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mercoledì 24 giugno 2015

SCHIGNANO



Schignano è un comune della provincia di Como ed è costituito da un insieme di frazioni, tra le quali la più grande e popolosa è quella di Occagno, che si incontra all'entrata del territorio comunale provenendo da Argegno sul Lago di Como. È posizionato nella Val d'Intelvi e il suo punto più alto si trova in corrispondenza della cima del monte Sasso Gordona, a 1.410 m s.l.m. L'abitato nelle sue varie frazioni è posto in una conca chiusa da altri monti: il Gringo, il Monte Comana, il Treviglio, il Pizzo della Croce (il più elevato con i suoi 1.491 metri), ed il Monte San Zeno

Nel territorio comunale è stata rinvenuta una spada in ferro con fodero, databile circa al 120 a.C., oggi visibile al Museo archeologico Paolo Giovio di Como.
Schignano è un bel paese montano ubicato ad un'altitudine di 650 mt s.l.m, circondato da una serie di monti che gli fanno da corona, come il monte Comana , il Sasso Gordona, il Crocione ed il Monte di San Zeno. Proprio per la sua ubicazione è meta turistica conosciuta ed apprezzata.Il paese è composto da una serie di frazioni sviluppate sulle pendici del Sasso Gordona: Occagno è la frazione più popolata, costituita da un antico borgo al cui interno si sviluppano una serie di viottoli lastricati che si aprono in piacevoli piazzette circondate da antiche case ristrutturate con i balconi fioriti. Ad Occagno si trova il Municipio, l'Ufficio postale, La Casa parrocchiale, la scuola materna e la scuola elementare.
Ad Occagno si trova la chiesa centrale di San Giovanni dove è costudita la statua della Pietà di epoca ottocentesca. Tutte le altre frazioni sono raggiungibili percorrendo una comoda strada comunale: Perla, Vesbio, Posa, Chignolo, Almanno, Retegno, Auvrascio ed in ultimo Molobbio.
Le montagne che s'innalzano alle spalle del paese, un tempo luogo di alpeggi e pascoli, oggi sono mete escursionistiche di facile accesso: da Schignano si sale a Posa in auto e da qui parte una mulattiera che in un'ora e mezza porta a Binate dove c'è un bel rifugio del CAI. La vetta del Sasso Gordona è un'altra interessante meta, dalla cui vetta si può ammirare un'ampio e bellissimo panorama.

Il paese è conosciuto per il suo carnevale, momento di festa e di allegria, che fino a qualche decennio fa segnava il momento di coloro che dovevano partire per i lontani luoghi di lavoro. La conclusione del carnevale per molti era il segnale che era giunto nuovamente il tempo di emigrare, per poi tornare solo verso la fine di novembre come recita un sapiente proverbio intelvese “A sant’Andrea, boia i can, vegn a cà tùc i maestràn”.

A Schignano, la manifestazione del carnevale si sviluppa secondo un modulo teatrale arcaico, quello della contrapposizione. Il rituale che va in scena è giocato sull’opposizione tra due diverse maschere, i Bèi e i brùt, i belli e i brutti. Sono questi gli attori principali di una rappresentazione incentrata su di una divisione sociale, la rivalità tra due anime antiche, ma ancori vitali, ma mai sepolto passato. Si recita su un palco costituito dalla piazza principale del paese, dai suoi vicoli interni e n on manca il pubblico in primo luogo la gente di Schignano, la quale ogni anno intravede ancora oggi nel carnevale le proprie radici culturali. A primo impatto la struttura teatrale appare rigorosa nei tempi e modi di svolgimento, ma al suo interno ci sono ampi spazi di libertà e di fantasia, nel senso che le maschere dei belli e soprattutto dei brutti hanno ampi margini interpretativi, consentendo a ciascuna maschera di liberare la propria immaginazione e di sprigionare il suo personale estro.

Il bello o meglio chiamato in schignanese mascarùn è il personaggio che attira la prima attenzione dello spettatore con i suoi atteggiamenti e la sua superba voglia di esibire se stesso, nello splendore del suo costume finemente confezionato da abilissime mani, ed ornato di tutto punto con pizzi foulards, collane ed ori quasi a voler far sembrare ancora più maestoso il gran pancione chiamato bùtasc che lo caratterizza, composto da bellissime stoffe dai colori forti, ha poi in testa un cappello rivestito da fiori variamente colorati e completato dai bindèi un fascio di nastri colorati che si allungano sulla schiena, completa poi il tutto la maschera nei suoi dolci e gentili lineamenti.

Il bello vuole apparire ed ostentare la sua ricchezza ed a rafforzare il tutto contribuisce anche il suo signorile modo di muoversi tra la gente e di rapportarsi con le altre maschere, si pavoneggia ed esibisce agli astanti oggetti per lo più inutili.  Ad annunciare il suo arrivo  e la sua presenza il suono delle bronze, 4 campane legate alla vita dall’argentino e piacevole suono.

Sono la sua superbia e la sua ostentata importanza che gli danno il ruolo del signore.

In totale contrapposizione al bello c’e il brutto, personaggio sgraziato e povero il suo costume è fatto di stracci, vecchie scarpe e cappelli deformati, indossa a volte tute da lavoro imbottite ed il suo pancione a differenza di quello del bello è cadente e deformato. Il suo è un andare incostante alle volte stanco ed alle volte frenetico quasi a ricercare una rivalsa sul bello che cerca sempre di relegarlo agli angoli, molte volte improvviso e quasi sempre imprevedibile. La maschera ha i lineamenti molto forti e marcati alle volte ne esalta le malformità con bocche storte, denti mancanti o nasi sproporzionati, con coloriture forti per lo più nere. Porta con sé oggetti strani e malfunzionanti, scope, gerle, alle volte l’abito è finito da pelli animali a sottolinearne ancor di più la miseria, ma l’oggetto più ricorrente è la valigia  con dentro poche cose vecchie, stancamente e tristemente portata come quella dell’emigrante. Lo si sente arrivare al suono delle “cioche” campanacci mal suonanti fatti di ferraglia, con un suono poco gradevole e alle volte sordo.

Tra questi due personaggi apparentemente nemici, ma che celano sotto la maschera una complicità che li rende inseparabili, si pone spesso la “ciocia”,ciocia_e_bel un personaggio femminile ma interpretato da un uomo, moglie e serva del mascarùn, tenuta legata e tirata con una corda, porta con sé una cesta dove tiene un po’ di lana con il fuso e la rocca, gli antichi attrezzi che si usavano per filare la lana, a testimoniare il suo continuo ed incessante lavoro anche quando costretta dal bello lo deve seguire. Il suo costume consiste nei poveri vestiti che caratterizzavano gli abiti delle donne di un tempo, calze di lana, gli zoccoli, la sottana una gonna lunga ed una camicia, lo scialle di lana e il fazzoletto in testa; è l’unica maschera parlante del carnevale, ed il suo è un continuo inveire contro il marito, il bello, che da sempre la tiene costretta, e gli ricorda che se lui è ricco è grazie a lei, ma lui nonostante i continui lamenti continua a trascinarsela, corteggiando le altre donne prendendola in giro e mostrandola quasi come un trofeo, ed ogni tanto grazie all’incursione dei brutti che d’improvviso la rubano al bello vive brevissimi ed effimeri istanti di libertà.

Ci sono poi i “sapor” due personaggi vestiti di lunghe pelli di pecora con in testa un cappello conico sempre di pelli di pecora, hanno lunghi baffi e portano con se una borraccia e un’ascia di legno. Il loro ruolo è quello di aprire e guidare il corteo, con passo marziale da gendarmi. In mezzo a loro con il compito di sorvegliare il corteo c’è la “sigurta” , la sicurezza, porta un cappello militare, ed indossa una mantella sopra la quale pone una fascia con la scritta “sigurta”. Conosce le persone mascherate e per loro garantisce.

Al di fuori delle maschere più prettamente tradizionali salina altre maschere e ci sentiamo di riproporre una comune frase che riassume lo spirito carnevalesco schignanese” Per la gente di Schignano andare in maschera è un fatto istintivo. Uno va a casa, rovescia la giacca, si tinge un po’, mette un  cappello al rovescio ed è in maschera”.

Un momento importante, soprattutto per i belli, è la vestizione.  Si incomincia all’alba, i primi incominciano alle quattro di mattina per essere pronti verso le sette, e qui le donne più brave svolgono il loro fondamentale compito nascosto cucendo e ricamando.

Si incomincia indossando un paio di pantaloni ricavati con una stoffa colorata con motivi floreali dai toni forti, calze di lana e scarpe pesanti e se è il caso anche le ghette, perché il carnevale si svolge con ogni condizione di tempo. Vengono poi sistemate in vita le quattro bronze, quattro campane legate con nodi, ad un’unica corda, sistemate in modo da risultare due davanti e due dietro, la corda viene poi passata sulle spalle incrociandola in modo da scaricare il peso, circa 8 chili, su di esse. Ora bisogna passare alla parte più importante ed impegnativa, la costruzione del butasc. Si indossa una gonna che viene risvoltata all’insù e cucita all’altezza delle spalle, lasciando due aperture per le braccia; la gonna viene poi riempita con foglie di faggio. Bisogna ora abbellire la pancia, cucendo foulards in modo da ricoprirla quasi totalmente per poi appuntarci sopra centri ricamati, pizzi e della bigiotteria, va qui ricordato che un tempo si usavano gli ori di famiglia.

Alla base del pancione quasi a nascondere le bronze, viene cucita una balza di pizzo.

Si infilano ora sulle braccia i “manazìn”, delle mezze manica di lana colorata lavorate a mano, fermate all’altezza del gomito con dei lacci infiocchettati.

Si infila la maschera, si indossa il cappello con due lacci che penzolano dalla tesa che servono per essere annodati sotto il naso della maschera, sostenendola e fissandola al viso.

Molto meno impegnativa la vestizione del brutto, si indossano un paio di vecchi pantaloni si legano i campanacci in vita si costruisce il butasc che non deve avere una forma precisa, si cuciono qualche straccio, maschera cappello ed è fatta.

Coma già detto il carnevale comincia di prima mattina, ed è il bello che con la lanterna gira le vie del paese quando è ancora buio, e con le sue bronze annuncia il carnevale. Con la luce si incontra anche qualche brutto e si è gia ne vivo.

Nel primo pomeriggio ci si ritrova tutti in piazza San Giovanni. Qui sulla facciata della casa opposta alla chiesa è appeso seduto su una sedia il “Carlisep”, personaggio centrale che entrerà in scena alla fine del corteo. Qui a far compagnia alle maschere c’è la fughèta”, un gruppo di sei sette strumenti a fiato che riscaldano il clima.

Intanto nelle vie superiori si radunano i brutti, attendono il momento propizio per piombare insieme sulla piazza scompigliando e creando confusione. La sigurta e i sapor seguiti dalla bandella s’incamminano e formano il corteo mascherato che si dirige verso la frazione di Retegno prima e Auvrascio poi. Durante il tragitto le maschere continuano a inscenare i loro teatrini, a volte riposano, si tolgono la maschera per poi riprendere con il ritmo. Il corteo fa poi ritorno in piazza San Giovanni.

Intanto il Carlisep, è stato rimosso. Questo fantoccio è  la personificazione del carnevale, la sua maschera è quella di un brutto.

Si tratta ora di andare a riprenderlo, quindi il corteo infila le vie di Occagno che portano in Cima, la parte più alta della frazione. Qui entra in gioco il Carlisep che ora non è più un fantoccio ma una persona, in genere un coscritto che tra dicembre e gennaio ha festeggiato la vegèta, e sdraiato su una scala portata in spalla dagli altri coscritti scende nella piazzetta di cima. Incomincia una fase frenetica del carnevale, le maschere si muovono con più frenesia, e la ciocia si lamenta di questa morte, dando la colpa al bello, che intravede la fine del carnevale.

Il corteo è tornato ora in piazza della chiesa, e lungo la piazza tra la gente si apre un varco; poi all’improvviso il carlisep balza in piedi e per evitare il rogo, scappa attraverso la piazza inseguito dalle maschere. Ripreso e riportato al punto di partenza, tenta una nuova fuga ma alla fine è definitivamente ripreso. La seconda volta viene risostituito con il fantoccio che viene portato al salone del Carpigo per il ballo serale sulle note della fughèta. Verso le 23.30 ricompaiono i belli con la tradizionale lanterna, si riforma il corteo che riporterà per mano dei coscritti il Carlisep in piazza San Giovanni, dove viene deposto al centro della piazza e improvvisamente gli viene dato fuoco,  ci si abbassa ora la maschera, il carnevale è finito.

Caratteristica molto importante del carnevale di Schignano sono le maschere lignee, portate sul volto per nascondere l’identità e completare il travestimento. Sono uniche e vere opere d’intaglio, realizzate per mano di artisti locali in genere comuni persone che per passione si sono cimentate a scolpire le maschere di legno. Nello svolgimento del carnevale, tutte le figure ne portano rigorosamente una di legno. Si possono quindi individuare due tipologie di maschere: quella del “bello” e quella del “brutto”, dai caratteri significativamente diversi. Sono maschere che avvolgono completamente il viso di chi le porta perché molto incavate e ruotano nelle fattezze generali attorno alla realizzazione del naso.

Quella del bello è molto curata nella lavorazione e di frequente esprime un senso di distacco rispetto a ciò che sta attorno oppure tradisce una vena di ironia per cui chi la osserva può sentirsi a disagio.

Contribuisce molto a creare tale effetto la cavità degli occhi e soprattutto il disegno delle labbra, sempre finemente delineate, leggermente aperte. Rughe ben marcate sulla fronte, agli angoli della bocca attorno agli occhi, completano la rappresentazione molto realistica di un viso.

La maschera del brutto è giocata su di una maggiore durezza dei lineamenti, ma soprattutto a volte su di una maggiore deformazione del viso, nel senso che il naso può essere sproporzionato, storto, gli occhi non simmetrici, la bocca più aperta e storta. Ad accentuare il suo carattere a volte inquietante e a volte addirittura pauroso, è poi il colore: nero, verde bruno.

Il legno più frequentemente usato è il ceppo di noce in quanto è meno duro ma soprattutto non scheggia. Il tempo necessario per realizzare una maschera si calcola attorno alle 50-60 ore. Si incomincia il lavoro seduti sulla cavra, una sorta di cavalletto con sedile e una smorza di legno per bloccare la maschera in lavorazione, poi coi vari attrezzi si procede nella lavorazione.



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domenica 3 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO DI VARESE : GAVIRATE

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Gavirate  è un comune italiano della provincia di Varese in Lombardia disposto lungo le rive del Lago di Varese, a cui un tempo dava il nome, in posizione quasi di controllo, è una cittadina dalle origini antichissime.

Oltre alle frazioni maggiori, Voltorre e Oltrona al Lago, comprensiva della località Groppello, che fino al 16 settembre 1927 erano comuni autonomi, Gavirate ha al suo interno ben quattro nuclei cittadini indipendenti: Armino, Pozzolo, Fignano e Gavirate .

Per quanto riguarda l’etimologia del nome del comune sono state formulate diverse ipotesi. Secondo alcuni esso risalirebbe a origini latine, per altri avrebbe origini celtiche. Il paese risulta indicato con il termine Gavirado in un documento del re longobardo Liutprando, databile 713, con “Guairà” in riferimento al casato di Carlo V (1558), con “Guirate” relativamente al casato di Maria Teresa d'Asburgo (1722).

Il territorio gaviratese fu abitato fin dal VII millennio a.C., come dimostrato dai ritrovamenti palafitticoli sulle rive dell’odierno lago di Varese. L'area dell'odierno comune venne sottoposta al dominio gallico a partire dagli inizi del IV secolo a.C. e nel corso del II secolo a.C. venne occupata dai romani, divenendo parte della provincia della Gallia Cisalpina nell’89 a.C.

Relativamente al periodo alto medievale è importante il ritrovamento di un diploma dell'anno 713 in cui il re longobardo Liutprando ha legato il borgo di Gavirate al monastero di San Pietro in ciel d'oro di Pavia. Per quanto riguarda il periodo basso medievale risulta rilevante, nel XII secolo, l’insediamento di alcuni monaci dell’ordine monastico Fruttuariense nel chiostro Voltorre.

Gavirate, a partire dal 1500, come tutto il Ducato di Milano, fu interessato da saccheggi e dalle invasioni di truppe mercenarie durante il conflitto franco-spagnolo. Nel XVI secolo, in seguito alla diffusione delle peste bubbonica, venne edificato un sito, il lazzaretto, in cui venivano seppellite le vittime dell’epidemia.

Gavirate, dopo la morte del re di Spagna Carlo II e il successivo trattato di Rastadt del 1714, passò dalla dominazione spagnola a quella austriaca. Durante questo periodo, significativo è il governo di Maria Teresa d'Asburgo, nel corso del quale si ebbe una rilevante ripresa socio-economica, incentivata anche dalla creazione del primo catasto della zona. Il Governo Napoleone fece di Gavirate un centro di aggregazione distrettuale, attettendogli buona parte dei comuni confinanti, ma l'esperimento ebbe bruscamente fine nel 1815 col ritorno degli austriaci. Fu proprio l'amministrazione tedesca ad autorizzare l'elezione del primo Consiglio Comunale nel 1824.

Nel 1927 il comune, parte della provincia di Como, passa alla provincia di Varese.

Il mercato di Gavirate risale alla prima metà del secolo XVI. Il 20 giugno 1539 Carlo V concesse al signore di Brebbia e di Gavirate il diritto di istituire un mercato ogni venerdì, con le esenzioni e i privilegi connessi. Le ragioni di tale concessione vanno ricercate nel fatto che gli spagnoli volevano "risarcire" il territorio gaviratese, danneggiato a causa delle razzie connesse al conflitto franco-spagnolo.

Gli anni successivi videro un'espansione del mercato, che, nella seconda metà del XVI secolo, divenne centro di scambio commerciale per bestiame e prodotti agricoli per tutta l'area circostante; in particolare in esso si tenevano, due volte l'anno, nei mesi di luglio e ottobre, le fiere.

Il mercato si tiene ancora oggi al venerdì, come vuole la tradizione.

La chiesa parrocchiale di San Giovanni Evangelista conserva un artistico organo del 1901, opera di Vincenzo Mascioni di Azzio.

All'inizio degli anni '80 il Comune ha deciso di ristrutturare la Villa De Ambrosis, che aveva acquisito nel 1974. La ristrutturazione della splendida villa, situata non lontano dal Municipio e costituita da un elegante quadriportico, ha dato vita alla nuova sede della biblioteca comunale, inaugurata nel 1997.

Nell'ampia struttura è stato ricavato uno spazio da adibire a Sala Consiliare. La sala, ampia e luminosa, predisposta per le sedute del Consiglio Comunale, ha una capienza di circa 100 posti e ospita importanti incontri. Si tengono, per esempio, concerti, incontri con autori, conferenze, reading, letture animate per bambini, esposizioni, mostre e iniziative culturali di vario genere.

Il Parco Morselli sorge nelle vicinanze della chiesa della Santissima Trinità ed è così chiamato in memoria dello scrittore Guido Morselli, che donò il terreno al Comune di Gavirate. Vi si trovano una zona giochi per bambini, un’area pic-nic ed un percorso ginnico. Spettacolare è il panorama visibile dal punto più alto del Parco, dove è possibile ammirare il Lago di Varese, le Alpi piemontesi e le Prealpi varesine.
Il museo della pipa è il primo museo della pipa in Italia, costruito verso la fine degli Anni Settanta da Alberto Paronelli, il quale decise di esporre i numerosi pezzi raccolti durante i suoi viaggi all'estero. Oggi la parte espositiva conta una decina di sale, attrezzate con circa 30.000 pezzi, che comprendono pipe, utensili, macchinari, volumi cartacei, porcellane e terrecotte. Tra le più significative collezioni si ricordano pipe precolombiane del Messico e dell'America Centrale, pipe francesi e pipe scolpite a mano. All'interno di questo museo è inoltre possibile prendere parte a incontri, scambi culturali e dibattiti con gli esperti in questa materia.

Il Chiostro di Voltorre in Gavirate, proprietà della Provincia di Varese dalla fine degli anni Settanta, è situato lungo una delle direttrici di penetrazione tra il nord Europa e il Contado del Seprio, verso Milano.
Nel Medioevo il Chiostro era cuore di un complesso monastico fiorente, avamposto nelle Prealpi della riforma benedettina promossa da Guglielmo da Volpiano, fondatore della potente Abbazia di Fruttuaria, da cui Voltorre dipendeva nel XII secolo. Le prime notizie sull'esistenza dell'ecclesia Vulturni risalgono, infatti, a un privilegio pontificio rilasciato nel 1154 all'Abbazia di San Benigno di Fruttuaria, nonostante la chiesa, dedicata a San Michele - il cui culto era largamente diffuso nel Medioevo, grazie all'impulso impresso dalla devozione longobarda - fosse stata sicuramente edificata in epoca precedente. Una recente campagna archeologica ha infatti individuato quanto resta delle fondamenta di due absidi, databili rispettivamente al V e VI secolo, sulle cui rovine fu edificata la chiesa romanica, risalente alla fine dell'XI secolo. Di dimensioni ridotte, è composta di una sola navata, con abside semicircolare, ornata da una cornice di archetti pensili, caratteristici del linguaggio romanico; la facciata, invece, risistemata in epoca successiva, non porta memoria del passato medievale.

In posizione disassata rispetto alla chiesa, si erge la torre campanaria, sorta intorno al XII secolo. Il massiccio volume quadrangolare, rifinito agli angoli, come di consueto, con conci di pietra di ampia dimensione, è alleggerito da alcune feritoie e monofore e da un'ampia cella campanaria, nella quale era collocata una campana tardomedievale firmata da Magister Blasinus di Lugano.

Il corpo di fabbrica principale è costituito dal chiostro. Esso è collocato dietro la chiesa - la cui abside venne parzialmente inglobata nel perimetro del chiostro stesso - e risulta orientato su un asse lievemente diverso, formando un quadrilatero irregolare. Appare citato per la prima volta nel 1202, in un'epoca assai florida nella storia del priorato: la sua costruzione, protrattasi per alcuni anni, come suggerito dalle lievi differenze stilistiche, doveva essere assai recente. Basandosi sui caratteri architettonici dei diversi lati si può presumere che la costruzione sia cominciata da quello occidentale - che presenta stilemi più arcaici - proseguendo con quelli meridionale e orientale, per concludersi con il lato settentrionale, che si mostra più progredito, nell'uso del cotto e degli archi a tutto sesto, in sostituzione della trabeazione.

La costruzione del chiostro è legata allo scultore locale Lanfranco da Ligurno, vissuto alle fine del XII secolo e impegnato anche nel cantiere della chiesa di S. Maria del Monte a Velate. La sua firma, infatti, compare su un capitello del lato orientale accompagnata dal termine "magister", particolare che induce a ritenerlo il progettista dell'intero chiostro. I capitelli sono caratterizzati da una grande varietà di forme e decorazioni - che spaziano dalle tipologie più elementari ad altre di tipo complesso, con motivi geometrici, stilizzazioni del mondo vegetale, protomi umane o animali, esseri fantastici - anche se nel complesso si possono ricondurre ad una matrice unica, risalente al tardo romanico lombardo e alla versione che ne diedero i Maestri Comacini.

La comunità monastica insediata a Voltorre osservava la Regola di San Benedetto ed era governata da un priore nominato dagli Abati di Fruttuaria, che ne controllavano e regolavano, oltre alla vita religiosa, l'attività economica e amministrativa. I priori di Voltorre rivestirono per oltre un secolo e mezzo un ruolo rilevante nella zona, compiendo per conto degli abati visite periodiche ai monasteri soggetti, per giudicare, sanzionare, ricevere giuramenti di obbedienza e riscuotere i censi. Nella prima metà del XIII secolo, all'apice della sua storia, la comunità era piuttosto numerosa, composta da oltre venti persone tra monaci e conversi (laici impegnati a lavorare per il monastero). In seguito il numero cominciò a diminuire, finché alcuni documenti del XV secolo rivelano che la comunità non superava ormai i due o tre membri.

Nel 1333 l'assegnazione in commenda - il commendatario era estraneo alla vita monastica e non risiedeva in loco - del priorato di Voltorre segnò, come di consueto, la sua lenta decadenza. Il commendatario Alessandro Sforza lo cedette così, nel 1519, al pontefice Leone IX, che a sua volta lo attribuì ai Canonici Lateranensi - un ordine di chierici che osservava la regola agostiniana - di Santa Maria della Passione, i quali trasformarono Voltorre in una vera e propria azienda agricola. La loro gestione portò a Voltorre rinnovato vigore: in particolare, grazie all'opera del canonico Raffaele Appiani, ricordata da un'epigrafe del 1640, furono messe in opera svariate sistemazioni, tra cui quelle del terreno digradante verso il lago e della corte rurale, che fu estesa intorno agli edifici del monastero, per meglio supportare la funzione ormai preponderante del complesso. Tra Seicento e Settecento venne inoltre ristrutturata la chiesa, che fu sopraelevata, ingrandita con l'aggiunta di una cappella e dotata di una nuova facciata e di un apparato decorativo barocco.

Nel 1798, nell'ambito della politica d'espropriazione dei beni appartenenti ai latifondi monastici, il governo francese tolse il beneficio ecclesiastico, mettendo in vendita il chiostro e gran parte degli edifici circostanti. Gli atti catastali degli anni successivi evidenziano un continuo frazionamento del complesso, che perde completamente la sua unitarietà, diventando residenza rurale e deposito di attrezzi agricoli di privati cittadini.

Verso la fine del XIX secolo si cominciò a comprendere il valore dell'intero complesso e alla sorte di Voltorre si interessarono numerosi esponenti del mondo della cultura, dall'architetto Luca Beltrami al pittore Luigi Conconi, allo scultore Ludovico Pogliaghi, i quali si adoperarono per avviare una campagna di restauri. Cominciarono così nei primi anni del Novecento numerose trattative tra la Soprintendenza e i proprietari delle varie porzioni del chiostro, per eseguire opere di manutenzione. Nell'ottobre del 1913, però, a causa di un improvviso incendio che provocò gravi danni alle strutture claustrali e la distruzione di parte dei capitelli e delle colonnine, le trattative si interruppero, per riprendere nel dopoguerra, quando lo Stato riuscì finalmente ad acquistare una parte del chiostro e, nel 1929, a cominciarne il restauro. Nel 1954 la Provincia di Varese comprò una parte del monumento e nel 1978 entrò in possesso della restante porzione, grazie all'affidamento della quota appartenente al Demanio.

Oggi il chiostro, completamente restaurato, è sede di attività culturali ed espositive legate alla sua storia e all'arte contemporanea.

Dal punto di vista geologico il territorio su cui sorge Gavirate è costituito in gran parte da roccia calcarea sedimentaria di origine marina, stratificatasi nel corso dell’era mesozoica. Sollevamenti tettonici successivi - era cenozoica - hanno dato origine, nell’ambito del più vasto fenomeno dell’orogenesi alpina, all’attuale massiccio del Campo dei Fiori, alle cui pendici si trova Gavirate. La parte più bassa del territorio che si affaccia sul lago ed è sede delle frazioni di Voltorre e Oltrona, è costituita perlopiù da detriti alluvionali, portati dai movimenti dei ghiacciai nell’era quaternaria. Altra rilevante caratteristica geologica è rappresentata dal carsismo. Le rocce ricche di calcare sono facilmente erose dall'azione sia meccanica che chimica dell'acqua: in esse, col passar degli anni, si creano grotte, gallerie e anfratti che presentano le tipiche caratteristiche ipogee del territorio carsico, ovvero stalattiti e stalagmiti. Il torrente Tinella, situato nella zona compresa tra Benedetto di Oltrona-Groppello e la strada comunale, ha dato così origine al tunnel denominato “Ponte del Diavolo”, una galleria carsica lunga 18 metri. La galleria è preceduta da una cascatella con cui il torrente Molina confluisce nel Tinella.

La fauna e la flora sono una fusione di quella tipica lacustre e boschiva. La fertile zolla del territorio gaviratese è in superficie ricca di humus, ciò permette la crescita di piante ad alto fusto come castani, betulle, faggi, ontani neri, querce, acacie, frassini, ciliegi e noccioli nei pendii più bassi. Nel sottobosco sono presenti fiori delicati come l'anémone epatico, il ciclamino, il bucaneve, l'ellèboro, il garofano, l'iris, il mughetto, la potentilla e il narciso; comuni sono anche i funghi porcini, i finferli e la velenosa amanita falloide. Avvicinandosi alle rive del lago, tra le specie più caratteristiche si possono trovare canneti, ninfee, nannuferi, millefogli d’acqua e castagne di lago. Per quanto riguarda la fauna, il territorio del Campo dei Fiori ospita una certa quantità di mammiferi quali ad esempio ermellini, faine, donnole, puzzole, lepri, ricci, scoiattoli, pipistrelli, tassi e volpi. Vi sono poi numerosi uccelli stanziali, come gazze, tarabusini, cormorani, nibbi bruni, cigni, starne, germani reali, folaghe; e migratori, come allodole, beccacce, averle, storni, tordi, e capinere. La fauna ittica è costituita da specie più comuni quali il carassio, la scardola, il luccio, il pesce gatto, il lucioperca, il pesce persico e il siluro che, pur essendo una specie non originaria del luogo, è ormai molto comune. Il siluro non è l’unica specie invasiva presente. Si deve notare per esempio che il gambero rosso proveniente dalla Louisiana ha soppiantato il gambero autoctono, andando a modificare l'ecosistema. Tra le specie tipiche del lago troviamo anche la rana verde, la raganella, la rana di Lataste, la natrice dal collare, il gerro, la libellula imperatore, la damigella e il ditisco.

Gavirate offre diversi esempi di progetti ecologici. Tra questi spicca per importanza la divisone tra acque chiare e acque scure dei canali fognari, che permette una migliore depurazione idrica (ordinanza comunale n°L.152/99). Un’altra disposizione del comune prevede che tutte le nuove abitazioni dovranno essere dotate di un impianto fotovoltaico, che permetta una parziale autosufficienza. Questo progetto è stato attuato anche dal centro commerciale gaviratese “Campo dei Fiori”, che ha implementato pannelli fotovoltaici sul tetto della struttura, in modo da fornire più della metà dell’energia elettrica necessaria per la sua operatività. In conformità con questo ideale ecologico è stata anche realizzata CasaKyoto. Il suo basso consumo energetico è garantito, per esempio, da: recuperatori di calore ad elevata efficienza, diversi strati di cappotto isolante di ultima generazione abbinati a vetrate isolanti basso-emissive, pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua e celle fotovoltaiche.

Durante il periodo del Carnevale si svolge una sfilata di carri allegorici e maschere. La sfilata rende omaggio a Re Scartozz, personaggio legato ad una antica leggenda gaviratese.

La festa della zucca si svolge nel mese di ottobre sul lungolago di Gavirate. In occasione di questo evento vengono esposte zucche, trattori d'epoca e vecchi attrezzi agricoli.

Nel mese di luglio la ProLoco di Gavirate organizza varie giornate dedicate alla musica rock e metal, con la tradizionale festa del Liffrock e Balabiott.

La mostra dei presepi, allestita all'interno di un vagone ferroviario, raccoglie numerose opere costruite con diversi materiali e realizzate da esperti, per ripercorrere la storia della natività in tutto il mondo. La mostra vede la collaborazione del Comune di Gavirate e di FerrovieNord.

Il Raduno nazionale della Vespa Piaggio raggruppa da tutta Italia i possessori di questo mezzo. Il raduno, che generalmente avviene nel mese di luglio, prevede un percorso a tappe nei comuni limitrofi. Il percorso termina a Gavirate con una premiazione.

Nel mese di agosto vengono realizzati vari spettacoli pirotecnici.

Nel comune di Gavirate sono presenti un centinaio di società produttive, di cui un piccolo numero di livello industriale, un numero più ampio di dimensione artigianale (piccole e medie imprese). Il settore secondario comprende aziende attive nei campi: alimentare, chimico, manifatturiero, metallurgico, meccanico ed edile. Per quanto riguarda il settore terziario degne di nota sono l'emittente televisiva Telesettelaghi, aziende di elaborazione informatica e diversi istituti di credito. Accanto a questi due settori, l'agricoltura e l'allevamento sono ancora praticati sul territorio. Il primo gennaio 2007 il comune di Gavirate è entrato a far parte del progetto "Competitività regionale e occupazione", che, con l'aiuto di fondi comunitari, ha lo scopo di aumentare l'occupazione e la concorrenza nel mercato del lavoro.

L'European Training Center (ETC), gestito dall'Australian Sports Commission, situato nel comune di Gavirate, fornisce supporto per diversi sport, tra cui canotaggio, canoa, kayak, ciclismo, calcio, vela, beach volley, pallacanestro, nuoto, triathlon, rugby, golf e tennis. Si tratta di un centro sportivo destinato all'allenamento degli atleti olimpici australiani. La provincia di Varese è stata scelta dagli atleti australiani per le sue buone condizioni climatiche, per la vicinanza all'aeroporto di Malpensa e per la presenza di numerose strutture sportive.

Era il 1960 quando la Canottieri IGNIS cominciò a solcare le acque del Lago di Varese. La Canottieri Gavirate è tra le prime società nazionali sia per la stima a livello federale sia per i risultati nel proprio settore agonistico. Atleti provenienti dalla società gaviratese hanno partecipato a:

Giochi olimpici
Sidney 2000: Giovanni Calabrese nel doppio senior;
Atene 2004: Elia Luini nel doppio pesi leggeri;
Giochi Paralimpici
Pechino 2008: Graziana Saccocci e Alessandro Franzetti.

L'Atletica Gavirate è una società nata nel 1991 con l'idea di realizzare un gruppo amatoriale giovanile che portasse l'atletica nel territorio comunale. Il gruppo è composto da circa 100 atleti iscritti nelle varie categorie e nelle seguenti discipline: corsa di velocità, corsa di mezzofondo, corsa ad ostacoli, salto in lungo, salto in alto, getto del peso, tiro del giavellotto, del vortex e lancio del disco e del martello.

Il Gavirate Calcio, fondato nel 1992, milita da parecchi anni nel calcio dilettantistico. Attualmente la prima squadra sta affrontando il campionato di Promozione. La società vanta un ricco settore giovanile per ogni fascia d'età.

La pista ciclopedonale del Lago di Varese, realizzata intorno allo stesso lago, comprende i comuni di: Gavirate, Varese, Buguggiate, Azzate, Galliate Lombardo, Bodio Lomnago, Cazzago Brabbia, Biandronno e Bardello. La pista è lunga 28,1 km e presenta una pendenza media inferiore al 5%; è stata recentemente collegata con la pista ciclopedonale del Lago di Comabbio. Da qualche anno i comuni sopracitati prendono parte al progetto "Abbracciamo il lago", nel tentativo di entrare nel Guinness dei Primati. In questo evento, che vede la partecipazione di residenti e turisti, si cerca di ricoprire l'intera lunghezza della pista tenendosi per mano.

Persone legate a Gavirate:
Francesco Besozzi, notaio in Milano, committente al Luini degli affreschi della Cappella Besozzi nella Chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore in Milano, nativo di Gavirate;
Giuseppe Ferrari, filosofo, deputato di Gavirate al Parlamento del Regno d'Italia;
Guido Morselli, scrittore;
Gildaldo Bassi, fotografo;
Gianni Rodari, scrittore;
Franco Cassano, musicista e compositore;
Manuel De Peppe, attore, cantante, musicista e compositore;
Renato Guttuso, pittore;
Elia Luini, campione del mondo di canottaggio;
Giuseppe Scalarini, vignettista;
Tamara Donà, conduttrice televisiva e radiofonica;
Maria Volpi Nannipieri, in arte Mura, scrittrice.
Cameron Wurf, ciclista e campione del mondo Under 23 di canottaggio.



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domenica 15 febbraio 2015

QUARESIMA tempo di riflessioni e sacrifici



La quaresima è uno dei tempi forti che la Chiesa cattolica e altre chiese cristiane celebrano lungo l'anno liturgico. È il periodo di quaranta giorni che precede la celebrazione della Pasqua; secondo il rito romano inizia il mercoledì delle Ceneri e si conclude il Giovedì Santo, mentre secondo il rito ambrosiano parte dalla domenica successiva al Martedì Grasso fino alla Veglia Pasquale. Tale periodo è caratterizzato dall'invito alla conversione a Dio. Sono pratiche tipiche della quaresima il digiuno ecclesiastico e altre forme di penitenza, la preghiera più intensa e la pratica della carità. È un cammino di preparazione a celebrare la Pasqua, che è il culmine delle festività cristiane.

Ricorda i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto dopo il suo battesimo nel Giordano e prima del suo ministero pubblico. È anche il periodo in cui i catecumeni vivono l'ultima preparazione al loro battesimo.
Si dice abitualmente che la durata della quaresima è di quaranta giorni: in realtà il calcolo esatto arriva (nel rito romano) a quarantaquattro giorni. Alla fine del IV secolo, e ancora oggi nel rito ambrosiano, la quaresima iniziava di domenica (1º giorno), durava cinque settimane complete (5x7=35 giorni) e si concludeva il giovedì della settimana santa (altri cinque giorni), per un totale di quaranta giorni esatti. Poi alla fine del V secolo l'inizio venne anticipato al mercoledì precedente la prima domenica (altri quattro giorni), e furono inclusi il Venerdì Santo e il Sabato Santo nel computo della quaresima: in tutto quarantasei giorni. Ciò era dovuto all'esigenza di computare esattamente quaranta giorni di digiuno ecclesiastico prima della Pasqua, dato che nelle sei domeniche di quaresima non era (e non è) consentito digiunare. Con la riforma del Concilio Vaticano II il Triduo Pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo ha riacquistato una sua autonomia liturgica, e il tempo di quaresima termina nel rito romano con l'Ora Nona del Giovedì Santo. Per questo oggi la quaresima dura dal Mercoledì delle Ceneri fino al giovedì santo, per un totale di quarantaquattro giorni; i giorni di penitenza prima della Pasqua restano però ancora 40. Per il rito Ambrosiano la quaresima inizia la domenica dopo il Mercoledì delle Ceneri romano e termina anch'essa con l'Ora Nona del Giovedì Santo per un totale di quaranta giorni esatti, a ricordo dei giorni di digiuno di Gesù nel deserto. Nella determinazione della durata ebbe grande peso il numero quaranta che ricorre nell'Antico Testamento molte volte.

La durata della quaresima richiama numerosi eventi dell'Antico Testamento:

i quaranta giorni del diluvio universale
i quaranta giorni passati da Mosè sul monte Sinai
i quaranta giorni che impiegarono gli esploratori ebrei per esplorare la terra in cui sarebbero entrati
i quaranta giorni camminati dal profeta Elia per giungere al monte Oreb
i quaranta giorni di tempo che, nella predicazione di Giona, Dio dà a Ninive prima di distruggerla.
Anche nel Nuovo Testamento è possibile trovare simili analogie, in particolare:

i quaranta giorni che Gesù passò digiunando nel deserto
i quaranta giorni in cui Gesù ammaestrò i suoi discepoli tra la resurrezione e l'Ascensione.
Un altro riferimento significativo è rappresentato dai "quaranta anni" trascorsi da Israele nel deserto.

Il carattere originario della quaresima fu riposto nella penitenza di tutta la comunità cristiana e dei singoli, protratta per quaranta giorni.
Nella chiesa primitiva la celebrazione della Pasqua era anticipata da uno o due giorni di digiuno. Tale digiuno sembra fosse orientato non tanto alla celebrazione pasquale quanto all'amministrazione del battesimo che pian piano veniva riservata alla veglia pasquale. La prassi del digiuno era indirizzata innanzitutto ai catecumeni e poi estesa al ministro del battesimo e a tutta la comunità ecclesiale. Tale digiuno non aveva scopo penitenziale ma ascetico-illuminativo.

In questo periodo a Roma la domenica precedente la Pasqua era denominata "Domenica di passione" e nel Venerdì e Mercoledì di questa stessa settimana non si celebrava l'eucaristia. L'estensione del digiuno per tutta la settimana precedente la pasqua è certa solamente per la Chiesa di Alessandria.

Di tale consuetudine è testimone uno storico del V secolo, Socrate. Durante queste tre settimane si proclamava il vangelo secondo Giovanni. La lettura di questo testo è giustificata dal fatto che esso è ricco di brani che si riferiscono alla prossimità della pasqua e alla presenza di Gesù a Gerusalemme.

Questa preparazione prolungata fu motivata dalla prassi penitenziale. Coloro che desideravano essere riconciliati con Dio e con la Chiesa iniziavano il loro cammino di preparazione nella prima di queste Domeniche (più tardi verrà anticipata al Mercoledì immediatamente precedente) e veniva concluso la mattina del Giovedì santo, giorno in cui ottenevano la riconciliazione. In tal modo i penitenti si sottoponevano a un periodo di preparazione che durava quaranta giorni. Da qui il termine latino Quadragesima. I penitenti intraprendevano questo cammino attraverso l'imposizione delle ceneri e l'utilizzazione di un abito di sacco in segno della propria contrizione e del proprio impegno ascetico.

Verso la fine del V secolo, ha inizio la celebrazione del mercoledì e del venerdì precedenti la quaresima come se ne facessero parte. Si giunge a imporre le ceneri ai penitenti il mercoledì di questa settimana antecedente la prima domenica di quaresima, rito che verrà poi esteso a tutti i cristiani. A partire da questa fase incominciano a delinearsi anche le antiche tappe del catecumenato, che preparava al battesimo pasquale nella solenne veglia del Sabato Santo; infatti questo tempo battesimale si integrava con il tempo di preparazione dei penitenti alla riconciliazione del giovedì santo. Fu così che anche i semplici fedeli - ovvero quanti non erano catecumeni né pubblici penitenti - vennero associati a questo intenso cammino di ascesi e di penitenza per poter giungere alle celebrazioni pasquali con l'animo disposto a una più autentica partecipazione.

Nel corso del VI secolo, tutta la settimana che precede la prima domenica di quaresima è dedicata alla celebrazione pasquale. La domenica con cui ha inizio questa settimana è la Quinquagesima, perché è il cinquantesimo giorno prima di Pasqua. Tra il VI e il VII secolo si costituì un ulteriore prolungamento con altre due domeniche (Sessagesima e Settuagesima). Il tempo di Carnevale che comprendeva queste tre domeniche è stato abolito nella forma ordinaria del rito romano, in cui la quaresima inizia direttamente con il Mercoledì delle Ceneri. È invece conservato nella forma straordinaria del rito romano.

Allo sviluppo della quaresima ha contribuito la disciplina penitenziale per la riconciliazione dei peccatori che avveniva la mattina del giovedì santo e le esigenze sempre crescenti del catecumenato con la preparazione immediata al battesimo, celebrato nella notte di Pasqua.

La celebrazione della Pasqua nei primi tre secoli della vita della Chiesa non aveva un periodo di preparazione. La comunità cristiana viveva così intensamente l'impegno cristiano fino alla testimonianza del martirio da non sentire la necessità di un periodo di tempo per rinnovare la conversione già avvenuta col Battesimo.

L'uso di iscrivere i peccatori alla penitenza pubblica quaranta giorni prima di Pasqua determinò la formazione di una quadragesima (quaresima) che cadeva nella VI domenica prima di Pasqua. Dal momento poi che la domenica non si celebravano riti penitenziali, si fissò questo atto al mercoledì precedente. Ogni mercoledì era, infatti, giorno di digiuno. Così è nato il mercoledì delle Ceneri.

Allo sviluppo della quaresima ha contribuito prima di tutto la pratica del digiuno in preparazione alla Pasqua, poi la disciplina penitenziale, infine la preparazione dei catecumeni che saranno battezzati la notte di Pasqua.
Le opere della penitenza quaresimale sono:

Il digiuno ecclesiastico: anche se limitato al mercoledì delle ceneri e al venerdì santo, esprime la partecipazione del corpo nel cammino della conversione e propizia l'astensione dal peccato.
L'astinenza dalle carni (magro) il venerdì: era al principio segno di povertà, essendo nell'antichità il pesce più economico che la carne. È segno dell'abbandono del lusso per vivere una vita più essenziale.
La preghiera: La quaresima è tempo di più assidua e intensa preghiera, legata molto strettamente alla conversione, per lasciare sempre più spazio a Dio. Preghiera individuale e comunitaria.
La carità: la quaresima è tempo di più forte impegno di carità verso i fratelli. Non c'è vera conversione a Dio senza conversione all'amore fraterno.
La chiesa insegna che queste opere devono essere compiute nella consapevolezza del loro valore di segno in vista della conversione, e non fine a sé stesse.

Le domeniche di quaresima sono indicate anche da un nome latino, derivato dall'introito del giorno, a sua volta tratto dall'Antico Testamento:

Invocavit - Invocabit me, et ego exaudiam eum (salmo 91,15)
Reminiscere - Reminiscere miserationum tuarum (salmo 25,6)
Oculi - Oculi mei semper ad Dominum (salmo 25,15)
Laetare - Laetare, Jerusalem (Isaia 66,10)
Judica - Judica me, Deus (salmo 43,1)
Palmarum - Domenica in Palm

Nell'occidente cristiano la quaresima è tradizionalmente preceduta dalla celebrazione del carnevale. Durante il periodo quaresimale, poi, solitamente intorno alla metà, in alcune località italiane si festeggia ancora un'antica tradizione di origine pagana definita Sega la vecchia.



LE CENERI la tradizione




Con l'espressione Mercoledì delle ceneri (o Giorno delle ceneri o, più semplicemente, le Ceneri), si intende il mercoledì precedente la prima domenica di quaresima che, nelle chiese cattoliche di rito romano e in alcune comunità riformate, coincide con l'inizio stesso della quaresima, ossia il primo giorno del periodo liturgico "forte" a carattere battesimale e penitenziale in preparazione della Pasqua cristiana. In tale giornata, pertanto, tutti i cattolici dei vari riti latini sono tenuti a far penitenza e ad osservare il digiuno e l'astinenza dalle carni. Proprio in riferimento a queste disposizioni ecclesiastiche sono invalse alcune locuzioni fraseologiche come carnevale  o martedì grasso (l'ultimo giorno di carnevale, appunto - vigilia delle Ceneri -, in cui si può mangiare "di grasso").

La parola "ceneri" richiama invece in modo specifico la funzione liturgica che caratterizza il primo giorno di quaresima, durante la quale il celebrante sparge un pizzico di cenere benedetta sul capo o sulla fronte dei fedeli per ricordare loro la caducità della vita terrena e per spronarli all'impegno penitenziale della Quaresima. Per questo il rito dell'imposizione delle ceneri prevede anche la pronuncia di una formula di ammonimento, scelta fra la tradizionale «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai»[3] o la più recente «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), introdotta dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II con riferimento all'inizio della predicazione di Gesù.
Nel rito ambrosiano, in cui la quaresima è posticipata di quattro giorni e inizia la domenica immediatamente successiva (e in cui pertanto il carnevale termina con il "sabato grasso"), l'imposizione delle ceneri avviene o in quella stessa prima domenica di quaresima oppure, preferibilmente, il lunedì seguente. Il giorno di digiuno e astinenza viene invece posticipato al primo venerdì di quaresima.

Mentre la tradizione popolare meneghina fa risalire il proprio carnevale prolungato, o "carnevalone", a un "ritardo" annunciato dal vescovo di Milano sant'Ambrogio, impegnato in un pellegrinaggio, nel tornare in città per celebrare i riti quaresimali, in realtà la diversa datazione della festa mobile delle Ceneri dipende da un consolidato e più antico computo cronologico dei quaranta giorni della quaresima, conservato peraltro anche nel rito bizantino.

Come accade normalmente con le maggiori celebrazioni religiose, anche il Mercoledì delle ceneri può vantare una serie di curiosità, abitudini e costumi particolari riservati a questo giorno. A cominciare dal nome proprio Cenerina (più raro il maschile Cenerino), che deriva testualmente dall'appellativo di questa ricorrenza, e proseguendo con la tradizionale scampagnata delle Ceneri che, nel Parco nazionale del Vesuvio, gli abitanti di Sant'Anastasia compivano ancora pochi decenni fa sul monte Somma, percorrendone le pendici lungo la suggestiva strada ornata dalle stazioni della Via Crucis, per andare infine a dissetarsi con l'acqua limpida della sorgente Olivella.

A livello di usanze e tradizioni più o meno popolari vanno segnalati anche numerosi Mercoledì delle ceneri piuttosto "trasgressivi", nel senso che tale giorno non viene inteso come il primo della quaresima ma come quello conclusivo del carnevale:

il Carnevalone di Marino, ad esempio, era una manifestazione di baldoria organizzata dai repubblicani locali a partire dal 1870 proprio il Giorno delle ceneri con intenti dichiaratamente anticlericali (venne soppresso nel 1922, con l'avvento del fascismo);
il carnevale di Borgosesia invece continua a festeggiare ancor oggi il Mèrcü scüròt (cioè "Mercoledì scuro" in piemontese) con una sorta di funerale del carnevale stesso, che si celebra dopo la "fagiolata" di mezzogiorno allestendo un corteo "funebre" che tocca tutte le osterie della città e termina solo a notte inoltrata;
anche a Lazise ci si accontenta della frittura di aole (alborelle di lago) e di un minestrone "di magro" ma poi, concluse le votazioni iniziate il Martedì grasso e proclamati i nuovi Capo Valàr, Quel dal re e il Cagnól (tradizionali maschere locali), si forma il corteo mascherato che gira la città per portare i nuovi "re del carnevale" al riconoscimento ufficiale in municipio;
nella Barbagia di Ollolai il carnevale prevede anche l'intinghinzu del Mercoledì delle ceneri, un'imbrattatura di fuliggine che ricalca parodisticamente il rito quaresimale; a Ovodda si svolge una vera festa, il Mehuris de lessia (Mercoledì delle ceneri, appunto), con le maschere che cavalcano asini o portano al guinzaglio maiali, pecore e galline e Don Conte, un fantoccio grottesco con una grossa pancia fatta di stracci e il volto di sughero e cartapesta, con il suo seguito di intintos e intinghidores ("tinti" e "tintori") con il volto annerito dalla fuliggine che imbrattano di zinziveddu (polvere di sughero bruciato) chi incontrano per strada e, al tramonto, incendiano e gettano il fantoccio in una scarpata alla periferia del paese; analoga la festa pagana di Coli Coli nella vicina Tiana.



venerdì 13 febbraio 2015

LA NASCITA DEI CORIANDOLI




Tutti noi li gettiamo sulle strade durante le sfilate di Carnevale ma non ci siamo chiesti chi li ha inventati?

I coriandoli sono piccoli ritagli di carta colorata usati nelle festività per essere lanciati in aria o su persone. Tipici del Carnevale e di altre festività come il Capodanno. Spesso il loro uso è abbinato a quello delle stelle filanti.

Nella maggior parte delle lingue (fra cui inglese, tedesco, francese, olandese, svedese e spagnolo), anche lingue non indo-europee, i coriandoli sono stranamente noti come "confetti", o un adattamento ortografico. L'origine della confusione linguistica ha origine nel Rinascimento quando in Italia ai matrimoni o durante il carnevale si usava lanciare veri e propri dolcetti, i confetti appunto. È attestato che già prima del 1597 i confetti stessi erano anche chiamati coriandoli «cuopronsi i coriandoli di zucchero per confetti», ovvero si utilizzassero talora i semi della pianta del coriandolo al posto delle mandorle nei piccoli dolci.

In seguito, pur rimanendo chiamati coriandoli si utilizzarono nei lanci palline di carta colorata o di gesso. Solo nel 1875 furono adottati i cerchi di carta, grazie all'inventiva dell'ingegnere Enrico Mangili di Crescenzago (Milano), che iniziò a commercializzare come coriandoli i cerchi di carta di risulta dalle carte traforate utilizzate in sericoltura per l'allevamento dei bachi da seta.

L'invenzione dei coriandoli di carta è stata tuttavia rivendicata dall'ingegner Ettore Fenderl: secondo un racconto da lui stesso riferito (e riportato anche in un'intervista alla radio Rai del 1957), per festeggiare il Carnevale del 1876 avrebbe ritagliato dei triangolini di carta in quanto non aveva il denaro per comprare i confetti di gesso allora in uso.

Il Cavalier Enrico Mangili, ingegnere e industriale era proprietario di una filanda a Crescenzago. Nell 1875 ebbe la geniale trovata di utilizzare i piccoli dischetti di scarto dei fogli che venivano bucati per essere utilizzati come lettiere per i bachi da seta, per lanciarli sui carri di Carnevale. I minuscoli coriandoli a Milano ebbero subito un grande successo, creavano una atmosfera molto suggestiva, alla minima folata di vento sembrava nevicasse sulla sfilata. Prima di allora era usanza gettare sulle sfilate dei confetti , il nome coriandoli deriva dal fatto che si ricoprivano di zucchero i semi di coriandolo, una pianta molto comune in quei tempi attorno a Milano. Il Cav. Mangili iniziò a commercializzare i coriandoli, contribuendo a cambiare il volto e la storia del Carnevale, subito entrarono a far parte della tradizione meneghina e poi di tutto il mondo. Al Cav. Mangili, forse ispirato dai nastrini di carta usati per trasmettere i messaggi telegrafici viene attribuita anche la invenzione delle stelle filanti. Enrico Mangili fu un uomo molto caritatevole, contribuì economicamente alla fondazione dell’asilo che ospitava i figli delle filatrici di Crescenzago. Nel giardino dello stesso asilo, che ancora oggi si può vedere in via Padova 269, c’è un busto che lo ricorda.

martedì 10 febbraio 2015

CARNEVALE COLORI E POESIE



CARNEVALE VECCHIO E PAZZO

Carnevale vecchio e pazzo
s'è venduto il materasso
per comprare pane, vino
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un bel pancione
che somiglia ad un pallone.
Beve, beve all'improvviso
gli diventa rosso il viso
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia.
Così muore il Carnevale
e gli fanno il funerale:
dalla polvere era nato
e di polvere è tornato.


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domenica 8 febbraio 2015

SANDRONE



Sandrone (Sandróun in modenese) è la maschera tradizionale della città di Modena.
Sandrone rappresenta il contadino del passato, rozzo, ma furbo e scaltro. È portavoce del popolo più umile e maltrattato, e sempre in cerca di stratagemmi per sbarcare il lunario. Nel 1840 "prende moglie", compare cioè anche la figura della moglie Pulonia e ben presto la famiglia si completa con il figlio Sgorghìguelo; si è formata la famiglia Pavironica.

Queste maschere furono inizialmente solo dei burattini. Dalla fine dell'Ottocento esse vennero impersonate da attori (tutti maschi, anche la Pulonia). Vestono alla foggia dei popolani del '700: giacca di velluto a coste marrone, pantaloni al ginocchio della stessa stoffa, calze a righe trasversali bianche e rosse, gilet a fiori e robusti scarponi da contadino. Sandrone porta una parrucca con capelli piuttosto lunghi, coperti in parte da una specie di cuffia da notte di lana bianca che termina con un fiocco. Suo figlio ha una parrucca rossiccia e un berretto marrone con visiera. La Pulonia indossa una cuffia bianca, un vestito lungo fino alla caviglia disegnato a fiori vivaci. Porta un grembiule bianco, ai piedi scarpette di vernice nera con vistose fibbie, e in testa, una parrucca bianca a boccoli.

Le tre maschere, da oltre un secolo, allietano i modenesi e sono il simbolo del Carnevale Modenese; secondo la tradizione (tenuta in vita dalla Società del Sandrone), ogni anno il giovedì grasso Sandrone e famiglia arrivano alla stazione di Modena dal paesino immaginario Bosco di Sotto. Da lì sfilano in una parata che ha come punto di arrivo Piazza Grande, dove i modenesi si affollano per assistere al tradizionale sproloquio, il discorso che i tre pronunciano dal balcone del Palazzo Comunale, rigorosamente in dialetto modenese, ricco di commenti arguti sulla vita cittadina e bonarie critiche all'amministrazione locale.

Fonti diverse fanno risalire la nascita di Sandrone a un personaggio settecentesco realmente esistito nato nel Comune di Cadelbosco Sotto in provincia di Reggio Emilia, quando la provincia reggiana era sotto il dominio estense del Duca di Modena (di qui l'appropriazione geografica modenese) e ne rivendicano quindi le origini reggiane, adducendo il motivo che come accade per tutte le figure di rilievo nell'arte, nella cultura e nei costumi aventi avuto i natali in quel contesto negli anni del ducato, che vengono considerate oggi reggiane a tutti gli effetti, anche a questa maschera andrebbe riconosciuta la provenienza geografica reggiana e non modenese.

CARNEVALE -Storia e tradizioni-




Il carnevale è una festa che si celebra nei paesi di tradizione cristiana. I festeggiamenti si svolgono spesso in pubbliche parate in cui dominano elementi giocosi e fantasiosi; in particolare, l'elemento distintivo e caratterizzante del carnevale è l'uso del mascheramento.

La parola carnevale deriva dal latino carnem levare ("eliminare la carne") poiché anticamente indicava il banchetto che si teneva l'ultimo giorno di carnevale (martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della quaresima.

I festeggiamenti maggiori avverranno il Martedì successivo al carnevale (che risulterà sempre di Domenica) definito Martedì grasso che combacia con il giorno di chiusura dei festeggiamenti carnevaleschi.
Benché presente nella tradizione cattolica, i caratteri della celebrazione del carnevale hanno origini in festività ben più antiche, come per esempio le dionisiache greche (le antesterie) o i saturnali romani. Durante le feste dionisiache e saturnali si realizzava un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell'ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza.

Da un punto di vista storico e religioso il carnevale rappresentò, dunque, un periodo di festa ma soprattutto di rinnovamento simbolico, durante il quale il caos sostituiva l'ordine costituito, che però una volta esaurito il periodo festivo, riemergeva nuovo o rinnovato e garantito per un ciclo valido fino all'inizio del carnevale seguente. Il ciclo preso in considerazione è, in pratica, quello dell'anno solare.

Nel mondo antico, romano, la festa in onore della dea egizia Iside, importata anche nell'impero Romano, comporta la presenza di gruppi mascherati, come attesta lo scrittore Lucio Apuleio nelle Metamorfosi (libro XI). Presso i Romani la fine del vecchio anno era rappresentata da un uomo coperto di pelli di capra, portato in processione, colpito con bacchette e chiamato Mamurio Veturio. Durante le antesterie passava il carro di colui che doveva restaurare il cosmo dopo il ritorno al caos primordiale. In Babilonia poco dopo l'equinozio primaverile veniva riattualizzato il processo originario di fondazione del cosmo, descritto miticamente dalla lotta del dio salvatore Marduk con il drago Tiamat che si concludeva con la vittoria del primo.

Durante queste cerimonie si svolgeva una processione nella quale erano allegoricamente rappresentate le forze del caos che contrastavano la ri-creazione dell'universo, cioè il mito della morte e risurrezione di Marduk, il salvatore. Nel corteo c'era anche una nave a ruote su cui il dio Luna e il dio Sole percorrevano la grande via della festa - simbolo della parte superiore dello Zodiaco - verso il santuario di Babilonia, simbolo della terra. Questo periodo, che si sarebbe concluso con il rinnovamento del cosmo, veniva vissuto con una libertà sfrenata e un capovolgimento dell'ordine sociale e morale.

Il noto storico delle religioni Mircea Eliade scrive nel saggio Il Mito dell'Eterno Ritorno: "Ogni Nuovo Anno è una ripresa del tempo al suo inizio, cioè una ripetizione della cosmogonia. I combattimenti rituali fra due gruppi di figuranti, la presenza dei morti, i saturnali e le orge, sono elementi che denotano che alla fine dell’anno e nell’attesa del Nuovo Anno si ripetono i momenti mitici del passaggio dal Caos alla Cosmogonia". Più oltre Eliade afferma che "allora i morti potranno ritornare, poiché tutte le barriere tra morti e vivi sono rotte e ritorneranno giacché in questo momento paradossale il tempo sarà annullato ed essi potranno di nuovo essere contemporanei dei vivi". Le cerimonie carnevalesche, diffuse presso i popoli Indoeuropei, mesopotamici, nonché di altre civiltà, hanno perciò anche una valenza purificatoria e dimostrano il "bisogno profondo di rigenerarsi periodicamente abolendo il tempo trascorso e riattualizzando la cosmogonia".

Eliade scrive che "l'orgia è anch'essa una regressione nell' oscuro, una restaurazione del caos primordiale; in quanto tale, precede ogni creazione, ogni manifestazione di forme organizzate". L'autore aggiunge poi che "sul livello cosmologico l'orgia corrisponde al Caos o alla pienezza finale; nella prospettiva temporale, l'orgia corrisponde al Grande Tempo, all'istante eterno, alla non - durata. La presenza dell'orgia nei cerimoniali che segnano divisioni periodiche del tempo tradisce una volontà di abolizione integrale del passato mediante l'abolizione della Creazione. La confusione delle forme è illustrata dallo sconvolgimento delle condizioni sociali (nei Saturnali lo schiavo è promosso padrone, il padrone serve gli schiavi; in Mesopotamia si deponeva e si umiliava il re, ecc.), dalla sospensione di tutte le norme, ecc.

Lo scatenarsi della licenza, la violazione di tutti i divieti, la coincidenza di tutti i contrari, ad altro non mirano che alla dissoluzione del mondo - la comunità è l'immagine del mondo - e alla restaurazione dell'illud tempus primordiale, che è evidentemente il momento mitico del principio (caos) e della fine (diluvio universale o ekpyrosis, apocalisse). Il significato cosmologico dell'orgia carnascialesca di fine d'anno è confermato dal fatto che al Caos segue sempre una nuova creazione del Cosmo".

Il carnevale si inquadra quindi in un ciclico dinamismo di significato mitico: è la circolazione degli spiriti tra cielo, terra e inferi. Il Carnevale riconduce a una dimensione metafisica che riguarda l’uomo e il suo destino. In primavera, quando la terra comincia a manifestare la propria energia, il Carnevale segna un passaggio aperto tra gli inferi e la terra abitata dai vivi (anche Arlecchino ha una chiara origine infera). Le anime, per non diventare pericolose, devono essere onorate e per questo si prestano loro dei corpi provvisori: essi sono le maschere che hanno quindi spesso un significato apotropaico, in quanto chi le indossa assume le caratteristiche dell'essere " soprannaturale " rappresentato.
Queste forze soprannaturali creano un nuovo regno della fecondità della Terra e giungono a fraternizzare allegramente tra i viventi. “Le maschere che incarnano gli antenati, le anime dei morti che visitano cerimonialmente i vivi (Giappone, mondo germanico, ecc.), sono anche il segno che le frontiere sono state annientate e sostituite in seguito alla confusione di tutte le modalità. In questo intervallo paradossale fra due tempi (= fra due Cosmi), diventa possibile la comunicazione tra vivi e morti, cioè fra forme realizzate e il preformale, il larvale.”

Alla fine il tempo e l'ordine del cosmo, sconvolti nella tradizione carnevalesca, vengono ricostituiti (nuova Creazione) con un rituale di carattere purificatorio comprendente un "processo", una "condanna", la lettura di un "testamento" e un "funerale" del carnevale il quale spesso comporta il bruciamento del "Re carnevale" rappresentato da un fantoccio (altre volte l'immagine - simbolo del carnevale è annegata o decapitata).

Tale cerimonia avviene in molte località italiane, europee ed extraeuropee. “La ripetizione simbolica della cosmogonia, che segue all’annientamento simbolico del mondo vecchio, rigenera il tempo nella sua totalità”. È interessante altresì notare che vari significati cosmologici del Carnevale erano presenti anche nel Samhain celtico.

Nel XV e XVI secolo, a Firenze i Medici organizzavano grandi mascherate su carri chiamate "trionfi" e accompagnate da canti carnascialeschi, cioè canzoni a ballo di cui anche Lorenzo il Magnifico fu autore. Celebre è Il trionfo di Bacco e Arianna scritto proprio dal Magnifico. Nella Roma del governo papalino si svolgevano invece la corsa dei barberi (cavalli da corsa) e la "gara dei moccoletti" accesi che i partecipanti cercavano di spegnersi reciprocamente.

Le prime testimonianze dell'uso del vocabolo "carnevale" (detto anche "carnevalo") vengono dai testi del giullare Matazone da Caligano alla fine del XIII secolo e del novelliere Giovanni Sercambi verso il 1400. Il Carnevale non termina ovunque il Martedì grasso: fanno eccezione il Carnevale di Viareggio, il Carnevale di Ovodda, il carnevale di Poggio Mirteto, il Carnevale di Bientina, il carnevale di Borgosesia e il Carnevalone di Chivasso. Anche il Carnevale di Foiano della Chiana termina la domenica dopo le Ceneri. In diversi Carnevali il martedì grasso si rappresenta, spesso con un falò, la "morte di Carnevale".
Dove si osserva il rito ambrosiano, ovvero nella maggior parte delle chiese dell'arcidiocesi di Milano e in alcune delle diocesi vicine, il Carnevale finisce con la prima domenica di quaresima; l'ultimo giorno di carnevale è il sabato, 4 giorni dopo rispetto al martedì in cui termina dove si osserva il rito romano.

La tradizione vuole che il vescovo sant'Ambrogio fosse impegnato in un pellegrinaggio e avesse annunciato il proprio ritorno per carnevale, per celebrare i primi riti della quaresima in città. La popolazione di Milano lo aspettò prolungando il carnevale sino al suo arrivo, posticipando il rito delle Ceneri che nell'arcidiocesi milanese si svolge la prima domenica di quaresima.

In realtà la differenza è dovuta al fatto che anticamente la quaresima iniziava dappertutto di domenica, i giorni dal mercoledì delle Ceneri alla domenica successiva furono introdotti nel rito romano per portare a quaranta i giorni di digiuno effettivo, tenendo conto che le domeniche non erano mai stati giorni di digiuno. Questo carnevale, presente con diverse tradizioni anche in altre parti dell'Italia, prende il nome di carnevalone..

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