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mercoledì 24 giugno 2015

SAN FERMO DELLA BATTAGLIA

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San Fermo della Battaglia è un comune italiano di 4.583 abitanti della provincia di Como.

Il piccolo centro di Vergosa, di antica origine, fu sempre legato al territorio di Como, al cui interno apparteneva alla pieve di Uggiate.
Le prime tracce di insediamenti umani nel territorio di San Fermo risalgono XI secolo a.C. Prima ancora di Vergosa, la zona dove sorge il nostro comune ebbe nome Nullate e il che lascerebbe supporre la presenza di popolazioni galliche (il suffisso "ate" designa i toponimi di origine celtica). Reperti archeologici, databili attorno al 1000 a.C., attestano che in questo territorio fiorì la "Civiltà Golasecca". Numerosi sono i reperti di origine pre-romana ritrovati nelle zone di San Fermo, Rondineto, Prestino e Breccia (capanne, pozzi, tombe e oggetti in pietra e metallo) tutti riconducibili più o meno al V secolo a.C. quando questi agglomerati si fusero e diedero vita ad un unico nucleo chiamato "Comum oppidum". Reperti più tardi testimoniano la conquista romana, avvenuta nel 196 a.C. ad opera del console Marco Claudio Marcello.
Nullate, come borgo del contado comense, seguì le vicissitudini del capoluogo che fu colonia romana della tribù Ufentina. Subì poi le invasioni barbariche dei germani di Odoacre, dei Longobardi di Alboino, dei Franchi di Carlo Magno e dei Sassoni di Ottone che vi giunsero nel 951.
Vergosa, amministrativamente assegnato a Porta Sala, fece parte del comune ghibellino di Como (secoli XI e XII) subendo i contraccolpi della sua politica: le lotte con Milano, l’alleanza con Federico Barbarossa, le contese tra fazioni interne, la dominazione viscontea e poi sforzesca. Dal 1521 al 1706 fu sotto la dominazione spagnola mentre nel 1714 subì quella degli Asburgo. Nel 1796 fu dei francesi e ancora degli austriaci nel 1815.

Il paese San Fermo viene però ricordato soprattutto per la Battaglia che si svolse il 27 maggio 1859 nel corso della guerra che vide Francia e Piemonte opposti all’Austria e che le diede il nome. In questa occasione il generale Giuseppe Garibaldi alla testa di un nuovo corpo di volontari, denominato Cacciatori delle Alpi, si scontrò contro l'armata austriaca del Generale Urban.
Il 17 marzo 1859 Garibaldi assunse il comando dei Cacciatori. Si trattava di una brigata leggera, di circa 3 500 uomini, senza cannoni e senza cavalleria (ad esclusione degli esploratori), male armata ed equipaggiata, ma con l'uniforme dell'esercito piemontese, animata da forte spirito combattivo e guidata da ufficiali esperti, tutti reduci delle guerre del 1848-1849.
Provenendo da Sesto Calende, Garibaldi aveva liberato Varese dopo aver affrontata e respinta, il 26 maggio 1859, la Brigata Rupprecht del tenente maresciallo Karl von Urban, uscita da Como ed ivi ritiratasi, con perdite, a seguito allo scontro ricordato come la battaglia di Varese.
Il 27 maggio i volontari prendevano la via di Como, allora la città più importante della Lombardia settentrionale e base degli austriaci. Due erano le strade a disposizione: quella meridionale, attraverso Malnate, Binago ed Olgiate entrava in Como da sud; quella settentrionale (ora chiamata “garibaldina”) da Malnate deviava a nord per Uggiate e attraverso Cavallasca accedeva in Como dalle colline che chiudono la città da ovest, per una stretta chiusa a nord dal confine svizzero (oggi noto agli appassionati del Giro di Lombardia come Passo di San Fermo).
Nell'incertezza, Urban aveva schierato le proprie forze fra San Fermo, a nord-ovest, e Civello, a sud-ovest, con avamposti sul fiume Lura, sei chilometri dalla parte di Varese e le riserve al centro dalle parti di Montano Lucino. Oltre alla Brigata Rupprecht, che aveva combattuto a Varese, Urban poteva schierare la Brigata Agustin, giunta, nel frattempo, di rinforzo.
Garibaldi prese ad avanzare da Varese, attraverso Malnate e Binago sino ad Olgiate, raggiunta verso le 11:00. Di lì lasciò sulla destra il 1º reggimento di Cosenz, dando ad intendere di voler passare a sud e deviò gli altri due a nord verso San Fermo attraverso Parè e Cavallasca, raggiunta verso le 15:00.
Giunto a Cavallasca Garibaldi vi pose il proprio quartier generale ed incaricò dell'attacco Medici, comandante del 2º reggimento colà presente.
Di fronte aveva un avamposto austriaco, ben fortificato nell'oratorio del villaggio di San Fermo.
A Cavallasca il generale Medici decise di dare l'assalto su tre colonne: la prima colonna del capitano Cenni (una compagnia più i carabinieri genovesi) avrebbe dovuto svolgere un attacco di diversione sulla sinistra, la seconda colonna del capitano Carlo De Cristoforis, con un'altra compagnia, avrebbe condotto un attacco frontale, la terza colonna del capitano Vacchieri sulla destra, avrebbe dovuto minacciare la ritirata avversaria.
La compagnia di De Cristoforis doveva partire al segnale della "fucilata" sparata dal gruppo Cenni, con un attacco di sorpresa, ma l'inizio prematuro del fuoco da parte di alcuni volontari (ovvero da alcuni austriaci, a seconda delle versioni) fece mancare l'effetto.
De Cristoforis, credendo che quei colpi di fucile fossero il segnale per partire all'attacco, alle 16:00 uscì allo scoperto sullo stradone e venne preso di mira dai nemici appostati sul campanile di San Fermo. Un forte fuoco di fucileria lo costrinse a ripararsi in una cascina, il casale Valdomo.
Allora Medici comandò alla sinistra di appoggiare l'attacco e comandò un'ulteriore compagnia sulla destra. Con i difensori presi da tre lati, le due compagnie di De Cristoforis ripartirono in un assalto alla baionetta.
La motivazione dei volontari doveva essere davvero grande se, colpito da un fucilata mortale De Cristoforis, essi proseguirono la corsa guidati dal tenente Guerzoni e conquistarono la posizione.
Il ripiegamento austriaco venne inseguito, per un tratto, dalle truppe vittoriose. Allora Garibaldi ispezionò le strade verso la città (la Valfresca e Cardano) e venne a sapere da un contadino di Cavallasca, Agostino Marzorati, che tornava da Como, lo stanziamento delle truppe austriache in città. Erano circa duemila e, il contadino aggiunse, "stavano cuocendo le vivande".
Garibaldi fece allora occupare le alture verso Como in vista della città: nel tardo pomeriggio gli austriaci, finalmente informati degli avvenimenti, presero a risalire per Cardano e la Valfresca. Si tratta di strade ripide e dominate da una serie di scoscese montagnole: i garibaldini ben appostati li bersagliarono per poi a poco a poco scendere baionetta alla mano e rimandare gli assalitori giù per le colline.
Alle 21:30 Garibaldi entrava in città dall'allora Porta Sala, oggi Via Garibaldi, mentre gli austriaci uscivano da Porta Torre, e ripiegavano su Monza, lasciando bagagli, magazzini e prigionieri nelle mani dei Cacciatori. Urban, infatti, non poteva contare sulla fedeltà della popolazione (che appena undici anni prima si era resa protagonista delle Cinque Giornate di Como) e, da buon soldato regolare, desiderava ottenere cospicui rinforzi prima di riprendere Como e la più piccola Varese.
Occupata Como, Garibaldi richiamò le cinque compagnie da San Fermo e fece occupare Camerlata, al passo meridionale della città verso Monza e Milano, per garantirsi da eventuali contrattacchi.
Gli austriaci registrarono 68 morti e 264 feriti. I Cacciatori 13 morti (di cui 3 ufficiali: De Cristoforis, Pedotti e Cartellieri) e 60 feriti. Nessun garibaldino rimase prigioniero.
Nel villaggio di San Fermo della Battaglia sorgono oggi un piccolo obelisco di granito rosso, realizzato su disegno di Eugenio Linati, inaugurato il 27 maggio 1873.
Nel punto in cui cadde il capitano De Cristoforis si trova, invece, un semplice cippo di marmo che riporta i nomi dei tredici Cacciatori caduti durante la battaglia.
Da allora Vergosa fu annesso ai territori dei Savoia e al Regno d'Italia.

Tra gli anni Sessanta e Ottanta San Fermo registrò un incredibile aumento demografico dovuto ad una forte immigrazione da varie regioni. Oggi nel territorio operano alcune aziende di media importanza e oltre ad alcuni piccoli agricoltori sono presenti anche attività edili di lavorazione del ferro, tinteggiatura e tessitura. Ad oggi sono molti i pendolari che svolgono attività nella vicina Svizzera e nel capoluogo.

Nel mezzo della piazza s'innalza l'obelisco commemorativo del fatto d'armi cui la località deve nome e notorietà ; su un lato della piazza, la chiesa, anteriore al sec. XVI, e ampliata sulla fine di questo. San Fermo è centro agricolo (fiera dal 9 al 15 agosto). Il comune, comprendente, oltre il capoluogo, le località di Marnago, Vergosa, Trinità e La Costa.

La chiesa di Santa Maria Nullate fu costruita su di un preesistente tempio pagano dedicato alla dea della fortuna. Nel III secolo fu trasformato in tempio di culto cristiano e dedicato a S. Maria in Nullate e successivamente consacrato nel giugno del 1095 da papa Urbano II che transitava da Como per recarsi al Concilio di Clermont, dove avrebbe dato l’avvio alla prima Crociata. Della consacrazione rimane la memoria in un antichissimo quadro che mostra il corteggio papale uscire da Como per salire fino alla chiesa.
Nel 1718 la chiesa venne abbattuta perché divenuta troppo piccola, nello stesso anno fu ricostruita e nel 1870 venne ampliata. Al suo interno è possibile ammirare un grande dipinto rappresentante Santa Chiara e Santa Lucia di autore ignoto e un altro quadro del XVII sempre anonimo raffigurante l'Immacolata Concezione.

Il santuario di San Fermo sorge su un preesistente oratorio sempre dedicato al santo. San Fermo secondo la leggenda era un soldato romano che fu martirizzato a Verona durante l'impero di Massimiano ma che la critica più recente ha dimostrato essere stato ucciso per fame a Cartagine sotto Decio. Il suo culto pervenuto nell’Italia settentrionale dall'Africa, sembra sia stato diffuso a Vergosa da carrettieri provenienti da Verona e da Bergamo. La chiesa fu costruita nel 1592 e le pareti vennero affrescate nel XVII secolo ma di queste pitture restano solo poche tracce: un San Pietro Martire, sotto la cantoria, e un S. Carlo Borromeo. Nello stesso secolo furono rialzati i muri, gettata la volta e trasformata la pianta a croce latina, eretto il peristilio davanti alla facciata e alzato il campanile.
Successivamente vi furono altri restauri e opere di manutenzione anche se la chiesa non è più stata modificata. All'interno della chiesa ricordiamo anche la statua rappresentante San Fermo e su una parete dell'altare un dipinto del 1583 eseguito dall'artista comasco Cesare Carpano.

Davanti al Santuario sorge in memoria della battaglia del 1859 un grande monumento costituito da un obelisco di granito rosso posato su un dado dello stesso marmo, a sua volta posto su grandi massi di puddinga, che è la roccia delle colline locali. Sulla faccia a levante dell’obelisco campeggia un medaglione di bronzo con l’effige di Garibaldi. Il monumento è stato realizzato su disegno di Eugenio Linati e inaugurato il 27 Maggio 1873. Successivamente è stato completato da due statue di fanti e dedicato ai caduti di tutte le guerre.
Sul luogo in cui cadde il capitano De Cristoforis si trova un semplice cippo di marmo di Carrara, coronato da una ghirlanda di fiori, sul quale sono incisi i nomi dei tredici Cacciatori delle Alpi morti nello scontro.

Ogni anno, la domenica più vicina a quella del 27 maggio, viene celebrato l’anniversario della Battaglia di San Fermo del 1859.
Ogni anno, la domenica più vicina a quella del 4 novembre, viene celebrata la “Festa dell’Unità Nazionale del 4 Novembre”.



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CAVALLASCA



Cavallasca è un comune della provincia di Como.

Nei suoi pressi si trova il monte Sasso, 614 m s.l.m., dalle cui pendici nasce il fiume Seveso, che dopo 52 km di corso si getta, nella zona nord di Milano, nel Naviglio della Martesana.
Il nome “Cavallasca” potrebbe avere due origini, una celtica e l’altra latina. Per la prima il nome sarebbe composto dalla parola kava che significa vangare/scavare e asgall (da asha che significa rifugio) e poi trasformato in latino con il nome “Cavallasca”. Per quanto riguarda l’origine latina il nome deriverebbe da cavallo, dove le terminazione “asca” o “asco” sono proprie di località sopra-elevate. Cavallasca sorge nel mezzo del sistema collinare tra Como e Varese, a 400 m d’altezza rispetto al livello del mare fino ad arrivare a 614 m d’altezza raggiunta dal Montesasso sul confine Italo Svizzero. I rilievi su cui sorge il paese risultano essere gli ultimi verso la vallata del Po. Grazie alla sua posizione geografica ed al clima mite Cavallasca fu stazione di soggiorno di nobili e ricche famiglie milanesi, come gli Imbonati, gli Archinto, i Parravicini ed i Sarfatti. Cavallasca sorge su un sistema collinare costituito da rocce sedimentarie originate da accumulo di detriti di natura e dimensioni diverse, per lo più gonfolite. Questi elementi rocciosi sono tenuti insieme da una specie di cemento naturale calcareo-ferrifero o siliceo e questo caratterizza infiltrazioni di falde acquifere per lo più di origine sorgiva. Due le sorgenti note sul territorio, una sorge all’Olcellera, ricca di calcare contenente ferro e magnesio, l’altra al Colombirolino. La prima presenza nobile ed importante documentata, fu quella di Guido Grimoldi Vescovo di Como, che fu arciprete della chiesa di Cavallasca. Dal 1295 al 1510, a quanto pare, nessuna fonte cita Cavallasca, evidentemente Cavallasca seguì le sorti di Como che in questi due secoli divenne parte dello stato milanese, prima dominato dai Visconti e poi dagli Sforza. Dal 1526 e per circa due secoli, la Lombardia giacque sotto il dominio degli spagnoli, che assicurò al territorio un periodo di pace e stabilità. Fu alla metà del 1500 che gli Imbonati, nobile e rispettabile famiglia milanese, si stabilirono a Cavallasca. Nel 1631 Giuseppe Maria Imbonati, nato a Cavallasca, estese le sue proprietà insieme al fratello Carlo che costruì l’attuale sede Municipale “Villa Imbonati” ultimata nel 1656, ricca di notazioni artistiche e munita di curiosi sistemi di ingegneria idraulica. Con gli Imbonati, nel 1700 Cavallasca divenne uno dei maggiori centri culturali lombardi. Cavallasca vide passare Garibaldi, fu Quartier Generale dello stesso e teatro della battaglia di San Fermo. Agli Imbonati seguirono i Butti, che acquistarono anche la Villa Imbonati, tra i quali Giuseppe Butti, detto anche “Peppet”, che fu Sindaco di Cavallasca dal 1871 al 1894 e che accolse don Pietro Buzzetti, importante parroco di Cavallasca e nipote di Don Guanella. Giuseppe Butti inoltre ospitò spesso in Villa Imbonati l’amico Luigi Pirandello. Durante la Prima Guerra Mondiale, Cavallasca fu uno dei perni difensivi d’Italia per la difesa sul Confine Svizzero, mediante la costruzione di trincee sul Montesasso, molte delle quali ancora visibili all’interno del Parco Regionale della Spina Verde. Durante il periodo fascista, nel 1928, i Comuni di Cavallasca, Parè e Drezzo furono uniti in un unico complesso amministrativo chiamato Lieto Colle, nome suggerito da Margherita Sarfatti a Mussolini in uno dei frequenti soggiorni a Cavallasca. Cavallasca tornò comune autonomo nel 1956.
L'area è ricca di fortificazioni della Frontiera Nord, risalenti alla prima guerra mondiale, costruite per difendere il confine nord nel caso in cui gli imperi centrali, Austria e Germania, avessero tentato un attacco attraverso la neutrale Svizzera.

La parrocchia di San Michele figura negli atti della visita pastorale compiuta dal vescovo Ninguarda alla fine del XVI secolo nella pieve di Zezio; il numero dei parrocchiani era di 170 di cui 80 comunicati. Nel compendio del Cronicon del clero della diocesi di Como risalente al 1619 la chiesa di Cavallasca figurava tra le parrocchie rurali della pieve di Zezio. Nel 1651 la parrocchia di San Michele di Cavallasca risultava compresa nella pieve della cattedrale, volgarmente detta di Zezio.

La chiesa di Cavallasca è dedicata a San Michele, Arcangelo (29 settembre; la festa patronale cade l’ultima domenica del mese di settembre) e risulta elencata nella pieve di Zezio, nel quartiere di porta Monastero, fin dalla fine del XIII secolo.

Nel 1768, durante la visita del vescovo Giambattista Mugiasca nella chiesa parrocchiale di San Michele erano istituite la confraternita del Santissimo Rosario; la confraternita del Santissimo Sacramento; la confraternita dei Dolori della Beata Vergine Maria, che risultavano tuttavia unite in un solo corpo. Il numero dei parrocchiani era di 281 di cui 175 comunicati. Entro i confini della parrocchia di Cavallasca esistevano gli oratori pubblici dei Santi Carlo e Antonio di Padova in Sottovigna, di giuspatronato del conte Giuseppe Imbonati; Beata Vergine Maria Assunta in Cielo in Dasia, di giuspatronato del conte Nicolò Porta di Como; l’oratorio privato in casa del conte Giuseppe Imbonati.




La chiesa di San Rocco sorge in località Colombirolino in Cavallasca, costruito su un ripiano a mezza costa, sopraelevato rispetto alla strada, lungo il torrente Seveso.

E’ di colore rosa, con quattro lesene gialle ai lati del portone d’ingresso. Tra queste, due nicchie blu movimentano la facciata che termina con frontone triangolare, al di sopra del quale si staglia un campanile a vela. I battenti della porta sono in rame e rappresentano San Rocco a cui è dedicata la chiesetta costruita nel 1857 e consacrata l’anno successivo su un luogo dove sorgeva un cappelletta elevata nel 1826 laddove erano sepolti i morti della peste del 1630 (descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi). Pare che dopo questa epidemia non ve ne furono più altre a Cavallasca da lì l’idea di costruire ex-voto la Chiesa.
Il nome “dei pittori” deriva dal fatto che furono chiamati 14 diversi artisti, nel 1978, per decorare le 14 stazioni della Passione.




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IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DEL BISBINO



L'antico santuario della Beata Vergine del Bisbino, costruito nel sec. XVII, ma rimaneggiato all'inizio dell'Ottocento. Il santuario è meta di numerosi pellegrinaggi, soprattutto durante le festività mariane. Testimonianza di questa devozione popolare sono i numerosi exvoto, alcuni risalenti anche al secolo scorso, conservati all'interno del santuario stesso.

È frequente imbattersi per le vie di Rovenna, ma anche di Cernobbio, in edicole che recano un’effige della Beata Vergine del Bisbino, molto venerata dalle popolazioni locali nel santuario a lei dedicato sulla sommità del monte.
L’origine di questo santuario si perde nella leggenda. Vuole la tradizione che fino al XIV secolo la vetta di questo monte fosse acuminata; i pastori ne avrebbero spianato la sommità, impiegando la roccia ricavata per realizzare un piazzale e costruire una cappella dedicata alla Madonna, usata anche come riparo dagli orsi e dalle intemperie. Il primo documento che attesta la presenza di una chiesa sulla cima del monte è un atto di vendita datato 26 luglio 1368. Ma la celebrità del luogo risale al 1630: in quell’anno la peste colpì pesantemente il territorio. Il 20 maggio la comunità di Rovenna, guidata dal parroco, si recò in processione alla Madonna del Bisbino, facendo voto, se fosse stata preservata dal contagio, di ripetere il pellegrinaggio ogni primo mercoledì del mese per un anno intero. Anche Sagno fece lo stesso, e pure il vescovo di Como, Lazzaro Carafino. Le comunità uscirono salve dall’epidemia e la popolarità della chiesa crebbe notevolmente, i pellegrini diventavano sempre più numerosi.
Nelle numerose raffigurazioni devozionali presenti nelle cappellette della zona la Madonna del Bisbino non è sempre rappresentata nello stesso modo. A volte è raffigurata in piedi, con il Bambino in braccio, come nella grande statua marmorea presente sull’altare maggiore già al tempo del vescovo di Como Feliciano Ninguarda (1592) e riportata nella sua sede originaria solo nel 1933.
L’altra raffigurazione della Madonna la vede seduta, con il Bambino sul ginocchio sinistro, come nel piccolo simulacro ligneo ora conservato nello spazio retroaltare, e già presente in Santuario nella seconda metà del secolo XVIII. Questa statua è stata venerata sull’altare maggiore quale immagine miracolosa per tutto il XIX secolo fino al 1933, diventando il simbolo del santuario stesso. Secondo la tradizione popolare questo simulacro proverrebbe infatti dal sottostante alpeggio detto Boeucc. La raffigurazione di questa statua è quella più frequente nei numerosi ex-voto conservati nel santuario, preziosa testimonianza della grande devozione popolare. Storie in cui l’ordinario e lo
straordinario si intrecciano, da cui emerge la profonda gratitudine alla Madonna del Bisbino, sempre accanto all’uomo di ieri e di oggi nei pericoli e nelle difficoltà.


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MOLTRASIO



Moltrasio è un comune della provincia di Como posto sulla sponda occidentale del lago di Como.

Vi sono diverse teorie sull'origine del nome, almeno tre, di cui una a sua volta si diversifica.
La prima dice che il nome originale era Monte Larice o Monte dei Larici, poi, essendo stato raso al suolo, divenne Monte Raso, quindi Moltrasio. Sulla causa c'è chi dice sia dovuta ad un incendio, chi invece al seguito di una battaglia coi nemici di Torno. Una seconda versione parla di luogo dove si ricavava la malta (nel dialetto locale molta). Infine c'è chi attribuisce il nome al fatto di trovarsi tra i monti..

Sul territorio di Moltrasio sono stati fatti alcuni ritrovamenti archeologici: un'ascia di rame databile a circa 2000-2500 anni fa, un pavimento romano a mosaico e alcuni oggetti.

Un'ascia di rame databile intorno al 2500-2000 a.C. dimostra la presenza umana già in quei lontani tempi. Fu trovata in uno strato di argilla nel 1895 durante i lavori di ampliamento del cimitero. In quell'occasione furono portati alla luce anche un pavimento romano a mosaico e alcune monete romane.
Nel 1910, nella frazione di Vergonzano, furono trovate due tombe gallo-romane nelle quali si rinvennero, oltre agli scheletri, coltelli di ferro e braccialetti di bronzo.
Il primo documento conosciuto che presenta il paese come un comune risale al 1058. Le adunanze degli abitanti (almeno dal XIII secolo) si tenevano sotto il "coperto" davanti alla chiesa di San Martino. Nel 1292 Moltrasio ebbe il titolo di borgo. Nel 1405 Giovanni Maria Visconti concesse ai moltrasini la cittadinanza comasca e con essa alcuni privilegi.
Nel 1522 Torno, schierata con Francesi e Svizzeri, fu saccheggiata dai soldati spagnoli e ducali. I Tornaschi, a loro volta, attaccarono e saccheggiarono Moltrasio, schierata con i loro nemici.
Il paese fu colpito dalla peste del 1630. La tradizione racconta che diversi moltrasini lasciarono le loro case per rifugiarsi all'Alpe del Segrèe, ma non sfuggirono alla morte. Per timore del contagio furono dati alle fiamme anche i registri parrocchiali. Nel 1578 il paese contava 550 abitanti. Dopo la peste, nel 1632 la popolazione era di sole 177 persone. Diventeranno 426 nel 1671 e 502 nel 1758.
Durante l'epidemia di colera del 1854, i malati vennero ricoverati nella chiesa di Sant'Agata, trasformata in lazzaretto.
La pietra di Moltrasio era un tempo largamente utilizzata in zona. Oggi l'attività di estrazione è abbandonata.
In passato erano attivi alcuni mulini.

Nell'ultima guerra Moltrasio è stata teatro, soprattutto su i suoi monti, della guerra partigiana con la presenza di alcuni gruppi collegati alla brigata Garibaldi. Al termine sempre le sue valli vicine alla Svizzera sono state percorse da decine e decine di uomini che per arrotondare i magri stipendi e per permettere ai figli un futuro migliore, portavano i sacchi con merce di contrabbando. Il fenomeno è terminato quando questa attività è stata dominata da uomini che "giravano con la pistola". Si raccontano ancora alcune fughe molto ardite e pittoresche da parte di spalloni braccati dai finanzieri.
Nell'era moderna Moltrasio rimane un luogo dove molte persone continuano a svolgere attività e lavori di cui in altri paesi si è persa la presenza.

La Chiesa dei SS Martino ed Agata è situata nella centrale frazione di “Borgo”, la facciata, in pietra locale, fu realizzata nel 1935 in seguito ad un ampliamento. Tutto l’esterno della Chiesa compresa la facciata, sono stati da poco restaurati. All’interno è ricca di numerosi dipinti e stucchi eseguiti in varie epoche. Non è sicura la data della sua costruzione ma un atto notarile documenta la sua esistenza già nel 1207. Gli affreschi più antichi presenti nel presbiterio ed in tre medaglioni dell’abside risalgono al secolo XVII e vennero realizzati dai fratelli Recchi, la cappella laterale dedicata alla  reliquia della Sacra Spina e  l’altare maggiore sono arricchiti da dipinti di Giovan Mauro Della Rovere detto “Il Fiamminghino”,  da ammirare è sicuramente la splendida pala del pittore Alvise Donati eseguita nel 1507, che è, senza dubbio, l’opera artisticamente più preziosa conservata in questa chiesa.

La splendida chiesa di Sant’Agata, è la più antica testimonianza di architettura romanico–Lombarda nel territorio. E’ situata nella frazione Vignola, lungo il percorso dell’antica via Regia e la sua costruzione risale alla seconda metà dell’ XI secolo. La si raggiunge dal lago salendo la spettacolare “Scala Santa” e svoltando quindi a sinistra per “Pos Palaz”. Nel Quattrocento la chiesa subì alcune modifiche alla struttura e venne ingrandita. Durante i restauri eseguiti nel 2006 si verificarono altri importanti ritrovamenti: un affresco del primo ‘500 con raffigurati il Cristo pantocratore e ai lati i santi Rocco e Antonio Abate e dei lacerti da affreschi medioevali.

La Chiesa Regina Pacis si trova nella frazione di Tosnacco ed è stata edificata tra il 1945 e il 1946.
Nel piazzale davanti alla chiesa di Tosnacco è posto un crocefisso in bronzo che venne fuso dal pittore e scultore locale Franco Pizzotti. Il crocifisso rimase fino agli anni '60 sulla tomba dei genitori. Quando fu rimosso dal cimitero di Moltrasio, il figlio del pittore, Marino Pizzotti, lo donò alla Parrocchia in ricordo del padre.
 
L'oratorio di San Rocco, di presunte origini quattrocentesche, fu restaurato in epoca barocca, come evidenzia il grazioso portale sormontato da un'elegante cimasa in stucco con una testa di putto e piccole volute. Esso é fiancheggiato da finestrelle sagomate e sovrastato da un medaglione con rocailles recante l'intitolazione della chiesa al Santo di Montpellier. L'interno presenta una sola navata con abside poligonale, dove una ricca incorniciatura in stucco inquadra sull'altare maggiore un affresco assai guasto raffigurante la Vergine col Bambino tra i SS. Rocco e Sebastiano* di Giovanni Paolo Recchi. Questo era stato coperto da un quadro recente in occasione di restauri nel 1926.

Lungo il viale che si affaccia sul lago, poco distante da Piazza San Rocco (imbarcadero), é stato posto il monumento a Vincenzo Bellini, il grande musicista catanese che soggiornò a lungo a Moltrasio, dove compose alcuni brani delle musiche de La straniera e de La sonnambula.
Moltrasio ha voluto ricordare Bellini con questo monumento, voluto e finanziato dalla signora Lillian Villinger Sacchi, già presidente del Circolo Bellini e realizzato dallo scultore Massimo Clerici, che vive e opera a Moltrasio.

Moltrasio è situato sulla riviera occidentale nel primo bacino del lago di Como. Per le sue famose ville, dimore anche di personalità illustri, i suoi giardini, il clima mite e soleggiato ed il panorama incantevole, è definito una delle perle del Lario.E’ costituito da tante caratteristiche frazioni che dal lago salgono fino ai monti. Di Moltrasio sono famose le antiche “cave di pietra moltrasina” ancora visibili percorrendo il “Sentee di Sort”. La pietra di Moltrasio, vanto dei Maestri Comacini, è stata utilizzata a Moltrasio per costruire i numerosi crotti, ove si conservava fresco e frizzante il buon vino locale, oggi privati e non più visitabili. I caratteristici terrazzamenti realizzati con muri a secco, sono  presenti ancora oggi, se pur in numero minore a causa dell’accrescimento edilizio, non più utilizzati come vigneti, ma come orti o giardini privati.
Subito dopo l’anno 1000, Moltrasio vive la sua epoca di maggiore splendore. E’ in questo periodo che vengono realizzati i monumenti più antichi del paese.

Ghita era una bella ragazza di Moltrasio. Un giorno era andata a Cernobbio a trovare dei parenti ed era rimasta da loro fino a tardi. Sulla via del ritorno si imbatte in un malintenzionato contrabbandiere svizzero. Lei vorrebbe tirar dritto, ma lo sconosciuto con un ghigno da demonio si mosse per abbrancarla; la Ghita, lesta più ancor di lui, spiccò un salto nel burrone e quel tristo che la stava per afferrare cadde giù con lei. Ghita si salvò perché i suoi vestiti si impigliarono tra i rovi e la trattennero, mentre il cattivo precipitò. Da quella sera, quando il tempo è burrascoso, proprio come quella notte in cui avvenne il triste caso, si vede un fuoco dove il contrabbandiere era caduto: che sia il suo spirito oppure il demonio condannato qui a far penitenza?


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SCHIGNANO



Schignano è un comune della provincia di Como ed è costituito da un insieme di frazioni, tra le quali la più grande e popolosa è quella di Occagno, che si incontra all'entrata del territorio comunale provenendo da Argegno sul Lago di Como. È posizionato nella Val d'Intelvi e il suo punto più alto si trova in corrispondenza della cima del monte Sasso Gordona, a 1.410 m s.l.m. L'abitato nelle sue varie frazioni è posto in una conca chiusa da altri monti: il Gringo, il Monte Comana, il Treviglio, il Pizzo della Croce (il più elevato con i suoi 1.491 metri), ed il Monte San Zeno

Nel territorio comunale è stata rinvenuta una spada in ferro con fodero, databile circa al 120 a.C., oggi visibile al Museo archeologico Paolo Giovio di Como.
Schignano è un bel paese montano ubicato ad un'altitudine di 650 mt s.l.m, circondato da una serie di monti che gli fanno da corona, come il monte Comana , il Sasso Gordona, il Crocione ed il Monte di San Zeno. Proprio per la sua ubicazione è meta turistica conosciuta ed apprezzata.Il paese è composto da una serie di frazioni sviluppate sulle pendici del Sasso Gordona: Occagno è la frazione più popolata, costituita da un antico borgo al cui interno si sviluppano una serie di viottoli lastricati che si aprono in piacevoli piazzette circondate da antiche case ristrutturate con i balconi fioriti. Ad Occagno si trova il Municipio, l'Ufficio postale, La Casa parrocchiale, la scuola materna e la scuola elementare.
Ad Occagno si trova la chiesa centrale di San Giovanni dove è costudita la statua della Pietà di epoca ottocentesca. Tutte le altre frazioni sono raggiungibili percorrendo una comoda strada comunale: Perla, Vesbio, Posa, Chignolo, Almanno, Retegno, Auvrascio ed in ultimo Molobbio.
Le montagne che s'innalzano alle spalle del paese, un tempo luogo di alpeggi e pascoli, oggi sono mete escursionistiche di facile accesso: da Schignano si sale a Posa in auto e da qui parte una mulattiera che in un'ora e mezza porta a Binate dove c'è un bel rifugio del CAI. La vetta del Sasso Gordona è un'altra interessante meta, dalla cui vetta si può ammirare un'ampio e bellissimo panorama.

Il paese è conosciuto per il suo carnevale, momento di festa e di allegria, che fino a qualche decennio fa segnava il momento di coloro che dovevano partire per i lontani luoghi di lavoro. La conclusione del carnevale per molti era il segnale che era giunto nuovamente il tempo di emigrare, per poi tornare solo verso la fine di novembre come recita un sapiente proverbio intelvese “A sant’Andrea, boia i can, vegn a cà tùc i maestràn”.

A Schignano, la manifestazione del carnevale si sviluppa secondo un modulo teatrale arcaico, quello della contrapposizione. Il rituale che va in scena è giocato sull’opposizione tra due diverse maschere, i Bèi e i brùt, i belli e i brutti. Sono questi gli attori principali di una rappresentazione incentrata su di una divisione sociale, la rivalità tra due anime antiche, ma ancori vitali, ma mai sepolto passato. Si recita su un palco costituito dalla piazza principale del paese, dai suoi vicoli interni e n on manca il pubblico in primo luogo la gente di Schignano, la quale ogni anno intravede ancora oggi nel carnevale le proprie radici culturali. A primo impatto la struttura teatrale appare rigorosa nei tempi e modi di svolgimento, ma al suo interno ci sono ampi spazi di libertà e di fantasia, nel senso che le maschere dei belli e soprattutto dei brutti hanno ampi margini interpretativi, consentendo a ciascuna maschera di liberare la propria immaginazione e di sprigionare il suo personale estro.

Il bello o meglio chiamato in schignanese mascarùn è il personaggio che attira la prima attenzione dello spettatore con i suoi atteggiamenti e la sua superba voglia di esibire se stesso, nello splendore del suo costume finemente confezionato da abilissime mani, ed ornato di tutto punto con pizzi foulards, collane ed ori quasi a voler far sembrare ancora più maestoso il gran pancione chiamato bùtasc che lo caratterizza, composto da bellissime stoffe dai colori forti, ha poi in testa un cappello rivestito da fiori variamente colorati e completato dai bindèi un fascio di nastri colorati che si allungano sulla schiena, completa poi il tutto la maschera nei suoi dolci e gentili lineamenti.

Il bello vuole apparire ed ostentare la sua ricchezza ed a rafforzare il tutto contribuisce anche il suo signorile modo di muoversi tra la gente e di rapportarsi con le altre maschere, si pavoneggia ed esibisce agli astanti oggetti per lo più inutili.  Ad annunciare il suo arrivo  e la sua presenza il suono delle bronze, 4 campane legate alla vita dall’argentino e piacevole suono.

Sono la sua superbia e la sua ostentata importanza che gli danno il ruolo del signore.

In totale contrapposizione al bello c’e il brutto, personaggio sgraziato e povero il suo costume è fatto di stracci, vecchie scarpe e cappelli deformati, indossa a volte tute da lavoro imbottite ed il suo pancione a differenza di quello del bello è cadente e deformato. Il suo è un andare incostante alle volte stanco ed alle volte frenetico quasi a ricercare una rivalsa sul bello che cerca sempre di relegarlo agli angoli, molte volte improvviso e quasi sempre imprevedibile. La maschera ha i lineamenti molto forti e marcati alle volte ne esalta le malformità con bocche storte, denti mancanti o nasi sproporzionati, con coloriture forti per lo più nere. Porta con sé oggetti strani e malfunzionanti, scope, gerle, alle volte l’abito è finito da pelli animali a sottolinearne ancor di più la miseria, ma l’oggetto più ricorrente è la valigia  con dentro poche cose vecchie, stancamente e tristemente portata come quella dell’emigrante. Lo si sente arrivare al suono delle “cioche” campanacci mal suonanti fatti di ferraglia, con un suono poco gradevole e alle volte sordo.

Tra questi due personaggi apparentemente nemici, ma che celano sotto la maschera una complicità che li rende inseparabili, si pone spesso la “ciocia”,ciocia_e_bel un personaggio femminile ma interpretato da un uomo, moglie e serva del mascarùn, tenuta legata e tirata con una corda, porta con sé una cesta dove tiene un po’ di lana con il fuso e la rocca, gli antichi attrezzi che si usavano per filare la lana, a testimoniare il suo continuo ed incessante lavoro anche quando costretta dal bello lo deve seguire. Il suo costume consiste nei poveri vestiti che caratterizzavano gli abiti delle donne di un tempo, calze di lana, gli zoccoli, la sottana una gonna lunga ed una camicia, lo scialle di lana e il fazzoletto in testa; è l’unica maschera parlante del carnevale, ed il suo è un continuo inveire contro il marito, il bello, che da sempre la tiene costretta, e gli ricorda che se lui è ricco è grazie a lei, ma lui nonostante i continui lamenti continua a trascinarsela, corteggiando le altre donne prendendola in giro e mostrandola quasi come un trofeo, ed ogni tanto grazie all’incursione dei brutti che d’improvviso la rubano al bello vive brevissimi ed effimeri istanti di libertà.

Ci sono poi i “sapor” due personaggi vestiti di lunghe pelli di pecora con in testa un cappello conico sempre di pelli di pecora, hanno lunghi baffi e portano con se una borraccia e un’ascia di legno. Il loro ruolo è quello di aprire e guidare il corteo, con passo marziale da gendarmi. In mezzo a loro con il compito di sorvegliare il corteo c’è la “sigurta” , la sicurezza, porta un cappello militare, ed indossa una mantella sopra la quale pone una fascia con la scritta “sigurta”. Conosce le persone mascherate e per loro garantisce.

Al di fuori delle maschere più prettamente tradizionali salina altre maschere e ci sentiamo di riproporre una comune frase che riassume lo spirito carnevalesco schignanese” Per la gente di Schignano andare in maschera è un fatto istintivo. Uno va a casa, rovescia la giacca, si tinge un po’, mette un  cappello al rovescio ed è in maschera”.

Un momento importante, soprattutto per i belli, è la vestizione.  Si incomincia all’alba, i primi incominciano alle quattro di mattina per essere pronti verso le sette, e qui le donne più brave svolgono il loro fondamentale compito nascosto cucendo e ricamando.

Si incomincia indossando un paio di pantaloni ricavati con una stoffa colorata con motivi floreali dai toni forti, calze di lana e scarpe pesanti e se è il caso anche le ghette, perché il carnevale si svolge con ogni condizione di tempo. Vengono poi sistemate in vita le quattro bronze, quattro campane legate con nodi, ad un’unica corda, sistemate in modo da risultare due davanti e due dietro, la corda viene poi passata sulle spalle incrociandola in modo da scaricare il peso, circa 8 chili, su di esse. Ora bisogna passare alla parte più importante ed impegnativa, la costruzione del butasc. Si indossa una gonna che viene risvoltata all’insù e cucita all’altezza delle spalle, lasciando due aperture per le braccia; la gonna viene poi riempita con foglie di faggio. Bisogna ora abbellire la pancia, cucendo foulards in modo da ricoprirla quasi totalmente per poi appuntarci sopra centri ricamati, pizzi e della bigiotteria, va qui ricordato che un tempo si usavano gli ori di famiglia.

Alla base del pancione quasi a nascondere le bronze, viene cucita una balza di pizzo.

Si infilano ora sulle braccia i “manazìn”, delle mezze manica di lana colorata lavorate a mano, fermate all’altezza del gomito con dei lacci infiocchettati.

Si infila la maschera, si indossa il cappello con due lacci che penzolano dalla tesa che servono per essere annodati sotto il naso della maschera, sostenendola e fissandola al viso.

Molto meno impegnativa la vestizione del brutto, si indossano un paio di vecchi pantaloni si legano i campanacci in vita si costruisce il butasc che non deve avere una forma precisa, si cuciono qualche straccio, maschera cappello ed è fatta.

Coma già detto il carnevale comincia di prima mattina, ed è il bello che con la lanterna gira le vie del paese quando è ancora buio, e con le sue bronze annuncia il carnevale. Con la luce si incontra anche qualche brutto e si è gia ne vivo.

Nel primo pomeriggio ci si ritrova tutti in piazza San Giovanni. Qui sulla facciata della casa opposta alla chiesa è appeso seduto su una sedia il “Carlisep”, personaggio centrale che entrerà in scena alla fine del corteo. Qui a far compagnia alle maschere c’è la fughèta”, un gruppo di sei sette strumenti a fiato che riscaldano il clima.

Intanto nelle vie superiori si radunano i brutti, attendono il momento propizio per piombare insieme sulla piazza scompigliando e creando confusione. La sigurta e i sapor seguiti dalla bandella s’incamminano e formano il corteo mascherato che si dirige verso la frazione di Retegno prima e Auvrascio poi. Durante il tragitto le maschere continuano a inscenare i loro teatrini, a volte riposano, si tolgono la maschera per poi riprendere con il ritmo. Il corteo fa poi ritorno in piazza San Giovanni.

Intanto il Carlisep, è stato rimosso. Questo fantoccio è  la personificazione del carnevale, la sua maschera è quella di un brutto.

Si tratta ora di andare a riprenderlo, quindi il corteo infila le vie di Occagno che portano in Cima, la parte più alta della frazione. Qui entra in gioco il Carlisep che ora non è più un fantoccio ma una persona, in genere un coscritto che tra dicembre e gennaio ha festeggiato la vegèta, e sdraiato su una scala portata in spalla dagli altri coscritti scende nella piazzetta di cima. Incomincia una fase frenetica del carnevale, le maschere si muovono con più frenesia, e la ciocia si lamenta di questa morte, dando la colpa al bello, che intravede la fine del carnevale.

Il corteo è tornato ora in piazza della chiesa, e lungo la piazza tra la gente si apre un varco; poi all’improvviso il carlisep balza in piedi e per evitare il rogo, scappa attraverso la piazza inseguito dalle maschere. Ripreso e riportato al punto di partenza, tenta una nuova fuga ma alla fine è definitivamente ripreso. La seconda volta viene risostituito con il fantoccio che viene portato al salone del Carpigo per il ballo serale sulle note della fughèta. Verso le 23.30 ricompaiono i belli con la tradizionale lanterna, si riforma il corteo che riporterà per mano dei coscritti il Carlisep in piazza San Giovanni, dove viene deposto al centro della piazza e improvvisamente gli viene dato fuoco,  ci si abbassa ora la maschera, il carnevale è finito.

Caratteristica molto importante del carnevale di Schignano sono le maschere lignee, portate sul volto per nascondere l’identità e completare il travestimento. Sono uniche e vere opere d’intaglio, realizzate per mano di artisti locali in genere comuni persone che per passione si sono cimentate a scolpire le maschere di legno. Nello svolgimento del carnevale, tutte le figure ne portano rigorosamente una di legno. Si possono quindi individuare due tipologie di maschere: quella del “bello” e quella del “brutto”, dai caratteri significativamente diversi. Sono maschere che avvolgono completamente il viso di chi le porta perché molto incavate e ruotano nelle fattezze generali attorno alla realizzazione del naso.

Quella del bello è molto curata nella lavorazione e di frequente esprime un senso di distacco rispetto a ciò che sta attorno oppure tradisce una vena di ironia per cui chi la osserva può sentirsi a disagio.

Contribuisce molto a creare tale effetto la cavità degli occhi e soprattutto il disegno delle labbra, sempre finemente delineate, leggermente aperte. Rughe ben marcate sulla fronte, agli angoli della bocca attorno agli occhi, completano la rappresentazione molto realistica di un viso.

La maschera del brutto è giocata su di una maggiore durezza dei lineamenti, ma soprattutto a volte su di una maggiore deformazione del viso, nel senso che il naso può essere sproporzionato, storto, gli occhi non simmetrici, la bocca più aperta e storta. Ad accentuare il suo carattere a volte inquietante e a volte addirittura pauroso, è poi il colore: nero, verde bruno.

Il legno più frequentemente usato è il ceppo di noce in quanto è meno duro ma soprattutto non scheggia. Il tempo necessario per realizzare una maschera si calcola attorno alle 50-60 ore. Si incomincia il lavoro seduti sulla cavra, una sorta di cavalletto con sedile e una smorza di legno per bloccare la maschera in lavorazione, poi coi vari attrezzi si procede nella lavorazione.



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BRUNATE



Noto come “il balcone delle Prealpi”, il piccolo borgo di Brunate è situato a 716 metri di altitudine, su un altopiano boscoso presso Como. Grazie alla posizione panoramica e alla quota relativamente alta in cui si trova, Brunate divenne, nel Sette-Ottocento, uno dei maggiori centri di villeggiatura lombardi, tanto da essere riportata tra le più importanti stazioni turistiche d'Italia.
Le origini del toponimo "Brunate" sono alquanto incerte; vi sono a tal proposito tre possibili ipotesi:
per alcuni, Brunate deriva da Prunear, che significa "paese nato tra i pruni";
altri lo traggono dal termine celtico Brunear, che vuol dire "monte a oriente" (si veda anche il termine celtico Brig, che significa "altura", origine di toponimi di altre città come Brescia o Breno oppure della località Brè posta nel comune di Lugano (Svizzera): tutti questi luoghi hanno avuto origine su delle alture, proprio come Brunate);
secondo un'altra teoria, invece, Brunate deriva dal termine di origine germanica Brunnen, cioè "fonte"; questo probabilmente per le molte sorgenti che sgorgano nel territorio comunale.
Durante gli scavi a Brunate per la costruzione di una cantina in pieno centro storico (giugno 1895) e di una villa in via Pissarottino (3 febbraio 1909) sono stati ritrovati reperti che fanno pensare ad un insediamento di tribù celtiche fin dal VI secolo a.C. Nel centro storico furono rinvenute due fibule, due anelli a globetti, un braccialetto, un ciondolo ed un pezzo di catenella; in via Pissarottino invece un'urna cineraria, ciotole e bicchieri in terracotta, una fibula in bronzo, due anelli di bronzo ed una perla d'ambra forata.

Brunate ha origini lontanissime, probabilmente celtiche, con forti influenze etrusche (i reperti archeologici presenti al Museo Civico di Como e in quello di Grosseto dimostrano il forte legame con l’Etruria). Inoltre i reperti archeologici evidenziano una cultura celto-ligure del IV e V secolo a.C. e che Brunate era sede di vita organizzata. Dopo alcuni secoli nella sottostante pianura si cominciarono a costruire capanne, fino a che i Romani risanarono il suolo, fondando la città ed erigendo mura e torri. In quest’epoca Como divenne in effetti una delle più importanti città dell’impero anche grazie alla sua posizione strategica, che la rendeva centro delle strade che portavano in Germania. Nel Medioevo Brunate si costituì a Libero Comune (seconda metà del XII secolo) ma la sua indipendenza fu di breve durata, risultando nel 1240 di nuovo annessa a Como. Per circa mezzo secolo Brunate resta legato alle vicende di Como senza particolari eventi da menzionare se non la presenza del monastero di S.Andrea e della futura beata Maddalena Albrici. La beata Albrici si era fatta religiosa nel monastero di Sant'Andrea a Brunate. Quando ne divenne Badessa, attirando dietro il suo esempio numerose anime femminili, ella dette alla fondazione, con l'aiuto di Bianca, duchessa di Milano, la Regola degli Eremiti di Sant'Agostino, riformando il monastero di Sant'Andrea nel senso di una maggiore austerità di vita e di una più rigorosa povertà. Le donne di Brunate, si ridussero così, volontariamente, a tale evangelica povertà da essere costrette a mendicare per il proprio quotidiano sostentamento. La Badessa Maddalena fu la prima a dare l'esempio di umile questuante, benché ella fosse nata, nel 1409, nella famiglia di Nicola Albrici, massimo magistrato di Como a quel tempo. Maddalena Albrici non era nuova a questi episodi. Bambina, a Como, era stata profondamente commossa dallo spettacolo dell'indigenza dei propri concittadini durante una carestia. Con tutti i suoi mezzi - compreso quello del miracolo - aveva cercato di soccorrere e di consolare, e proprio in quella penosa occasione aveva preso la decisione di entrare in monastero. Nel Comasco e nell'intero Ducato milanese Maddalena Albrici fu una grande calamita di anime, che attirò affabilmente a sé, sul colle impervio di Brunate, simile a un mistico altare innalzato verso il cielo. Un altare sul quale ella per prima venne offerta come vittima, sofferente di una lunga e penosa malattia che la spense nel 1465, e la fece invocare e onorare come una Santa. Dai verbali delle visite pastorali si rileva che più avanti, nel 1716, Brunate aveva solo 164 abitanti, diventati 222 nel 1768. In poco più di un secolo sarebbero aumentati di 300 unità.

Con la colonizzazione della convalle comasca da parte dei Romani, Brunate cominciò a seguire le stesse sorti di Como. Nella seconda metà del XII secolo Brunate riuscì a costituirsi libero Comune, ma già nel 1240 ritornò sotto la giurisdizione di Como, entrando nella circoscrizione cittadina di "Porta Sala".

A cavallo tra Ottocento e Novecento, da piccolo insediamento rurale medievale Brunate diventa una famosa meta per le famiglie benestanti milanesi, raggiungendo il suo massimo splendore, simboleggiato dalla costruzione di un casinò, che verrà chiuso dopo la seconda guerra mondiale cedendo la licenza a Campione d'Italia.

Il flusso turistico verso Brunate, nonché l'arrivo in paese dell'alta borghesia milanese, venne reso possibile anche grazie alla costruzione, da parte delle Ferrovie Nord Milano, della linea ferroviaria Milano-Grandate, ultimata nel 1896. La linea si congiungeva al tratto Camerlata-Como già realizzato nel 1875. Alle ferrovie bisogna aggiungere l'apertura della Funicolare Como-Brunate nel 1894 e l'inaugurazione del primo tram a Como nel 1899, in occasione del centenario della pila di Volta.

Questo afflusso turistico continuò fino alla Seconda guerra mondiale, quando il paese, protetto contro possibili bombardamenti dalla vicinanza alla Svizzera, divenne meta di molti sfollati. Il 1º agosto 1943, Brunate perse la sua autonomia, diventando frazione di Como; ritornò Comune nel luglio 1947, a seguito di una petizione popolare.

A partire dal secondo Dopoguerra Brunate cominciò a vivere una fase di declino per quanto riguardava la sua peculiarità principale, vale a dire quella di essere una rinomata località turistica gli alberghi di Brunate hanno quasi tutti cessato l'attività. Il paese è passato da località di villeggiatura "d'élite" a luogo da turismo di massa stile "mordi e fuggi". Il visitatore tipico si limita alla visita del centro storico, del Faro Voltiano e dei panorami.

Il nome di Brunate è tornato recentemente alla ribalta nazionale con l'emissione, da parte del Sindaco, di un'ordinanza entrata in vigore il 1º marzo 2008 che vieta l'accesso sul territorio comunale dalle 7 alle 20 delle autovetture più larghe di 184 cm e con ruote dal diametro superiore ai 730 millimetri. Questa ordinanza, contestata da commercianti, albergatori e possessori di fuoristrada e monovolume, mira a escludere l'accesso a Brunate ai mezzi troppo ingombranti, causa la larghezza ridotta delle strade brunatesi. Per questo oggi, data anche la scarsità di parcheggi, il mezzo di trasporto più consigliato per accedere al "Balcone sulle Alpi" è ancora senza dubbio la Funicolare.
All’inizio del 1800 il paese era costituito da poche case e qualche villino, ma nella seconda metà del secolo Brunate era già diventato un luogo di villeggiatura, grazie al suo clima, alla sua posizione geografica e alle vedute panoramiche, specie nelle mezze stagioni e d’estate. Fino alla seconda metà dell'ottocento, Brunate era rimasto un piccolo paese di montagna, isolato dalla sottostante città, luogo ideale di romitaggio. Fu solo nel 1817, anno di dura carestia, che venne realizzata la mulattiera, chiamata via delle Scalette, che dalla città, passando per l'ex eremo cappuccino di S. Donato (costruito nel sec. XV e soppresso nel 1772), conduceva a Brunate. Quasi mezzo secolo più tardi, venne realizzata anche una carrozzabile, che contribui in maniera determinante a rompere l'isolamento di questo piccolo paese rurale. L'evento determinante, però, che trasformò radicalmente Brunate, elevandolo ad importante luogo di villeggiatura, fu la realizzazione della funicolare. Il capitale necessario venne raccolto nel 1891 e l'inaugurazione del servizio avvenne il 6 novembre 1894. Per compiere il percorso di 1074 metri, con un dislivello di circa 500 metri e con pendenza minima del 33% e massima del 55%, le prime carrozze impiegavano venti minuti (oggi lo stesso percorso viene coperto in circa 6 minuti). La funicolare non era stata però pensata come servizio di trasporto per gli abitanti di Brunate, ma come mezzo per incentivare il turismo. E infatti Brunate, tra la fine dell'Ottocento e i primi di questo secolo, vide un'intensa attività edilizia, finalizzata soprattutto alla costruzione di ville ed alberghi, che portarono a riorientare il paese, fino ad allora affacciato a mezzogiorno. Al contrario, le nuove dimore di villeggiatura cercarono lo stupendo panorama del lago e delle Alpi, verso occidente, tanto che Brunate venne ribattezzata col nome di "Balcone delle Alpi". La maggior parte di queste ville venne eretta in forme eclettiche o liberty, a cominciare dalla stessa piccola stazione di Como della funicolare, che ancora oggi accoglie il visitatore con la sua graziosa facciata da chalet di montagna. La stagione turistica di Brunate durò fino al secondo dopoguerra, anche se le avvisaglie del suo declino avevano cominciato a farsi sentire già diversi anni prima.
Giunti a Brunate si può godere di uno splendido panorama che abbraccia un ampio territorio, dalle alpi svizzere alla pianura lombarda e piemontese. Punti panoramici principali sono il Belvedere di via Pirotta, il piazzale Bonacossa e l’ampio sagrato della chiesa di S.Andrea, il Pissarottino, la rotonda di via Monterosa, la rotonda del parco Marenghi a S. Maurizio e il sovrastante Faro. Numerosi sono inoltre i monumenti d’interesse storico ed artistico (il Faro Voltiano, la parrocchiale, le ville) e molte e varie le possibili mete d’escursione. Fra gli itinerari ricordiamo la cosiddetta "dorsale del Triangolo Lariano", percorso in quota che collega pedonalmente Brunate con Bellagio.

Il paese è noto soprattutto per la presenza di numerose ville in stile eclettico e liberty, per essere collegato alla città di Como tramite una funicolare e per i numerosi punti panoramici da cui si può vedere l'intero arco alpino occidentale, la Pianura Padana e gli Appennini, caratteristica quest'ultima che l'ha reso noto come il "Balcone sulle Alpi". Una curiosità è che in paese vissero vari santi della Chiesa cattolica.

Il territorio comunale di Brunate si trova nelle Prealpi lombarde, in corrispondenza del vertice sud-ovest del cosiddetto Triangolo Lariano, ad un'altitudine compresa tra i 562 ed i 1027 metri (località CAO) sul livello del mare. Il paese di Brunate vero e proprio è situato ad una quota di 715 metri, addossato al crinale del monte Tre Croci, esposto sul versante sud della montagna. Il suolo su cui è costruita Brunate è di natura calcarea, ma la presenza di depositi glaciali morenici ha reso molto fertile il sito.
Poco più a valle del paese è presente un piccolo altopiano (la località Piani di Brunate), collegato al centro storico da una strada carrozzabile stretta e tortuosa inaugurata il 15 giugno 1935.
Il territorio è in prevalenza ricoperto da boschi; le specie più presenti di alberi sono aceri, frassini, pini, betulle, robinie, querce, castagni e faggi.
I corsi d'acqua sono pressoché assenti, ridotti a rigagnoli che non raggiungono una grossa portata nemmeno nei periodi di pioggia. Sono invece presenti numerose sorgenti: la più nota è la fonte Pissarottino, situata in fondo all'omonima via, in prossimità di uno dei principali punti panoramici del paese.

La chiesa parrocchiale di Brunate è dedicata al patrono Sant'Andrea Apostolo e si trova in piazza della Chiesa.
Le sue prime notizie risalgono al Trecento, insieme all'annesso monastero oggi demolito; ampliata da ultimo tra il 1914 ed il 1927 (da qui la presenza di due facciate), all'interno presenta affreschi dei Recchi (famiglia di pittori comaschi) realizzati alla fine del XVII secolo; nella volta sono raffigurati i patroni Sant'Andrea e San Maurizio, mentre nei medaglioni sottostanti si ammirano Sant'Ignazio di Loyola, San Michele Arcangelo, San Bartolomeo e la Beata Maddalena Albrici.

All'interno della chiesa, in una nicchia lungo il lato destro, c'è un altare dedicato a Maddalena Albrici (1390-1465), sotto il quale sono conservate le sue reliquie. Badessa dell'antico monastero di Sant'Andrea, fu beatificata l'11 dicembre 1907 da papa Pio X.
Nella chiesa è conservato inoltre un organo a canne costruito dai fratelli Prestinari di Magenta nel 1827 riutilizzando il materiale fonico di un precedente organo Serassi del 1774. Modificato nel corso del XX secolo, lo strumento, che ha 2 tastiere di 58 tasti ed una pedaliera piana di 27 note, è stato restaurato da Ilic Colzani nel 2005.

La chiesetta della Madonna di Pompei è in pieno centro storico, all'incrocio tra le vie P. e M. Monti e A. Manzoni.
La chiesa del Sacro Cuore di Gesù è immersa nel verde della località Piani di Brunate affiancata da un piccolo campanile (via ai Piani).
La chiesa di San Maurizio è posta nell'omonima località (via G. Scalini), presenta sulla facciata un affresco raffigurante il santo guerriero.
Il santuario di Santa Rita si trova in località CAO (via alle Colme).
Il centro storico di Brunate è caratterizzato da viuzze a scalinata che si arrampicano sul pendio e tagliate trasversalmente dalla via P. e M. Monti, strada principale del centro stesso.

In esso sono presenti antichi edifici, portali in pietra e diverse corti: le più importanti sono la corte del Castello, uno dei luoghi più antichi di Brunate, e la corte degli Ebrei, risalente al XIV secolo.
Appena usciti dalla corte degli Ebrei, in una piazzetta si trova la cosiddetta Cappelletta, piccola chiesa dedicata alla Madonna di Pompei.

Il Faro Voltiano è una torre ottagonale alta 29 metri eretta nel 1927 sulla vetta del Monte Tre Croci (località San Maurizio) in occasione del centenario della morte di Alessandro Volta. Nella volta centrale del faro fu collocato un busto del fisico comasco, rappresentato in età avanzata, donato dai postelegrafonici. Il faro fu inaugurato l'8 settembre 1927 con l'intervento dell'allora Ministro delle Comunicazioni, Costanzo Ciano. Progettato dall'ingegnere Gabriele Giussani, ha al suo interno una scala a chiocciola di 143 gradini che permette di raggiungere due balconate circolari: la prima poco sopra il portone d'ingresso, la seconda all'esterno della lanterna; da questi punti è possibile vedere panorami che spaziano sull'arco occidentale della catena alpina, fino al Monte Rosa. Il faro, a partire dal tramonto e fino all'alba, emette alternativamente luce verde, bianca e rossa.

Nel territorio comunale sono presenti numerose ville in stile eclettico e liberty disseminate per il territorio e circondate da sontuosi parchi, oggi purtroppo non più frequentate come un tempo in estate, ma comunque nobili testimoni di un'epoca felice. Si trovano in particolare lungo le vie Pissarottino, Roma, A. Pirotta e G. Scalini.

Sulla costa del monte di Brunate troviamo l'eremo di San Donato eretto dai francescani nel XV secolo. Il convento esiste ancora, da cinque secoli domina la città con la sua mole severa, ma non è più luogo di preghiera poiché è sconsacrato da quando Maria Teresa d'Austria abolì i privilegi della chiesa lombarda e soppresse numerosi conventi.

Brunate è frequentata dai turisti soprattutto per ammirare i panorami che hanno contribuito a ribattezzare il paese come "il Balcone sulle Alpi". In giornate limpide è infatti possibile vedere distintamente i grattacieli di Milano, ma soprattutto l'intero arco alpino occidentale (da cui si staglia in particolare il Monte Rosa), la Pianura Padana e gli Appennini. I migliori punti panoramici sono posti in fondo alla via Pissarottino, sul Piz Belvedere (all'incrocio con via A. Pirotta), in piazza A. Bonacossa e sul faro Voltiano.

La popolazione di Brunate ha subito un grande incremento nel secondo Dopoguerra. Sono principalmente due i fattori che hanno contribuito ad un aumento di residenti così rilevante in quindici anni (+ 117,46% tra il 1936 ed il 1951): innanzi tutto si è verificato un vertiginoso aumento delle nascite rispetto al periodo pre-bellico e poi sono aumentate le immigrazioni di persone, anche provenienti dal Sud Italia, alla ricerca di posti di lavoro che, a quell'epoca, a Brunate non mancavano.
Dal censimento del 2001 al 2011 la popolazione residente a Brunate, dopo una lunga fase di stallo, ha ripreso a crescere. Un fatto decisamente insolito per un Comune montano qual è Brunate, ma che è dovuto principalmente alla sua posizione strategica rispetto a Como, città raggiungibile in soli sette minuti di Funicolare: in pratica, alla pari di altri paesi della cintura comasca come Grandate, Lipomo, Montano Lucino, Cernobbio, Maslianico e San Fermo della Battaglia, Brunate è diventato un sobborgo del capoluogo lariano.
L'incremento degli ultimi anni è dovuto all'immigrazione di persone provenienti dall'estero, in particolare da Romania, Turchia, El Salvador, Ucraina e Marocco, che trovano per lo più impiego presso le relativamente numerose imprese edili artigiane presenti sul territorio comunale oppure presso le ville brunatesi in qualità di domestici.

Nel territorio comunale di Brunate esistono anche altri nuclei abitati:

San Maurizio, situato poco al disotto della cima del Monte Tre Croci, dove sono presenti la chiesa di San Maurizio ed il Faro Voltiano;
CAO (acronimo di Club Alpino Operaio), posto al termine della strada in pavé che da San Maurizio porta al sentiero della Dorsale del Triangolo Lariano, in questa località c'è un piccolo santuario dedicato a Santa Rita;
Nidrino, centro residenziale ad ovest del centro storico, sviluppatosi soprattutto negli anni Settanta, in cui si trova il centro sportivo comunale;
Piani di Brunate, anch'esso costituito in prevalenza da villette edificate negli anni Settanta sull'altopiano presente al disotto del centro storico, dove ci sono la caratteristica chiesetta del Sacro Cuore di Gesù e il già citato Castello;
Carescione, piccolo nucleo di case posto tra la località Piani ed il tracciato della funicolare;
Laghetto, situato nella parte orientale del territorio comunale, così chiamato per la presenza in passato di un piccolo lago, che alimentava l'antico lavatoio oggi demolito. Questo invaso venne prima coperto (1939) e poi del tutto prosciugato (1975) per far spazio ad un parcheggio. Nei pressi c'è la stazione dei Carabinieri.

La funicolare Como–Brunate fu inaugurata nel 1894.
Fino agli inizi del XIX secolo, il paese di Brunate era praticamente isolato: dapprima una mulattiera, tracciata nel 1817 e che lo collegava a Como, e poi le tortuose e strette carrozzabili da Como e da Tavernerio, costruite nella seconda metà del XIX secolo, contribuirono a rompere questo isolamento. Ma tutto ciò non bastava.
Fu soprattutto grazie all'impulso della famiglia Bonacossa, che possiede tuttora una villa a Brunate, che si decise di intraprendere la costruzione di una funicolare a vapore che collegasse Como a Brunate, ponendo così fine in modo definitivo alle difficoltà di accesso al paese.
Così, l'11 novembre 1894, dopo meno di un anno di lavori, la funicolare Como-Brunate fu solennemente inaugurata: tra le personalità che parteciparono alla cerimonia, spiccava la presenza del cardinale Andrea Carlo Ferrari, da pochi mesi arcivescovo di Milano.
La sua costruzione ha contribuito non poco allo sviluppo turistico della località collinare, grazie anche allo spettacolare panorama su Como e sull'omonimo lago che si può ammirare durante il viaggio.
Nel 1911 la trazione divenne elettrica.
Nel 1934 l'impianto della funicolare e la stazione di Brunate vennero completamente ristrutturate e le carrozze sostituite; il tutto fu inaugurato il 15 giugno 1935; altri cambi di vetture sono avvenuti nel 1951, nel 1989 e nel 2011.
Fino al 1981 la funicolare è stata gestita dalla Società Anonima Funicolare Como/Brunate (tra gli azionisti c'era il conte dott. Cesare Bonacossa), successivamente la funicolare venne gestita dalla Regione Lombardia. La funicolare appartiene al Ctp SpA consorzio fondato dai comuni della provincia di Como.
Dal 2005 il Consorzio Mobilità Funicolare & Bus gestisce la funicolare. Il ruolo operativo di gestione è assegnato all'Azienda Trasporti Milanesi S.p.A., la quale fa parte del consorzio.
La funicolare ha le sue stazioni di partenza/arrivo in piazza A. De Gasperi a Como ed in piazza A. Bonacossa a Brunate; lungo il tragitto vi sono due fermate a richiesta: una a Como Alta ed una a Carescione (frazione di Brunate).
La funicolare, su unico binario e raddoppio a metà tragitto, ove s'incrociano la vettura in salita e quella in discesa, supera un dislivello di 493,92 metri con una pendenza media del 46% ed una punta massima del 55,10%; il percoso sull'inclinata misura 1074,08 metri.
A metà tracciato, sul pianerottolo della cantoniera costruita a fianco dello scambio, vi è il cosiddetto cannone di Mezzogiorno: installato nel 1912, in servizio fino agli anni settanta del XX secolo e riattivato nel 1990, tutti i giorni a mezzogiorno spara un colpo a salve.
Il viaggio dura sette minuti ed il servizio si effettua tutti i giorni dalle 6:00 alle 22:30 (il sabato ed in estate turno prolungato sino alle 24:00), con partenze di regola ogni mezz'ora, che diventano ogni quarto d'ora negli orari di punta.
Le due carrozze attualmente in uso, realizzate in occasione della revisione generale dell'impianto appaltata dal C.P.T. s.p.a. nel 2011, una per ciascun senso di marcia e contraddistinte dai numeri 12 e 13, sono in servizio dal 13 agosto 2011, anche se l'inaugurazione ufficiale è avvenuta il 10 settembre 2011; la n. 12, chiamata BRUco, è di colore malva, mentre la n. 13, ribattezzata bruCO, è rossa. Progettate dallo studio di architettura Lucia Rimoldi di Milano e costruite dalla Agudio S.p.A. di Leinì e dalla Carrosserie Gangloff SA di Berna, le vetture sono lunghe 13,40 metri ed hanno una capienza di 80 persone ciascuna (24 sedute e 56 in piedi); a differenza delle carrozze precedenti, hanno quattro ruote (anziché otto) e cinque porte a scorrimento per lato (anziché tre) ed è stata eliminata la cabina dei conduttori, sostituita da un'ampia vetrata panoramica. Gli interni ricalcano lo stile liberty: i sedili hanno inserti in rovere, mentre i corrimano, le cappelliere, i portapacchi ed i portabiciclette sono in ottone bronzato; è anche presente un impianto di aria condizionata.

Altra caratteristica che rende Brunate un'importante località turistica è quella di essere un punto di partenza per numerose camminate che interessano il Triangolo Lariano.
La "Strada Regia" è un percorso inaugurato nel 2006 dopo interventi di ripristino e di messa in sicurezza; parte nei pressi del Centro Sportivo Comunale del Nidrino e permette di raggiungere Bellagio camminando su sentieri a mezza costa. Tale percorso, che un tempo fungeva da mulattiera di collegamento tra i paesi della sponda orientale del Lago di Como prima della realizzazione della nuova strada carrozzabile, permette di scoprire monumenti naturali come i massi erratici (in particolare, con piccole varianti dal percorso, la Pietra Nairola, il Sasso del Lupo e la Pietra Pendula) ed i massi avello (sepolcri di epoca barbarica scavati nei massi erratici) e paesini caratteristici.
Il percorso del Triangolo Lariano permette di raggiungere Bellagio camminando sul sentiero che percorre la cresta del Triangolo Lariano, sfiorando i monti Boletto, Bolettone, Palanzone e San Primo. Tale tracciato, percorribile anche in mountain bike, offre agli escursionisti spettacolari panorami sul Lago di Como e sulle zone circostanti.
Il percorso Brunate-Como-Torno inizia vicino alla fermata della funicolare. Lungo la strada si possono ammirare le sontuose ville Liberty. Proseguendo lungo via Nidrino, la strada si biforca sulla sinistra, si raggiunge il campo sportivo, s'inizia il sentiero nel bosco che, a tratti, lascia intravvedere tra la ricca vegetazione, bei panorami del lago. Lungo il sentiero vi è un enorme monolito di granito ghiandone proveniente dalla Val Masino. La leggenda dice che sotto, nella caverna, viveva un lupo terribile che rapiva i bambini cattivi.
Dopo due ore circa si raggiunge l'abitato di Montepiatto con l'antica chiesetta dedicata a santa Elisabetta, in una splendida posizione panoramica, poco distante appare l'imponente pietra Pendula, un enorme fungo in precario equilibrio che si staglia nel bosco. Proseguendo verso nord si percorre una strada in discesa che conduce a Piazzaga e percorrendo una bella mulattiera acciottolata che attraversa antichi terrazzamenti coltivati si scende a Torno. Percorso facile che permette di scoprire monumenti naturali come i massi erratici (in particolare, la pietra Nairola, il sasso del Lupo) ed i massi avello (sepolcri di epoca barbarica scavati nei massi erratici).

L'agricoltura e la silvicoltura in passato hanno rivestito una grande importanza per l'economia brunatese: le coltivazioni si trovavano in località Laghetto ed erano disposte su terrazzamenti artificiali; venivano coltivate tutte le specie di ortaggi ad eccezione delle patate, che non si adattavano alla tipologia del terreno. In particolare Brunate era rinomata in tutto il territorio lariano per la coltivazione delle cipolle. A Brunate inoltre venivano coltivati i castagni da frutto.
A partire dagli anni della Seconda guerra mondiale le coltivazioni di ortaggi e di castagni sono state del tutto abbandonate: in particolare, i terrazzamenti sono oggi ricoperti da robinie.
Tra i secoli XVII e XIX Brunate era nota per la produzione artigianale di strumenti di fisica, in particolare di barometri e termometri. Questi artigiani, chiamati baromèta, erano particolarmente rinomati non solo nel circondario, ma anche in tutta Europa, tanto che numerosi baromèta lasciarono definitivamente Brunate per stabilirsi soprattutto in Francia, ove trovarono condizioni favorevoli per gestire i loro affari.
Inoltre, grazie alla presenza di fitti boschi, a Brunate era fiorente l'artigianato del legno: dal castagno si ricavavano i serramenti, dal frassino i mobili e dall'olmo (essenza oggi scomparsa dai boschi di Brunate) i ceppi per i macellai.
Oggi, scomparsi quasi del tutto i falegnami, le imprese artigiane sono presenti nel settore dell'edilizia.
L'industria nel senso di esistenza di fabbriche e simili non è mai esistita a Brunate. Erano invece presenti sul territorio una cava di sabbia (chiamata Cassinella), una di pietre (da cui si ricavavano i sassi per i terrazzamenti) ed una d'argilla; particolarmente attiva quest'ultima, da cui si estraeva il materiale per la produzione dei coppi dei tetti delle case di Brunate. Anche questo tipo di attività è venuto a cessare negli anni della seconda guerra mondiale.

Oltre alla lingua italiana, a Brunate è utilizzato il locale dialetto comasco, una variante della lingua lombarda. Come tutti i dialetti lombardi occidentali, anche il comasco è sostanzialmente una lingua romanza derivata dal latino.

Brunate è interessata, soprattutto in estate, da diverse manifestazioni a carattere culturale (conferenze, letture, concerti, proiezioni), che si svolgono in prevalenza nell'auditorium della nuova Biblioteca Comunale. Altre manifestazioni musicali hanno luogo nei giardini delle ville presenti sul territorio e nel centro storico.
Brunate era rinomata per la "Festa del Narciso", un tempo fiore tipico dei prati brunatesi, che si teneva nel mese di maggio; organizzata per la prima volta nel 1936, divenne nel 1966 "Brunate in fiore" e dal 1967 "Armonie fiorite". L'ultima edizione si tenne nel 1973. Dal 1996 al 2008 si è invece tenuta la rassegna "Appuntamenti Musicali", che consisteva in concerti eseguiti nelle ville brunatesi.
La Sagra patronale di S. Andrea si svolge il 30 novembre e dura tre giorni, nel corso dei quali si organizzano manifestazioni e una fiera di merci di vario genere e si espongono prodotti gastronomici tipici.
La Sagra di S. Maurizio è organizzata la terza domenica di settembre dagli alpini ed è animata da giochi e gare sportive.
La Festa bulgara si tiene prima della stagione estiva per volontà del consolato bulgaro in memoria dello scrittore e patriota Penco Slavejkov, morto a Brunate il 10 giugno 1912 in una camera dell'Albergo Bellavista (piazza A. Bonacossa n. 2).

Il centro sportivo comunale del Nidrino comprende un campo di calcio ad 11, una palestra, un campo da tennis e una struttura coperta polivalente.
La locale squadra di calcio, l'Associazione Sportiva Dilettantistica Brunatese, partecipa ai campionati giovanili organizzati dalla F.I.G.C e ai tornei amatoriali organizzati dal C.S.I.

Alessandro Volta (Como, 18 febbraio 1745 – Camnago Volta, 5 marzo 1827), scienziato, la cui balia era una brunatese, moglie di un fabbricante di barometri, ha trascorso presso di lei a Brunate l'infanzia e la fanciullezza. La sua presenza in paese è testimoniata da due lapidi poste accanto all'ingresso laterale della chiesa di Sant'Andrea e da un'altra lapide collocata al civico 5 della via che porta il suo nome, ove probabilmente era la casa della sua nutrice.
Alberto Bonacossa (Vigevano, 24 agosto 1883 – Milano, 31 dicembre 1953), chimico, dirigente sportivo e - dal 1929 - proprietario de La Gazzetta dello Sport, possedeva una grandiosa villa a Brunate, in cui la sua famiglia risiede tuttora. La famiglia Bonacossa è stata, tra l'altro, una dei promotori della costruzione della Funicolare Como-Brunate.
Penčo Slavejkov (Trjavna, 27 aprile 1866 - Brunate, 10 giugno (28 maggio secondo il calendario giuliano) 1912)poeta bulgaro, oggi ricordato da due lapidi poste su una facciata dell'albergo ove morì e da un busto inaugurato il 24 novembre 2007 nel giardino della Biblioteca Comunale.
Claudio Gentile (Tripoli, 27 settembre 1953 - ), calciatore, difensore della Nazionale italiana, campione del mondo nel 1982 è anche vissuto, nella prima adolescenza, a Brunate.









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martedì 23 giugno 2015

ALBAVILLA



Albavilla è un comune della provincia di Como situato nel Triangolo Lariano fa parte della Comunità Montana del Triangolo Lariano.
Il territorio di Albavilla, come tutto il resto del Piano d’Erba, è stato abitato dall’uomo fin dall’età neolitica: reperti di questa era sono stati rinvenuti nella grotta del Buco del Piombo e nelle torbiere di Bosisio e Pusiano. Non si sa se i primi abitanti fossero Orobi, Etruschi o Umbri, ma da alcuni ritrovamenti si evincono alcuni elementi di origine celtica.Tracce di questi antichi insediamenti sono rimaste nella nostra toponomastica: il Montorobio prende il nome probabilmente dagli Orobi, “viventi sui monti” così denominati da Catone, giunti dall’Europa centrale, che nella zona portarono l’uso di costruire le loro abitazioni su palafitte (resti ne sono stati ritrovati nei laghi di Pusiano e Montorfano). Vicino al Montorobio si trova una località denominata Castlasc, il cui nome sembrerebbe indicare che possa essere stata sede di antichi “castellieri”, recinti di difesa con all’interno abitazioni, risalenti all’età del ferro.
Nel corso dei secoli si sono stabiliti in queste zone Liguri, Etruschi, Umbri (o Isombri o Insubri, da cui la denominazione Insubria, risalente al 1100 a.C.). Dal nord verso la metà del VI secolo a.C. giunsero popolazioni celtiche, che si fusero coi popoli preesistenti dando origine ai Galli cisalpini che si scontrarono per due secoli coi romani, finchè questi fecero dell’Italia settentrionale una provincia romana, alla quale concessero la cittadinanza nell’89 a.C.
Numerosi i reperti di epoca romana, tombe con monete, terrecotte, bronzi, venuti alla luce un po’ in tutte le zone del paese. Lo storico cinquecentesco Alciato (alzatese) collocava in Albavilla la villa dell’ “Alsium” o “Albium”, dimora prediletta dal generale e console romano Virginio Rufo. Una vecchia tradizione vuole che soggiornasse ad Albavilla anche Cicerone, ospite di un Roscio da lui difeso con successo da un’accusa di omicidio. Altri ospiti illustri si ipotizza siano stati i due Plini (il Vecchio e il Giovane), Crito Venno, Ipsulla. E con questo ruolo di “villa” si spiega l’etimologia del nome Albavilla, la vecchia Villalbese, l’antico Vicus Alpensis o l’ancor più antica Villa Albensis, tutte indicanti una località di riposante soggiorno in zona di pascoli montani. Dal terzo secolo in poi ci fu un susseguirsi di invasioni da parte dei barbari: Franchi, Alemanni, Goti, Visigoti, Vandali, Unni, Longobardi. A questi secoli risalgono probabilmente i ruderi delle fortificazioni che esistevano nel Buco del Piombo. Scarsi i documenti di questo periodo: si sa che Albavilla sotto il governo longobardo franco apparteneva alla Pieve di Incino, facente parte del contado della Martesana.
La frazione di Carcano che potrebbe dovere il suo nome ad un duca longobardo, di sicuro fu centro di un capitanato brianteo, sede di un castello. In questo castello nel 1160 si asserragliarono i sostenitori dell’imperatore Federico Barbarossa  in guerra contro Milano e i comuni suoi alleati. Il castello con due rocche sorgeva sull’area attualmente occupata dalla chiesa e dal cimitero ed era difeso per tre lati da un profondo vallo naturale, rimanendo accessibile solo verso Tassera. Il 9 agosto si combattè con alterne vicende la battaglia di Carcano-Tassera. Vittoriosi i milanesi all’inizio, prese poi il sopravvento il Barbarossa che distrusse il carroccio, simbolo dei liberi comuni. I milanesi ricevettero però rinforzi da Erba ed Orsenigo ribaltando l’esito della battaglia. Federico si diresse al Baradello di Como, abbandonando a se stessi i suoi sostenitori asserragliati nel castello di Carcano. I milanesi mantennero invano l’assedio al castello per quasi un mese, abbandonandolo il primo di settembre per rientrare a Milano. Solo molto più tardi il castello cadde nelle mani dei milanesi che lo distrussero completamente. Nel 1183, con la pace di Costanza tra Comuni ed imperatore, i paesi con la Martesana furono annessi a Milano.
Sotto la dominazione spagnola nei secoli XVI e XVII ci fu un generale  impoverimento, decaddero il commercio, l’agricoltura e l’artigianato. La popolazione conobbe la miseria, aggravata dalle ruberie dei banditi, dalle carestie e dalle pestilenze.  Nel 1707 subentrò il dominio austriaco che, salvo un breve ritorno spagnolo nel 1745-46 e la parentesi francese del dominio napoleonico, durò fino al 1859. La situazione migliora: vengono ridotte le tasse, adottate riforme amministrative, favoriti commercio e agricoltura. Sotto il governo di Maria Teresa nel 1755 si stabilì un nuovo metodo di amministrazione comunale: i possidenti di ogni comune si riunivano in “Convocato” due volte al mese per decidere sulle nomine e sulle spese del comune. Le riunioni si tenevano a Villalbese nella sala maggiore della casa parrocchiale detta “Sala comunale” e nella piazza attigua denominata “Praello”. La popolazione si raddoppiò in un trentennio passando da 554 abitanti a 1056 (1760), grazie anche all’assorbimento di Saruggia che prima faceva comunità a sé.
Del ventennio della dominazione francese (1796-1814) resta un ricordo toponomastico: l’Alpe del Viceré prese infatti il suo nome da Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone, Viceré d’Italia. Il Viceré aveva infatti comprato l’Alpe per tenerci i suoi cavalli. Nel 1800  Villalbese con il distretto di Erba passò definitivamente a far parte delle provincia di Como.
Nel 1859 il comune fu annesso al Regno d’Italia. Nei decenni successivi il paese subì un’importante trasformazione economico-sociale, passando da villaggio prevalentemente dedito all’agricoltura a centro importante dell’industria serica e centro di villeggiatura.
Il 14 giugno del 1928 Carcano e Villalbese si fusero in un unico comune che prese il nome di Albavilla. Nel 1931 Molena, Ferrera ed altri cascinali vennero assorbiti da Albavilla, da cui già dipendevano ecclesiasticamente.
Nel 1914 viene aperto l'attuale viale Matteotti e nel 1934- 1935 la strada che conduce all'Alpe del Vicerè, ultimata la quale si ha la costruzione di un “Villaggio alpino per i Figli degli Italiani all'Estero”.
Nel 1939 la sede dell'attuale palazzo comunale (risalente al 1896), viene ampliata. Anche gli impianti di approvvigionamento e distribuzione delle acque sono oggetto di interventi e di rifacimenti: acquedotto del Cosia con prelievo presso la diga di Leana (1907), Molena e Carcano (1937), sorgenti di Alserio (1959), rinnovo della rete di distribuzione (1961).
Il paese si dota di mezzi di comunicazione che vanno a sostituire le vecchie diligenze a cavalli: autocorriera sulla linea Como-Erba-Canzo-Asso e nel 1911 la tranvia Como-Erba che verrà successivamente prolungata fino a Lecco. La tranvia verrà sostituita nel 1955 da un servizio con pullman. Il comune stanziò anche una somma per la ferrovia Milano-Erba, inaugurata nel 1880.
Il primo cittadino del paese a essere nato nel 1928 è Ampelio Corti al quale è stato consegnato un attestato di riconoscimento.
Il paese durante buona parte del Novecento ha rappresentato un centro di villeggiatura soprattutto per numerosi turisti brianzoli e milanesi, grazie a luoghi quali l'Alpe del Vicerè con l'Albergo La Salute.
L'afflusso turistico è andato via via calando per ridursi ai soli turisti domenicali, richiamati dall'Alpe del Vicerè o dalle iniziative (sagre e fiere), come la festa dei Crotti, organizzata in paese, che richiamano ogni volta moltissime persone.
L'agricoltura e l'allevamento del bestiame, salvo qualche caso sono quasi scomparse, così come la crisi dell'industria serica che ha portato alla chiusura delle storiche filande (Civati, Rejna, Porro, Borselli, Giobbia, Feloy e ultima la Dubini), che offrivano occupazione agli abitanti di Albavilla.
Attualmente le attività produttive, che si concentrano prevalentemente nella parte sud del territorio, sono concentrate sulla meccanica, la tessitura-tintoria, edilizia, florovivaistica, falegnameria e sul terziario.
Numerose sono le scoperte archeologiche avvenute ad Albavilla a dimostrazione della dimora dei Romani e dei vari popoli che li precedettero nel territorio.
Nel 1957 nella grotta detta "Tanun" in valle Cosia, vennero ritrovati due strumenti litici assegnati ad un complesso paleolitico di facies musteriana. Altro monumento di una certa antichità è il masso-avello di Parravicino, che venne giudicato una tomba gallica.
Altre tombe galliche o celtiche vennero alla luce qua e là sul territorio, ma veramente ricchissima puo' dirsi la terra di sepolcri romani. La zona di Ferrera in avanti puo' considerarsi addirittura una necropoli romana, tante furono e sono le tombe scoperte.
Una vera collezione di bronzi imperiali, coniati nei primi 4 secoli dell'era cristiana è affiorata in superficie. Fra di essi figurano monete di Augusto, Claudio, Domiziano, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Faustina, Commodo, ecc.: le più antiche di zecca romana, le più moderne delle zecche di Treviri, Arles, Sirmio, Sciscia, Costantinopoli ed Aquileja.
Nel 1829 sui colli venne ritrovato un sepolcro contenente un medio bronzo di Augusto, due vasi ed alcune olle ripiene d'ossa; all'interno su un marmo inferiore c'era un titoletto scolpito con scritto "Crito Venno".

Nella Cascina Lodorina, nell'Aprile 1902, negli scavi per la costruzione di un crotto, si trovò una tomba costituita da cellette di rozze lastre, contenente tre vasi in terracotta, una moneta romana irriconoscibile e un ago crinale in bronzo.
Nel 1914 nella sistemazione dell'attuale viale Matteotti, per un più agevole raccordo con la provinciale, giunti al sito "Coetta" alla profondità di circa 80 cm. trovarono una tomba senza coperchio, con i lati formati da quattro lastroni di sarizzo e col fondo pavimentato di tegoloni del tipo romano. Contaneva solo uno scheletro ed un'aforetta, giudicata successivamente di periodo romano assai tardo, cioè del quinto secolo d.C.
Nel 1951, scavando per un impianto d'acqua in via Dante è stato messo allo scoperto un antico sepolcro di epoca incerta. La tomba era alla profondità di soli 20 cm. dall'acciottolato stradale e disposta parallelamente alla soglia del portone d'ingresso di una casa molto antica. Era una tomba a cassetta, formata cioè da rozzi sfaldoni di pietra locale e di dimensioni normali; il fondo era costituito da terreno argilloso. Non conteneva altro che poche ossa ed un teschio friabili.
Nel febbraio 1964, durante lavori di scavo per la costruzione di una casa in località Gallett di Ferrera è stato rinvenuto in cocci il contenuto di una tomba romana franata nel terreno.
La tomba, piccola, a pozzetto e composta da ciottoli a secco, conteneva un olpe in terracotta, di cui era salva una parte  di collo con ansa a nastro e alcuni cocci; un vaso con decorazioni a graffito, pure in cocci; due patere delle quali era rimasto ben individuabile il fondo e qualche parte.
Nessuno degli oggetti risultò ricomponibile, dato il forte numero di cocci mancanti; la diversità delle ceramiche ha fatto inoltre pensare alla possibilità che il materiale rinvenuto appartenesse a due tombe diverse.
I contorni dei cocci, molto levigati, davano a vedere di essere rimasti a lungo sottoterra e non spaccati di fresco, per cui si è avanzata l'ipotesi che la tomba sia stata aperta anticamente e manomessa.
Nel 1973 sono venuti alla luce, sempre nella zona di Ferrera, alcuni corredi di una necropoli romana andata in gran parte distrutta lungo via Panoramica, e poco più tardi in via S. Maria di Loreto due tombe in sfaldoni di pietra locale prive di corredo e datate ad età medievale e lì vicino una tomba romana datata all'età giulio-claudia.
Molti altri sono stati i ritrovamenti tra cui, di recente, quelli avvenuti in diversi punti di una vasta area coltivata a prato ubicata alla periferia di Albavilla nella località denominata Molena, nei pressi della chiesetta della "Madonna di Loreto". Alcuni smottamenti del terreno avevano messo in luce, nella primavera del 2004, una stratigrafia archeologica, in particolare una delle frane aveva messo in evidenza un tratto di muratura assieme a frammenti di embrici ed alcuni reperti ceramici di età romana. Essendo la zona interessata in quel periodo da un progetto di costruzione della nuova casa di riposo "Opera Pia Roscio", il Ministero per i Beni e le Attività Culturali decise di eseguire una campagna di indagini preventive nell'autunno dello stesso anno. L'indagine venne eseguita mediante saggi; due di essi hanno evidenziato una presenza antropica ben evidente consistente nel rinvenimento di strutture quali una cisterna per acqua, parte di un ambiente, una vasca e un successivo gruppo di sepolture. La zona è stata così dichiarata di interesse archeologico e quindi sottoposta a tutte le disposizioni di tutela.

Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte e da lui nominato Vicerè d'Italia, amava molto soggiornare presso la sua residenza estiva in riva al lago di Pusiano, l'attuale Palazzo Carpani-Beauharnais. Durante il periodo del suo viceregno, nel 1810 il Principe aveva acquistato l'ampio pianoro che si allarga sui contrafforti del Monte Bolettone - oggi chiamato appunto "Alpe del Vicerè" - per farvi costruire un grande fabbricato per il soggiorno estivo dei suoi famosi e preziosi cavalli. In seguito, dopo alterne vicende, la zona passò in proprietà al Conte Turati (Alpe Turati) e divenne poi un alpeggio per la "carica" del pascolo stagionale, mentre la struttura venne trasformata in albergo per villeggianti, (Albergo la "Salute"). Negli anni Trenta, per la salubrità dell'aria e per la posizione di questi luoghi, nelle immediate vicinanze era stato costruito un Campeggio dell'Opera Nazionale Balilla, che poi fu trasformato in un grande villaggio alpino. Durante le fasi più cruciali della seconda Guerra mondiale, qui alloggiarono l'Accademia Navale, l'Accademia Aeronautica e le "SS" italiane; il villaggio venne successivamente distrutto da un bombardamento aereo degli Angli-americani nel febbraio-marzo del 1945.
Tutta l'area riveste una eccezionale impresa paleontologica, dovuta all'affioramento di una successione rocciosa di età giurassica inferiore (180 - 200 milioni di anni fa), caratterizzata da una notevole ricchezza di Ammoniti (Molluschi Cefalopodi marini fossili). Oltre all'interesse paleontologico, questa zona è anche peculiare per la sua morfologia carsica: le rocce calcaree del substrato sono infatti interessate da fenomeni di tipo carsico , determinati dall'azione corrosiva delle acque piovane rese "aggressive" dalla presenza di anidride carbonica disciolta, con formazione di cavità, grotte e voragini. Il complesso "Alpe del Vicerè - Buco del Piombo" è uno dei più interessanti dal punto di vista speleologico di tutta la Lombardia.

Oggi il comune di Albavilla, dopo un paziente recupero aziendale , ha attrezzato l'area con alcune strutture ricreative per i gitanti che nel periodo estivo vanno in cerca di qualche ora di relax a contatto con la natura, trasformandola in un piccolo parco che dispone di parcheggi, barbecue in pietra, tavoli e panchine in legno. La vicina presenza poi di ristoranti tipici e rifugi alpini, soddisfa le aspettative dei più esigenti e degli appassionati di trekking. Chi si ferma all'Alpe del Vicerè per una giornata rilassante, può raggiungere la vicina chiesetta di S.Rita, dove sono allestiti alcuni pannelli didattici sulla flora, sulla fauna e sulla storia della zona.

Il Buco del Piombo è un vero e proprio museo naturale all'aperto, che presenta molteplici motivi di interesse.
Dal punto di vista geologico il Buco del Piombo è scavato quasi totalmente nel calcare detto Maiolica, formazione sedimentaria di origine marina depositatasi sul fondo di un antico oceano durante l'ultimo periodo dell'era Mesozoica, il Cretaceo. Si tratta di una roccia calcarea bianca compatta e ben stratificata, che presenta inclusioni di selce, una roccia silicea. La denominazione della grotta può essere ricondotta probabilmente alla caratteristica patina di alterazione di colore grigiastro che si forma sugli affioramenti di Maiolica. L'origine di questa cavità è legata a fenomeni di tipo carsico, determinati dall'azione "corrosiva" delle acque piovane - rese aggressive dalla presenza di anidride carbonica disciolta - sulle rocce calcaree facilmente fratturabili ed erodibili che costituiscono l'ossatura geologica del Triangolo Lariano. Questa incessante opera ha portato, nel corso di milioni di anni, alla formazione di un intrico di gallerie che si snodano sotto il pianoro dell'Alpe del Viceré. L'insieme di tali gallerie costituisce appunto il complesso carsico "Alpe del Viceré", di cui il Buco del Piombo è solo una parte. L'ingresso è imponente e scenografico: misura 45 m di altezza per 38 di larghezza, ed è occupato per buona parte da una coltre di detriti residui di un antico riempimento e dei rimaneggiamenti antropici iniziati già in epoche storiche. Anche l'interno della grotta è un ambiente molto particolare; le acque che scolano sulle pareti e sulla volta contengono in soluzione sali minerali calcarei che si depositano dando origine a stalattiti, stalagmiti e complicate concrezioni levigate. Acque scorrono anche nella caverna, o ristagnano in piccole raccolte, dal livello estremamente variabile, espressione del complesso sistema drenante carsico. La grotta è colonizzata da una microfauna molto peculiare, costituita da forme tipicamente cavernicole, cioè strettamente adattate a questo ambiente, tra cui Planarie, piccoli Crostacei, Miriapodi, e, tra gli Insetti, alcuni Collemboli e Coleotteri Carabidi.
Uno dei motivi di notorietà del Buco del Piombo è legato al ritrovamento del cosiddetto "Banco degli Orsi", un notevole accumulo di ossa dell'Ursus spelaeus, mammifero plantigrado che si estinse attorno a 18.000-20.000 anni fa durante l'ultima avanzata glaciale. Ma anche l'uomo, nei secoli, ha lasciato le sue tracce in questa grotta. Durante il Paleolitico Medio e Superiore, gruppi di cacciatori nomadi frequentarono, seppur saltuariamente, il Buco del Piombo: ne sono testimonianza numerosi manufatti litici (prevalentemente schegge in selce) ritrovati all'interno. Nel vestibolo, a più riprese, sono stati inoltre rinvenuti frammenti ceramici ed altri materiali di epoca romana (sec. IV-VI d.C.) e medioevale, quando la grotta fu fortificata con la costruzione di un ampio fabbricato che ne sbarrava l'ingresso. La struttura era protetta da quattro ordini di mura ed era costituita da diversi piani sovrapposti, come testimoniano gli incavi allineati lungo le pareti che alloggiavano le travature sostenenti i pavimenti ed i soffitti. Infatti il Buco del Piombo fu più volte utilizzato come rifugio per gli abitanti di Erba durante le ripetute vicende belliche che travagliarono la zona nel Medioevo, oppure come ricovero provvisorio per sfuggire a pestilenze.

Il profilo del monte Bolettone è facilmente riconoscibile ad occhio nudo dalla città di Milano e dalla pianura, per l'inconfondibile filare di abeti, che dalla cima scende verso valle. La cresta del monte Bolettone è spartiacque e divide a nord il comune di Albavilla dal comune di Faggeto Lario, a ovest dal comune di Albese con Cassano, a est dal comune di Erba. A sud vi è la vallata di Albavilla in cui scorre il fiume Cosia che, sulle pendici del Bolettone, ha le sue sorgenti.
In vetta, nel 1964, per opera del Gruppo Bolettone, è stata posizionata una croce a perenne protezione della vallata sottostante. Poco sotto la vetta vi è l'omonimo rifugio.
Il sentiero principale che conduce alla vetta parte dall'Alpe del Vicerè, risalendo le pendici del monte Broncino. Si tratta di un ampio e ripido sentiero che nel tratto iniziale è interamente all'interno del bosco, mentre nell'ultima parte, attraversa i prati presenti sulla sommità del monte. La vetta è raggiungibile in circa 60 minuti. Possibili varianti sono il sentiero che sale in vetta dalla Capanna Mara o il sentiero che sale dalla Capanna San Pietro (per chi proviene da Brunate, seguendo la Dorsale del Triangolo Lariano).

La diga di Leana è una diga ad arco-gravità in calcestruzzo costruita tra l'ottobre 1967 e il luglio 1968 nel territorio del comune di Albavilla lungo il corso del torrente Cosia.
In realtà ad inizio 1900 esisteva già uno sbarramento eseguito a scopo di accumulo acqua e approvvigionamento idrico del comune, ma negli anni sessanta, viene prevista la demolizione e ricostruzione con un nuovo sbarramento in calcestruzzo.
I lavori di costruzione del nuovo sbarramento in località Leana, lungo il corso del torrente Cosia, prendono il via nell'ottobre del 1967, vengono interrotti nella stagione invernale da fine novembre a marzo 1968, e vengono ultimati nel luglio 1968.
Lo sbarramento in calcestruzzo è di tipo ad arco-gravità, presenta un'altezza massima di 5m e crea un invaso artificiale di profondità massima 4m, per un'estensione di 850 m², con capacità del bacino di 1500m³.
Dall'invaso una condotta di adduzione porta l'acqua al comune di Albavilla.

Il lago di Alserio è caratterizzato dalla presenza di specie vegetali e animali tipiche delle zone umide: per quanto riguarda la flora, si segnalano ninfee, piante acquatiche e canneti, mentre le sponde sono caratterizzate da prati e boschi cedui. Per quanto riguarda la fauna, esistono numerose specie di anfibi e rettili, quali la rana, il rospo, le bisce d'acqua. Sulle rive sono presenti una notevole varietà di uccelli: svasso maggiore, germano reale, la gallinella d'acqua, e l'airone cinerino.

I boschi che circondano l'abitato, sono composti prevalentemente da alberi cedui come castagno, rovere, faggio, betulla, frassino, acero ma in alcune zone (Alpe del Vicerè), per opere di rimboschimento sono stati piantumati anche abeti, pini e larici.
Numerose specie di piante erbacee e di flora protetta, tipica di tutta la zona del Triangolo Lariano, tra i quali si ricordano: narciso, primula, giaggiolo, giglio, rosa gallica, campanula barbata, ciclamino delle Alpi, bucaneve, pungitopo.
Per quanto riguarda il narciso, in tempi non tanto lontani venivano organizzate delle vere e proprie raccolte (narcisate): al giorno d'oggi la raccolta è vietata, trattandosi di flora protetta.
Nel sottobosco, anche per chi non è un "Fungiatt" (in dialetto locale), o esperto cercatore di funghi, è possibile trovare funghi quali porcini o mazze di tamburo
Nei boschi, la fauna in cui a volte è possibile imbattersi, è rappresentata da lepri, piccoli roditori, scoiattoli, caprioli, cinghiali. Nelle zone più impervie anche rapaci, quali la poiana e il falco.
Per gli appassionati di trekking o di mountain bike, nei boschi sono disponibili dei percorsi di varie difficoltà, sia a partire dall'abitato e sia dalla zona dell'Alpe del Vicerè.

Il palazzo comunale è tornato nell'edificio di piazza Roma dal maggio 2010: dagli anni novanta infatti, la sede del municipio si trovava nella villa Giamminola, una villa acquisita dal comune negli anni settanta.
Per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, l'illuminazione notturna disegna un tricolore sulla facciata.
La Chiesa di San Vittore Martire è la chiesa principale dell'abitato.
Riguardo alla fondazione della Parrocchia di San Vittore Martire di Villalbese, non si hanno notizie certe, dato che i registri incominciano dalla seconda metà del XVI secolo: una cappella dedicata a "San Vittore Martire" esisteva da tempo, come dimostra uno scritto del 1398.
Parte di questa cappella era quella chiamata "Chiesa Vecchia", che fino all'inizio del Novecento esisteva perpendicolarmente dietro la "Chiesa Nuova" costruita nella prima metà del XVIII secolo; con l'ampliamento di quest'ultima, l'antica struttura è stata demolita nel 1914.
In seguito all'aumento della popolazione nel 1912-1913, si decide per l'ampliamento della struttura utilizzando le aree occupate dall'abside, dal campanile e dalle sacrestie della chiesa precedente "Chiesa Vecchia" e dal giardino e parte della casa parrocchiale che viene restaurata.
I lavori prendono il via nel 1914 e nel gennaio 1916 iniziano le celebrazioni delle prime funzioni religiose.
Nella struttura predomina lo stile rinascimentale: l'iconografia è a forma di croce, con i bracci laterali che terminano in absidi semicircolari, minori di quelli della navata longitudinale.
La cupola è di pianta poligonale e si appoggia su otto lesene. Nella seconda metà del XVI secolo, la chiesa aveva il campanile innestato in un fianco della facciata. Nel 1727 con la costruzione della nuova parrocchiale viene costruito anche il campanile della "Chiesa Nuova", situato sul lato opposto a quello della torre attuale. Nel 1917, ad ampliamento avvenuto, il nuovo campanile torna ad occupare la posizione a lato monte. il campanile ospita 8 campane ambrosiane in Sib2 della Barigozzi di Milano fuse nel 1950.

La Chiesetta di Santa Maria di Loreto risale all'epoca medioevale, ed è situata in posizione panoramica nella frazione di Molena.
Le sue origini risalgono al XII secolo come testimonia l'abside. Confrontando la vecchia iconografia con quella attuale, si nota una sostanziale diversità: doppia navata con due absidi affiancate nella parte terminale ed il campanile innestato al centro della facciata.
Il riadattamento dell'edificio così com'è oggi, si completa nella prima metà del XVII secolo. Nei secoli si sono susseguiti lunghi periodi di abbandono, fino a quando negli anni ottanta vengono completati i lavori di restauro.

La Chiesetta dei Santi Cosma e Damiano è situata nella frazione di Corogna, e risale alla fine del XIV secolo: presenta un'unica navata con abside semicircolare, con affiancato il suggestivo campanile medioevale.
Gli interventi di restauro risalgono al 1977 e al 1983 e hanno restituito alle facciate la veste originaria, con pietre squadrate a vista, in cui sono state scoperte due antiche finestrelle absidali, che erano state otturate.

I crotti sono delle costruzioni rurali "a volta", dal cui fondo in roccia fuoriescono getti di aria fresca, che mantengono la temperatura durante l'anno costante a 12 °C - 14 °C.
Le montagne di Albavilla sono un rilievo calcareo, con presenza di cavità e cunicoli originatisi in seguito al fenomeno del carsismo: in questi cunicoli circolano sia acqua che aria, ma nella maggior parte dei crotti è solo l'aria fresca a fuoriuscire, ad eccezione del crotto Italia dove fuoriesce anche acqua che viene raccolta in una vasca.

Situato nel centro storico del paese, la Foce (“Fous” in dialetto locale), è un antico lavatoio utilizzato in tempi passati per il lavaggio del bucato.
Un antico proverbio albavillese recita: “" Quand al vegn la Fous d'està, la stagion la va a maa. ", ad indicare che la stagione non era propizia se scorreva l'acqua nel periodo estivo.

La festa dei Crotti viene organizzata il primo e secondo weekend di ottobre, lungo le vie del paese un percorso passa per i vari crotti: visita dei crotti di Albavilla con possibilità di degustazione di prodotti tipici. All'evento si affiancano iniziative che variano di anno in anno: esposizione di attrezzi agricoli e dimostrazione delle attività agricole di un tempo, esposizione quadri, pizzi e merletti, vendita di prodotti tipici, servizio ristorazione.

Il Trofeo Jack Canali è una corsa podistica che si tiene ogni anno nel mese di maggio, con partenza dal centro del paese a quota 430 m s.l.m. e arrivo in vetta al monte Bollettone a 1320 m s.l.m.: 6,7 km su sentieri e mulattiere di montagna per un dislivello di 890 m.

“Camminata non competitiva sui sentieri del monte Bollettone”, che si tiene ogni anno nel mese di settembre: un anello di circa 12 km che dall'Alpe del Vicerè gira intorno al monte Bollettone: la prima parte del percorso porta alla baita Patrizi e alla bocchetta di Lemna, quindi sentiero dei faggi, e arrivo alla capanna Mara, con discesa fino al punto di partenza.

La Giubiana è una festa tradizionale della Lombardia, sentita specialmente in Brianza, nell'Altomilanese, nel varesotto e nel comasco che consiste nel mettere al rogo un fantoccio vestito di stracci; il rituale rappresenta simbolicamente la fine della cattiva stagione.

In paese sono presenti impianti sportivi sia pubblici e privati: si contano la palestra comunale e due palestre private, campetti da calcetto e da tennis, campo da calcio dell'oratorio e piscine all'aperto in struttura privata.
I numerosi sentieri presenti che si snodano a partire dal centro dell'abitato, permettono di praticare trekking e mountain bike, e nei mesi invernali, neve permettendo, ciaspolate, immersi nella natura del Triangolo Lariano.



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