tornitori e vasai garantirono in officine piccole o sovraregionali la produzione di ceramica. Lavoratori del metallo furono in grado di imitare perfino le situle in bronzo e le brocche d'origine mediterranea. L'alta qualità della lavorazione dei metalli si può vedere sia nei gioielli e nelle armi che negli attrezzi e negli strumenti in ferro. Influenze provenienti dall'area mediterranea e dall'ambito celtico venivano accolte ed adattate al gusto locale.
La necessità di materie prime per la produzione locale, fece sviluppare i contatti esterni sia a nord che a sud dell'arco alpino: in primo luogo con Celti, Etruschi, Greci e Veneti. Nacquero anche i primi centri con diritto di tenere mercato per il sale a Halstatt. Il "commercio" doveva essere ancora attuato con lo scambio diretto dei beni, anche se, nel II e I secolo a. C., monete celtiche e romane appaiono nelle Alpi. Bestie da soma, soprattutto buoi e pochi cavalli, diventarono oggetto di questo " commercio".
I prodotti che venivano quindi "esportati" erano: resina, pece, fiaccole, cera, formaggio e miele, ma anche schiavi, come dimostrano i reperti di catene da collo, vino, lana, pelli, carne e bestiame. Tra i beni di lusso che invece arrivavano nel territorio dei Reti vi erano: dal Mediterraneo spezie, olio, vino, profumi, vetro, coralli, avorio, preziosi elementi d'abbigliamento, strumenti da toiletta, candelabri e ricercati vasi potori. Una gran parte dei beni di lusso dovette arrivare come regalo o tributo. Oltre a tali modalità si può pensare al servizio militare o ad altre mansioni prestate dagli abitanti delle Alpi nell'ambiente mediterraneo, come pure a rapporti matrimoniali.

Nell'età del ferro gli uomini portavano una veste con cintura che si interrompeva sopra le ginocchia. Anelli e bracciali sono rari. Spade, coltelli a pugnale e cinture con ganci, talvolta lavorate artisticamente, potrebbero aver acquisito anche un significato di distinzioni sociale. Gli spilloni e più tardi le fibule, i ganci di cintura degli uomini furono fabbricate fino al VI secolo a.C. a livello regionale esclusivamente in ferro, il metallo più prezioso.
Le donne portavano un abito lungo fino sotto le ginocchia stretto alla vita da una cintura. Inizialmente era fissato da due spilloni, a partire dal XII secolo a.C. più frequentemente da fibule, la cui forma viene assunta sia dagli Italici, sia dai Celti. Le donne portavano anche anelli, collane, bracciali e placchette di cinturone in bronzo. Dal III secolo a.C. grazie all'influenza dei Celti vi sono testimonianze anche di bracciali in vetro. Forse usavano anche un fazzoletto per la testa o una mantellina. Scarse sono le documentazioni di "scarpe", forse le donne indossavano stivali di pelle.

Intorno al 600 a.C. la fibula sostituisce definitivamente lo spillone decorato e diventa, come fermaglio per gli abiti, l'accessorio di abbigliamento più importante di tutta la seconda età del Ferro. Essa veniva portata da sola in coppie o in serie più numerose (dalla donna). Le fibule servivano come oggetti ornamentali, secondo la moda dell'epoca. Esse hanno precise caratteristiche e quindi danno informazioni sui contatti culturali.
E' del V-IV secolo a.C. la moda delle cinture: larghe piastre di metallo rettangolari, spesso lavorate a sbalzo, mentre ganci di cintura traforati ornavano larghe cinture in cuoio, che più tardi si fecero più strette e più semplici. Importanti ornamenti sono gli anelli e i bracciali, talvolta con estremità a testa di serpente, e anche gli uomini portavano anelli. Qualche monile aveva anche carattere di amuleto, ad esempio le perle in pasta vitrea, le spirali in bronzo e pendagli di vario tipo.

Come durante l'antica età del bronzo, così anche nell'età del Ferro l'armatura completa in metallo era costituita da elmo, corazza, schinieri e scudo, ovale e ricoperto di pelle, in combinazione con spada e lancia. Altre armi erano il coltello a pugnale l'arco e le frecce. Tipico era l'elmo di tipo detto Negau, utilizzato anche degli Etruschi, e l'ascia ad alabarda. La differenza sta nel fatto che in questo periodo le armi sono costruite in ferro. In alcune incisioni appaiono anche carri da combattimento a 2 ruote. Con l'estensione del dominio dei Celti, che intorno al 400 a.C. avevano occupato certe zone dell'Italia settentrionale, i Reti ne adottarono elmo e spada di ferro.
Dopo che i Romani nel II secolo a.C. ebbero sconfitto i Celti insediati a nord del Po, nelle officine locali si incominciarono a riprodurre anche armi romane, come la punta di lancia detta pilum. Comunque come tipica arma dei Reti, descritta anche dal poeta Orazio nel I secolo a.C., rimase l'ascia ad alabarda.

La scrittura retica, la cui comparsa è collocata attorno al 500 a.C., presenta un forte influsso etrusco (se non una vera e propria derivazione).

Analizzando numerose iscrizioni rinvenute nel territorio retico, sono state distinte quattro varianti grafiche: gli alfabeti di Lugano, Sondrio-Valcamonica, Bolzano-Sanzeno e Magrè.

Nel caso dell'alfabeto di Lugano è stata notata una parentela con il celtico. Per l'alfabeto di Bolzano-Sanzeno e Magrè è importante notare, come nell'Etrusco, l'assenza della lettera O. I Reti, sebbene con modalità diverse e più articolate, condivisero con i Venetici l'adozione dell'alfabeto etrusco. Un'ipotesi è che le lingue dei popoli retici avessero una base comune non indoeuropea, sulla quale si è innestato un ceppo di derivazione etrusca.

La diffusione della scrittura intorno al 500 a.C. è una delle conquiste più importanti della storia culturale dei Reti. Essa si diffuse presso i Veneti e nelle Alpi con la mediazione degli Etruschi. Venne utilizzata soprattutto per il culto, per iscrizioni votive nei santuari e su steli funerarie. L'uso della scrittura era ristretto prevalentemente all'ambito della magia e del culto : secondo le credenze del tempo la menzione del nome dell'offerente o della divinità conferiva ai doni votivi particolare forza. La maggior parte delle iscrizioni conservate consiste in pochi segni di alfabeto. Viene così confermato che solo la minima parte della popolazione, soprattutto i sacerdoti, conoscesse la scrittura e la lettura.
Sulla base di 300 iscrizioni scritte in alfabeto sinistrorso "nordetrusco" rinvenute in territorio retico, si distinguono quattro varianti grafiche: l'alfabeto di Lugano, di Sondrio-Valcamonica, di Bolzano (o di Sanzeno) e di Magrè. Altri alfabeti possono essere inseriti in uno di questi quattro tipi principali, anche se la presenza di questi diversi alfabeti rivela l'esistenza di varie lingue e dialetti.
Nell'alfabeto di Bolzano e di Magrè, di origine non indoeuropea, manca la O, ma vi sono altri due segni nuovi, forse simili alla T. L'assenza di segni di punteggiatura rende ancora più difficile la lettura e la classificazione linguistica di questa scrittura. Per questa ragione anche la più estesa iscrizione retica a più righe, non può essere interpretata in modo soddisfacente.
Dal Tartscherbühel, presso Malles, proviene un pezzo di corno di cervo con un'iscrizione in alfabeto di Sanzeno.

Nel V secolo a. C. una rappresentazione naturalistica e narrativa sostituisce, sotto l'influsso mediterraneo le raffigurazioni schematiche e simboliche procedenti. Viene rappresentato però per lo più un mondo maschile con scene di aratura, di lavoro, in particolare del fabbro. Inoltre ci sono scene di caccia al cervo, mentre le rappresentazioni degli uccelli sono di tradizione locale. Altri temi rappresentati sono gare sportive o musicali, marce di guerrieri, banchetti.
Questo tipo di raffigurazione si avvicina a quella detta "arte delle situle", cioè una rappresentazione figurata ( presente soprattutto dal VI al V secolo a. C. ) su diversi tipi di gioielli, attrezzi e armi e in particolare su recipienti in lamina bronzea, detti appunto situle. Le decorazioni realizzate a sbalzo permettono anche di ricavare informazioni sulla vita di quell'epoca.
Il significato di queste raffigurazioni è ancora incerto: forse sono la rappresentazione di miti o di cerimonie legate al culto dei morti e alla fertilità

Presso i Reti era utilizzato il rito ad incinerazione, cioè il cadavere veniva bruciato su un rogo. Le ceneri del defunto venivano poi poste in contenitori in ceramica, detti urne, che erano ricoperti da ciotole o scodelle, ma anche da recipienti e coperchi di legno o lastre di pietra. Insieme alle ceneri del corpo veniva posto anche un corredo ed elementi dell'abbigliamento in metallo. Gli oggetti più grandi venivano piegati. Le tombe erano marcate sulla superficie da piccoli tumuli o segni fatti con del legno, che erano ordinati in singoli gruppi e che potrebbero corrispondere ai nuclei familiari. La cremazione avveniva in base ai gruppi a cui si apparteneva, su piani d'argilla nelle vicinanze della necropoli. Inoltre le urne dei maschi si differenziano da quelle delle femmine e dei bambini sia per il corredo, sia per le dimensioni.
Come corredo di solito si trova:
per i maschi: spilloni, bracciali e rasoi; elmi, spade, pugnali, lance e schinieri compaiono ripetutamente in diverse combinazioni, ma mai tutti assieme; per le donne:  fusarole, rocchetti e a volte anche gioielli per quelle più ricche; anelli, ganci per cintura, bracciali, coltelli.
Talvolta, ma molto raramente, ai defunti, oltre agli accessori e ai vestiti bruciati nel rogo, venivano aggiunti degli altri intatti. In seguito ai mutamenti avvenuti nella Pianura Padana, aumenta in tutto il territorio alpino il numero delle tombe con corredi relativamente ricchi, anche per tombe femminili.
Tra le popolazioni chiamate Reti, però, i Leponzi passarono dal rito di incenerazione a quello di inumazione.

A partire dal 600 a.C. circa per influenza anche delle culture mediterranee, anche nella zona alpina si incominciano a venerare divinità di forma umana.
Presso i Reti possiamo supporre l'esistenza di santuari dedicati alla natura. A questo riguardo da sempre hanno assunto un ruolo particolare le acque (fonti, paludi,laghi) e i monti (vette,cime, boschi). Come in altre zone le offerte potevano essere "distrutte" meccanicamente o dal fuoco, continuando cioè l'uso dei roghi votivi. In tali località venne praticato soprattutto il culto della fertilità. Veniva offerto del grano, in boccali e in tazze, che dal V secolo a.C. avevano anche iscrizioni votive, e anche giovani animali. In particolari occasioni erano sacrificati perfino uomini e donne di ogni età. Probabilmente degli animali venivano bruciate le parti povere della carne( testa e piedi) e il pellame, mentre il resto veniva forse mangiato in banchetti di culto, di cui potrebbero essere testimonianza le stoviglie di vario genere ritrovate presso questi luoghi sacrificali. Le offerte erano bruciate su cumuli di pietre con pozzo centrale, su piattaforme o su piani argillosi. Spilloni e altri oggetti di bronzo venivano deposti come offerte votive e consacrati per lo più singolarmente o in gruppi in luoghi sacri, soprattutto in montagna o nei pressi di corsi d' acqua(i cosiddetti ripostigli). Solo dal IV a.C. si portarono come offerte nei santuari gioielli, amuleti, utensili, armi… Le offerte votive, prima di essere bruciate, venivano talvolta fatte a pezzi o piegate, potevano però essere deposte anche non bruciate. Nel territorio altoatesino, ricco di luoghi di culto, si ha l'impressione che ogni paese disponesse di particolare aree di culto che, in punti particolari, come sulle cime di monti, dovevano essere considerati, anche come santuari cui affluivano persone di altre zone. Addirittura in una casa a Montesei di Serso alcune placchette con iscrizioni in un angolo sembrano testimoniare l'esistenza di una zona dedicata alle divinità, ma forse tutto quell'edificio era una specie di tempio o casa sacra.
Roghi votivi erano legati anche a luoghi particolari come le sorgenti. A S. Maurizio presso Bolzano si trovava un tale santuario collegato probabilmente ad una fonte di acqua solforosa, in cui sono stati trovati ben 3000 anelli di bronzo oltre ad alcuni altri oggetti, interpretabili come offerte votive.
Un santuario è stato scoperto anche in Val d'Ultimo, presso S. Valpurga, utilizzato dal VI al II secolo a.C. Esso era formato da una serie di 3 altari in pietra e da 10 piattaforme sacrificali in argilla. Gli altari sono allineati tra loro e con il grande circolo di pietre di 8 metri di diametro. Forse in cima al tumulo c'era l'immagine della divinità.
Parlando delle divinità dei Reti è immediato il riferimento innanzitutto alla dea Reitia che veniva venerata nel santuario di Baratela a Este verso Padova, un centro della cultura venetica. Nato alla fine del VII secolo a.C., sotto l'influsso religioso etrusco, fu frequentato fino al II-III secolo d.C.
Si presume che Reitia non fosse il nome proprio della divinità, ma un attributo caratteristico di una dea, che presenta molti tratti in comune con la dea greca Artemide – Diana e che sarebbe concepibile come dea madre della fertilità, della guarigione e dell'al di là. Difficile dire se le figure femminili stilizzate, le cui braccia terminano con una testina di cavallo o di uccello, rappresentino la dea Reitia.
Altrettanto problematico è appurare se le popolazioni alpine siano state denominate Reti proprio in base alla loro venerazione per la dea Reitia. In ogni caso nell'età Romana è epigraficamente documentata in Valpolicella la presenza di un sacerdote che presiedeva ai "riti Reitiae" (riti della dea Rezia).
A Sesto alcune iscrizioni menzionano la divinità Ierisna, simile ad Era o ad una dea delle stagioni e dei prodotti della terra.
Un documento di una diffusa religiosità, forse di tipo individuale, sono le numerose figurine votive antropomorfe che dal VI secolo a.C. appaiono nei santuari retici come oggetti votivi, offerti alle divinità, ispirati a modelli mediterranei .
Si esprime così un nuovo tipo di rapporto con il divino: il desiderio di essere in contatto con la divinità in modo personale e permanente. La stessa concezione s'intravede anche nelle offerte votive con iscrizioni, che riportano il nome dell'offerente. Le figurine votive, per lo più prodotte in loco, a tutto e a mezzotondo o ritagliate da una lamina di bronzo, rappresentano l'uomo come orante, pugile, guerriero e cavaliere.


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