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lunedì 11 maggio 2015

IL MONTE SUELLO

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Posto sul lungo crinale che separa la Valle della Berga dal Lago d’Idro, il Monte Suello diede il proprio nome a una famosa battaglia della terza guerra d’indipendenza che vide contrapposti fra loro due reggimenti dei Volontari Italiani di Garibaldi e gli austriaci dell’8° Divisione del generale Von Kuhn.

Il generale von Kuhn aveva predisposto un piano offensivo per espugnare la Rocca d'Anfo in tre direttrici d'attacco ordinando al tenente colonnello Heribert Höffern von Saalfeld di occupare il 30 giugno Riccomassimo, Monte Macao, Vessil e Col Bruffione e di proseguire il 1º luglio a Bagolino, facendo delle diversioni verso il Passo del Maniva e Passo di Crocedomini sopra Breno; al centro dello schieramento, al capitano Ludwig von Gredler con quattro compagnie della brigata di Bruno Freiherr von Montluisant e una compagnia di volontari viennesi-tirolesi, di attestarsi, per la giornata del 2, nella Valle del Chiese a Monte Suello con il compito di sbarrare il passo alla fortezza di Rocca d'Anfo e infine a sud, al tenente colonnello Hermann Thour von Fernburg con la sua mezza brigata, dopo essersi assicurato il controllo di tutti i passi della Valle di Ledro (Passo Nota e Tremalzo), di occupare Magasa, Turano e la Val Vestino, il 1º luglio, e il 2, per il monte Vesta e Manos, rispettivamente sopra Bollone e Capovalle, di procedere al completo accerchiamento della Rocca d'Anfo scendendo a Treviso e a Idro. L'operazione in Val Camonica fu invece affidata alla mezza brigata del maggiore Alexander von Metz.

Il generale Giuseppe Garibaldi, la mattina del 3 luglio, osservando da Rocca d'Anfo i movimenti degli austriaci che occupavano la chiesetta di Sant'Antonio nei pressi di Ponte Caffaro ordinò perentoriamente al colonnello Clemente Corte, comandante della 4ª Brigata Volontari Italiani, composta dal 1º e dal 3º Reggimento, supportata dal 1º Battaglione Bersaglieri genovesi del maggiore Antonio Mosto e una Batteria di artiglieria da montagna del Regio esercito, di “cacciare quei mosconi” dalle loro posizioni.

Alle 14.00 del pomeriggio si accesero i primi violenti scontri. Il colonnello Corte avanzò con sei compagnie del 1º Reggimento in colonna per quattro sulla strada che sale a Bagolino fiancheggiato a sinistra, sulle falde del monte, dalla compagnia di Bersaglieri genovesi, e sostenuto alle spalle da una sezione di artiglieria e dalla riserva del 3º Reggimento di Giacinto Bruzzesi. Gli austriaci, circa 868 uomini, inquadrati in quattro compagnie di Kaiserjäger, la 31ª, 32ª, 35ª e 36ª, del VI Battaglione della mezza Brigata del colonnello Heribert Höffern von Saalfeld comandati dal capitano Ludwig von Gredler, appostati strategicamente sulle falde del monte e distesi lungo la strada cominciarono a sparare all'avanzata delle camicie rosse.

Alcuni ufficiali furono subito uccisi o colpiti, lo stesso generale Garibaldi accorso sul posto fu ferito alla coscia sinistra da un maldestro suo soldato e, sostenuto dal capitano Ergisto Bezzi, fu immediatamente trasportato nei pressi di un casolare di San'Antonio per essere curato dal medico palermitano Enrico Albanese e da Jessie White Mario e successivamente trasferito all'interno della Rocca d'Anfo.

Gli austriaci imbaldanziti, credendo di avere la vittoria a portata di mano, iniziarono ad avanzare minacciosamente lungo le pendici del monte con tutte le loro forze, cinque compagnie di 7-800 uomini, costringendo i garibaldini a mettersi “al coperto dai fuochi troppo micidiali del nemico ed a cui era impossibile di rispondere”. Poco prima, alle ore 13.00, una colonna austriaca al comando del capitano Schiffler era avanzata minacciosamente sulla strada di Ponte Caffaro fino alla chiesa di San Giacomo, ove era caduta sotto il tiro di due cannoncini delle due imbarcazioni della Dogana di confine operante in prossimità delle sponde del lago d'Idro. Alle 15.00 gli austriaci furono fermati da il contrassalto di una Compagnia dei Bersaglieri genovesi con il concorso di quattro pezzi di artiglieria.

Tutto sembrava perso per gli italiani premuti dall'ultimo assalto nemico, anche se tra le file degli austriaci si annoveravano caduti e feriti tra cui il capitano Spagnoli, comandante della 31ª e 32ª Compagnia, che ferito ad un occhio dovette ritirarsi dal combattimento cedendo il comando al capitano Walter. La giornata fu salvata, come ebbe a dichiarare Giuseppe Garibaldi, per “il sangue freddo e il coraggio” del colonnello Giacinto Bruzzesi che occupate le alture di Sant'Antonio vi posizionò due cannoni della Batteria da montagna del Regio esercito iniziando un tiro micidiale sulla colonna degli austriaci e infine lanciò un ultimo risolutivo assalto con sette compagnie. Gli austriaci cedettero all'impeto e in breve furono costretti, verso le 19.00, a ritirarsi sul dosso del Monte Suello che poi abbandonarono furtivamente nel corso della notte, coperti in retroguardia dal capitano Schiffler e dalla 1ª Compagnia Tiragliatori volontari viennesi-tirolesi (Wien-Tiroler Scharfschützen), riparando a Ponte Caffaro e Lodrone e poi successivamente una parte nei forti di Lardaro, l'altra in quello d'Ampola.

Più a nord anche il colonnello Heribert Höffern von Saalfeld, che aveva tentato inutilmente da Bagolino di raggiungere la Valle di Levrazzo per piombare alle spalle degli italiani, aveva cominciato la ritirata su posizioni più arretrate, azione completata il 4 luglio sulla malga di Bruffione e la retrocessione successiva verso Roncone e i Forti di Lardaro.

Lo stesso generale Giuseppe Garibaldi descrisse così nelle sue "Memorie" i fatti accaduti in quella giornata: "Per un pezzo tutto andava bene, ed il nemico ripiegava davanti alla bravura dei nostri; ma essendo esso rinforzato dalle riserve che coronavano le alture di monte Suello, e trovando i nostri militi posizioni sempre più formidabili, furono alla fine fermati nel loro slancio. Infine la giornata restò indecisa, e si rimase nelle posizioni sotto monte Suello. Ferito alla coscia sinistra, fui obbligato a ritirarmi".

L’esito della battaglia rimase in ogni modo incerto per molte ore e il Corte, temendo un contrassalto della mezza brigata del colonnello Hermann Thour von Fernburg a Moerna, ordinò l’immediata ritirata di tutti reparti operanti nella Val Vestino al comando del maggiore Luigi Castellazzo e quella dei suoi uomini nella Rocca d'Anfo.

Durante la notte dal 3 al 4 arrivarono di rinforzo ad Anfo i primi reparti del 9º Reggimento di Menotti Garibaldi, e nel giorno successivo, il 1º Battaglione di questo comandato dal maggiore Enrico Cairoli, occupò la vetta di Monte Suello, mentre il 2º Battaglione si stabilì a presidio di Bagolino.

Con quest'ultima operazione si concludeva quasi completamente il piano predisposto dal generale Von Kuhn che non raggiungeva gli obiettivi preventivati, ossia la cacciata degli italiani dal Trentino mediante l'accerchiamento della Rocca d'Anfo, mentre l'unica azione austriaca ancora in atto e di una certa entità rimaneva quella in Valcamonica. Gli italiani con la vittoria occupavano la piana del fiume Chiese, la Val Vestino apprestandosi a porre l'Assedio del Forte d'Ampola e la marcia di avvicinamento verso i forti di Lardaro.

Le truppe volontarie italiane accusarono 70 morti (3 ufficiali), 266 feriti (14 ufficiali), 22 dispersi. I dati sono discordanti per quanto riguarda le perdite nemiche che, secondo fonti italiane, furono di 15 morti (1 ufficiale) e 43 (2 ufficiali) feriti mentre le relazioni militari austriache riportano 10 morti e 18 feriti.

Il sacrario di Monte Suello venne eretto a ricordo dei caduti garibaldini.

Il 19 marzo 1879 per iniziativa di alcuni patrioti e veterani della battaglia si teneva un’adunanza nel teatro di Vestone al fine di pianificare l’edificazione di un sacrario per raccogliere le spoglia dei volontari che non avevano ancora ricevuto degna sepoltura: infatti i caduti vennero seppelliti all’indomani dello scontro del 3 luglio frettolosamente sotto pochi centimetri di terra in nove fosse comuni contrassegnate da croci di legno a lato della strada per Bagolino e li rimasero fino al 1879 quando i poveri resti furono portati nella chiesa di San Giacomo posta sulla strada per Ponte Caffaro e ricomposti grazie all’interessamento del dott. Luigi Riccobelli di Vestone. Nella chiesa di San Giacomo per un certo periodo si celebrò messa per commemorare la battaglia, la cui data “3 luglio 1866” è dipinta sul campanile della stessa.

Nell’adunanza del 1879 venne deciso di creare due comitati, uno onorario a Firenze presieduto dal generale Clemente Corte ed uno esecutivo a Vestone presieduto dal ex maggiore Giuseppe Guarnieri, anima del progetto. Nel 1883 dopo regolare bando vinse il progetto dell’architetto Armano Pagnoni, tecnico del comune di Bagolino e cominciarono i lavori di costruzione dell’Ossario che terminarono nel 1884.

L’imperversare di una epidemia di colera fece slittare l’inaugurazione al 5 luglio 1885, giornata nella quale i feretri furono traslati dalla chiesetta di Sant’Antonio, (lì portati nella precedente giornata del 4 luglio dalla chiesa di San Giacomo) fino all’ossario e con atto notarile lo stesso giorno la proprietà passava alla Deputazione provinciale di Brescia, la quale ne assumeva la custodia e relativa manutenzione. Nel 1907 il monumento venne dotato di una cancellata su tre lati che fu completata sul lato a lago nel 1914.

L’ossario di Monte Suello sorge sul luogo dove l’architetto Armanno Pagnoni venne catturato dagli austriaci proprio nella battaglia del 3 luglio 1866. Infatti ancora giovanissimo e all’insaputa della famiglia prese parte alle operazioni belliche e fatto prigioniero. Dopo un anno di detenzione nel castello del Buon Consiglio a Trento venne liberato in uno scambio di prigionieri e poté rientrare in patria.

Il monumento in stile bizantino si presenta esternamente in pianta quadrata rivestito di graniti e piastre in calcare, sormontato da un tetto conico di forma piramidale, ricoperto di piastre in piombo. Sono presenti una serie di lapidi che ricordano gli scontri avvenuti a Monte Suello nel 1848 e nel 1866. La sala interna o edicola è di forma ottagonale con intercolonne in lavagna e avelli riportanti i nomi dei caduti in marmo di botticino. Al centro dell’edicola campeggia un busto in marmo di carrara raffigurante Giuseppe Garibaldi, interessante opera dello scultore rezzatese Pietro Faitini. Il cancello di entrata in ferro e ghisa fu disegnato e donato da Francesco Glisenti. Nella parte semi-interrata è presente una cripta con volta a botte che racchiude i resti dei caduti.




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venerdì 27 febbraio 2015

GIUSEPPE PARINI

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Giuseppe Parini (Bosisio, 23 maggio 1729 – Milano, 15 agosto 1799) è stato un poeta e abate italiano. Membro dell'Accademia dei Trasformati, fu uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo e dell'Illuminismo in Italia.

Figlio di un modesto mercante di stoffe, frequentò le scuole di S. Alessandro o Arcimbolde, tenute dai barnabiti. Nel 1752, grazie alla modesta sicurezza economica dovuta alla rendita della prozia Annamaria Lattuada (che aveva ottenuto nel 1751 in seguito ad una causa con l'esecutore testamentario, Antonio Rigola), il giovane chierico pubblicò una prima raccolta di rime, Alcune poesie di Ripano Eupilino (Ripano è l'anagramma di Parino, Eupili è il nome latino del lago di Pusiano: Parino da Eupili) sotto forma di novantaquattro componimenti di carattere sacro, profano, amoroso, pastorale e satirico, che risentono della sua prima formazione culturale e soprattutto dello spirito bernesco. Da questi versi semplici e non encomiastici, emerge l'immagine di un giovane ancora socialmente e intellettualmente isolato, che non conosce i dibattiti dell'ambiente lombardo ma che è ancora rivolto all'ambito dell'Accademia dell'Arcadia e del classicismo cinquecentesco.

Grazie però ad una certa fama acquisita con questa raccolta, il Parini venne accolto nel 1753 nell'Accademia dei Trasformati che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria Imbonati ed era formata dal meglio dei rappresentanti della cultura milanese, dove troverà amici e protettori.

Dopo aver compiuto a Lodi gli studi ecclesiastici, il 14 giugno del 1754, fu ordinato sacerdote ma le risorse economiche, troppo scarse per farlo vivere in modo dignitoso, lo costrinsero a richiedere l'aiuto del canonico Agudio e poi dell'abate Soresi che lo sosterrà nell'entrare al servizio del duca Gabrio Serbelloni come ripetitore del figlio Gian Galeazzo.

Il servizio a casa Serbelloni durò dal 1754 fino al 1762 e, pur non dandogli la sicurezza economica, lo mise a contatto con persone di elevata condizione sociale e di idee aperte, a partire dalla duchessa Vittoria che leggeva Rousseau e Buffon, al padre Soresi che sosteneva con ardore le riforme in campo scolastico, al medico di casa, Giuseppe Cicognini (in seguito direttore della facoltà di medicina di Milano) che sosteneva il dovere morale ad allargare le cure anche a coloro che per pregiudizio avevano mali considerati effetto di colpa.

Intanto in casa Serbelloni il Parini osservò la vita della nobiltà in tutti i suoi aspetti ed ebbe modo di assorbire e rielaborare alcune nuove idee che arrivavano dalla Francia di Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Condillac e dell'Encyclopédie, che influenzarono gli scritti di questo periodo al quale risalgono, tra gli altri, il Dialogo sopra la nobiltà (1757), le odi La vita rustica (che sarà pubblicata solamente nel 1790 nelle Rime degli arcadi con lo pseudonimo di Darisbo Elidonio), La salubrità dell'aria (1759), che affronta come la precedente l'opposizione città-campagna ma con uno stile completamente nuovo, e La impostura (1761).

Sempre in questo periodo scrisse, per i Trasformati, una polemica letteraria contro i Pregiudizi delle umane lettere (1756) del padre Alessandro Bandiera con il titolo Due lettere intorno al libro intitolato "I pregiudizi delle umane lettere" e nel 1760 una nuova polemica letteraria contro i "Dialoghi della lingua toscana" del padre barnabita Onofrio Branda.

Nell'ottobre del 1762, per aver difeso la figlia del compositore e maestro di musica Giovanni Battista Sammartini che era stata schiaffeggiata dalla duchessa in uno scatto d'ira, fu licenziato e, abbandonata casa Serbelloni, venne presto accolto dagli Imbonati come precettore del giovane Carlo al quale il poeta dedicherà, nel 1764, l'ode L'educazione.

Nel marzo del 1763, incoraggiato dagli amici del gruppo dell'Accademia e dal conte Firmian, pubblicò, anonimo, presso lo stampatore milanese Agnelli, Il Mattino (prima parte del poemetto chiamato appunto Il Giorno) che fu accolto favorevolmente dalla critica e soprattutto dal Baretti che, nel primo numero della rivista La frusta letteraria, uscito il 1º ottobre del 1763, dedicava una critica positiva all'opera.

Nel 1765 uscì, ancora anonimo, il secondo poemetto, Il Mezzogiorno, che ottenne parimenti dai critici un giudizio positivo, tranne che da Pietro Verri su Il Caffè.

I due poemetti, con la satira della nobiltà decaduta e corrotta richiamarono l'attenzione sul Parini e nel 1766 il ministro du Tillot lo chiamò per ricoprire la cattedra di eloquenza presso l'Università di Parma, cattedra che egli rifiutò nella speranza di poter ottenere una cattedra a Milano. Nel 1768 la fama acquisita gli procurò la protezione del governo di Maria Teresa d'Austria, che era rappresentato in Lombardia dal conte Carlo Giuseppe di Firmian il quale, intuendo le sue potenzialità poetiche, lo nominò nel 1768 poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro e lo incaricò di adattare per la scena lirica la tragedia Alceste di Ranieri de' Calzabigi.

Nello stesso anno il conte gli affidò la direzione della «Gazzetta di Milano», organo ufficiale del governo austriaco, e nel 1769 la cattedra di eloquenza e belle arti presso le Scuole Palatine, cattedra che conservò fino al 1773, con il titolo di "Principi generali di belle lettere applicati alle belle arti", anche quando quelle scuole si trasformarono nel Regio Ginnasio di Brera.

Tra il 1770 e il 1771 Parini scrisse il testo delle opere teatrali l'Amorosa incostanza e l'Iside salvata, in occasione di due cerimonie di corte, e l'opera pastorale Ascanio in Alba per le nozze dell'arciduca Ferdinando d'Austria con Maria Beatrice d'Este, che verrà successivamente musicata da Mozart, catalogata come opera K 111 e rappresentata per la prima volta al Ducale di Milano il 17 ottobre 1771.

Tradusse dal francese la tragedia "Mitridate re del Ponto" (Mithridate nell'originale) di Racine, che Mozart aveva musicato precedentemente - sulla base del libretto ricavato da Vittorio Amedeo Cigna-Santi - ricavandone l'opera omonima K87 rappresentata per la prima (e forse unica) volta sempre a Milano il 26 dicembre 1770.

Nel 1771 tradusse, in collaborazione di alcuni "Accademici trasformati" tra cui il Verri, una parte del poemetto La Colombiade pubblicato da Anne Marie Du Boccage.

Nel 1774 fece parte di una commissione istituita per proporre un piano di riforma delle scuole inferiori e dei libri di testo e intanto si dedicò alla composizione de Il giorno e delle Odi.

Nel 1776 gli venne concessa una pensione annua dal papa Pio VI e fu nominato ordinario della Società patriottica istituita da Maria Teresa per l'incremento dell'agricoltura.

Con il nome di Darisbo Elidonio entrò nel 1777 a far parte dell'Accademia dell'Arcadia proseguendo intanto nella composizione delle odi: La salubrità dell'aria, L'educazione, L'evirazione, La vita rustica, L'innesto del vaiuolo (dette "Odi illuministe") La laurea (1777), Le nozze (1777), Brindisi (1778), La caduta, In morte del maestro Sacchini, Al consigliere barone De Marini (1783-1784), Il pericolo (1787), La magistratura (1788), Il dono (1789).

Nel 1791 il Parini venne nominato Soprintendente delle Scuole pubbliche di Brera e scrisse l'ode La gratitudine. Nello stesso anno vennero pubblicate ventidue delle sue odi con il titolo Odi dell'abate Parini già divolgate. Le ultime due parti del "Giorno", il Vespro e la Notte, pur risultando promesse in una lettera al Goldoni, saranno invece pubblicate postume. Le "odi illuministe" sono tra le più originali in quanto ricche di termini appartenenti al lessico specifico della scienza; talvolta riportano particolari anche scabrosi, con l'intento di educare i lettori su temi di scottante attualità, come l'inquinamento cittadino ("La salubrità dell'aria") o la prevenzione delle epidemie grazie ai progressi della scienza ("L'innesto del vaiuolo"). Per quanto siano argomenti tradizionalmente non poetabili, Parini, con un'abilità tutta settecentesca, riesce nell'intento di elevare gli argomenti più concreti a materia d'arte, cristallizzandoli in versi di inusitata accuratezza. In questo si riscontra l'influenza della poetica del sensismo.

Tra il 1793 e il 1796 ospite del suo amico marchese Febo D'Adda scrisse altre odi (Il messaggio, Alla Musa, la Musica) e quando i francesi di Bonaparte occuparono Milano, seppure con riluttanza, entrò a far parte della Municipalità per tre mesi, rappresentando, insieme a Pietro Verri, la tendenza più moderata. Presto egli smise di partecipare alle assemblee della Municipalità e poco dopo venne destituito dalla carica.

Come appare nel frammento dell'ode A Delia, scritta tra il 1798 e il 1799, il poeta è avverso alla guerra e alla violenza e rifiuta la richiesta di una "ragguardevole donna" che voleva da lui un'esaltazione poetica delle vittorie francesi perché non poteva cantare "i tristi eroi" e "la terra lorda/ di gran sangue plebeo".

Il poeta si spense nella sua abitazione di Brera il 15 agosto 1799, a pochi mesi di distanza dall'entrata degli austro-russi a Milano, dopo aver dettato il famoso sonetto Predàro i filistei l'arca di Dio, nel quale condannava duramente i francesi, ma allo stesso tempo, pur salutando il loro ritorno, lanciava un severo ammonimento anche agli austriaci.

Nella storia della critica si è assistito ad una distinzione nell'opera del Parini tra i contenuti civili, politici e morali della sua letteratura (più legati agli ideali illuministici) e gli aspetti stilistici e poetici (più legati alla tradizione arcadica). Francesco de Sanctis insieme alla critica romantica esalta il primo aspetto in contrasto all'edonismo della letteratura barocca, indicando il Parini come «il primo poeta della nuova letteratura che sia anche uomo, cioè che abbia dentro di sé un contenuto vivace e appassionato, religioso, politico e morale» e sentenziando: «in lui l'uomo valeva più che l'artista». Al contrario, Giosuè Carducci si concentra sui valori artistici e poetici dell'opera del Parini, lodandolo come il prosecutore della tradizione letteraria dell'Arcadia.

Gli studi successivi hanno tuttavia evidenziato come questa apparente ambiguità dell'opera del Parini, da una parte intenta a perseguire valori civili in ossequio all'ideale illuminista, dall'altra attenta agli aspetti letterari della tradizione, sia conciliabile considerando il percorso letterario dell'autore, che dopo un primo slancio legato alla battaglia illuministica avrebbe maturato una posizione più moderata in direzione neoclassica, frutto in parte della delusione storica. Anche l'atteggiamento ambiguo nei confronti del mondo nobiliare, valutato da un lato in modo critico ma guardato con un certo compiacimento, mostrerebbe in realtà un segreto amore per quel mondo elegante e raffinato.


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