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mercoledì 24 giugno 2015

SAN FERMO DELLA BATTAGLIA

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San Fermo della Battaglia è un comune italiano di 4.583 abitanti della provincia di Como.

Il piccolo centro di Vergosa, di antica origine, fu sempre legato al territorio di Como, al cui interno apparteneva alla pieve di Uggiate.
Le prime tracce di insediamenti umani nel territorio di San Fermo risalgono XI secolo a.C. Prima ancora di Vergosa, la zona dove sorge il nostro comune ebbe nome Nullate e il che lascerebbe supporre la presenza di popolazioni galliche (il suffisso "ate" designa i toponimi di origine celtica). Reperti archeologici, databili attorno al 1000 a.C., attestano che in questo territorio fiorì la "Civiltà Golasecca". Numerosi sono i reperti di origine pre-romana ritrovati nelle zone di San Fermo, Rondineto, Prestino e Breccia (capanne, pozzi, tombe e oggetti in pietra e metallo) tutti riconducibili più o meno al V secolo a.C. quando questi agglomerati si fusero e diedero vita ad un unico nucleo chiamato "Comum oppidum". Reperti più tardi testimoniano la conquista romana, avvenuta nel 196 a.C. ad opera del console Marco Claudio Marcello.
Nullate, come borgo del contado comense, seguì le vicissitudini del capoluogo che fu colonia romana della tribù Ufentina. Subì poi le invasioni barbariche dei germani di Odoacre, dei Longobardi di Alboino, dei Franchi di Carlo Magno e dei Sassoni di Ottone che vi giunsero nel 951.
Vergosa, amministrativamente assegnato a Porta Sala, fece parte del comune ghibellino di Como (secoli XI e XII) subendo i contraccolpi della sua politica: le lotte con Milano, l’alleanza con Federico Barbarossa, le contese tra fazioni interne, la dominazione viscontea e poi sforzesca. Dal 1521 al 1706 fu sotto la dominazione spagnola mentre nel 1714 subì quella degli Asburgo. Nel 1796 fu dei francesi e ancora degli austriaci nel 1815.

Il paese San Fermo viene però ricordato soprattutto per la Battaglia che si svolse il 27 maggio 1859 nel corso della guerra che vide Francia e Piemonte opposti all’Austria e che le diede il nome. In questa occasione il generale Giuseppe Garibaldi alla testa di un nuovo corpo di volontari, denominato Cacciatori delle Alpi, si scontrò contro l'armata austriaca del Generale Urban.
Il 17 marzo 1859 Garibaldi assunse il comando dei Cacciatori. Si trattava di una brigata leggera, di circa 3 500 uomini, senza cannoni e senza cavalleria (ad esclusione degli esploratori), male armata ed equipaggiata, ma con l'uniforme dell'esercito piemontese, animata da forte spirito combattivo e guidata da ufficiali esperti, tutti reduci delle guerre del 1848-1849.
Provenendo da Sesto Calende, Garibaldi aveva liberato Varese dopo aver affrontata e respinta, il 26 maggio 1859, la Brigata Rupprecht del tenente maresciallo Karl von Urban, uscita da Como ed ivi ritiratasi, con perdite, a seguito allo scontro ricordato come la battaglia di Varese.
Il 27 maggio i volontari prendevano la via di Como, allora la città più importante della Lombardia settentrionale e base degli austriaci. Due erano le strade a disposizione: quella meridionale, attraverso Malnate, Binago ed Olgiate entrava in Como da sud; quella settentrionale (ora chiamata “garibaldina”) da Malnate deviava a nord per Uggiate e attraverso Cavallasca accedeva in Como dalle colline che chiudono la città da ovest, per una stretta chiusa a nord dal confine svizzero (oggi noto agli appassionati del Giro di Lombardia come Passo di San Fermo).
Nell'incertezza, Urban aveva schierato le proprie forze fra San Fermo, a nord-ovest, e Civello, a sud-ovest, con avamposti sul fiume Lura, sei chilometri dalla parte di Varese e le riserve al centro dalle parti di Montano Lucino. Oltre alla Brigata Rupprecht, che aveva combattuto a Varese, Urban poteva schierare la Brigata Agustin, giunta, nel frattempo, di rinforzo.
Garibaldi prese ad avanzare da Varese, attraverso Malnate e Binago sino ad Olgiate, raggiunta verso le 11:00. Di lì lasciò sulla destra il 1º reggimento di Cosenz, dando ad intendere di voler passare a sud e deviò gli altri due a nord verso San Fermo attraverso Parè e Cavallasca, raggiunta verso le 15:00.
Giunto a Cavallasca Garibaldi vi pose il proprio quartier generale ed incaricò dell'attacco Medici, comandante del 2º reggimento colà presente.
Di fronte aveva un avamposto austriaco, ben fortificato nell'oratorio del villaggio di San Fermo.
A Cavallasca il generale Medici decise di dare l'assalto su tre colonne: la prima colonna del capitano Cenni (una compagnia più i carabinieri genovesi) avrebbe dovuto svolgere un attacco di diversione sulla sinistra, la seconda colonna del capitano Carlo De Cristoforis, con un'altra compagnia, avrebbe condotto un attacco frontale, la terza colonna del capitano Vacchieri sulla destra, avrebbe dovuto minacciare la ritirata avversaria.
La compagnia di De Cristoforis doveva partire al segnale della "fucilata" sparata dal gruppo Cenni, con un attacco di sorpresa, ma l'inizio prematuro del fuoco da parte di alcuni volontari (ovvero da alcuni austriaci, a seconda delle versioni) fece mancare l'effetto.
De Cristoforis, credendo che quei colpi di fucile fossero il segnale per partire all'attacco, alle 16:00 uscì allo scoperto sullo stradone e venne preso di mira dai nemici appostati sul campanile di San Fermo. Un forte fuoco di fucileria lo costrinse a ripararsi in una cascina, il casale Valdomo.
Allora Medici comandò alla sinistra di appoggiare l'attacco e comandò un'ulteriore compagnia sulla destra. Con i difensori presi da tre lati, le due compagnie di De Cristoforis ripartirono in un assalto alla baionetta.
La motivazione dei volontari doveva essere davvero grande se, colpito da un fucilata mortale De Cristoforis, essi proseguirono la corsa guidati dal tenente Guerzoni e conquistarono la posizione.
Il ripiegamento austriaco venne inseguito, per un tratto, dalle truppe vittoriose. Allora Garibaldi ispezionò le strade verso la città (la Valfresca e Cardano) e venne a sapere da un contadino di Cavallasca, Agostino Marzorati, che tornava da Como, lo stanziamento delle truppe austriache in città. Erano circa duemila e, il contadino aggiunse, "stavano cuocendo le vivande".
Garibaldi fece allora occupare le alture verso Como in vista della città: nel tardo pomeriggio gli austriaci, finalmente informati degli avvenimenti, presero a risalire per Cardano e la Valfresca. Si tratta di strade ripide e dominate da una serie di scoscese montagnole: i garibaldini ben appostati li bersagliarono per poi a poco a poco scendere baionetta alla mano e rimandare gli assalitori giù per le colline.
Alle 21:30 Garibaldi entrava in città dall'allora Porta Sala, oggi Via Garibaldi, mentre gli austriaci uscivano da Porta Torre, e ripiegavano su Monza, lasciando bagagli, magazzini e prigionieri nelle mani dei Cacciatori. Urban, infatti, non poteva contare sulla fedeltà della popolazione (che appena undici anni prima si era resa protagonista delle Cinque Giornate di Como) e, da buon soldato regolare, desiderava ottenere cospicui rinforzi prima di riprendere Como e la più piccola Varese.
Occupata Como, Garibaldi richiamò le cinque compagnie da San Fermo e fece occupare Camerlata, al passo meridionale della città verso Monza e Milano, per garantirsi da eventuali contrattacchi.
Gli austriaci registrarono 68 morti e 264 feriti. I Cacciatori 13 morti (di cui 3 ufficiali: De Cristoforis, Pedotti e Cartellieri) e 60 feriti. Nessun garibaldino rimase prigioniero.
Nel villaggio di San Fermo della Battaglia sorgono oggi un piccolo obelisco di granito rosso, realizzato su disegno di Eugenio Linati, inaugurato il 27 maggio 1873.
Nel punto in cui cadde il capitano De Cristoforis si trova, invece, un semplice cippo di marmo che riporta i nomi dei tredici Cacciatori caduti durante la battaglia.
Da allora Vergosa fu annesso ai territori dei Savoia e al Regno d'Italia.

Tra gli anni Sessanta e Ottanta San Fermo registrò un incredibile aumento demografico dovuto ad una forte immigrazione da varie regioni. Oggi nel territorio operano alcune aziende di media importanza e oltre ad alcuni piccoli agricoltori sono presenti anche attività edili di lavorazione del ferro, tinteggiatura e tessitura. Ad oggi sono molti i pendolari che svolgono attività nella vicina Svizzera e nel capoluogo.

Nel mezzo della piazza s'innalza l'obelisco commemorativo del fatto d'armi cui la località deve nome e notorietà ; su un lato della piazza, la chiesa, anteriore al sec. XVI, e ampliata sulla fine di questo. San Fermo è centro agricolo (fiera dal 9 al 15 agosto). Il comune, comprendente, oltre il capoluogo, le località di Marnago, Vergosa, Trinità e La Costa.

La chiesa di Santa Maria Nullate fu costruita su di un preesistente tempio pagano dedicato alla dea della fortuna. Nel III secolo fu trasformato in tempio di culto cristiano e dedicato a S. Maria in Nullate e successivamente consacrato nel giugno del 1095 da papa Urbano II che transitava da Como per recarsi al Concilio di Clermont, dove avrebbe dato l’avvio alla prima Crociata. Della consacrazione rimane la memoria in un antichissimo quadro che mostra il corteggio papale uscire da Como per salire fino alla chiesa.
Nel 1718 la chiesa venne abbattuta perché divenuta troppo piccola, nello stesso anno fu ricostruita e nel 1870 venne ampliata. Al suo interno è possibile ammirare un grande dipinto rappresentante Santa Chiara e Santa Lucia di autore ignoto e un altro quadro del XVII sempre anonimo raffigurante l'Immacolata Concezione.

Il santuario di San Fermo sorge su un preesistente oratorio sempre dedicato al santo. San Fermo secondo la leggenda era un soldato romano che fu martirizzato a Verona durante l'impero di Massimiano ma che la critica più recente ha dimostrato essere stato ucciso per fame a Cartagine sotto Decio. Il suo culto pervenuto nell’Italia settentrionale dall'Africa, sembra sia stato diffuso a Vergosa da carrettieri provenienti da Verona e da Bergamo. La chiesa fu costruita nel 1592 e le pareti vennero affrescate nel XVII secolo ma di queste pitture restano solo poche tracce: un San Pietro Martire, sotto la cantoria, e un S. Carlo Borromeo. Nello stesso secolo furono rialzati i muri, gettata la volta e trasformata la pianta a croce latina, eretto il peristilio davanti alla facciata e alzato il campanile.
Successivamente vi furono altri restauri e opere di manutenzione anche se la chiesa non è più stata modificata. All'interno della chiesa ricordiamo anche la statua rappresentante San Fermo e su una parete dell'altare un dipinto del 1583 eseguito dall'artista comasco Cesare Carpano.

Davanti al Santuario sorge in memoria della battaglia del 1859 un grande monumento costituito da un obelisco di granito rosso posato su un dado dello stesso marmo, a sua volta posto su grandi massi di puddinga, che è la roccia delle colline locali. Sulla faccia a levante dell’obelisco campeggia un medaglione di bronzo con l’effige di Garibaldi. Il monumento è stato realizzato su disegno di Eugenio Linati e inaugurato il 27 Maggio 1873. Successivamente è stato completato da due statue di fanti e dedicato ai caduti di tutte le guerre.
Sul luogo in cui cadde il capitano De Cristoforis si trova un semplice cippo di marmo di Carrara, coronato da una ghirlanda di fiori, sul quale sono incisi i nomi dei tredici Cacciatori delle Alpi morti nello scontro.

Ogni anno, la domenica più vicina a quella del 27 maggio, viene celebrato l’anniversario della Battaglia di San Fermo del 1859.
Ogni anno, la domenica più vicina a quella del 4 novembre, viene celebrata la “Festa dell’Unità Nazionale del 4 Novembre”.



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lunedì 11 maggio 2015

IL MONTE SUELLO

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Posto sul lungo crinale che separa la Valle della Berga dal Lago d’Idro, il Monte Suello diede il proprio nome a una famosa battaglia della terza guerra d’indipendenza che vide contrapposti fra loro due reggimenti dei Volontari Italiani di Garibaldi e gli austriaci dell’8° Divisione del generale Von Kuhn.

Il generale von Kuhn aveva predisposto un piano offensivo per espugnare la Rocca d'Anfo in tre direttrici d'attacco ordinando al tenente colonnello Heribert Höffern von Saalfeld di occupare il 30 giugno Riccomassimo, Monte Macao, Vessil e Col Bruffione e di proseguire il 1º luglio a Bagolino, facendo delle diversioni verso il Passo del Maniva e Passo di Crocedomini sopra Breno; al centro dello schieramento, al capitano Ludwig von Gredler con quattro compagnie della brigata di Bruno Freiherr von Montluisant e una compagnia di volontari viennesi-tirolesi, di attestarsi, per la giornata del 2, nella Valle del Chiese a Monte Suello con il compito di sbarrare il passo alla fortezza di Rocca d'Anfo e infine a sud, al tenente colonnello Hermann Thour von Fernburg con la sua mezza brigata, dopo essersi assicurato il controllo di tutti i passi della Valle di Ledro (Passo Nota e Tremalzo), di occupare Magasa, Turano e la Val Vestino, il 1º luglio, e il 2, per il monte Vesta e Manos, rispettivamente sopra Bollone e Capovalle, di procedere al completo accerchiamento della Rocca d'Anfo scendendo a Treviso e a Idro. L'operazione in Val Camonica fu invece affidata alla mezza brigata del maggiore Alexander von Metz.

Il generale Giuseppe Garibaldi, la mattina del 3 luglio, osservando da Rocca d'Anfo i movimenti degli austriaci che occupavano la chiesetta di Sant'Antonio nei pressi di Ponte Caffaro ordinò perentoriamente al colonnello Clemente Corte, comandante della 4ª Brigata Volontari Italiani, composta dal 1º e dal 3º Reggimento, supportata dal 1º Battaglione Bersaglieri genovesi del maggiore Antonio Mosto e una Batteria di artiglieria da montagna del Regio esercito, di “cacciare quei mosconi” dalle loro posizioni.

Alle 14.00 del pomeriggio si accesero i primi violenti scontri. Il colonnello Corte avanzò con sei compagnie del 1º Reggimento in colonna per quattro sulla strada che sale a Bagolino fiancheggiato a sinistra, sulle falde del monte, dalla compagnia di Bersaglieri genovesi, e sostenuto alle spalle da una sezione di artiglieria e dalla riserva del 3º Reggimento di Giacinto Bruzzesi. Gli austriaci, circa 868 uomini, inquadrati in quattro compagnie di Kaiserjäger, la 31ª, 32ª, 35ª e 36ª, del VI Battaglione della mezza Brigata del colonnello Heribert Höffern von Saalfeld comandati dal capitano Ludwig von Gredler, appostati strategicamente sulle falde del monte e distesi lungo la strada cominciarono a sparare all'avanzata delle camicie rosse.

Alcuni ufficiali furono subito uccisi o colpiti, lo stesso generale Garibaldi accorso sul posto fu ferito alla coscia sinistra da un maldestro suo soldato e, sostenuto dal capitano Ergisto Bezzi, fu immediatamente trasportato nei pressi di un casolare di San'Antonio per essere curato dal medico palermitano Enrico Albanese e da Jessie White Mario e successivamente trasferito all'interno della Rocca d'Anfo.

Gli austriaci imbaldanziti, credendo di avere la vittoria a portata di mano, iniziarono ad avanzare minacciosamente lungo le pendici del monte con tutte le loro forze, cinque compagnie di 7-800 uomini, costringendo i garibaldini a mettersi “al coperto dai fuochi troppo micidiali del nemico ed a cui era impossibile di rispondere”. Poco prima, alle ore 13.00, una colonna austriaca al comando del capitano Schiffler era avanzata minacciosamente sulla strada di Ponte Caffaro fino alla chiesa di San Giacomo, ove era caduta sotto il tiro di due cannoncini delle due imbarcazioni della Dogana di confine operante in prossimità delle sponde del lago d'Idro. Alle 15.00 gli austriaci furono fermati da il contrassalto di una Compagnia dei Bersaglieri genovesi con il concorso di quattro pezzi di artiglieria.

Tutto sembrava perso per gli italiani premuti dall'ultimo assalto nemico, anche se tra le file degli austriaci si annoveravano caduti e feriti tra cui il capitano Spagnoli, comandante della 31ª e 32ª Compagnia, che ferito ad un occhio dovette ritirarsi dal combattimento cedendo il comando al capitano Walter. La giornata fu salvata, come ebbe a dichiarare Giuseppe Garibaldi, per “il sangue freddo e il coraggio” del colonnello Giacinto Bruzzesi che occupate le alture di Sant'Antonio vi posizionò due cannoni della Batteria da montagna del Regio esercito iniziando un tiro micidiale sulla colonna degli austriaci e infine lanciò un ultimo risolutivo assalto con sette compagnie. Gli austriaci cedettero all'impeto e in breve furono costretti, verso le 19.00, a ritirarsi sul dosso del Monte Suello che poi abbandonarono furtivamente nel corso della notte, coperti in retroguardia dal capitano Schiffler e dalla 1ª Compagnia Tiragliatori volontari viennesi-tirolesi (Wien-Tiroler Scharfschützen), riparando a Ponte Caffaro e Lodrone e poi successivamente una parte nei forti di Lardaro, l'altra in quello d'Ampola.

Più a nord anche il colonnello Heribert Höffern von Saalfeld, che aveva tentato inutilmente da Bagolino di raggiungere la Valle di Levrazzo per piombare alle spalle degli italiani, aveva cominciato la ritirata su posizioni più arretrate, azione completata il 4 luglio sulla malga di Bruffione e la retrocessione successiva verso Roncone e i Forti di Lardaro.

Lo stesso generale Giuseppe Garibaldi descrisse così nelle sue "Memorie" i fatti accaduti in quella giornata: "Per un pezzo tutto andava bene, ed il nemico ripiegava davanti alla bravura dei nostri; ma essendo esso rinforzato dalle riserve che coronavano le alture di monte Suello, e trovando i nostri militi posizioni sempre più formidabili, furono alla fine fermati nel loro slancio. Infine la giornata restò indecisa, e si rimase nelle posizioni sotto monte Suello. Ferito alla coscia sinistra, fui obbligato a ritirarmi".

L’esito della battaglia rimase in ogni modo incerto per molte ore e il Corte, temendo un contrassalto della mezza brigata del colonnello Hermann Thour von Fernburg a Moerna, ordinò l’immediata ritirata di tutti reparti operanti nella Val Vestino al comando del maggiore Luigi Castellazzo e quella dei suoi uomini nella Rocca d'Anfo.

Durante la notte dal 3 al 4 arrivarono di rinforzo ad Anfo i primi reparti del 9º Reggimento di Menotti Garibaldi, e nel giorno successivo, il 1º Battaglione di questo comandato dal maggiore Enrico Cairoli, occupò la vetta di Monte Suello, mentre il 2º Battaglione si stabilì a presidio di Bagolino.

Con quest'ultima operazione si concludeva quasi completamente il piano predisposto dal generale Von Kuhn che non raggiungeva gli obiettivi preventivati, ossia la cacciata degli italiani dal Trentino mediante l'accerchiamento della Rocca d'Anfo, mentre l'unica azione austriaca ancora in atto e di una certa entità rimaneva quella in Valcamonica. Gli italiani con la vittoria occupavano la piana del fiume Chiese, la Val Vestino apprestandosi a porre l'Assedio del Forte d'Ampola e la marcia di avvicinamento verso i forti di Lardaro.

Le truppe volontarie italiane accusarono 70 morti (3 ufficiali), 266 feriti (14 ufficiali), 22 dispersi. I dati sono discordanti per quanto riguarda le perdite nemiche che, secondo fonti italiane, furono di 15 morti (1 ufficiale) e 43 (2 ufficiali) feriti mentre le relazioni militari austriache riportano 10 morti e 18 feriti.

Il sacrario di Monte Suello venne eretto a ricordo dei caduti garibaldini.

Il 19 marzo 1879 per iniziativa di alcuni patrioti e veterani della battaglia si teneva un’adunanza nel teatro di Vestone al fine di pianificare l’edificazione di un sacrario per raccogliere le spoglia dei volontari che non avevano ancora ricevuto degna sepoltura: infatti i caduti vennero seppelliti all’indomani dello scontro del 3 luglio frettolosamente sotto pochi centimetri di terra in nove fosse comuni contrassegnate da croci di legno a lato della strada per Bagolino e li rimasero fino al 1879 quando i poveri resti furono portati nella chiesa di San Giacomo posta sulla strada per Ponte Caffaro e ricomposti grazie all’interessamento del dott. Luigi Riccobelli di Vestone. Nella chiesa di San Giacomo per un certo periodo si celebrò messa per commemorare la battaglia, la cui data “3 luglio 1866” è dipinta sul campanile della stessa.

Nell’adunanza del 1879 venne deciso di creare due comitati, uno onorario a Firenze presieduto dal generale Clemente Corte ed uno esecutivo a Vestone presieduto dal ex maggiore Giuseppe Guarnieri, anima del progetto. Nel 1883 dopo regolare bando vinse il progetto dell’architetto Armano Pagnoni, tecnico del comune di Bagolino e cominciarono i lavori di costruzione dell’Ossario che terminarono nel 1884.

L’imperversare di una epidemia di colera fece slittare l’inaugurazione al 5 luglio 1885, giornata nella quale i feretri furono traslati dalla chiesetta di Sant’Antonio, (lì portati nella precedente giornata del 4 luglio dalla chiesa di San Giacomo) fino all’ossario e con atto notarile lo stesso giorno la proprietà passava alla Deputazione provinciale di Brescia, la quale ne assumeva la custodia e relativa manutenzione. Nel 1907 il monumento venne dotato di una cancellata su tre lati che fu completata sul lato a lago nel 1914.

L’ossario di Monte Suello sorge sul luogo dove l’architetto Armanno Pagnoni venne catturato dagli austriaci proprio nella battaglia del 3 luglio 1866. Infatti ancora giovanissimo e all’insaputa della famiglia prese parte alle operazioni belliche e fatto prigioniero. Dopo un anno di detenzione nel castello del Buon Consiglio a Trento venne liberato in uno scambio di prigionieri e poté rientrare in patria.

Il monumento in stile bizantino si presenta esternamente in pianta quadrata rivestito di graniti e piastre in calcare, sormontato da un tetto conico di forma piramidale, ricoperto di piastre in piombo. Sono presenti una serie di lapidi che ricordano gli scontri avvenuti a Monte Suello nel 1848 e nel 1866. La sala interna o edicola è di forma ottagonale con intercolonne in lavagna e avelli riportanti i nomi dei caduti in marmo di botticino. Al centro dell’edicola campeggia un busto in marmo di carrara raffigurante Giuseppe Garibaldi, interessante opera dello scultore rezzatese Pietro Faitini. Il cancello di entrata in ferro e ghisa fu disegnato e donato da Francesco Glisenti. Nella parte semi-interrata è presente una cripta con volta a botte che racchiude i resti dei caduti.




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domenica 10 maggio 2015

I FATTI DI SARNICO

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I Fatti di Sarnico furono una sommossa mazziniana organizzata nella primavera del 1862 nella località bergamasca, da un centinaio di insorti, capitanati dal patriota Francesco Nullo e con l'appoggio di Giuseppe Garibaldi, coll'intento di penetrare armati in Trentino e provocare l'insurrezione di quelle popolazioni contro gli Austriaci.

In questa località situata sul lago d'Iseo, fu sventato da parte del governo di Urbano Rattazzi il piano mazziniano che prevedeva la sollevazione del Trentino mediante un’infiltrazione armata di una colonna di insorti.

Alla spedizione dei Mille parteciparono 432 lombardi di cui ben 180 provenienti da Bergamo, che ottenne così il titolo di “città dei mille”. Tra loro anche due sarnicesi: Febo ed Isacco Arcangeli. Quest’ultimo in particolare mostrò grande sentimento patriottico dapprima arruolandosi nel 1859 con i “Cacciatori delle Alpi”, cioè al corpo di volontari organizzato da Giuseppe Garibaldi a Torino nel 1859, per poi partire da Quarto con i Mille la notte tra il 5-6 maggio 1860. Conclusa l’impresa e ancora animato da spirito guerriero raggiunse nel 1863 la “Legione Italiana” in Polonia, dove ferito fu condannato a morte. La pena fu però commutata in dodici anni di reclusione e fu deportato in Siberia. Qui rimase 3 anni sopravvivendo a stento e, liberato grazie all’amnistia concessa dallo zar, tornò a Bergamo. Isacco è uno dei fondamentali volontari che contribuirono a formare la nazione italiana, non solo unificandola territorialmente, ma soprattutto costruendo un tassello importante della nostra tradizione. Fu in questo periodo infatti che nacque l’Italia come soggetto politico partecipe alle questioni internazionali e fondamentale personaggio degli eventi mondiali successivi. Il nuovo stato non coinvolse però i cittadini solo come soldati di un paese indipendente, anzi la funzione principale di ognuno fu quella di membro costruttore dell’identità nazionale nella quale si riconobbero le generazioni successive. Il risorgimento è dunque un movimento politico di massa. Ne sono esempio gli eventi che accaddero nel 1862 a Sarnico. Garibaldi, consapevole del grande contributo militare della  provincia di Bergamo, pensò infatti di smuovere ancora una volta l’animo dei nazionalisti per organizzare l’annessione del Trentino, in mano austriaca. Arrivò dunque a Trescore con la scusa di curarsi alle terme e raccolse i primi favori di volontari che si riunirono a Sarnico pronti a partire per il 30 maggio, come annunciato dalla “Gazzetta di Bergamo” e da altri quotidiani. Erano centinaia pronti a risalire la valle Camonica e calare su Trento sollevando le popolazioni locali, ma le decisioni di governo cambiarono e il fervore patriottico fu represso da numerosi sequestri. Il 14 maggio venne sequestrato dai Carabinieri, a Grumello del Monte, un carro carico di materiale esplosivo diretto verso il lago e lo stesso giorno a Sarnico furono arrestate 60 persone, trasferite alla cittadella militare di Alessandria. L’Eroe dei due mondi, nel frattempo soggiornò nella villa di Parigi Andrea, primo sindaco del paese, che, appoggiando la pressione popolare spedì una lettera alla procura di Bergamo per prosciogliere gli imputati e risolvere l’imbarazzante situazione. Pur uscendo vittima della repressione, il paese dimostrò un forte sentimento patriottico ancora ricordato dalla lapide affissa su Palazzo Orgnieri, di fronte a piazza Umberto I. Negli atti processuali tali avvenimenti sono citati come “fatti di Sarnico” e con questo nome restano alla storia.
Appare evidente nell’aneddoto narrato quale fu l’emozione istintiva che coinvolse l’opinione pubblica, allora mossa da un fervore patriottico puro e non influenzato da allegorie, simboli e riflessioni. Tutto questo e i numerosi errori della politica successiva sono parte del lemma “italiano”. Per ricordarci di essere tali, in un periodo nel quale il patriottismo sta scomparendo, è sufficiente guardarsi intorno e cogliere i ricordi nei luoghi di tutti i giorni, pensando alla storia come fatti concreti compiuti dai nostri compaesani che credevano veramente ai loro ideali.

Nullo Francesco nacque a Bergamo il 1° marzo 1820, primogenito di Arcangelo, commerciante di tessuti e possidente, e di Angela Magno, che aveva sposato Arcangelo in seconde nozze. La coppia ebbe altri cinque figli, Carlo, Giuseppe, Ludovico, Giovanni e Pietro, e una figlia, Giulia, morta a soli quattro mesi di età.
Dopo aver frequentato le scuole comunali, nel 1837 entrò come convittore nel ginnasio vescovile di Celana, dove rimase sino al 1840, per poi continuare gli studi tecnici e commerciali a Milano. La sua iniziazione patriottica e politica avvenne probabilmente proprio negli ambienti studenteschi e artigiani che frequentò in quegli anni, ma come per gran parte dei giovani patrioti della sua generazione l'autentico spartiacque nella sua esperienza politica e personale fu il 1848.

Dopo aver partecipato attivamente alle Cinque Giornate, distinguendosi nella presa di Porta Tosa, insieme ai fratelli Giuseppe e Ludovico, che rimase ferito, allo scoppio della prima guerra d'Indipendenza si arruolò nei Corpi di volontari lombardi che affiancavano l'esercito regolare sardo. Dopo l'armistizio Salasco seguì il proprio reparto che, venuta meno la possibilità di unirsi ai volontari guidati da Garibaldi, ripiegò in Piemonte, andando a costituire la Divisione lombarda dell'esercito sardo. Nel settembre 1848 fu ammesso nell'artiglieria sarda con il grado di sottotenente, ma dopo la sconfitta di Novara ottenne la dispensa dal servizio e accorse a Roma.

L'esperienza della Repubblica Romana fu fondamentale per la sua maturazione politica in senso democratico radicale e repubblicano, ma soprattutto fu allora che in lui si precisò un'interpretazione estrema dell'adesione al volontariato patriottico in senso 'eroico' e 'sacrificale'. Arruolatosi tra i 'lancieri della morte' comandati dal colonnello bolognese Angelo Masina, dopo la capitolazione di Roma rifiutò la resa e seguì Garibaldi nel tentativo di raggiungere Venezia. Il riferimento a Garibaldi come modello paradigmatico dell’azione patriottica, interpretata innanzitutto come attivismo militare, e la dedizione personale al Generale furono una costante di tutta la sua vita.

Nel corso del ripiegamento garibaldino si distinse rapidamente tra i volontari, ricevendo a Cetona l'incarico di 'tenente quartiermastro', addetto agli alloggiamenti, e venendo poi scelto da Garibaldi come 'ambasciatore' per trattare con i capitani della Repubblica di S. Marino l'attraversamento del loro territorio. Dopo lo scioglimento della colonna, seguì Garibaldi fino allo sbarco forzato a Piallazza sul lido delle Nazioni. Costretto poi a dividersi dagli altri, riuscì a raggiugere a Genova e a rientrare in Lombardia, dove passò alcuni mesi in semiclandestinità a Caprino Bergamasco. L'11 novembre 1849 fu arrestato, ma non essendo emersi elementi gravi a suo carico fu condannato a soli tre mesi di carcere, ridotti, in seguito al suo appello, a pochi giorni.

Rilasciato, sembrò almeno momentaneamente abbandonare l'attività politica e patriottica per riprendere gli studi tecnici e commerciali e collaborare all'azienda di famiglia. Negli anni Cinquanta si recò spesso all'estero per affari e sviluppò una vasta rete di contatti anche al di là dei confini lombardo-veneti. Dopo l'apertura nel 1853 di una filanda, dotata di 40 telai a mano, a Clusone, nel 1857 costituì la ditta Francesco Nullo & C., di cui era il gerente responsabile e che si affermò rapidamente, come dimostrano la medaglia d'argento e la menzione onorevole ottenute nello stesso 1857 all'esposizione provinciale della Società industriale bergamasca. In quegli stessi anni Nullo consolidò il rapporto affettivo e sentimentale con Celestina Belotti, cui restò legato per tutta la vita.

Allo scoppio della seconda guerra d'indipendenza la passione patriottica riprese il sopravvento e si arruolò volontario nella Compagnia guide dei Cacciatori delle Alpi, il reparto meno soggetto alla pur blanda disciplina dei corpi volontari, a conferma della sua interpretazione attivistica ed 'eroica' del garibaldinismo. Nel corso della campagna, sul cui svolgimento lasciò un taccuino di appunti, si distinse, insieme ad Antonio Curò e Silvio Contro, nella liberazione di Bergamo: penetratovi in abiti borghesi, raccolse le informazioni di carattere militare che consentirono a Garibaldi di conquistare la città la mattina dell'8 giugno 1859.

In agosto, ormai svanita ogni speranza di riprendere le ostilità contro l'Austria, ottenne il congedo dall'esercito sardo e seguì Garibaldi in Romagna. Quando, alla metà del novembre 1859, divenne chiaro che anche in Italia centrale era venuta meno ogni possibilità di azione contro lo Stato Pontificio, rientrò a Bergamo e riprese la conduzione degli affari. Tuttavia, malgrado gli ottimi risultati dell'azienda, che nel 1861 fu premiata alla prima esposizione nazionale tenutasi a Firenze, concentrò le proprie energie nell'attività patriottica e militare, divenendo uno dei principali e più intimi collaboratori di Garibaldi.

Con l'amico e conterraneo Francesco Cucchi si impegnò a Bergamo nell'opera di arruolamento dei volontari per la spedizione in Sicilia, riuscendo a reclutare il contingente più numeroso. Nel corso della spedizione, che Nullo descrisse in un altro taccuino di appunti, emerse un altro degli elementi caratterizzanti della sua azione: il richiamo all'identità bergamasca come strumento di mobilitazione e di motivazione di un vasto seguito di concittadini pronti a seguire il suo esempio. Così durante la battaglia di Calatafimi, facendo appello al comune legame 'civico' dei bergamaschi che costituivano la quasi totalità del reparto, esautorò di fatto il comandante dell'VIII compagnia, il pavese Angelo Bassini, assumendo sostanzialmente la guida dell'azione. Allo stesso orgoglio civico dei bergamaschi, combinato con il proprio esempio personale, fece appello durante la battaglia per la liberazione di Palermo.

Garibaldi lo promosse prima luogotenente delle Guide e poi capitano, ma, soprattutto lo inviò nuovamente a Bergamo nel luglio 1860, per procedere a nuovi arruolamenti. Al suo rientro in Sicilia, agli inizi di agosto, fece parte dell'avanguardia, guidata da Giuseppe Missori, inviata in Calabria per preparare lo sbarco sul continente del grosso delle truppe. Il tentativo fallì e il reparto fu costretto a una faticosa azione di guerriglia nell'interno della Calabria in attesa dell’arrivo di Garibaldi. Successivamente Nullo si distinse nella presa di Reggio Calabria e nella resa del generale Fileno Briganti, ottenendo la promozione a maggiore e l’onore di far parte della scorta personale che accompagnò Garibaldi nel suo ingresso trionfale a Napoli il 7 settembre.

Aggregato allo Stato Maggiore, grazie al coraggio mostrato nella battaglia del Volturno, ottenne la nomina a tenente colonnello delle Guide. Nella fase di incertezza seguita alla battaglia fu inviato nel Sannio, dotato di pieni poteri, per reprimere la nascente insorgenza borbonica, ma a causa della scarsa conoscenza del territorio, del numero limitato di forze a disposizione e del carattere generalizzato della rivolta, la missione si risolse in un insuccesso. Il fallimento tuttavia non compromise i rapporti con Garibaldi, che lo scelse per consegnare al re Vittorio Emanuele II il dispaccio con cui deponeva nelle mani del sovrano i poteri dittatoriali. Fece inoltre parte della ristretta cerchia dei collaboratori più intimi che accompagnarono Garibaldi la mattina del 9 novembre 1860 alla nave che lo avrebbe condotto a Caprera. Dopo un breve soggiorno a Bergamo, fu reintegrato nell'Esercito italiano ed entrò a far parte della Commissione per la Medaglia della prima spedizione di Sicilia; nominato cavaliere dell'ordine militare di Savoia, nell'agosto 1861 ebbe il grado di luogotenente-colonnello di cavalleria.

Tra l'autunno del 1861 e la primavera del 1862 svolse una funzione di collegamento tra il governo Rattazzi e Garibaldi in previsione di una futura missione di questo. In seguito al definitivo scioglimento dell'Esercito meridionale (marzo 1862) presentò le dimissioni dall'esercito e affiancò Garibaldi nell'azione di propaganda per la diffusione delle società di tiro a segno nel Nord Italia. Contestualmente divenne il referente militare per l’invasione del Tirolo italiano che il Generale stava progettando, contando sull'ambigua condotta del governo italiano.

Arrestato insieme a un primo nucleo di volontari nei pressi di Sarnico, il 14 maggio 1862 venne individuato dal governo, ben intenzionato a misconoscere il suo ruolo e quello di Garibaldi nella vicenda, come potenziale capro espiatorio. In favore di Nullo si sviluppò tuttavia un'ampia campagna di opinione pubblica, guidata dalla Sinistra democratica e garibaldina, a partire da Garibaldi e da Francesco Crispi il quale assunse la difesa legale, e caratterizzata da petizioni al ministero dell'Interno, attestazioni di solidarietà e manifestazioni popolari (che a Bergamo e Brescia sfociarono in veri e propri tumulti).

La sfortunata esperienza di Sarnico e la vigilanza della polizia non impedirono a Nullo, scarcerato in attesa del processo, di seguire Garibaldi nel suo nuovo viaggio in Sicilia, di cui fu anzi, probabilmente, uno dei promotori nella riunione tenuta a Belgirate in casa dei Cairoli. A causa della vigilanza della polizia riuscì a raggiungere Garibaldi solo a spedizione iniziata, ma gli fu accanto e lo sostenne sino allo scontro finale di Aspromonte, al termine del quale fu lui a trattare la resa con il colonnello Emilio Pallavicino, per poi accompagnare Garibaldi prima in Sicilia e poi a bordo del Duca di Genova fino a La Spezia.

Internato nel carcere militare di Fenestrelle, poi scarcerato il 5 ottobre in seguito all'amnistia per le nozze di Maria Pia di Savoia con il re del Portogallo, rinunciò alle decorazioni onorifiche e tornò occuparsi dei suoi affari commerciali e industriali. Fu però, nuovamente, una breve pausa. Si gettò infatti a capofitto nell'attività cospirativa patriottica e repubblicana che faceva capo a Mazzini e all'ala più intransigente e radicale del Partito d'azione, mentre incominciava ad affacciarsi l'idea di una spedizione nei Balcani che portasse lo scontro nel cuore stesso degli imperi autocratici, l'austriaco, ma anche il russo e l'ottomano.

L'occasione giusta, svanita l'effimera ipotesi di una rivoluzione repubblicana in Grecia, fu offerta dal divampare della rivolta antizarista in Polonia che, scatenata dall'imposizione della leva militare da parte delle autorità russe, suscitò una fortissima ondata di simpatie in tutto il mondo democratico e liberale europeo. In particolare Mazzini vi vide l'opportunità di riprendere su vasta scala la rivoluzione europea e assestare il colpo di grazia all'impero austriaco. La rete cospirativa mazziniana e più generalmente democratica in Italia si mise così in moto. Nullo e Cucchi nei primi mesi del 1863 fecero da tramite tra Mazzini e Garibaldi con l'obiettivo di farli accordare su una spedizione in Veneto che avrebbe al contempo allentato la pressione sugli insorti polacchi, garantito Venezia all'Italia e dato il via a una nuova ondata di rivolte europee in particolare in Ungheria e nei Balcani. Tuttavia l'intesa tra Mazzini e Garibaldi stentò a decollare per il rifiuto del primo di rinunciare pregiudizialmente alla propria opzione repubblicana e per il timore del secondo di una riedizione di Aspromonte.

Poiché l'intenso lavorio dei comitati democratici sparsi in tutta Italia, e in particolare in Lombardia, rischiava di vanificarsi a causa dei dissidi tra i due leader, Nullo decise di sfuggire alla contrapposizione paralizzante tra Mazzini e Garibaldi e prese contatti direttamente con il Comitato rivoluzionario polacco, impegnandosi a organizzare un corpo di spedizione volontario e accantonando così la 'questione italiana' e la sua difficile soluzione. Il 19 aprile 1863 lasciò per l'ultima volta Bergamo. Diretto ufficialmente in Austria per ragioni commerciali, si recò prima a Vienna e poi a Cracovia, dove lo raggiunsero gli altri volontari italiani. Nella città polacca tuttavia l'affluire massiccio di tanti stranieri suscitò i sospetti della polizia che procedette a retate e a rimpatri forzati, cui lo stesso Nullo si sottrasse a stento. Obbligato a stringere i tempi, il 2 maggio Nullo, che aveva il comando effettivo della colonna di insorti e volontari stranieri, formalmente guidata dal generale Józef Miniewski, abbandonò la città e varcò il confine russo, puntando a ricongiungersi con il grosso delle truppe degli insorti. Passato il confine, con la dozzina di volontari italiani sfuggiti agli arresti della polizia austriaca, cui si erano uniti alcuni volontari francesi e polacchi provenienti dall'emigrazione, fu costituita formalmente in Legione straniera e a Nullo fu assegnato dal governo rivoluzionario polacco il grado di generale.

Dopo una breve scaramuccia vittoriosa il giorno precedente, il 5 maggio 1863, la Legione si scontrò con un reparto russo nettamente superiore, nei pressi della località di Krzykawka, non molto distante da Olkusz. Rimasto in prima fila nonostante fosse stato ferito, Nullo fu nuovamente colpito, questa volta a morte.  Subito dopo i russi ebbero la meglio sui ribelli ormai sbandati che cercavano di riconquistare il confine austriaco.

Il giorno successivo, per ordine del principe Szachowskoi, comandante del reparto cosacco contro cui si era battuto, ordinò di recuperare il corpo di Nullo e di assicurarne la sepoltura nel cimitero di Olkusz.




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mercoledì 29 aprile 2015

L' OSSARIO DELLA TORRE A LAVENO

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Francesco Pullé acquistò il Colle di Castello di Laveno con l'intento di dare onorata sepoltura ai resti dispersi dei soldati, garibaldini e austriaci, che persero la vita il 30 maggio 1859 durante il tentativo di presa dei forti da parte dei Cacciatori delle Alpi. «Sacrificando a tal fine ogni altro genere di coltura, il prof. Pullé dispose che vi si sostituisse una piantagione di conifere ed altre essenze boschive: 36.000 di numero, per le quali furono preparate altrettante buche, fosse e vivai. Per tal modo il terreno, a distanza di un metro e mezzo in tutti i sensi, veniva crivellato e perlustrato». Fece erigere inoltre al centro del forte austriaco una torre commemorativa e poco distante un monumento ossario dove furono raccolti i resti rinvenuti durante i lavori di ricerca. Il monumento fu sostituito con una nuova tomba in occasione del primo centenario del fatto d'armi di Laveno. Sulla torre, per molti anni sede di un museo di cimeli garibaldini, fece apporre due lapidi commemorative .

Sul monte Castello, da cui si potevano controllare il Sempione e le valli del Gottardo, importante via di transito da e per la Svizzera, i resti di un’antica fortezza diventarono un fortino accessibile da una strada ripida e sorvegliatissima: il Forte Castello.
I militari ricostruirono anche parte della cinta muraria usando solo sassi e rocce.
Presso la torre, un ossario testimonia le battaglie che i Cacciatori delle Alpi guidati da Garibaldi sostennero, nel 1859, contro gli Austriaci.

Il Forte Castello era collegato mediante telegrafo al fortino di Cerro che, a pianta circolare, era formato da due casermette sovrapposte e da un terrazzo connessi da una scala elicoidale: oggi è una residenza privata di gran pregio.

Del Forte Nord non è rimasto nulla, ma nel 1854 poteva ospitare fino a 25 soldati. Unito alla caserma da una strada carrabile, dominava i rami del lago. La struttura era tutta in mattoni, con un rivestimento esterno in pietra grezza. La sua denominazione originale Blockhaus (costruzione a blocchi) testimonia l’assemblaggio di figure geometriche della sua architettura: uno spazio semicircolare, uno rettangolare e uno rettangolare combinato.

Nell’arsenale, infine, proprio di fronte alla rada di Laveno, stanziava la flotta austriaca. Si trattava di un caseggiato a un solo piano suddiviso in sei locali, tra cui un magazzino, un laboratorio, una cucina-dormitorio e un ufficio.



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LA VILLA DE ANGELI FRUA A LAVENO

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È l'edificio più monumentale di Laveno, costruito a metà del 700 dalla famiglia Tinelli. Venne ceduto nel 1896 al senatore Ernesto De Angeli, nativo di Laveno, che con il cognato Giuseppe Frua aveva dato vita ad una delle più importanti industrie tessili italiane. La pianta ad U ricalca l'andamento delle precedenti cascine. Circondata da un bel parco, è oggi proprietà comunale e sede del Comune e della Biblioteca.

Ospite illustre di Villa Frua fu Giuseppe Garibaldi, protagonista del Risorgimento in molte zone del Lago Maggiore, sia in Provincia di Varese che in quella di Novara e Verbania, durante la campagna contro gli austriaci del 1859. In occasione di una sua visita nel 1862, dopo la Spedizione dei Mille, parlò al popolo di Laveno dal balcone della Villa che si apre sulla piazza.

La Villa ha accolto importanti rassegne d'arte ed è sede di importanti congressi e famose esposizioni. Negli anni '70 ospitò nelle sue sale le opere di alcuni tra i più importanti artisti del ‘900, tra cui Valerio Adami e Lucio Fontana.
Nel 1997 Villa Frua venne chiusa per consentire i lavori di restauro e tornare a svolgere un ruolo centrale per il territorio.
Oltre ad ospitare la sede Comunale, la villa include anche la Biblioteca Comunale di Laveno, che, con i suoi oltre 50.000 volumi, è una delle più grandi dell'intera Provincia di Varese e Biblioteca Centro Sistema del Sistema Bibliotecario dei Laghi.







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lunedì 27 aprile 2015

VILLE PONTI A VARESE

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Le Ville Ponti sono un complesso di ville residenziali edificate sulla collina di Biumo Superiore (nel territorio comunale di Varese) tra il XVII e il XIX secolo. Il nome deriva dall'industriale Andrea Ponti, che acquisì il complesso nel 1838, unì i vari giardini che lo componevano e fece costruire la dimora principale.

La dimora signorile di Villa Ponti, costruita nel 1858 in stile veneziano neo-rinascimentale dell'architetto Giuseppe Balzaretti, era stata commissionata dall'industriale tessile Andrea Ponti. Costui, nato a Gallarate nel 1821, aveva assunto con il fratello la guida della ditta che divenne in seguito la "Antonio & Andrea Ponti": in questa famiglia emersero due personaggi destinati a divenire, nel campo economico e sociale, tra i più rappresentativi nell'ambito dell'imprenditoria lombarda dell'epoca, Andrea e suo figlio Ettore.

Il cantiere della Villa procedette a rilento e il disegno iniziale non venne mai portato a totale compimento forse per intervento del proprietario che ritenne l'inserimento delle due ali laterali pregiudizievole per l'aspetto monumentale del corpo centrale. Nel 1961 la proprietà della Villa passò dal marchese Gian Felice alla Camera di Commercio di Varese che, pur lasciando intatto il prezioso patrimonio d'arte in essa custodito, la destinò, con l'attigua Villa Napoleonica, ad essere utilizzata come Centro Congressi.

Il complesso, comprendente tre edifici, è circondato da un parco esteso per diversi chilometri quadrati. Nel 1961 il marchese Gian Felice Ponti, ultimo discendente della famiglia, vendette l'intero complesso delle ville, compresi i loro arredi, alla locale Camera di Commercio, che lo adibì a centro congressi.

La villa principale del complesso (villa "Andrea Ponti") venne costruita tra il 1858 ed il 1859 ad opera dell'architetto milanese Giuseppe Balzaretto (che si occupò altresì della riprogettazione dei giardini). La struttura, di stile neogotico e caratterizzata dai contrasti cromatici di rosa e bianco sulle facciate, si sviluppa in un corpo cubico, ispirato al mastio di un castello, posto nel punto più alto della collina. Il progetto originario comprendeva anche due ali laterali di grandi dimensioni, che sarebbero state costruite con il medesimo stile, ma per volere del committente non furono realizzate.

Le sale interne si dispongono attorno ad un atrio ottagonale e sono riccamente decorate con affreschi e stucchi. Il tema delle decorazioni varia nelle diverse sale: una di esse è ad esempio dedicata ai grandi talenti italiani, da Galileo Galilei a Dante Alighieri, da Alessandro Volta a Cristoforo Colombo; la decorazione comprende anche statue in bronzo raffiguranti altri personaggi di rilievo della cultura, delle arti e delle scienze italiane.

La "Villa Napoleonica"' o villa "Fabio Ponti", costruita sul finire del XVII secolo, è l'edificio più antico del complesso, modificato in stile neoclassico tra il 1820 e il 1830. Fu acquistato dalla famiglia Ponti come residenza estiva nel 1838 e successivamente il parco (originariamente a sé stante) fu unito a quello della nuova villa "Andrea Ponti".

L'edificio fu il quartier generale di Giuseppe Garibaldi nella cosiddetta battaglia di Varese, combattuta presso Biumo il 26 maggio 1859.

Alla "Villa napoleonica" si affiancano le "Sellerie", una struttura dal tetto a capanna, un tempo utilizzata come scuderia del complesso residenziale.

Essa comprende non solo le stalle propriamente dette e la rimessa per le vetture, ma anche tutti gli alloggi degli stallieri e del personale addetto alle carrozze, oggi trasformati in sale per conferenze.

Dal verde tenero dei prati lo sguardo s'allarga d'improvviso a quello più intenso di piante secolari mentre, in alto, l'azzurro stupendo del bel cielo di Varese racchiude e fascia questa autentica “gemma dei congressi”.

Immergersi nello charme delle Ville Ponti vuol dire cogliere l'occasione unica di scegliere per i propri incontri, meeting e convegni un prestigioso complesso di eleganti dimore storiche immerse nel verde di un lussureggiante parco secolare.

Oggi il Centro Congressi è distribuito su tre suggestive costruzioni d'epoche diverse - la Villa Andrea, la Villa Napoleonica e le Sellerie - circondate da un parco di 56 mila metri quadrati, ricco di essenze rare e realizzato da un personaggio di spicco quale l'architetto milanese Giuseppe Balzaretto. Insieme ai suoi collaboratori, il ticinese Isidoro Spinelli per la parte realizzativa e il botanico tedesco Rudolph Weinhold, ha dato vita a un Parco di stile inglese che presenta pittoresche sistemazioni a roccaglia. Una vegetazione lussureggiante, dove spiccano specie ad alto interesse botanico come il Cedro atlantica e il C. glauca, la Lagestroemia indica, l'Aucuba japonica, il Fagus pendula e il F. asplenifoglia, la Betula pendula, il Quercus rubra, il Pinus wallichiana e il Picea smithiana, la Cunninghamia lanceolata. E inoltre tasso, tiglio, liriodendro magnolia, acero, camelia, rododendro con fioriture caratterizzate da svariati cromatismi, cipresso, tuia e tsuga, olmo, abete, bagolaro, catalpa ed agrifoglio, comprese le splendide carpinate e numerose altre specie vegetali di elevato pregio botanico e paesaggistico-architettonico sono caratterizzanti l'ambiente. Un percorso ben strutturato e con pannelli informativi consente al visitatore di addentrarsi nei luoghi storici del parco, alla scoperta delle specie arboree di maggiore interesse botanico.




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sabato 25 aprile 2015

SANT ' AMBROGIO OLONA

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Sant'Ambrogio è un quartiere della città di Varese posto nel quadrante nordoccidentale dell'area urbana.

Il primo nome del rione fu Segocio, in quanto le cronache del tempo affermano che la Madonna vergine madre di Dio apparve a Sant'Ambrogio nel luogo di "Segocio" (la zona centrale del rione) che in seguito fu chiamato Sant'Ambrogio Olona in onore del Santo Vescovo ed al fiume che scorre nella zona.

Sotto l'impero Romano, anche Segocio, come tanti altri punti strategici circostanti della zona varesina allo sbocco delle valli, venne interessata dalla costruzione di un sistema difensivo formato da presidi di vedetta realizzati con grossi conci di pietra e collegati fra loro attraverso alcune strade, che arrivavano fin sulla cima del Sacro Monte.

Fu così che venne innalzata la torre (oggi campanile), che fece delle poche case che la circondavano il primo vero nucleo di quello che sarebbe diventata l'attuale frazione di Sant'Ambrogio Olona.

Registrato agli atti del 1751 come un borgo di 345 abitanti, nel 1786 Sant'Ambrogio entrò per un quinquennio a far parte dell'effimera Provincia di Varese, per poi cambiare continuamente i riferimenti amministrativi nel 1791, nel 1798 e nel 1799. Alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1805 risultava avere 400 abitanti. Nel 1809 il comune fu soppresso su risultanza di un regio decreto di Napoleone che lo annesse a Velate, ma l'autonomia municipale di Sant'Ambrogio fu poi ripristinata con il ritorno degli austriaci. L'abitato crebbe poi discretamente, tanto che nel 1853 risultò essere popolato da 600 anime, salite a 698 nel 1871. Nel frattempo, dal 1863, il governo aveva cambiato la denominazione del comune in Sant'Ambrogio Olona. Una sensibile crescita demografica nella seconda metà del XIX secolo portò poi ai 1201 residenti del 1921. Fu quindi il fascismo a decidere nel 1927 la nuova e definitiva soppressione del municipio locale, stabilendo l'annessione dell'abitato a Varese.

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Sant’Ambrogio Olona con 622 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento I di Varese, circondario II di Varese, provincia di Como.
Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 640 abitanti (Censimento 1861). Sino al 1863 il comune mantenne la denominazione di
Sant’Ambrogio e successivamente a tale data assunse la denominazione di Sant’Ambrogio Olona (R.D. 8 febbraio 1863, n. 1192). In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867). Popolazione residente nel comune: abitanti 698 (Censimento 1871); abitanti 775 (Censimento 1881); abitanti 880 (Censimento 1901); abitanti 1.064 (Censimento 1911); abitanti 1.201 (Censimento 1921). Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Varese della provincia di Como. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Nel 1927 il comune venne aggregato alla provincia di Varese. Nel 1927 il comune di Sant’Ambrogio Olona venne aggregato al comune di Varese (R.D. 24 novembre 1927, n. 2247).

La chiesa edificata in onore del Vescovo e della vergine, in quei tempi, doveva essere assai ridotta anche perchè il luogo era isolato, ma ricco di essenze arboree, successivamente nel secolo XII la piccola costruzione venne sostituita dalla chiesa "PARROCCHIALE ANTICA" di stile romanico, della quale rimane l'abside accanto al campanile.

L'edificio della chiesa parrocchiale, dichiarato Monumento Nazionale, sorge nel centro della frazione di S. Ambrogio Olona.

Il suo campanile, originariamente privo di cella campanaria e cupola, altro non è che l'antica torre romana presso la quale Ambrogio, vescovo di Milano, sconfisse gli Ariani nell'Alto Medioevo.

La chiesetta - attribuibile secondo alcuni al XII secolo, secondo altri alla seconda metà del XI secolo - venne costruita presso la torre romana preesistente per soddisfare le accresciute esigenze della popolazione del tempo (200-250 abitanti), la cui dipendenza ecclesiastica da Varese diveniva pesante, anche a causa delle difficoltà nei collegamenti fra i due abitati.

L'edificio attuale sorge sul luogo dell'antichissima cappellina: la parte absidale tuttora visibile ne testimonia lo stile romanico, orientato secondo l'antica usanza da oriente a occidente e dalla forma di rettangolo perfetto, a cui si aggiunge il semicerchio dell'abside.

Nonostante la perdita nel 1890 di una buona metà della struttura originaria, si possono ancora vedere le immorsature della copertura originaria del tetto, la finestra centrale ancora intatta e le tracce di quella a nord (quella a sud, sulla piazzetta, è stata eliminata nel ‘700).

Sul fianco meridionale inoltre sono visibili, in alto, i resti di una finestra ad arco tondo, della primitiva costruzione romanica.

Dopo studi approfonditi, nel 1949 il pittore santambrogino Luigi Daverio ha richiamato l'attenzione di critici e studiosi sul notevole complesso di affreschi interno alla chiesa.

Nella volta della cappella laterale dell'antica parrocchiale, inquadrati tra stucchi di fattura barocca, sono stati svelati dipinti attribuiti a Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il più singolare artista del Seicento lombardo, le cui opere sono ammirate anche nella Basilica di S. Vittore di Varese, nella settima cappella del Sacro Monte, nel Santuario di Varallo, a Novara, Como, Piacenza.

Al centro degli affreschi è raffigurato l'Eterno Padre benedicente, attorniato dalla colomba simbolo dello Spirito Santo e da pannelli con gruppi di angeli musicanti di mirabile fattura.

Dopo attenti studi, anche la bellissima Madonna dipinta su tavola da anni riposta nel coro, ha ritrovato l'antico splendore: essa è dovuta al valente pennello di Carlo Francesco Nuvolose (1608-1661), il maggior esponente di una famiglia di noti pittori, discepolo di Giulio Cesare Procaccini.

Celebri i suoi dipinti e ricercatissime le sue Madonne che, ricche di grazia e di soavità, si avvicinavano moltissimo allo stile del Veronese e del Murillo.

Tutti gli studi critici e le attribuzioni sono state pienamente confermate dalla professoressa Eva Tea, docente di storia delle Arti all'Accademia di Brera e all'Università Cattolica di Milano, nel corso di un sopralluogo eseguito a brillante coronamento del lungo e paziente lavoro compiuto dal Daverio.

La chiesa parrocchiale di S. Ambrogio si onora, inoltre, anche di due notevoli bassorilievi che un parrocchiano, lo scultore Angelo Frattini, eseguì agli inizi della sua felice carriera artistica.

Essi sono in opera nelle lunette sopra le porte che dall'altare maggiore introducono in sacrestia e alla Grotta di Lourdes, e raffigurano La Speranza e La Fede.

S. Ambrogio ha sempre nutrito un profondo culto per la patria, ad onore e gloria della quale ha anche immolato parecchi dei suoi Figli migliori: ne è testimonianza il Monumento ai Caduti, eretto in piazza Milite Ignoto dopo la prima guerra mondiale.

Lo scultore Ernesto Bazzano, chiamato a realizzare l'opera, modellò un soldato che impugnava la bandiera nazionale, proteso verso la trincea nemica.

Il bronzo, collocato su un piedistallo di pietra in mezzo a un giardinetto recinto, vi rimase fino al 1943, quando venne rimosso dalle truppe tedesche di stanza in Alta Italia, che lasciarono solo il nudo piedistallo.

Al termine del secondo conflitto mondiale, un Comitato esecutivo emanazione della locale Sezione Combattenti e Reduci, diede incarico al santambrogino Angelo Frattini di studiare un nuovo bronzo, raffigurante la gioventù nell'atto di stringersi al petto la bandiera, simbolo della Patria.

L'opera, realizzata con il solidale contributo di tutta la popolazione, venne inaugurata il 9 settembre 1957 alla presenza delle maggiori autorità cittadine e provinciali e dell' onorevole Tambroni, allora Ministro degli Interni, che tagliò il nastro d'onore.

Il bronzo fu anche benedetto dal parroco don Barnaba Stucchi, e fu madrina la signorina Corinna Marocchi, sorella di un glorioso caduto pluridecorato.

Sulla pietra del piedistallo venne scolpita questa dedica: "Sulla pietra monca e fredda risorge il Soldato d'Italia. Nello sguardo la visione della Vittoria, della Gloria, del Martirio. Nel gesto, la difesa della Patria immortale."

S. Ambrogio Olona è ricordata nella storia del Risorgimento italiano per aver ospitato il grande condottiero dei Cacciatori delle Alpi e delle camicie rosse, nelle giornate fatidiche del maggio 1859, quando la città di Varese si affrancò dalla dominazione austriaca.

Racconta in proposito lo scrittore Carrano: "L'ex maggiore austriaco a riposo, italiano, abitava in S. Ambrogio la casa di una suo nipote, residente in Londra la quale, presentando, unica fra le altre, un aspetto civile e vago, poteva essere facilmente rimarcata ed attirare lo sguardo e l'attenzione dei passeggeri.

Quando giunse Garibaldi era già calata la notte, ed anche senza le eccezionali circostanze d'allora, la porta della casa in discorso sarebbe stata egualmente serrata, poiché era vecchia abitudine del maggiore Zanzi il coricarsi presto la sera per alzarsi prestissimo il mattino.

Era dunque naturalissimo che la porta fosse chiusa, e che s'avesse a picchiare per farla aprire, allorché Garibaldi decise di volere entrare a passare la notte in quella casa.

Il maggiore Zanzi era a letto ammalato, ma diede ordine al proprio domestico di aprire e dare ospitalità.
Per cui la casa fu tosto messa a disposizione del generale Garibaldi e del suo seguito.

In un momento furono approntati 24 materassi per ristorare le membra affaticate dei sopraggiunti e le tre nipoti del signor Zanzi – per quanto spossate e bisognevoli anch'esse di riposo, in quanto ivi rifugiatesi, fuggitive da Varese – vegliarono in piedi tutta quanta la notte, per cedere stanze, letti, divani e sedie ai benvenuti".

Nella casa Zanzi, Garibaldi riposò in una stanzetta a piano terreno, dove non c'era di meglio che un libro legato elegantemente "che era uno schema o almanacco militare dell'Impero d'Austria".

Sempre dal suo quartier generale di S. Ambrogio, il grande Condottiero italiano scriveva al Commissario Regio in Como, signor Venosta: "Io sono a fronte del nemico a Varese – penso di attaccarlo questa sera. Mandate i paurosi e le famiglie che temono fuori della Città, ma la popolazione virile, sostenuta dal Camozzi nostro, le due Compagnie, i Volontari e le campane a stormo, procurino di fare la possibile resistenza".

Prosegue il Della Valle nel suo libro: "A tale scopo, scaglionati i suoi Battaglioni a destra verso Masnago, ed a sinistra verso Induno, egli stesso in persona (Garibaldi) collocò gli avamposti dinnanzi a S. Ambrogio.

Quindi, accompagnato da due ufficiali di Stato Maggiore, dal capitano Simonetta e dal signor Adamoli di Varese, si portò per una ricognizione su di un colle a destra della strada da S. Ambrogio a Varese, da dove poté osservare la sottoposta Città e rilevare le forti posizioni che gli Austriaci tenevano fuori di essa, sulle alture e nelle ville circostanti.
Conosciute quelle favorevolissime posizioni del nemico, vedutolo preparato e pronto a riceverlo, e consideratone il numero sproporzionatamente superiore alle sue forze, Garibaldi dimise il pensierino di tentare nuovamente colà la fortuna delle armi e fece ritorno a S. Ambrogio".

Era il I giugno 1859.

Il giorno seguente "…il generale andò fuori all'alba a riconoscere il nemico, secondo il suo costume di volere osservare ogni cosa coi propri occhi, e scoprì che esso erasi avanzato anche verso S. Ambrogio, occupando Biumo Superiore, e dominando da questo promontorio la strada da S. Ambrogio a Varese.

S.Ambrogio vanta la presenza di numerose ville d'epoca liberty, con torrette, palmizi e ferri battuti floreali, segno della stagione turistica d'inizio secolo e del primo dopoguerra: molti signori di Milano infatti sceglievano la zona tranquilla e salubre del Varesotto per trascorrervi i mesi estivi.

Di grande suggestione è Villa Toeplitz, costruita in stile eclettico sul finire dell'800 per conto della famiglia del fondatore dell'appena fondata Banca Commerciale Italiana.

La villa, costruita sulla collina a levante del paese, è in posizione dominante verso l'Orsa, il Bisbino, Brunate, la piana di Induno, il Comasco e verso la zona a mezzodì del Rione.

Oltre alla terrazza panoramica affacciata sulla valle dell'Olona, è da notare la torretta con specola per le osservazioni astronomiche. Lo splendido parco, realizzato nel 1927, è percorso da un sofisticato gioco di prospettive e sentieri e disseminato di notevoli fontane in pietra.

Lo splendore della villa troverebbe origine nella determinazione e nel gusto di donna Edvige Toeplitz, ispiratrice del meraviglioso giardino e collaboratrice intelligente del marito, Giuseppe Toeplitz, che verso la fine della prima guerra mondiale, acquistata la villa a cui diede il proprio nome, ampliava i terreni della proprietà fino ad avere lo spazio sufficiente alla realizzazione di uno dei suoi sogni.

Un lato del terreno fu trasformato in frutteto, con una coltura completa di ogni qualità di pere e mele ad alto fusto. Nel medesimo tempo, l'interno della villa subiva notevoli modifiche, mentre nella zona più alta del parco veniva edificata la bella Cappella.

La realizzazione dello splendido parco fu affidata a un famoso giardiniere francese, a patto tuttavia che si attenesse alle precise indicazioni di donna Edvige, ispirate alle meraviglie osservate durante i suoi avventurosi viaggi in Asia.

Ad esempio, il disegno del giardino riconduce chiaramente a Shalimar-Bag e Nisha-Bag, le due più belle realizzazioni dell'imperatore mongolo Babar (detto proprio "Padre dei Giardini"), da cui donna Edvige rimase profondamente affascinata durante il suo viaggio nel Kashmir.

La villa ed il suo parco diventarono presto centro di raffinata vita culturale ed artistica: intorno a donna Edvige si raccoglievano musicisti, compositori, cantanti, attori e attrici.

I Toeplitz, profondamente religiosi, vollero anche la costruzione di una Cappella, per la quale fu chiamata dalla Polonia la signorina Goraska, architetto, che diede vita a un piccolo capolavoro.

Degli affreschi si occupò il celebre pittore polacco Rosen, lo stesso che, su invito di Papa Pio XI, eseguì nella Cappella privata del Pontefice a Castelgandolfo gli affreschi della difesa di Czestochowa, raffigurandovi la famosa Madonna Nera. Lo stesso Rosen ha affrescato anche la cappella di famiglia al cimitero di Sant'Ambrogio dove è raffigurata l'immagine del Cardinale di Milano S.E. Idelfonso Schuster.

Ma le sorprese, in questo giardino della felicità sono quasi inesauribili.

Donna Edvige, che si interessava anche di astronomia, fece costruire anche un piccolo Osservatorio, perfettamente attrezzato, valendosi della collaborazione del prof. Bianchi, direttore dell' Osservatorio di Brera e creatore dell' Osservatorio di Merate e del Planetario di Milano.

Con la morte di Giuseppe Toeplitz, il complesso fu ereditato dalla moglie e dal figlio Ludovico che, dopo la seconda guerra mondiale, lo vendettero ai fratelli Mocchetti di Legnano.

Nel lasciare la villa, dopo la scomparsa del marito, donna Edvige cedette sì il telescopio ma lasciò intatta la cupola mobile.

La proprietà passò infine, nel 1972, al Comune di Varese, che volle aprire il parco al pubblico e destinare l'edificio ad una funzione scolastica.

Attualmente la villa è sede dell'Università dell'Insubria di Varese.

Il complesso dei Molini Grassi, sia per la loro struttura architettonica (sono composti da più edifici su più livelli naturali lungo l'Olona) che per la dotazione ruote (ben sette iscritte a Catasto nel 1881) è stato senza dubbio uno fra i più importanti della nostra zona.

Date presenti su una parete interna dell'edificio più a Sud (1730) e soprattutto l'affresco esterno sulla facciata dell'edificio a Nord (1675) ne attestano la presenza sin dai tempi più antichi.

Ancora di grande valore l'ambito circostante.

Il complesso dei Molini Grassi, grazie anche ad  alcuni   recenti   interventi  di   restauro,  ha mantenuto una consistenza strutturale originaria ancora facilmente visibile.

Sono tuttora presenti due ruote in ferro a  testimonianza di un passato recente.

Attualmente parte degli edifici (quelli a Nord sono disabitati, mentre gli altri sono abitati).




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venerdì 24 aprile 2015

VILLA MIRABELLO E IL MUSEO

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La Villa sorge in Piazza della Motta. Fu edificata nel Settecento, sulla sommità del colle omonimo, chiamato Mirabello per lo splendido panorama che da qui si apriva sul lago e sulla catena delle Alpi. Le prime tracce di una casa in località Mirabello risalgono al 1725, la proprietà passò poi al conte Gaetano Stampa di Soncino, alla famiglia Taccioli e ai Litta-Modignani. Nel 1843 la villa fu rinnovata in stile "inglese" e dotata di ampio parco. Della costruzione settecentesca resta l'interessante oratorio della Beata Vergine Addolorata, progettato nel 1767 dall'architetto varesino Giuseppe Veratti. Passeggiando per il vasto parco all'inglese che circonda la villa e che nell'abetaia si ricongiunge ai giardini Estensi, si ha modo di ammirare essenze rare e piante secolari, tra le quali un maestoso esemplare di cedro del Libano.
Nei locali che furono le scuderie ottocentesche, la Villa ospita ora i Musei Civici.

Il Museo è ospitato nella storica villa gentilizia che, alla sommità del colle omonimo, domina il panorama del Lago di Varese con lo sfondo delle Prealpi. La collezione del Museo Archeologico nasce dalla raccolta del Museo Patrio, arricchita e potenziata nella parte archeologica grazie ai numerosi reperti propri della zona e provenienti dalle campagne di scavo e ricerca dell’insediamento palafitticolo dell’Isolino Virginia.
Oltre alla preistoria, testimonianze di età romana e la recente sezione dedicata al Risorgimento, nella città che fu la prima ad essere liberata nel 1859 da Garibaldi che iniziava la sua impresa di unificazione della penisola. Imperdibile la tecnologica animazione suoni e luci che fa rivivere il monumentale quadro “Lo sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende” (1865) di Eleuterio Pagliano, in cui è rappresentato lo staff garibaldino al gran completo.

Nato nel 1871 dall'iniziativa di studiosi e appassionati locali animati dall'intento di raccogliere testimonianze storiche e archeologiche del territorio varesino, il museo venne notevolmente ampliato nel 1924 con la donazione della collezione del marchese Andrea Ponti, finanziatore e promotore di ricerche archeologiche presso l'Isolino Virginia, sito palafitticolo preistorico (oggi tutelato dall'Unesco) collocato su una piccola isola del lago di Varese di cui egli fu proprietario.

Il materiale conservato presso il Civico museo archeologico, proveniente da scavi sistematici (come l'Isolino Virginia e Bodio Lomnago), da scoperte fortuite (come la Seconda Tomba del Guerriero, portata alla luce presso Sesto Calende durante alcuni lavori edili) e da donazioni private (come quella della prestigiosa collezione del marchese Ponti), si presenta assai variegato e poliedrico. I reperti coprono un arco cronologico estremamente ampio che comprende la Preistoria (particolarmente rappresentati sono il Mesolitico e Neolitico), la Protostoria (età del Bronzo ed età del Ferro), il periodo romano (rappresentato da materiali provenienti prevalentemente da necropoli e sepolture) e l'epoca altomedievale (periodo dei Longobardi).

Fra i reperti più antichi conservati presso Villa Mirabello si riscontrano piccoli strumenti in selce, microliti, datati al Mesolitico e rinvenuti nel corso di varie ispezioni di superficie presso i laghi di Ganna e Torba. In questa prima sezione del museo viene inoltre esposta una porzione di cranio umano scoperta in una grotta della Valganna, significativa per testimoniare la presenza in questa zona dell'uomo primitivo, nonostante incertezze sulla precisa datazione (certamente il cranio è preistorico).

La ceramica costituisce una delle novità archeologiche più rilevanti dei ritrovamenti risalenti al Neolitico. Il museo espone diversi recipienti del periodo Neolitico antico che presentano forme ed elementi decorativi similari appartenenti ad una tipologia vascolare peculiare, quella del cosiddetto Gruppo Isolino.

Il periodo del Neolitico medio (4500-3900) è particolarmente rappresentato da ceramiche della Cultura dei vasi a bocca quadrata, caratterizzati dal tipico orlo a quattro lati. Uno scodellone a bocca quadrata si rivela interessante perché presenta alcuni "fori di restauro", utili a fissare frammenti di cordame di origine vegetale (ormai perduti) con i quali l'uomo del Neolitico aveva tentato di riparare un oggetto per lui prezioso.

Gli scavi effettuati a più riprese presso il sito dell'Isolino Virginia e quelli condotti presso la Lagozza di Besnate (sito palafitticolo scavato sin dagli anni '70 del XIX secolo), hanno riportato alla luce una molteplicità di reperti databili al Neolitico recente, alcuni dei quali si presentano interessanti e curiosi.

Gli acciarini conservati al museo di Villa Mirabello sono stati ritrovati a più riprese sull'Isolino Virginia, durante gli scavi ottocenteschi (acciarino eccezionalmente integro), durante quelli degli anni '50 del Novecento condotti da Mario Bertolone e in quelli condotti in anni ancora più recenti. Questi reperti sono datati al Neolitico recente, ultimo periodo della Preistoria, intorno al 3900-3400 a.C.

Un reperto eccezionalmente conservatosi in modo completo ci consente di conoscere come fossero costituiti questi "accendini preistorici", utilizzati dagli uomini primitivi per accendere il fuoco (impiegato sia per la cottura della carne che come fonte di calore). Essi erano formati da un elemento in selce, che costituiva la pietra focaia, incastrato in una scanalatura del manico in corno al quale era fissato con mastice.

Un recipiente in terracotta appartenente all'ordine dei vasi globulari, rinvenuto presso la Lagozza di Besnate, presenta delle bugne forate che consentivano di essere appeso con legacci di fibra vegetale a un supporto sospeso. Per rendere maggiormente evidente la presunta foggia originale e facilitare la ricostruzione della probabile collocazione storica, il reperto è stato sottoposto ad un restauro ricostruttivo, cioè la ricostruzione del vaso attraverso l'incorporazione dei frammenti originali.

Frammenti vitrei impiegati nella realizzazione di monili, chiamati a nord delle Alpi "Le perle delle palafitte", sono stati rinvenuti presso l'Isolino Virginia e oggi conservati presso il civico museo. Presumibilmente datati al periodo del Bronzo finale, in molti ritrovamenti archeologici (in siti palafitticoli dell'area veneta e raramente in quelli dell'area lombarda) le "perle delle palafitte" risultano spesso associate a ritrovamenti di ambra, tanto da far supporre che fossero un oggetto di scambio con questo tipo di materia prima.

La Spada di Biandronno è stata ritrovata tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 lungo la sponda nord del lago di Biandronno. È stata datata tra il 1700 e il 1000 a.C., risale perciò alla fine dell'età del bronzo. Si presume che la spada, all'epoca oggetto di prestigio, fosse stata lasciata lì di proposito come offerta votiva, in quanto, durante quel periodo, l'uso di deporre oggetti metallici nell'acqua era frequente. Questa usanza (diffusa prevalentemente a nord e a sud delle Alpi), infatti, era di carattere rituale: oggetti preziosi venivano offerti alle divinità per ottenere il loro favore o lasciati accanto al defunto possessore dell'oggetto. Spesso le armi venivano piegate o spezzate per renderle inutilizzabili affinché l'unico proprietario rimanesse il defunto guerriero. Questo tipo di spada, con la lama corta (30 cm circa) e leggermente foliata è detta "tipo Biandronno" ed è diffusa prevalentemente nell'area padana e nella zona alpina.

Il lastrone, in origine parte di un masso erratico, venne usato come copertura di una tomba golasecchiana a cassa (la datazione indicativa è al periodo dell'età del ferro), scoperta negli anni '30 del Novecento e contenente ancora qualche residuo di corredo. Sopra di esso si osservano numerose coppelle miste a impronte di piedi umani di varie dimensioni. Le impronte di piccole dimensioni potrebbero essere collegate ai riti di iniziazione dei fanciulli per il loro passaggio all'età adulta. Tala pratica di incidere nella pietra orme di piedi con finalità propiziatorie è testimoniata anche in età romana (alla quale risalgono impronte di piedi affiancate alla figura di Iside), e in epoca medievale (l'impronta di piede destro rappresentava il Sacro). La relativa abbondanza di queste testimonianze sul territorio varesino ha favorito la formazione all'interno della cultura popolare di particolari nomi ed espressioni gergali che offrono spunti interpretativi circa la loro supposta origine miracolosa o mitica.

La cosiddetta Seconda Tomba del Guerriero di Sesto Calende è un corredo funebre risalente al VI secolo a.C. e appartenente alla Cultura di Golasecca, una civiltà sviluppatasi durante l'età del ferro nella zona a sud del Lago Maggiore.

Nel 1959 a Mercallo dei Sassi è stata rinvenuta una tomba che custodiva le ceneri di una bambina di circa 10 o 12 anni, sepolta insieme a un prezioso corredo (della metà del I secolo d.C.), che purtroppo non è stato rinvenuto completamente. La fanciulla probabilmente apparteneva a una famiglia molto agiata: il padre doveva essere un personaggio influente, in grado di procurare a sua figlia oggetti di grande pregio, realizzati da artigiani abili nel lavorare materiali preziosi. Forse la famiglia abitava in una villa vicino al lago di Comabbio.

Al momento di deporre la bambina nella tomba i genitori hanno voluto circondarla degli oggetti che in vita aveva più amato, alcuni gioielli e i suoi giochi. Nella tomba sono stati trovati una ciotolina in ambra, due anforette, una coppetta in argento, un'ampollina in cristallo di rocca, uno specchietto d'argento e una piccola rocca per filare con due fusi. Gli elementi di serratura fanno pensare che almeno parte degli oggetti di corredo fosse custodita in un cofanetto, mentre alcuni fili d'oro raccolti tra le ceneri ci fanno pensare che la bambina fosse stata sepolta con un abito riccamente ornato.

Tra i reperti romani rinvenuti presso Angera, spiccano alcune anfore, che in origine avevano la funzione di contenitori per olio, vino e derrate alimentari. Forse realizzate da un laboratorio nei pressi del Ticino, erano destinate al trasporto su vaso raggio che animava il mondo romano, almeno nella regione cisalpina occidentale o transalpina.

La coppa Cagnola, donata al Museo Civico di Varese da don Guido Cagnola nel 1947, è un esemplare molto pregevole di vetro incolore semitrasparente, lavorato a giorno in modo da ottenere una decorazione formata da due colonne tortili e due colonne scanalate con capitelli corinzi alternate a maschere tragiche che pendono da un festone. Per quanto riguarda le dimensioni di questa coppa, essa ha un'altezza di 11,5 cm e un diametro all'apice di 13,5 cm. Non è noto il luogo di ritrovamento anche se le ipotesi più probabili riguardano la Sardegna oppure Alessandria.

Il processo di fabbricazione di questi oggetti di lusso, noti come vasa diatreta (diatreton; latino: vas diatretum, al plurale diatreta), prevedeva un difficile lavoro di intaglio e incisione della superficie di una forma grezza. La realizzazione delle coppe a gabbia avviene dapprima soffiando all'interno di uno stampo, una massa vitrea che può essere composta da strati di colore diverso, il che consente di ottenere un oggetto dalle pareti di considerevole spessore. A seguito del raffreddamento, si procede all'intaglio a freddo, operazione che richiede un'elevata capacità tecnica, essendo altissimo il rischio di fratturare l'oggetto. Il risultato finale era quello di ricavare un reticolo o una decorazione più complessa che sembrasse staccata dal vaso al quale era unita solo mediante sottili ponticelli di raccordo. Spesso i vasa diatreta erano utilizzate presso le corti dei nobili come calici durante i banchetti e i convivi.

Accanto agli esemplari con ricca decorazione figurata, gli antichi maestri vetrai hanno prodotto, già a partire dal I secolo d.C., ma soprattutto tra la fine del III e la prima metà del IV secolo d.C., anche un nucleo di coppe con motivo a gabbia, spesso impreziosito da iscrizioni a lettere rilevate con motti augurali.

I vasa diatreta, opere raffinatamente e abilmente lavorate, sono considerate di esclusiva proprietà di personaggi di alto rango probabilmente collegati alla corte imperiale; ciò sarebbe confermato dal loro ritrovamento in alcuni sarcofagi, per l'appunto destinati alle classi nobiliari. Però, secondo un'ipotesi formulata da David Whitehouse, vista la somiglianza con il reperto di "coppa a gabbia" del Corning Museum of Glass, è probabile che la coppa in esame fosse utilizzata come lampada. Infatti, sotto l'orlo della parte superiore è presente una scanalatura che avrebbe potuto alloggiare il supporto di sostenimento per le catenelle che l'avrebbero sorretta.

L'Astragalo di Biandronno è un peso in bronzo, databile intorno al IV secolo, ritrovato nella località conosciuta come "Chiese Pagane" dove è stato inoltre rinvenuto un peso in piombo da stadera. Questi ritrovamenti fanno ipotizzare la presenza di un insediamento in cui erano frequenti scambi commerciali. Il peso riproduce la forma di un astragalo di un animale e presenta un foro rettangolare attraverso cui, facendo colare all'interno del piombo, sarebbero state raggiunte cento libbre romane, come confermerebbe l'incisione "C" sul peso stesso, probabile abbreviazione di "CENTVM". L'astragalo pesa 17,25 kg vuoto ma probabilmente quando veniva riempito di piombo, attraverso l'apertura rettangolare, raggiungeva un peso pari a 32,7 kg. Nell'antichità gli astragali avevano dimensioni più ridotte ed erano utilizzati per il gioco dell'aliossi. Al momento della fabbricazione, l'astragalo veniva controllato attraverso un confronto con un campione conservato in templi o edifici pubblici. Questa procedura era importante per evitare frodi, infatti non mancano documenti dell'epoca dove vengono trattate verifiche di pesi e misure.

La caldaia di bronzo appartiene ad un gruppo di oggetti scoperti nel 1885 a Bogno, presso Besozzo. Il reperto è tuttora esposto al museo Archeologico di Varese. Fu nascosto, probabilmente da un contadino, in un riparo di mattoni insieme ad una brocca anch'essa in bronzo, tre piccole zappe in ferro e più di 20 kg di monete oggi perdute o comunque non più identificabili. Attraverso alcuni segni individuati sulle monete gli archeologi sono riusciti a datare i reperti attorno al 259-260 d.C.

Il ritrovamento delle tre zappe in ferro evidenzia la grande importanza che le popolazioni rurali attribuivano al possesso di strumenti agricoli, soprattutto in un periodo di incertezza dell’Impero romano dovuta alle pressioni degli Alemanni sui confini.

La caldaia, notevole per le sue dimensioni ( diametro circa 50 cm; altezza circa 60 cm) era quasi certamente una pentola, che i romani utilizzavano per la cottura dei cibi. Si presume che in origine fosse dotata di un coperchio.

Essa ha il corpo in lamina di bronzo martellata mentre il manico ed il cordone a cui è legato in ferro.

Anche la brocca ha il corpo in lamina di bronzo martellata tuttavia il coperchio e l’ansa sono in bronzo a fusione piena. Queste sono le caratteristiche tipiche dei manufatti prodotti nelle officine del nord Italia nel III secolo d.C. che ebbero una certa fortuna ed una notevole diffusione, tanto che sono stati ritrovati anche nella valle del Reno e del Danubio.

Il Civico museo archeologico di Villa Mirabello ospita al suo interno un ricco lapidario che raccoglie materiali lapidei eterogenei come lapidi, are, stele, sarcofagi risalenti prevalentemente al periodo romano.

I rocchi di colonna d'Angera sono uno dei pochi esempi di resti insubri nei pressi di Varese.

Scolpite da artigiani locali sulla base di modelli romani utilizzando però materiale locale (pietra di Angera), queste colonne erano usate in origine in ambito funerario, e poi reimpiegate in un edificio dell'insediamento romano sorto in loco. Alla fine dell'Ottocento, questi resti fungevano ancora da paracarri nella piazza Parrocchiale di Angera; successivamente, nel 1904, vennero dislocati nel cortile delle scuole; dopo qualche anno, nel 1939, confluirono definitivamente nel Museo Civico di Varese. Fra questi sei rocchi di colonne, quattro presentano motivi che si ripetono identici per ogni coppia di frammenti, mentre due sono completamente scanalati. Gli altri due rocchi decorati con motivi differenti presentano il fusto scolpito con girali d'acanto, viticci e rosette, sormontato da una fascia decorata con coppie di grifi arcaizzanti (grifoni), affrontati a lato di un cratere, mascheroni e teste di Gorgone.

Fra le epigrafi e le lapidi di Villa Mirabello, spesso realizzate in pietra calcarea locale, significativa è una lastra posta sulla tomba di Vera. Rinvenuta a Castelseprio prima del 1876, successivamente trasferita a Gornate Olona nella collezione Parrocchetti ed in seguito donata al Museo Archeologico di Villa Mirabello, essa è impreziosita da una decorazione floreale con sei petali inscritti in un cerchio che sovrasta un volto stilizzato. Pur presentando una frattura nella parte inferiore che non ci permette di conoscere l'età di morte di questa donna (vissuta presumibilmente tra il II e il III secondo d.C.), la "lapide di Vera" arreca un'iscrizione ancora ben leggibile rivolta agli dei Mani che nella religione romana erano le divinità che presiedevano alla tutela delle anime dei defunti:

"D(is) M(anibus). Vera vixit annos" "Agli dei Mani. Vera ha vissuto anni..."

La piroga monossile di Monate è un'imbarcazione lacustre ottenuta con un'antica tecnica di lavorazione: essa è stata, infatti, ricavata dal tronco di un unico albero scavato abilmente da un artigiano che, per regolarsi nella sua attività di intaglio, ha utilizzato alcuni "fori guida", ancora oggi marcatamente riconoscibili. Recuperata nel lago di Monate nell'agosto del 1971 a circa 10 metri dalla riva e sottoposta ad un trattamento conservativo insolito (ovvero una successione di bagni di zucchero e acetone che rendessero ottimale la tenuta delle cellule del legno), l'imbarcazione è stata datata con l'analisi del Carbonio-14 (metodo di datazione che fa parte dell'archeometria) al periodo tra il 60-600 d.C., smentendo infondate convinzioni che la ritenevano ancora più antica. Le caratteristiche costruttive e tecniche della piroga monossile di Monate rivelano un perfetto adattamento al contesto lacustre; un'imbarcazione dalle dimensioni ridotte (poteva trasportare al massimo due persone) era ideale per navigare in acque basse e tranquille, sfruttando la spinta propulsiva di una pertica lungo la riva (tecnica utilizzata ancora per governare le gondole) o di una pagaia più al largo. A rimarcare il successo di questa tipologia di barca nella zona lacustre prealpina basti ricordare che dal lago di Monate provengono altre tre piroghe, datate nell'arco di tempo fra il II-III e il X-XI secolo d.C., che presentano molte affinità strutturali con quella di villa Mirabello.

La mummia di Villa Mirabello,denominata così per la sua collocazione attuale, non è stata realizzata artificialmente ma è di tipo naturale.

Esaminata nel 1985 dal prof. Gino Fornaciari, grazie a varie analisi ed operazioni eseguite sul corpo del soggetto si è potuto stabilire che questo reperto risale al 1500-1600 d.C. circa, ma di esso non è noto ne il luogo di provenienza ne le modalità di rinvenimento.

Si tratta del corpo di un bambino di circa 11-12 anni appartenente ad una classe sociale elevata. Ciò si può dedurre dai segni della stampa del vestito che indossava riportati sulla natica sinistra. Sappiamo che probabilmente morì di polmonite.

Le dita della mano sinistra sono rattrappite probabilmente a causa del fatto che stava stringendo un oggetto, identificato come un probabile crocifisso.

Al fine di ottimizzare la sua conservazione, sono stati inseriti pezzi di polistirolo nel torace.

La mummia viene comunemente detta di Mirabello in quanto, essendo stata donata da un privato, non se ne conosce il luogo di ritrovamento e nemmeno come questo reperto sia stato portato alla luce. Le analisi compiute dal professore Gino Fornaciari, dell'università di Pisa, e dalla sua equipe, hanno confermato che si tratta del cadavere di un bambino dell’età di circa di 11 o 12 anni, che grazie alle analisi al Carbonio-14 è stato datato intorno al 1594 ed il 1646 d.C. L'elemento straordinario che connota questo reperto non è, infatti, la sua antichità, ma il fatto che la mummificazione sia avvenuta in condizioni completamente naturali, come avvenne anche per una altra mummia conservata nel Museo egizio di Torino.
Dalle ricerche mediche fatte sulla mummia, come ad esempio esami istologici condotti con microscopi elettronici e ottici, è risultato subito chiaro come essa non sia stata sottoposta a nessun intervento di mummificazione artificiale, dato che al suo interno erano ancora perfettamente conservati gli organi, che venivano solitamente tolti dagli imbalsamatori. Sono state quindi determinate condizioni ambiente che hanno permesso questa conservazione nel tempo. Dal punto di vista anatomico si sono state ritrovati perfettamente integre le membrane polmonari e cardiache. Anche i polmoni ed il cuore sono tuttora presenti, nonostante siano liofilizzati, ossia con un bassissimo contenuto di acqua. In alcuni punti si possono ancora notare perfettamente i calchi dei capillari, delle vene ed i capelli. Persino la pelle, malgrado sia diventata simile al cuoio a causa dell'essiccamento, è ben visibile.

A complemento del canonico itinerario di visita sono attualmente in esposizione presso il Civico museo archeologico di Villa Mirabello alcuni vasi greci a figure rosse di rilevante fattura artistica. I vasi a figure rosse sono vasi decorati mediante la tecnica a figure rosse, sviluppatasi tra la fine del VI secolo e il IV secolo in Grecia, successiva allo stile delle figure nere del VII secolo. Essa consisteva nel cospargere la superficie del vaso in argilla, di colore rosso, con una vernice nera, senza che le figure precedentemente disegnate venissero coperte. In seguito i decoratori procedevano ad una rifinitura accurata, ottenuta con la pittura dei dettagli mediante un pennello sottile. In questo modo, le figure rosse risaltavano maggiormente delle figure nere dei vasi appartenenti allo stile precedente, offrendo una maggiore idea di profondità e naturalezza. I vasi bilingue, sviluppatisi durante il periodo intermedio tra lo stile a figure nere e lo stile a figure rosse, sono caratterizzati dalla presenza di entrambe le tecniche di decorazione. Il motivo di questa convivenza tra stili differenti è dovuto alla minore importanza e diffusione dei vasi a figure rosse, alla quale venivano aggiunte scene decorate a figure nere per permettere un più ampio apprezzamento da parte della popolazione.

Il cratere a calice apulo, realizzato con la tecnica a figure rosse e modellato al tornio, risale al 330-340 a.C. ed è stato attribuito al pittore di Dario. Esso raffigura la scena di un sacrificio fumante incorniciata da due rami d’alloro. Il personaggio sacrificante, posto sopra un altare fumante, indossa un himation drappeggiato attorno alla spalla sopra una veste a maniche lunghe e calzari ai piedi. Con la mano sinistra regge un bastone, mentre con la mano destra tiene una patera. Con lui vi è una figura anziana (si suppone sia un pedagogo) nell'atto di pregare. Al centro della scena, una Furia alata regge una spada sguainata. Sul lato opposto è rappresentato un giovane nudo mentre insegue una donna, la quale tiene una ghirlanda nella mano destra e nella mano sinistra una phiale contenente oggetti rotondeggianti (probabilmente frutta o uova).

Il secondo vaso, realizzato anch'esso mediante la tecnica a figure rosse e risalente al 340-320 a.C., si chiama Hydria Apuria. È stato attribuito al Pittori di Dario. Il vaso raffigura nella parte frontale una scena di culto alla stele: a destra è raffigurato un giovane nudo con un mantello avvolto attorno al braccio, appoggiato ad un bastone mentre impugna una catena. Sul lato sinistro è rappresentata una figura femminile, vestita di un chitone senza maniche e con un kekryphalos indossato sulla testa. Nella mano destra tiene una cista rettangolare e nella sinistra un oggetto rotondo. Infine nel retro del vaso una grande palmetta centrale a ventaglio con foglie, dalle quali si sviluppano girali e palmette di minori dimensioni.

Un’ala di Villa Mirabello è stata ristrutturata specificamente per creare la sezione Varese e il Risorgimento, con un percorso incentrato sul dipinto di Eleuterio Pagliano "Lo sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende il 23 maggio 1859".

L'innovativo allestimento permanente - che abbina sapientemente le più avanzate tecnologie all'arte - del grande quadro del Pagliano (realizzato dagli stessi autori dell'allestimento temporaneo al Cenacolo di Leonardo da Vinci, forse il dipinto più famoso al mondo), caratterizzato da colori ispirati alle divise dei Cacciatori delle Alpi, comprende opere d’arte, numerosi documenti dell’epoca, divise originali e l’eccezionale collezione di armi bianche e da fuoco risalenti a quel periodo.
Sulla tela risorgimentale varesina è stato realizzato un vero e proprio spettacolo con proiezioni di immagini e luce che sembrano uscire e svilupparsi dallo stesso dipinto, accompagnate da una colonna sonora di musiche e suoni e con una ricca sceneggiatura originale.

“Eleuterio,  il mio nome è Eleuterio...”, con queste parole, pronunciate dalla voce calda e suadente del pittore Eleuterio Pagliano, inizia lo spettacolo del Risorgimento.
Una performance di luci e suoni che anima il dipinto monumentale realizzato dall’artista ottocentesco e narra in maniera suggestiva e artistica le vicende dello sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende il 23 maggio del 1859 e la battaglia di Varese di tre giorni dopo, cioè il principio della seconda guerra d’indipendenza, che portò alla liberazione dell’intera Lombardia.
In quei giorni, grazie a una geniale intuizione di Giuseppe Garibaldi, le truppe dei Cacciatori delle Alpi entrarono improvvisamente in Lombardia a Sesto Calende, compiendo una pericolosa traversata notturna del fiume Ticino, trasferendosi a Varese la sera di quello stesso giorno. Tre giorni dopo, all’alba del 26 maggio, ebbe luogo a Varese il primo scontro con gli austriaci del generale Urban, che furono ricacciati verso Como, dove subirono, nella celeberrima battaglia di San Fermo, una sconfitta determinante.
Due anni dopo, nel 1861, due nobili milanesi, patrioti e progressisti, come Giovanni Antona Traversi e Claudia Grismondi Secco Suardo affidano a Eleuterio Pagliano, pittore uscito dall’Accademia di Brera e in quegli anni tra i più apprezzati interpreti della pittura di storia, l’incarico di realizzare un dipinto raffigurante Lo sbarco, destinato ai vasti saloni della villa neoclassica che i due mecenati avevano in Desio. La commissione a Pagliano peraltro fu quanto mai motivata eper molti aspetti rappresenta un crocevia nella vita del pittore: infatti l’incarico giunse proprio alla conclusione del lungo periodo che Pagliano trascorse sotto le armi, seguendo Garibaldi in numerose imprese e vivendo in prima persona il dramma dell’esilio per motivi politici. Infatti anche lui rientrò in Lombardia proprio quella mattina del 23 maggio 1859 e combatté poi a Varese.
Pagliano impiegò ben quattro anni a realizzare l’opera e indubbiamente si avvalse dell’aiuto di suo fratello Leonida – tra i pionieri della fotografia italiana – per effigiare in maniera tanto veritiera i personaggi.
Accanto a Pagliano in quei giorni vi erano altri intellettuali che decisero di contribuire con le armi al processo di unificazione nazionale, ed in particolare alcuni di essi si fecero carico negli anni successivi di pubblicare le loro memorie. Tra questi bisogna ricordare Giuseppe Guerzoni, Francesco Carrano, ma soprattutto Giovanni Cadolini, che in un manoscritto conservato presso l’Archivio dei Musei Civici di Varese tramandò ai posteri i nomi dei personaggi effigiati nel dipinto.
Proprio da questo tipo di materiali documentari e storici nasce lo spettacolo del Risorgimento, infatti la storia narrata ricalca perfettamente quanto ci viene tramandato dalle fonti dell’epoca e persino la comparsa tra le nubi della luna e l’avvicendarsi del clima, dapprima un’alba serena e radiosa e poi, giunta la sera del 23 maggio, un violento temporale, ebbero veramente luogo.
L’episodio della battaglia di Varese è evocato di nuovo in presa diretta grazie all’esperienza vissuta dallo stesso pittore, il quale, impegnato nel servizio di ambulanza, scese con il medico Agostino Bertani lungo viale Belforte, soccorrendo i feriti e piangendo i compagni d’arme che persero la vita, tra i quali viene ricordato tramite un commovente approfondimento, il giovane Ernesto Cairoli.
Lo spettacolo è stato creato da Change Performing Arts, la stessa società che con il regista Peter Greenaway ha animato L’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, grazie all’impiego delle più moderne tecnologie. Inoltre attorno al dipinto, giunto ai Musei civici di Varese nel 1942 grazie alla donazione degli eredi dei committenti, sono esposti materiali di interesse storico e artistico originali e perfettamente pertinenti, tra cui la collezione civica di armi da fuoco e bianche di epoca risorgimentale e documenti, come il proclama che Garibaldi emanò a Sesto Calende quella famosa mattina.



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