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sabato 25 luglio 2015

IL SACRO MONTE DI CERVENO



Cerveno è una località della Val Camonica, ai piedi del massiccio montuoso di natura dolomitica della Concarena. La parte più antica del paese ha mantenuto un aspetto tipicamente medioevale con i suoi stretti vicoli, gli ampi archivolti di accesso alle corti, i due mulini ad acqua, le numerose fontane. In questo scenario, ogni dieci anni, prende vita la Sacra rappresentazione della Santa Crus.
L'intera popolazione di Cerveno celebra la memoria della passione di Cristo con un corteo di personaggi in costume ispirati ai riti processionali ed alle sculture di Beniamino Simoni raffigurati nelle cappelle del Santuario della Via Crucis. E' come se i personaggi raffigurati nel percorso devozionale interno alla chiesa, improvvisamente si animassero per lasciare il santuario e percorrere tutto il paese insieme ad una moltitudine di pellegrini.
La particolare data di svolgimento della manifestazione, che non avviene durante la Settimana Santa ma nel mese di maggio, è legata alla festa dell'Invenzione della Croce" che cadeva il 3 maggio prima della Riforma liturgica. La prima edizione documentata della Santa Crus risale al 1894; interrotta nel 1933 fu ripresa dopo la guerra e, dal 1972, si svolge con regolarità rispettando la cadenza decennale.

La preparazione dell'avvenimento comporta mesi e mesi di lavoro per gli abitanti di Cerveno, impegnati oltre che come figuranti, nella realizzazione artigianale dei costumi e dei particolari addobbi ottenuti con rami di abete ed innumerevoli fiori di carta di incredibile varietà e perfezione che abbelliscono ogni portone e finestra del paese. Numerosissime le persone che, per curiosità o pratica devozionale, si radunano nei luoghi delle diverse stazioni della Via Crucis e si uniscono al corteo fino a raggiungere, in alto, sul pendio della montagna , la radura in cui avviene la Crocifissione. Il momento è molto intenso: le tre croci si stagliano all'orizzonte dominato dalla sagoma irregolare della Concarena. La mestizia dei canti ed il profondo silenzio degli astanti sottolineano la tragicità dell'evento.
Dopo la deposizione di Gesù, l'urna con la scultura del Cristo deposto, dal Cimitero viene riportata in processione all'interno della chiesa parrocchiale in cui è normalmente custodita.
Il Cristo deposto è una pregevole opera scultorea di Andrea Fantoni di cui la Parrocchiale, dedicata a S. Martino di Tours, conserva numerose opere realizzate dall'artista stesso e dalla sua bottega tra il 1700 e il 1729. Oltre che alla loro presenza, l'eccezionale valore artistico e devozionale di questa chiesa deriva dal fatto di costituire un unico complesso monumentale che comprende l'Oratorio della Madonna del Carmine, ornata da affreschi del XV e XVI secolo, ed il Santuario della Via Crucis.
Quest'ultimo, meta continua di pellegrinaggio, è un singolare esempio di Sacro Monte interamente dedicato alla Passione di Cristo. Il percorso devozionale, articolato in quattordici stazioni che ripercorrono il viaggio di Gesù dal pretorio di Pilato al Monte Calvario, si snoda ai lati di una Scala Santa che sembra trovare ideale collocazione tra le cime delle montagne circostanti. Da una lato la Concarena, dall'altro il Pizzo Badile con il quale l'edificio del Santuario è disposto perfettamente in asse.

Il meno conosciuto, ma forse il più straziante dei Sacri Monti alpini. Con le sue 14 cappelle animate da quasi 200 statue a dimensione naturale che rievocano gli episodi della Via Crucis come su un palcoscenico dove il pubblico è libero di muoversi e commuoversi, quello di Cerveno, in Val Camonica, è un santuario dove l'arte fa davvero miracoli. Merito dello scultore bresciano Beniamino Simoni (1712-1787) che a metà del Settecento completò il suo capolavoro di intaglio dedicato alle stazioni del Calvario, inno alla fede ma anche al realismo della rappresentazione. Tanto da aver messo in ginocchio Giovanni Testori che lo scoprì fra i primi nella sua caccia appassionata ai "gran teatri montani", come definì le succursali alpine dei luoghi sacri della Terra Santa, e celebrò Cerveno in un testo storico lodandone «l'urto e la concretezza» in quel «accumulo di teste e di "crape" che sporgon giù, come sassi e pietre, dal balcone dell'Incoronazione di spine».

Molto è stato detto e da critici d’arte famosi, sulle 198 statue, scolpite in legno, ricoperte di stucco e dipinte, che costarono una fortuna ai poveri abitanti di Cerveno. Di certo non si esce dal santuario senza aver provato forti emozioni sia spirituali che artistiche. Il Cristo è al centro d’ogni stazione: il suo volto è del tutto spirituale, lontano, quasi non fosse partecipe della violenza e della ferocia che si scatenano tutt’intorno. È come se accettasse ciò che inevitabilmente gli deve succedere. Il suo corpo, di contrasto, è forte e giovane, richiama la vita non la morte. I volti delle donne sono di pena sgomenta, d’angoscia intima e profonda, con urla nella gola. Le facce dei carnefici e dei soldati romani esprimono crudeltà e rancore: l’atteggiamento dei loro corpi si adegua perfettamente ai sentimenti espressi dal loro viso. Ma occorre capire da soli perché i sentimenti e le emozioni cambiano secondo il tuo stato d’animo. È difficile in questo caso mantenersi equilibrati nel giudizio estetico.

Il Santuario della Via Crucis è notissimo in tutta la zona e meta di pellegrinaggi da ogni parte della valle; consiste in una sorta di galleria a gradoni in salita, eretta a lato della parrocchiale, sui due fianchi della quale si aprono quattordici cappelle-stazioni, capolavoro dell'intaglio ligneo nel '700. Le cappelle, raccolte ai lati di una scalinata, custodiscono un unico edificio la cui facciata dà sulla piccola piazza di Cerveno.

Le stazioni VIII -IX - X sono state completate dai nipoti del Fantoni, mentre la XIV è dell'artista milanese Selleroni (quella originale del Simoni è conservata nel Duomo di Breno). Gli affreschi alle pareti sono dello Scotti e dei fratelli Corbellini. L'entrata abituale al Santuario avviene attraverso la porta principale della chiesa parrocchiale, che si apre di fronte alla prima cappella; la altre stazioni seguono sul muro settentrionale in discesa e poi risalgono sul lato opposto fino alla grande cappella della Deposizione, situata sul fondo dell'edificio stesso. La quattordicesima stazione finì in una cappella privata di Breno e si trova oggi in Duomo, quella che occupa il suo posto nel santuario fu realizzata nel 1869 dal milanese Selleroni. Gli affreschi alle pareti sono dello Scotti e del Corbellini.

La prima stazione della Via Crucis non si trova accanto alla porta d'ingresso del Santuario ma nella parte alta della Scala, vicina all'ingresso interno della chiesa parrocchiale. Discesi fino alla VII stazione dove Gesù cade per la seconda volta, si incomincia a salire verso l'ultima cappella in cui è rappresentato Gesù posto nel sepolcro.
Ideatore di questa monumentale Via Crucis fu don Pietro Bellotti da Villa d'Allegno, parroco di Cerveno dal 1692 al 1732 che fu anche promotore delle principali opere d'arte della Parrocchiale.
Il suo progetto, condiviso dalla popolazione, prevedeva la realizzazione di tutte le Cappelle presso la chiesa parrocchiale contrariamente a quanto proposto da Andrea Fantoni a cui, pare, ci si fosse rivolti in un primo tempo per la realizzazione dell'opera. Dopo la morte del Fantoni, il nuovo parroco, don Andrea Boldini di Saviore si affidò al bresciano Beniamino Simoni , eccellente artista del legno e dello stucco che, per realizzare l'incarico assegnato, soggiornò a Cerveno per circa undici anni.
La fabbrica delle cappelle della Via Crucis iniziò il 1 gennaio 1752 essendo parroco don Giovanni Gualeni da Lovere che vide completata l'opera dal suo successore don Bartolomeo Bressanelli di Sellero.
A Beniamino Simoni sono da attribuire la maggior parte delle 198 statue a grandezza naturale in legno e stucco che popolano le cappelle, figure che ricordano visi e costumi della popolazione locale. L'VIII, la IX e la X stazione sono invece da attribuire alla scuola di Andrea Fantoni mentre la XIV venne realizzata nel secolo successivo.
Per la costruzione delle cappelle furono chiamati tre capimastri e numerosi operai; per le decorazioni delle architravi, dell'interno delle cappelle e della galleria di accesso prestarono la poro opera i pittori Bernardino Albrici di Scalve, Paolo Corbellini di Laino della Val d'Intelvi e Giosuè Scotti.
L'ingente impegno economico per la realizzazione della Via Crucis fu sostenuto dalle generose offerte della popolazione di Cerveno, della Valcamonica, della Valtellina e del Bergamasco. Per regolarizzare la raccolta delle offerte fu anche nominata una persona addetta a questo compito chiamata " romito de le capele de Servè".
Nel 1763 il parroco don Bressanelli si rivolse ai Fratelli Fantoni perché completassero le parti non ultimate dal Simoni; la nota dettagliata delle spese di completamento dell'opera è minuziosamente descritta nel registro dei conti della Parrocchia di Cerveno.
L'inaugurazione della Via Crucis avvenne nel 1783; nella XIV cappella, non completata, venne collocato il "Cristo Deposto" realizzato nel 1709 da Andrea Fantoni per la Parrocchiale. Circa cento anni dopo, nel 1869, fu scolpito dal milanese Giovanni Selleroni il gruppo di statue che rappresentano Gesù posto nel sepolcro. La realizzazione della nuova cappella comportò la trasformazione dello spazio originario e la perdita dell'affresco di Corbellini raffigurante la Resurrezione.
Alcuni studiosi ipotizzano che il gruppo del Compianto di Beniamino Simoni, collocato nella chiesa di S. Maurizio di Breno, possa considerarsi la conclusione ideale ed artistica della Via Crucis di Cerveno. Forse l'artista realizzò quest'opera proprio per la XIV cappella.

Alla scelta dell’artista non è forse estranea una possibile ascendenza ebraica, ascendenza che comunque si può solo intuire dal nome e dal cognome-patronimico: Beniamino figlio - o discendente di Simone. Dunque il messaggio è chiarissimo: coloro che hanno crocifisso Cristo, che lo crocifiggono ogni giorno sono i contadini stessi che guardano le cappelle. Sono loro, con la loro fisionomia e i loro strumenti che crocifiggono un uomo “con quella professionale attenzione necessaria per la perfetta esecuzione del lavoro, senza turbarsi troppo, come se quello fosse un lavoro di tutti i giorni” (Frandi - Cagnoni, 1969, p. 144). Dunque il contadino-spettatore deve interiorizzare la colpa e sperare nella salvezza seguendo i dettami dell’autorità costituita (religiosa e politica), quella stessa che ha fatto erigere la monumentale via crucis. Il carattere persuasorio dell’insieme dell’opera è dimostrato anche dal fatto che le cappelle sono disposte in maniera tale che esiste un punto di osservazione privilegiato e in qualche modo obbligato come, secondo le indicazioni di Eugenio Battisti (Battisti, 1983, p. 14) accade anche nei vari sacri monti: bisogna passivamente osservare quello che i committenti vogliono che lo spettatore osservi e nel modo in cui essi hanno deciso che lo si osservi così: “la passione, suggerita dall’imitazione di Cristo, è prosaico e quotidiano consenso, entro un noioso quadro catechistico. Il realismo è un’arma dolce di persuasione silenziosa” (Battisti, 1983, p. 15). La lettura in chiave populistica della via crucis di Cerveno, quella lettura proposta con grande enfasi da Giovanni Testori nel 1966 e ripresa dieci anni dopo (Testori, 1976), una lettura “di opposizione collettiva, muovendo dal basso, e di recupero delle proprie tradizioni arcaiche” (Battisti, 1983, p. 10) va dunque abbandonata. Né si può leggere in Simoni un artista in ritardo, tutt’altro. Dalle opere emerge “la complessità dei linguaggi e della cultura artistica del suo autore, molto più vasta, molto al di là di quella che venne definita caratteristica della ‘gran falegnameria camuna’ (Testori), cioè di quella dei Ramus, del Piccini, degli Zotti eccetera. Si tratta di una cultura che è anche molto al di là della pura pittorica, come ha visto lo stesso Testori: così Simoni non si limita al Romanino di Breno e di Bienno - che pure rimane uno dei suoi referenti continui , né a tutta la tradizione che risale al Savoldo; la sua cultura tocca le epoche più lontane e più varie, dal romanico al gotico italiano al gotico franco-borgognone a cui si ispira moltissimo, al gotico tedesco al ‘400 toscano, fino all’area dei Compianti lombardo-emiliana  della fine del ‘400” (Minervino, 1992, pp. 29-30). Simoni a Cerveno usa gli strumenti tipici del linguaggio controriformista di un secolo prima. Ma altre sue opere sono ben diverse, soprattutto quelle bresciane scolpite dopo il 1761, cioè quando Simoni interrompe le cappelle. Ma anche restando in Valle, ben diverso dalle sculture di Cerveno è il Compianto recentemente ricollocato nella sua sede naturale della chiesa di san Maurizio di Breno “che rivela una sintassi ‘colta’, per esplorare dell’animo umano i recessi più intimi e dolenti, quelle profondità dove solamente può avvenire ‘la compartecipazione totale del credente alla passione di Cristo’. Un comunicare sommesso, carica di affetti e di dolore trattenuto, di silenziosa disperazione e intima solidarietà, unisce il gruppo della Vergine, delle pie donne, della Maddalena e di Giovanni intorno al corpo di Cristo morto” (Ferri Piccaluga, 1989 -1-, pp. 79-80). Il   Compianto di san Maurizio è di composta e contenuta teatralità, i gesti sono equilibrati; la categoria di “classico” che domina nel secondo settecento si può applicare a quest’opera e proprio per i caratteri formali così diversi da quelli cervenesi è da escludere che questa sia la quattordicesima cappella di Cerveno, come vuole la “leggenda popolare”. Gabriella Ferri Piccaluga (1989 – 1- e 1980), indagando il significato storico e politico della chiesa di san Maurizio come santuario della via crucis e, quindi, della funzione in essa del Compianto di Simoni, giunge proprio a tale conclusione. Dunque Simoni è perfettamente in grado di utilizzare un linguaggio moderno e non “dialettale”. Se a Cerveno ricorre al realismo barocco di un secolo prima, piegando la sua innegabile capacità ottica e prospettica, la scienza anatomica e l’abilità di rappresentare l’espressione dei moti dell’animo e del corpo in una vera e propria estetica del bello a rovescio, è evidente che si tratta di una scelta. E, per essere sintetici fino alla brutalità, si tratta di una scelta funzionale alla persuasione voluta dalla committenza. A Cerveno c’è l’evidente anomalia di un “sacro monte” non costituito da cappelle sparse su un pendio, ma al coperto, anomalia che, evidenzia la Minervino , “Cerveno condivide solo con quello di Valperga Canavese, anch’esso svolgentesi su una grande scala santa, e anch’esso settecentesco” (Minervino, 1992, p. 29). In effetto “La via crucis cervenese non è un prodotto atipico nelle intenzioni della committenza. Attorno alla metà del ‘700 si assiste, infatti, a una consistente ripresa del culto della via crucis. Nel 1741 - undici anni avanti che il Simoni ponesse mani alla commessa cervenese - san Leonardo da Porto Maurizio ne erige una imponente in Roma, su diretto invito di Benedetto XIV; ma già dieci anni prima un altro papa, Clemente XII,  aveva accordato ai Minori Osservanti la facoltà di erigere via crucis in qualunque luogo, facoltà poi estesa ai Minori Riformati, mantenendo gli stessi privilegi indulgenziali. È questa ripresa del culto cristologico che giustifica storicamente anche la via crucis cervenese e la quasi contemporanea - sebbene assai più modesta via crucis della chiesa di san Maurizio in Breno” (Lorenzi, 1983 -1-, p. 154 ). Il santuario di Cerveno, anche se promosso dai parroci, è di sicura ispirazione francescana e si pone come il nucleo centrale del culto cristologico in un luogo relativamente avanzato della Valle Camonica verso il “confine del nord” (per riprendere il bel titolo del testo della Piccaluga) cioè verso le terre protestanti. La funzione suasoria di far interiorizzare la colpa ai villici refrattari si unisce alla funzione di difesa dell’ortodossia contro il pericolo dell’infezione luterana “todesca”. Per completezza è bene aggiungere che neppure all’interno della chiesa e del clero questa proposta di spettacolarizione delle manifestazioni religiose con intenti persuasivi e colpevolizzanti era universalmente condivisa. Questa è la tesi vincente, delle gerarchie ecclesiastiche rappresentate dal vescovo di Brescia Giovanni Nani, filogesuita, e dei francescani, ma avversata in loco dal vicario foraneo e parroco di Cividate Camuno Giovan Battista Guadagnini, uno dei più rappresentativi giansenisti italiani, più attento ad una religiosità meno esteriorizzata e che non rifiuta l’analisi razionale di credenze e di pratiche. Fra queste ultime proprio il “pio esercizio” della via crucis pare al dotto arciprete scritturalmente poco fondato (Cfr. Signorotto, 1983, pp. 121-142) e quindi, di fatto, rispondente ad altre esigenze rispetto a quelle di vera religiosità. Del tutto diverse da quelle simoniane sono le tre cappelle (VIII, IX, X) di Francesco Donato e Grazioso Fantoni, nipoti del più celebre Andrea, alla cui scuola risalgono le altre opere lignee conservate nella chiesa. Ritorna in queste cappelle la tipicizzazione somatica dell’Ebreo e la rappresentazione delle figure popolari torna ai canoni del grottesco che Simoni aveva abbandonato per scelte più realistiche; anche la stessa figura del Cristo è meno “bella”. In tal modo la finalità di costringere i contadini spettatori ad immedesimarsi nelle figure dei persecutori di Cristo, che è tipico dell’operazione simoniana, viene ad essere del tutto abbandonata: il coro degli aguzzini è costituito da “altri” come Ebrei, Romani, personaggi stereotipati secondo i canoni del grottesco, non più dai Cervenesi realisticamente rappresentati con le loro espressioni e  i loro attrezzi. Insomma la bottega di Rovetta sforna un’opera assai più tradizionale, certo di abile mestiere ma nulla più.


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venerdì 10 luglio 2015

I MONUMENTI DI LECCO



Il monumento ad Alessandro Manzoni è collocato nell'omonima piazza di Lecco.
Subito dopo la morte di Alessandro Manzoni, avvenuta il 22 maggio 1873, il consiglio comunale si riunì in straordinaria (24 maggio) e decise di fare erigere un monumento allo scrittore "lecchese d'adozione" che tanto lustro aveva donato alla città.
Il comitato, capeggiato da Antonio Stoppani, raccolse donazioni per 40.000 lire. Fu Francesco Confalonieri a realizzare il monumento (alla cui realizzazione contribuì anche Giuseppe Verdi) che fu inaugurato l'11 ottobre 1891 con discorso del senatore Gaetano Negri. Alla celebrazione partecipò anche Giosuè Carducci, come ricorda una lapide posta sull'ex albergo Croce di Malta.
Sopra un basamento in granito alto quattro metri e mezzo è posta la statua bronzea raffigurante Alessandro Manzoni seduto.
Sul piedistallo sono collocati quattro bassorilievi bronzei che raffigurano tre scene del romanzo storico I promessi sposi: Il rapimento di Lucia, La morte di don Rodrigo, Il matrimonio dei Promessi; e gli stemmi d'Italia e Lecco.

La devozione dei lecchesi per San Nicola è dimostrata dalla statua che appare nelle acque del lago, di fronte alla punta della “Maddalena”, nelle vicinanze del monumento ad Antonio Stoppani. La statua in bronzo di San Nicola è stata collocata, nel 1955, su pilastri in blocchi di granito saldamenti fissati al fondo del lago. Il santo appare con i paramenti vescovili orientali: una immagine di Nicola che si ripete in tutta la sua iconografia. La statua venne preparata dallo scultore lecchese Giuseppe Mozzanica: è alta due metri e raffigura il santo nel gesto di proteggere il lago e la città.
Nell’anno dell’inaugurazione (1955) il numero unico “Pastor bonus” uscito in occasione del venticinquesimo di parrocchia e del cinquantesimo di sacerdozio del prevosto monsignor Giovanni Borsieri, scriveva: “Come le lanterne spesso illuminano le entrate dei piccoli porti del nostro lago e, dal molo, nelle notti buie, segnano con la loro luce tranquilla l’approdo e il calore della casa, la statua di San Nicola, sulla punta della Maddalena, diventerà il simbolo della fede dei lecchesi.

Il monumento a San Giovanni Nepomuceno è posto nella piazza principale del rione di Castello. Si tratta di una fontana di forma rettangolare progettata da Giuseppe Bovara nel 1846 e inaugurata nel 1859. Da essa l'acqua sgorga attraverso tre bocche di cui due a forma di delfino. Su di essa fu posta la settecentesca statua del santo la cui storia era stata travagliata. Tale statua infatti si trovava sul ponte Azzone Visconti e durante la battaglia di Lecco tra i Francesi ed i Russi (25-28 aprile 1799) era caduta nel fiume Adda. Ripescata fu posta sulla fontana suddetta nel 1860. Sul monumento due anni più tardi, nel 1862, sarà infine posta anche una lapide in omaggio al neonato Regno d'Italia.

Il  monumento ad Antonio Stoppani è posto all'estremità di Punta della Maddalena, nei pressi dell'imbarcadero, è una maestosa opera dedicata all'Abate realizzata nel 1927 dall'architetto Mino Fiocchi mentre la statua bronzea incorniciata al centro di un'esedra è una creazione dello scultore Michele Vedani.
La Fontana delle tre bocche è situata in località Castione di Rancio, sul sagrato antistante la chiesa barocca di San Carlo, la fontana è un elegante manufatto in pietra di Saltrio che raffigura tre delfini intrecciati sulla sommità. Realizzata nel 1853 in occasione della costruzione dell'acquedotto dallo scalpellino Abbondio Molinari è stata restaurata nel 2009 dalla delegazione lecchese del Fai.

Il Memoriale ai Caduti è un maestoso monumento che celebra i caduti lecchesi della Grande guerra cui si aggiunsero quelli del secondo conflitto mondiale; si affaccia sul golfo di Lecco nei pressi della foce del torrente Caldone. Opera dello scultore Giannino Castiglioni venne inaugurato nel 1926 e raffigura una stele di granito con incise le tappe più gloriose del primo combattimento alla quale, nel lato rivolto verso il lago, appoggia una figura femminile (conosciuta dai lecchesi come la balia di pèss) afflitta da dolore. Ai piedi della stele, posta su un basamento in pietra a gradinate, corre sui quattro lati una fascia di altorilievi bronzei composta da sculture che raccontano la passione del combattente che lascia la sua terra, la sua donna e il suo bimbo per combattere, balzare all'attacco e cadere vittorioso.

Il Monumento a Mario Cermenati è una statua in marmo che si trova al centro della vecchia Piazza del Grano dedicata a lui nel 1927; inizialmente in bronzo venne poi sostituito da quello attuale in marmo nel 1943 in seguito alla requisizione del bronzo avvenuta in epoca fascista. Sul basamento che simula un ammasso di rocce è incisa una epigrafe del poeta Giovanni Bertacchi.


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mercoledì 1 luglio 2015

IL MUSEO ARCHEOLOGICO A CIVIDATE CAMUNO

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Il Museo Archeologico di Cividate Camuno, inaugurato nel 1981, raccoglie tutto il materiale di epoca romana ritrovato in Valle Camonica a partire dalla fine del XVII secolo.
Nei primi secoli dell'Impero, subito dopo la conquista, i Romani resero la Valle Camonica uno dei territori più "romanizzati" dell'arco alpino. Il Museo è organizzato in quattro sezioni: il territorio, la città romana, la religione e la necropoli.
Sono esposti rilievi, materiali fittili ed epigrafici provenienti da vari scavi
effettuati a Cividate Camuno, i mosaici policromi relativi alle terme di Cividate, e varie epigrafi funerarie e votive.

La città romana di Cividate Camuno fu fondata nei pressi del fiume Oglio, ai margini di un'ampia zona pianeggiante, in un punto nevralgico del sistema viario dell'area, a controllo del guado del fiume e delle vie di collegamento con la Val di Scalve, la Val Grigna, la Val Sabbia e la Val Trompia e con l'alta valle.

La città aveva un impianto regolare di strade ortogonali fra loro, disposte secondo l'asse indicato dal fiume Oglio, divisione che si prolungava, e ancora oggi si prolunga, nel territorio.

Della città sono stati riportati alla luce il complesso degli edifici da spettacolo con teatro e anfiteatro, gli edifici termali, diversi edifici privati, le necropoli.

Ai piedi dell'altura di S. Stefano, lungo l'Oglio, che doveva costituire il principale perno viario della città, si sviluppava l'area forense, di cui è stato recentemente scavato un ampio settore.

Proprio ai piedi della rupe di S. Stefano sono stati scavati resti di un insediamento preistorico antichissimo: una capanna del Paleolitico Superiore; un livello insediativo del Mesolitico antico; i resti di un abitato del Neolitico Medio-Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata (IV millennio a.C.); tracce di frequentazione della tarda età del Rame; reperti dell'età del Bronzo e del Ferro.

Lungo i percorsi sono collocati pannelli e disegni ricostruttivi che illustrano gli argomenti delle principali sezioni (città, culti e necropoli).

Nel giardino esterno sono collocati elementi architettonici di grandi dimensioni provenienti dall’area del foro.

Nel 2005 si è reso necessario un cambiamento consistente nell'allestimento per esporre la statua virile rinvenuta nel 2004 nell'area del foro di Cividate Camuno.

Nel 2010 è stata realizzata una tensiostruttura che ha dato respiro al Museo, ampliandone il percorso con la creazione di un nuovo spazio per mostre temporanee e per attività didattiche.

Nel 2011 è stata riallestita la sala della città, con l'esposizione di una selezione degli importanti apparati decorativi della domus scavata nell'area del foro.

Nei primi mesi del 2014 è stato ampliato e ristrutturato l'ingresso del Museo, realizzando un nuovo spazio accoglienza per il pubblico; per l'occasione è stato realizzato un nuovo supporto didattico inerente il Tropaeum Alpium.

Il primo allestimento del Museo ha subito nel tempo diversi interventi di ampliamento e risistemazione dei percorsi. Le continue scoperte hanno infatti reso sempre più urgente la necessità di realizzare un museo organico, in grado di porsi rispetto al pubblico come momento di riflessione sulle vicende che nei primi secoli dell'Impero, subito dopo la conquista, interessarono la Valle, nel più ampio contesto della romanizzazione dell'arco alpino.

Tra il 2005 e il 2006 è stata modificata la disposizione del Museo, dando il giusto rilievo a due grandi statue: la statua di culto trovata nel 1986 nel  santuario di Minerva di Breno, replica in marmo pentelico del tipo dell'Athena Hygieia; una statua rinvenuta nell'area forense di Cividate Camuno nel 2004, rappresentante un personaggio maschile ritratto in posa eroica con il busto nudo e i fianchi avvolti in un ricco drappeggio, sullo schema delle immagini degli imperatori o dei personaggi di rango imperiale del I sec. d.C., ritratti secondo un modello iconografico mutuato dalla grande statuaria greca, teso a raffigurare una bellezza ideale, fisica e morale.

La frazione Pescarzo di Capo di Ponte si trova nella media Valle Camonica, su un terrazzo naturale a circa 650 m di altitudine. Nel 1995-96 è stata riportata alla luce un'abitazione in uso fra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C., conservatasi in maniera straordinaria grazie ad un violento incendio che ne aveva distrutto in antico l'alzato, ma che allo stesso tempo ne aveva sigillato e preservato l'interno sotto uno spesso strato di crollo, restituendoci uno straordinario spaccato della vita quotidiana di una famiglia vissuta 2000 anni fa. La casetta ripropone il modello insediativo tipico dell'area alpina centro-orientale della seconda età del Ferro, con uno zoccolo di base in pietra, realizzato entro uno scasso più o meno profondo nel terreno, e un alzato in legno. L'abitazione di Pescarzo, con una pianta quadrangolare di circa 23 mq, era stata realizzata addossata al pendio entro uno scasso di oltre 1,80 m.  Lungo le pareti del vano-dispensa sono stati recuperati numerosi contenitori da cucina e da mensa in terracotta e un paiolo in bronzo, ascrivibili a tipologie di produzione locale e centro alpina. La presenza di alcuni frammenti di recipienti in ceramica più fine, a pareti sottili, di produzione tipicamente romana, è importante segno dell'incipiente romanizzazione culturale della valle. In un angolo della casa sono stati ritrovati gli scheletri degli abitanti della casa, adagiati sopra un giaciglio di paglia, un uomo adulto, un infante di pochi mesi e un bambino di circa dieci anni, già morti di causa naturale al momento dell'incendio delle strutture. Accanto ad essi erano alcuni monili e oggetti d'ornamento personale in ferro, bronzo e pasta vitrea, costituiti da armille, pendagli e fibule. In un altro settore della casa erano raccolti gli attrezzi da lavoro: due asce e alcuni coltelli in ferro, una cote in pietra, un attizzatoio in ferro. Non lontano, alcuni rocchetti in pietra, un ago in osso e numerosi contrappesi litici forati sembrano suggerire l'esistenza di un telaio ligneo verticale.Resti ossei animali pertinenti a ovicaprini, un suino e un cucciolo di cane, completano il quadro di vita ruotante intorno all'abitazione.  Il materiale, databile fra II e I sec. a. C., arricchisce il quadro di conoscenza sulla vita quotidiana camuna tra tarda età del Ferro e romanizzazione.

Due cippi funerari recano entrambi su una faccia un bassorilievo raffigurante un supplice togato: la specularità delle figure, insieme all'analogia di stile e dimensioni, induce a ritenere che i cippi fossero pertinenti ad uno stesso recinto funerario, dallo schema di evidente tradizione ellenistica.

Ubicata lungo un'importante via di collegamento fra la Valle Camonica e la Val di Scalve, Borno era verosimilmente un centro attivo e vivace, al centro di traffici commerciali legati prevalentemente alle risorse minerarie locali. Dal punto di vista archeologico l'area più ricca è non a caso localizzata lungo l'attuale via Don Moreschi, nella località Calanno, dove in diverse occasioni sono venute alla luce evidenze riferibili ad una necropoli organizzata a recinti murari e i resti di un santuario dedicato a Minerva. La via costituiva anche in età romana la più importante arteria stradale di collegamento tra Borno e Malegno-Cividate e Malegno.

Importanti informazioni sulla necropoli furono acquisite nel 1984-85 quando venne scavato un recinto funerario contenente 11 sepolture a cremazione e la relativa zona di combustione (ustrinum). Il recinto era in muratura di ciottoli e sfaldature litiche legati da malta, con probabile monumentalizzazione del lato principale, come suggerito da numerosi elementi architettonici in pietra rinvenuti in corso di scavo.

Delle tombe, 5 erano in nuda terra, una aveva protezione laterale in ciottoli e copertura in lastra di pietra, una era a fossa con copertura costituita da un tegolone e 4 erano a cassetta litica. Le tombe in cassa litica avevano un corredo decisamente più ricco rispetto alle altre. I materiali, databili fra I e II sec. d. C., sono costituiti da abbondante ceramica, anche di tradizione preromana e metallo, anche prezioso, fra cui si distinguono numerosi strumenti ( tra cui alcuni attrezzi, quali gravine e scalpelli, connessi alla lavorazione della pietra), stili, coltelli, laminette votive, nonchè pendagli e amuleti di tradizione protostorica carichi di significati simbolici. E' stato ipotizzato che i defunti fossero membri di un particolare gruppo sociale, forse di una casta sacerdotale.
Tra i reperti ci sono:
Una tomba a cassetta in occhialino scolpito, con coperchio a spioventi, contenente un'olla ovoidale in vetro verde, coperta in origine da un piatto in vetro saldato ad essa con gesso; all'interno, oltre alle ossa del defunto, sono stati trovati tre balsamari; intorno erano deposte quattro ampolle monoansate ed una lucerna a volute con maschera tragica sul disco.

Un gruppo di intonaci dipinti provenienti da una domus di età giulio-claudia, scavata in via Palazzo, nell'area del foro di Cividate Camuno. Si tratta di ingenti quantità di raffinati frammenti pittorici pertinenti a diverse fasi di vita di un edificio residenziale antecedente un edificio monumentale a probabile destinazione pubblica.

Nel 1956 a Braone, nella media Valle Camonica, fu trovata una tomba a inumazione contenente una piccola teca cilindrica in piombo, a due elementi ad incastro, contenente un gruppo di monete d'oro. La teca venne aperta e le monete disperse. Del gruzzolo originario furono poi recuperati 9 solidi aurei, emessi dagli imperatori Leone, Zenone, Anastasio.

Un mosaico composto da tessere bianche e nere, con tocchi di arancione e di marrone, posato su uno strato di cocciopesto a sua volta giacente su un livello di preparazione in malta su vespaio in ciottoli. Nel disegno predominano le linee curve con rosoni a due cerchi concentrici neri, con all’interno nodi di Salomone, delimitano ottagoni a segmenti ricurvi, incorniciati da motivi a tortiglioni.

Un piede maschile destro nudo in bronzo. Il frammento rimanda ad una statua ritratto in posa eroica.

Un pilastrino con figura di Dioniso fanciullo, posto su una base ornata da motivi naturalistici a rilievo, con tralci di vite e animaletti sulle facce laterali.

Una placchetta votiva in lamina di bronzo, raffigurante una figura umana schematica con le braccia levate verso l'alto e sormontante una barca solare  trainata da uccelli acquatici. Finemente decorata con puntinato e motivi triangolari e con cerchi concentrici a occhi di dado. Databile alla seconda metà del V sec. a.C., proviene dal santuario protostorico di Spinera di Breno, dai resti del rogo intorno ad un altare in pietra. In essa è verosimilmente da riconoscere la raffigurazione della divinità femminile indigena connessa all'acqua e venerata nel luogo, un contesto paesaggistico suggestivo, vicino all'Oglio e a una rupe rocciosa percorsa da grotte e cavità naturali.

Una statua di culto raffigurante Minerva. Si tratta di una copia romana di un originale greco di V sec. a.C. raffigurante la dea Athena/Minerva, opera di Pyrros, seguace di Fidia. La divinità è stante, appoggiata sulla gamba destra e con la sinistra piegata al ginocchio. Indossa chitone e hymation ed è avvolta in un ricco drappeggio, con l'egida a grosse scaglie su cui domina l'effigie della Gorgone, tra spire di serpentelli. La testa, della quale manca tutta la parte anteriore con il volto, è sormontata da un elmo attico con figura di sfige accovacciata sormontata da un alto lophos che ricade dietro le spalle, tra due paragnatidi ad alette laterali.

Una stele funeraria di incerta provenienza, recuperata ad Ossimo Inferiore. Nel registro superiore vi è una pseudo-edicola, sormontata da due leoni acroteriali e con Medusa stilizzata nel timpano, contenente due ritratti, uno maschile e uno femminile. Nella parte inferiore vi è una lunga dedica che cita un liberto che dedica un recinto funerario.

La romanizzazione della Valle Camonica fu attuata attraverso un graduale processo di acculturazione che non determinò rotture e cambiamenti radicali, bensì piuttosto l'incontro, l'integrazione e una lenta interpretatio e sovrapposizione. Gli aspetti caratterizzanti la realtà camuna nella seconda età del Ferro, modalità insediative e cultuali, forme della cultura materiale, sopravvissero a lungo alla romanizzazione e continuarono, pur con esiti e soluzioni differenti fino alla tarda età romana.

Le terme di Cividate romana vennero alla luce in una zona centrale della città negli anni Settanta del secolo scorso, a seguito di lavori edilizi: l’edificio scoperto presentava un calidarium (ambiente con una o più vasche contenenti acqua calda) absidato, con due vasche opposte, una per i bagni in acqua calda e una per quelli in acqua fredda e la natatio (piscina), con un pavimento in lastre e due scale d’accesso.

Era presente inoltre il caratteristico sistema di riscaldamento con sopraelevazione del pavimento tramite colonnine in terracotta (suspensurae) e pilastrini di pietra.

Le strutture sono state ricoperte. La dettagliata documentazione di scavo è in parte illustrata tramite pannelli al Museo (sala 1). Fra i materiali recuperati figurano monete di II e III sec. d.C., frammenti laterizi con bollo e due arule votive dedicate alla Fortuna e a Iside.

Ad una decina di metri a sud dalle Terme sono stati rinvenuti due ampi vani, probabilmente pertinenti alla vicina struttura termale, con una pregevole pavimentazione a mosaico. I mosaici, databili al I-II sec. d.C., sono stati in parte recuperati e sono oggi al centro della prima sala del Museo di Cividate.

Per ricostruire il quadro della cultura materiale della Valle Camonica in età romana, in mancanza di dati esaurienti e significativi recuperabili in scavi di abitato, particolare importanza rivestono gli oggetti provenienti da corredi tombali.

Tra le popolazioni antiche infatti era costume ricorrente la prassi di accompagnare i defunti con gli oggetti peculiari della vita quotidiana, in alcuni casi, quando il ceto di appartenenza era elevato o notevoli le risorse finanziarie, associandoli a materiali di pregio, come armi o monili. Ne deriva quindi di riflesso per chi esamina tali contesti una esplicita allusione alle caratteristiche socio-economiche oltre che culturali della vita del tempo.

Numerosi sono i rinvenimenti funerari rinvenuti in tutta la valle. Mentre diffuse un po' in tutto il territorio sono tombe isolate, vere e proprie necropoli sono state finora rinvenute a Lovere, Rogno, Borno, Breno e Cividate Camuno.

Il museo ha un'apposita sezione dedicata alle necropoli e alla ritualità funeraria, con pannelli e disegni ricostruttivi e dove trovano spazio i corredi delle tombe di Cividate Camuno e Breno, Borno, nonchè diverse epigrafi, are e monumenti funerari da diversi paesi della valle.

La necropoli di Borno, situata lungo la strada proveniente da Malegno, alla periferia dell'attuale abitato, si presenta come un caso particolare nel panorama complessivo del territorio camuno, sia per la qualità dei materiali in essa rinvenuti, sia per le tracce cospicue di recinti che delimitavano le sepolture.

Dal 1927 a più riprese sono emersi strutture, materiali ed elementi epigrafici riferibili ad una vasta necropoli a recinti in uso nei primi secoli dell'età imperiale, non molto lontana dall'area occupata da un santuario romano impostato su un precedente indigeno. La zona è caratterizzata dalla presenza ancora in situ di un muro in opus quadratum, scoperto nel 1958, restaurato e ricomposto con un'ara proveniente dal terreno soprastante. Il muro rappresentava in origine la fronte di un recinto con muri perimetrali in pietre e malta, con zoccolo rivestito da lastre lavorate in arenaria azzurra. Insieme alle strutture murarie furono scoperte alcune tombe ed evidenziate tracce di altri due recinti.

Importanti informazioni sulla necropoli furono acquisite nel 1984-85 quando venne scavato un recinto funerario contenente 11 sepolture a cremazione e la relativa zona di combustione (ustrinum). Il recinto era in muratura di ciottoli e sfaldature litiche legati da malta, con probabile monumentalizzazione del lato principale, come suggerito da numerosi elementi architettonici in pietra rinvenuti in corso di scavo.

Delle tombe, 5 erano in nuda terra, una aveva protezione laterale in ciottoli e copertura in lastra di pietra, una era a fossa con copertura costituita da un tegolone e 4 erano a cassetta litica. I materiali, databili fra I e II sec. d. C., sono costituiti da abbondante ceramica, anche di tradizione preromana e metallo, anche prezioso, fra cui si distinguono numerosi strumenti (attrezzi, quali gravine e scalpelli, connessi alla lavorazione della pietra), stili, coltelli, laminette votive, nonchè pendagli e amuleti di tradizione protostorica.

Particolarmente ricchi si presentavano i corredi delle tombe 3, 7, 9, 11, entro cassette litiche. Nel corredo della tomba 11 va segnalato, oltre ai numerosi oggetti in vetro, alle lucerne e alle fibule, anche un nucleo costituito da numerosi strumenti in ferro e bronzo, fusi insieme dal calore del rogo e significativo come riferimento all'attività svolta in vita del personaggio defunto. Le altre tombe menzionate contenevano oggetti di particolare pregio: una testina di toro in bronzo e una grossa armilla d'argento (tomba 7); un anello d'oro, fibule a globetti e a balestra; un'orecchino d'argento (tomba 9); un rasoio a lama triangolare (tomba 3). In genere le urne contenevano gli oggetti più preziosi (monili, vetri, lucerne) oltre alle ossa del defunto. All'esterno venivano invece deposti gli oggetti in metallo. Significativa la presenza di pendagli e amuleti di tradizione protostorica, carichi di significati simbolici e rituali, e di numerosi oggetti legati alla scrittura.

La necropoli di Breno, posta lungo via Garibaldi, venne scoperta casualmente nel corso dei lavori stradali che purtroppo distrussero parzialmente le tombe e resero impossibile il recupero dei corredi nella originaria associazione.

Le strutture erano a cassa di tegoloni o, in un caso, di lastre di pietra.

Fra i numerosi materiali recuperati risultano particolarmente significativi due vasi in ceramica invetriata. Uno di essi, una coppa, presenta una decorazione costituita da medaglioni circolari applicati su due fasce, racchiusi superiormente e inferiormente da file orizzontali di punti a rilievo, con motivi floreali e teste femminili. La coppa sembra appartenere alla produzione di officine di Smirne ed è databile alla prima metà del I sec. d.C. L'altro esemplare, invetriato, un cratere, assai simile alla coppa e riferibile allo stesso contesto cronologico e stilistico, presenta una decorazione a medaglioni, uniti da festoni, con motivi floreali a rosette e teste di eroti.

Dalla stessa necropoli provengono pure parte di una coppetta a pareti sottili, frammenti di piatti e coppe in terra sigillata nord-italica, un grande boccale di tradizione alpina, varie urne, fittili o in pietra ollare, una fibula d'argento derivata dal tipo Aucissa, una a disco in bronzo

A Cividate sono state finora individuate due zone sepolcrali: una nell'area di via Piana, lungo la strada per Berzo Inferiore, l'altra in località Androne, lungo l'attuale via Marconi.

Della prima furono recuperate circa dieci tombe, sia ad inumazione sia ad incinerazione, con corredi abbastanza modesti e purtroppo in parte non integralmente ricostruibili come contesto: il materiale si data fra I e III sec. d.C. La tipologia delle sepolture comprende tombe a inumazione, con pareti e copertura in lastre di pietra e fondo di tegole e tombe ad incinerazione, deposte in nuda terra o in cassetta di tegoloni con copertura in lastre di pietra.

La necropoli in via Marconi comprendeva per lo più tombe ad incinerazione, databili fra I e III sec. d.C., alcune delle quali comprese entro recinti rettangolari costituiti da muretti in ciottoli e malta. L'urna era deposta in nuda terra o in cassetta di tegole, con il corredo sia interno che esterno.

Fra gli oggetti più notevoli vi sono urne-cinerario in pietra ollare, un pendaglietto in oro, due pissidi in osso.

Ancora a Cividate, in località Broli, nel 1955 è stata ritrovata una tomba in cassa litica, con coperchio a spioventi, contenente un'olla cineraria in vetro, balsamari e una lucerna.




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lunedì 11 maggio 2015

LA CHIESA DI SAN ROCCO A BAGOLINO

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La chiesa di San Rocco è una chiesa situata all'ingresso dell'abitato di Bagolino, a fianco della Strada Statale 669 che porta al passo di Crocedomini. Venne eretta dopo la peste del 1478, per ringraziare il santo al quale essa è dedicata per la cessazione del flagello e per porre sotto la sua protezione l'intera comunità. Grande interesse riveste, al suo interno, il ciclo di affreschi realizzato dal pittore camuno Giovanni Pietro da Cemmo, artista che segna nelle valli bresciane il passaggio dalla pittura gotica a quella rinascimentale.

Dopo la metà del XVI secolo la chiesa dovette ormai sembrare troppo angusta e modesta alla ricca comunità bagolinese. Si decise così di innalzare il campanile: i lavori, affidati al comasco Cristoforo di Osten, terminarono nel 1565. Poco dopo, nel 1577, fu ordinato l'ampliamento della navata dandone incarico al "Magister Comino da Sabbio", che modificò la larghezza della navata e vi aggiunse, secondo le prescrizioni ricevute due nuove campate
Al termine dei lavori, nel 1585, la chiesa fu solennemente consacrata dal vescovo di Trento.

Anche l'apparato decorativo della chiesa, con gli affreschi di Giovanni Pietro da Cemmo, dovette sembrare troppo modesto e fu sacrificato nel XVII secolo a vantaggio di grandi altari dorati di gusto barocco, oggi visibili nelle ampie nicchie laterali della navata.

Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento furono eseguiti nuovi lavori improntati ad un discutibile gusto neo gotico. Fu giustapposto alla facciata della chiesa un pronao con archi a sesto acuto; venne inoltre realizzata nella navata una falsa volta, sempre in forme goticheggianti, con una pesante tinteggiatura in azzurro, al posto della precedente copertura lignea del tetto a capanna.

L'impianto decorativo che va dall'arco santo, alla parete di fondo ed alla volta del presbiterio stesso, ubbidisce ad un complesso programma iconografico suggerito verosimilmente da qualche dotto religioso. Il visitatore che entra nella chiesa vede per prima cosa la raffigurazione dell' Annunciazione sull'arco santo, con la scena dell' Angelo annunziante sul rinfianco sinistro e quella della Vergine annunziata sul destro; in mezzo, in una mandorla di luce, sta la figura dell' Eterno che ha deciso di inviare il Figlio per la redenzione del genere umano. Se l 'Annunciazione è l'episodio che segna l'inizio della vita terrena di Gesù, la grandiosa scena della Crocifissione, che lo spettatore osserva sulla parete di fondo del presbiterio, ne racconta il tragico epilogo.

Avanzando poi verso l'altare, lo spettatore nota, nel sottarco, le figure di dodici Sibille, nelle quali la mitologia religiosa medievale ha voluto vedere le profetesse che, in ogni luogo della terra, predissero la venuta di Cristo (sono 12 anziché 10, come d'abitudine, per stabilire una stretta simmetria con i 12 "profeti minori").

Alzando poi lo sguardo verso la volta a crociera, lo spettatore vede nelle sue vele le grandi e statuarie figure dei quattro Evangelisti, testimoni della venuta di Cristo e dei suoi insegnamenti. Ad agevolarne la identificazione - identificazione non semplicissima visto che Giovanni si mostra con una solenne barba bianca ed appare come il più vecchio dei quattro – sono raffigurati nei pennacchi della volta, su di un lato, i simboli del tetramorfo; sull'altro lato sono poste invece le figure dei quattro Dottori della chiesa, che diedero forma di dottrina agli insegnamenti di Cristo. Più in basso nei pennacchi, sono posti otto tondi monocromi che corrono tutt'intorno alla volta; in essi si riconoscono scene bibliche che valgono a sottolineare la continuità tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento: narrano – con una iconografia poco consueta – la storia dell'umanità da Adamo a Lamech, il quinto discendente di Caino.

Solo dopo aver meditato su tali scene che parlano della venuta e del sacrificio di Cristo e del ruolo della sua Chiesa, lo spettatore potrà osservare, spostandosi prima sull'uno e poi sull'altro lato del presbiterio, la raffigurazione della vita dei due santi taumaturghi, San Rocco e San Sebastiano, invocati a protezione dalla peste. Il racconto pittorico della edificante vita dei due santi ne ripercorre gli eventi salienti, resi popolari dalla Leggenda Aurea.

Sulla parete di sinistra, quella destinata a San Rocco, trova oggi sistemazione, in una parte ormai rovinata delle pitture, una Madonna col Bambino tra Sant'Antonio Abate e San Giovanni Evangelista, affresco staccato proveniente da una cascina del territorio di Bagolino, attribuito alla scuola del Da Cemmo.

Il linguaggio pittorico di Giovan Pietro palesa, innanzi tutto, nel rigore plastico di derivazione mantegnesca e nell'avvenuta assimilazione dell'uso della prospettiva, il debito artistico verso il bresciano Vincenzo Foppa, padre nobile della pittura rinascimentale lombarda, ancora in piena attività all'altezza degli anni degli affreschi della chiesa di San Rocco.
Si può notare, in particolare, come l'Angelo annunziante ricordi da vicino l'analoga figura che il Foppa, nel 1468, aveva affrescata nella Cappella Portinari.

Si è altresì sottolineato l'eclettismo del pittore camuno, il suo attardarsi sulla poetica del gotico internazionale, il suo affacciarsi sulla grande pittura toscana, il suo interesse per l’arte nordica. Si osserva, sotto questo profilo, come la figura della Vergine annunziata (rovinata nei panneggi della veste azzurra) evochi, nella tenera soavità del volto, l'aspetto delle dame care al gotico internazionale, mentre l'ambientazione e la meticolosa descrizione degli oggetti che popolano la stanza richiamano la cifra stilistica dell'arte nordica.

La scena della Crocifissione, costipata di persone e di cavalli, entra più volte nella produzione del Da Cemmo: la troviamo anche a Borno, nella chiesa dell'Annunciata, e ad Esine, nella chiesa di Santa Maria Assunta. La raffigurazione della Crocifissione richiede all'artista un particolare impegno: nei cicli di affreschi essa deve rappresentare infatti il punto culminante, quello più denso di pathos.

A proposito della versione di Bagolino si è acutamente osservato che:

« ...  appare divisa in due zone:la parte alta, con le tre croci, è immersa in un’atmosfera silenziosa ed immobile ; ai piedi della croce vi è, al contrario, una folla di personaggi,, un vero mare di teste e di corpi in movimento che fa da sfondo ai protagonisti. La capacità del pittore di conferire ai propri personaggi una ben definita personalità è evidentissima anche nell’uso di particolari effetti cromatici: il grande dolore interiore di Maria, avvolta in un manto nero, è sottolineato dall'abbraccio delle pie donne vestite con abiti dalle vivaci tonalità rosse e gialle. »
Un brano del ciclo di affreschi di particolare interesse e di suggestivo sapore gotico cortese, è dato dai ritratti delle dodici Sibille che Giovan Pietro dipinge nel sottarco, ognuna con una scritta che ne palesa il nome e che evidenzia una sentenza profetica a lei associata.
Le dodici Sibille danno luogo ad una gustosa sfilata di vesti e di acconciature del tempo, non priva verve ironica. Troviamo, ad esempio, la Sibilla Cumana che si compiace del suo abito fiorentino, mentre la Sibilla Europa fa sfoggio sul proprio capo di un tipico hennin di forma conica che potrebbe essere uscito dal pennello di un pittore fiammingo.

Se gli affreschi del Da Cemmo costituiscono l'aspetto artistico di maggior interesse, vale la pena prestare attenzione anche ai cinque altari barocchi posti nelle grandi nicchie della navata, se non altro per apprezzare quali drastici cambiamenti di gusto si operarono tra la fine del XVI e poi durante il XVII secolo, e per capire come doveva apparire l'interno della chiesa di San Rocco fino a non molte decadi fa.
Si consideri che il secondo altare di destra, dedicato a San Rocco (composto da elementi di epoche diverse, con cinquecenteschi dipinti su tavola e secentesche statue lignee) ricopriva, nel presbiterio, la scena della Crocifissione. Altri due altari – il terzo ed il quarto di destra – erano posti ai lati dell'arco santo e nascondevano interamente le due figure dell'Annunciazione.

La realizzazione delle soase lignee dorate è verosimilmente opera di intagliatori delle valli bresciane; i dipinti sono opera di artisti minori che, tuttavia, dovevano incontrare il gusto dei committenti. Tra di essi troviamo anche una donna, la pittrice Anna Baldissera vissuta nel '600, autrice della pala con San Carlo Borromeo tra i santi Faustino e Giovita, posta nel primo altare di destra.




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domenica 10 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO D' ISEO : PISOGNE

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Pisogne è un comune italiano della Val Camonica, che sorge sulla sponda nord-orientale del lago d'Iseo, in provincia di Brescia, Lombardia.

Già abitato in epoca preistorica, nel Medioevo fu un importante centro commerciale fra la Valle Camonica ed il Sebino. Nell'813 il Vescovo di Verona Rataldo possedeva proprietà in Valcamonica, tra cui Pisogne. Il 10 agosto 1132 Pisogne, tramite una bolla di papa Innocenzo II, viene donata al monastero di San Faustino e Giovita di Brescia.

Trovandosi nel mezzo della guerra tra Bresciani e Bergamaschi per la conquista dei castelli di Volpino, nel 1199 verrà incendiata e distrutta dai Bergamaschi. Il 6 marzo 1206 la famiglia Avogadro riceve dal vescovo di Brescia Giovanni da Palazzo l'investituta della corte di Cemmo, Mù, Pisogne e Gratacasolo.

Nel 1229 è per la priva volta citato il mercato di Pisogne. Nel 1287 la grande ribellione camuna guidata dai Federici e dei Celeri contro Brescia porta alla devastazione di Pisogne e all'uccisione di parecchi guelfi ivi residenti. A seguito di questo fatto la cittadina venne fortificata tra il XII ed il XIII secolo e concessa alla nobile famiglia Brusati.

Nel 1291 Tebaldo Brusati è proclamato signore della città. Giovedì 19 giugno 1299 Cazoino da Capriolo, camerario del vescovo di Brescia Berardo Maggi, dopo aver visitato le pievi di Edolo, Cemmo, Cividate e esser tornato a Brescia, giunge a Pisogne per continuare la stesura dei beni vescovili in Valle Camonica. Qui il console della vicinia di Pisogne, di Pontasio, Grignaghe, Fraine e Toline giurano secondo la formula consueta fedeltà al vescovo, e pagano la decima dovuta.

Confermano al vescovo di Brescia notevoli privilegi: che gli oneri della difesa del borgo siano a spese dei pisognesi, che non venisse costruita nella cinta muraria tutim vel domum de batallia seu fortezam, e la concessione dell'esercizio della giustizia civile e criminale. Questa comportaba facoltà di infliggere qualsiasi pena agli abitanti di Pisogne:

« specialiter suspendendo homines et eruendo oculos alterius et alia fustigando et alias imberlinando et incarcerando et aliis poenis eos affligendo »

« specialmente impiccando gli uomini e cavando loro gli occhi e flagellare, imberlinando e castigandoli con altre punizioni »
(Federico Odorici, Storia Bresciane, pg 263)
Era inoltre proibito costruire nelle vicinanze qualsiasi tipo di fortificazione senza il consenso del vescovo. A questi patti il 21 giugno 147 Vicini giurano fedeltà.

Nel 1305 gli Oldofredi sostituiscono i Brusati nell'esazione delle decime. Nel 1413 Carmagnola occupa Pisogne. Nello stesso anno si risolve la lite tra Pisogne e Pian Camuno per il possesso del Monte Campione. Il 4 dicembre 1462 il comune acquistò dal Vescovo di Brescia Bartolomeo Malipiero tutti i suoi stabilimenti e diritti, eccetto la Torre. Nel 1518 sono condannate al rogo otto streghe. Nel 1665 i forestieri residenti nella Vicinia di Pisogne chiedono gli stessi diritti degli Antichi Originari, ed il Governo Veneto glieli concede.

Il 14 novembre 1727 il notissimo bandito Giorgio Vicario, uno dei più temuti bulli della Valle Camonica, nato a Pisogne nel 1695, viene orrendamente assassinato. Nel 1817 viene riempita, con ingente spesa, la palude a nord del paese. Nel 1850 si abbatte sul paese la terribile alluvione del torrente Trobiolo. Nel 1907 Pisogne venne raggiunto dalla linea ferroviaria, ancora oggi funzionante. Nel XIX secolo e nel 1952 vennero scoperte antiche piroghe carbonizzate. Oggi non ne rimane traccia in quanto disperse.
Sull’antico tracciato della Via Valeriana, la strada costruita dai Romani nella loro avanzata alla conquista del territorio camuno (16a.C.) si sviluppò il borgo di Pisogne. Fu tuttavia la vicinanza al Lago di Iseo a favorire, già secoli prima, l’insediamento di piccole comunità in queste zone, come sembrano documentare i ritrovamenti in loco di piroghe carbonizzate e numerose incisioni rupestri. Di origine antichissima Pisogne fu nel passato il porto commerciale della Vallecamonica e luogo di importanti mercati.

A causa delle sanguinose guerre dei sec. XI-XII Pisogne venne munito di poderose fortificazioni ora scomparse; venne risparmiata la grandiosa e massiccia Torre del Vescovo che con i suoi 32,50 mt. di altezza domina il paese. Testimonianze storiche si rinvengono anche nelle frazioni di Pisogne : Gratacasolo conserva i resti della torre dei Gratacasolei, la famiglia che dominava il luogo nel Medioevo; nella Piazzetta di Fraine è murata una scultura raffigurante il leone di San Marco, ricordo della lunga dominazione della repubblica di Venezia. Molto più antiche sono invece le sculture longobarde sparse per le vie di Grignaghe, risalenti ai sec VII e VIII. Due importanti strade si diramano sulla montagna di Pisogne: una passando per le frazioni di Sonvico e Fraine raggiunge la Val Palot (m. 1043) e prosegue fino al Colle di S. Zeno (m. 1418) scendendo poi in Val Trompia; l’altra passando per le frazioni di Pontasio, Siniga e Grignaghe giunge a Passabocche (m. 1297) , raggiunge Croce Marino e scende in Palot.

Gratacasolo è la frazione più popolosa, posta nel fondovalle a nord di Pisogne. Importante crocevia storico tra Valle Camonica e passo del Colle di San Zeno, per secoli ha basato la propria economia sull’escavazione e produzione di macine da mulino. A monte dell’abitato sono visibili le antiche cave, abbandonate definitivamente nel 1920, bell’esempio di archeologia industriale che conserva tutte le strutture annesse alle cave e molti semilavorati abbandonati.

Toline, collocata a sud di Pisogne, è la frazione lacustre immersa nel verde ai piedi del massiccio del Trentapassi. Vanta una chiesa parrocchiale dedicata a San Gregorio Magno, con pregevoli affreschi quattrocenteschi attribuiti a Giovan Pietro da Cemmo ed opere lignee barocche realizzate dalla famiglia Fantoni.

A pochi chilometri dal centro di Pisogne, risalendo verso la Montagna, Fraine è una ridente località di villeggiatura montana immersa nel verde, a pochi chilometri dalla stazione sciistica di Val Palot, dotata di impianti di risalita ed ottimo luogo di  riposo per ragazzi e famiglie. Il paese presenta un antico e pittoresco centro abitato; a valle si trova il Santuario della Madonna delle Longhe, festeggiata solennemente ogni anno il 2 Luglio, il 10 agosto, in occasione del patrono San Lorenzo si svolge la tradizionale Festa dei Brigancc.

Grignaghe, località montana di villeggiatura, è posta a circa 900 m.s.l.m. in una posizione dalla quale si gode un meraviglioso paesaggio. Questo abitato, di origine antica, fu probabile insediamento Longobardo e conserva disseminate nel paese interessanti sculture altomedievali; di particolare rilievo un San Cristoforo ed un guerriero armato a cavallo

Pontasio è un borgo sviluppatosi anticamente nei pressi della zona mineraria; all’estrazione del ferro si è dedicata per secoli la popolazione locale, pagando un alto prezzo in vite umane. Attualmente è visitabile la miniera medievale Quattro Ossi, nella quale il secondo sabato di dicembre si organizza una visita guidata e la S. Messa.

Siniga è una frazione ormai quasi completamente spopolata, ma con un’origine molto antica: è la prima località di Pisogne che compare sui documenti medievali del Monastero di Santa Giulia al quale era infeudata.

Sonvico, altra frazione montana scarsamente popolata, sorge in una posizione privilegiata, un terrazzo naturale sul lago e la bassa Vallecamonica: Fu probabilmente sede di una guarnigione romana; conserva infatti resti di antiche torri e costruzioni risalenti a quel periodo.

Govine è sempre stata la zona industriale, lo stesso nome può fare pensare a gowan che nell’antica lingua germanica significa fabbro, ed effettivamente questo luogo era adibito alle attività legate all’estrazione mineraria. Govine all’inizio dell’Ottocento, con un’acqua perenne che scaturisce da una roccia, dà moto a due forni fusori, otto fucine e cinque officine con magli, per la lavorazione del ferro e la produzione di utensili domestici ed attrezzi rurali. A Govine c’è un Santuario dedicato alla Natività di Maria, chiamato dagli abitanti la Madonnina, costruito nel 1630 come ringraziamento per lo scampato pericolo dalle angherie degli eserciti tedeschi e dalla peste del ‘600.

La Chiesa di Santa Maria della Neve nacque per volere degli stessi abitanti di Pisogne, con la funzione di Santuario, come dimostrano i resti di portici sia sul lato nord che su quello sud poi trasformato in cappella interna al convento attiguo. Gli affreschi collocati all’esterno ed all’interno, nel presbitero si fanno risalire al XV secolo.Sul lato nord è addossato un sacello quadrato porticato aperto su due lati coperto da una volta a crociera affrescata con storie del Vecchio e Nuovo Testamento. A sud della chiesa si sviluppa l’ex-convento dei frati Agostiniani trasformato in epoca napoleonica in ospedale ed oggi adibito a ricovero per anziani.

Girolamo Romanino è chiamato ad affrescare la Chiesa di Santa Maria della Neve intorno al 1534, di ritorno da Trento, dove aveva lavorato nel Castello del Buon Consiglio. L’uso dello spazio, dal punto di vista pittorico, è fortemente illusionistico ed interpreta anche la struttura architettonica.Le vicende narrate della storia di Cristo dalla natività fino alla resurrezione erano rappresentate anche esternamente dove si trovavano il presepe e l’adorazione dei Magi. La Crocifissione domina su tutte le altre scene che si svolgono intorno e che non seguono un preciso andamento cronologico.

La Torre del Vescovo, costruita nella prima metà del XIII° secolo è alta mt. 32,60, con la base di 7,20 metri lo spessore dei muri è di1,65 metri. Di pianta quadrata costruita con la pietra locale di color ferrigno a corsi orizzontali con conci lavorati a bugne su tutti i lati; la porta d’ingresso è col-locata sul lato nord (in un cortiletto) e si apre ad un livello di circa 4 metri dal suolo. Era di Tebaldo Brusato e l’allora Cazoino dei Margotti di Capriolo, delegato dal vescovo Berardo Maggi, affitta per nove anni la Torre a Onofrio degli Acchiappati. Nel 1462 il Vescovo Bartolomeo Malipiero pur rinunciando ai diritti feudali su Pisogne, si riservò la proprietà della torre. Si racconta che quisiano state imprigionate, per poi essere bruciate sulla piazza, le otto streghe nel giugno 1518. La torre rimase proprietà vescovile e solo nel 1805 passò al Comune. Nel 1950 venne demolito un portico posto davanti alla sua base e nel 1962 venne rifatto il tetto con la merlatura di sostegno. L’orologio venne restaurato nel 1926 e poi nel 1983 cosi come la meridiana dove vennero ritro vate tracce di affreschi e decorazioni ritenute di Araldo Bertolini settecentesche. Nel corso del 2005 parte la ristrutturazione della torre con pulitura esterna ed interna e completo ricambio di tutta la pavimentazione con installazione di nuove scale e piani in ferro e legno. Oggi è accessibile a tutti.

Porta d’ingresso da Via Ortaglie, il collegamento fra Piazza Umberto 1° e Via Ortaglie è costituito da una serie di androni, e sopra questi si innalza un’alta parete che fa presumere che questa sia parte di un’antica struttura muraria che doveva chiudere il borgo di Pisogne verso nord. Questo tipo di struttura potrebbe essere databile intorno ai secoli XII e XIII. L’arco a tutto sesto doveva essere quindi la porta d’accesso al paese e contemporaneamente lo sbocco sul lago. Sulla destra si trova un androne molto lungo e basso che potrebbe far supporre che quel luogo servisse da riparo per le barche.

Porta dei Monti, situata in quella che un tempo era chiamata Contrada di Mezzo ed oggi denominata via dei Monti, costituiva una delle porte di accesso al “borgo di Pisogne”. La porta è addossata da una parte a quella che era l’antica struttura di difesa del paese e dall’altra ad una casa che, pur avendo subito dei rimaneggiamenti, presenta evidenti segni di casa-torre. La porta, a tutto sesto, è costituita da grossi conci regolari di pietra locale, che formano sia la spalla che la ghiera, ed è databile intorno al XIII secolo.

Porta Nuova, situata all’inizio dell’attuale via Mercanti, già via Porta Nuova, era la porta d’accesso al paese dalla parte dell’antica strada Valeriana che scendeva dal passo della Croce di Zone. Si può pensare che questa porta sia stata eretta in epoca più tarda rispetto alle altre, e più precisamente intorno al XIV secolo. E’ un arco a tutto sesto posto su grossi pilastri a finti conci di muratura, con un semplice listello che funge da capitello. L’arco è sormontato da un timpano triangolare. Questa porta presenta un’architettura neoclassica, che probabilmente risale ai primi anni del nostro secolo. A nord sul lato occidentale, vi è un corpo di fabbrica che doveva essere una torretta di guardia alla strada d’accesso al paese.

Villa Damioli, affianca a sud la parrocchiale ed è composta da un complesso di fabbricati risalenti alla fine del ‘700. All’interno la villa, che sorse sui resti di un castello medioevale, ha belle sale con soffitti affrescati. Strettamente collegata alla villa è casa Giordani, che appare oggi in forma seicentesca, con un interessante interno, dotato di cortili con fontane e loggiati sovrapposti con colonnine in pietra di Sarnico.

Casa Soardi, dimora secentesca, oggi si affaccia su Piazza Ghitti, ma originariamente prospettava direttamente sui moli di attracco delle barche che navigavano sul lago preferibilmente all’una di notte per sfruttare la brezza notturna detta “ el vet “ che spingeva le vele verso Iseo da dove ripartivano a mezzogiorno per sfruttare “ l’ora “, il vento pomeridiano, che riportava i barconi a Pisogne.

Casa Fanzago, posta all’inizio di via San Marco, rivela una struttura secentesca modificata nei secoli successivi e presenta un importante portale d’ingresso. La facciata è decorata da medaglioni ottocenteschi in rilievo che raffigurano i personaggi de “ I Promessi Sposi “. Al piano nobile della casa è ancora visibile il settecentesco salone da ballo, decorato a stucco ed affresco.

Persone legate a Pisogne:
Giovanni Maggiò, (1929 - 1987) Imprenditore edile, storico presidente della Juvecaserta.
Giacomo Maria Corna Pellegrini, (1847 - 1913) Vescovo di Brescia

Pisogne vanta di 2 squadre sportive di rilievo; la Pallacanestro Pisogne che milita in serie C dilettanti e la New Volley 2000, squadra di pallavolo che disputa il campionato di serie B1 nazionale. Entrambe le formazioni hanno come sponsor principale la Iseo Serrature, che ha sede e stabilimenti nella zona industriale della Rovina.

Dall'agosto 2007 si tiene annualmente un concorso di liuteria al termine del quale tutti gli strumenti in gara vengono esposti per una settimana nella Chiesa di Santa Maria della Neve. Ogni anno, nella settimana di ferragosto si tiene la tradizionale "Mostra Mercato" per il centro del paese. L'ultimo week end di settembre è inoltre organizzata la tipica "Festa del Fungo e della Castagna" con un grande mercato dei sapori tipici, caldarroste e spettacoli per tutti i gusti. È organizzata dalla Pro Loco pisognese. Il 12 maggio si celebra la festa patronale di San Costanzo martire. Ogni due anni si tiene il Palio delle Contrade, gara in cui si sfidano le diverse zone del paese in discipline sportive e non.



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mercoledì 29 aprile 2015

IL PRESEPE SOMMERSO

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Ogni anno per Natale, a Laveno Mombello viene posato nelle acque del Lago Maggiore il cosiddetto “presepe sommerso”, posizionato nell’area antistante la piazza Caduti del Lavoro, in pieno centro città.

Il "Presepe Sommerso di Laveno Mombello", prese avvio storicamente nel Natale del 1975, quando un gruppo di amici, con lo scomparso cav.Davide Sironi, che vestito da zampognaro suonava la piva, si ritrovarono alla vigilia della notte di Natale a Punta Granelli, una zona a lago posta appena fuori dal Comune di Laveno, in Castelveccana (La denominazione deriva dalla tragedia del lago, che vide nel 1930 un motoscafo Riva andare in fiamme e sparire nelle profondità con due giovani vittime a bordo i cugini Granelli, le cui salme non sono mai più state ritrovate ). Il luogo venne poi scelto da alcuni sommozzatori (in prevalenza svizzeri della Lugano sub) che frequentavano quelle rive e quelle profondità lacustri, quale palestra subacquea per il loro sport preferito. L'idea del Cristo degli Abissi, venne al veterano dei sub ticinesi, il lavenese Ovidio Garolla, di Mombello che coinvolse, oltre al Sironi i fratelli Rossi, il Brunelli, il pluri presidente della Pro Loco, il cav. Giuseppe Marchesotti. La zona, durante le cerimonie augurali natalizie, era rischiarata dalle luci alimentate dalle batterie d'auto messe a disposizione da Antonio Rossi (più avanti arrivarono i gruppi elettrogeni). Qui a punta Granelli in un'atmosfera suggestiva e con il suono della zampogna giungeva il parroco di Laveno che impartiva la benedizione alla piccola statua, circa 80 centimetri, del "Cristo degli Abissi" che nel Natale del 1975, venne posata per la prima volta, collocandola a qualche metro di profondità, in una grotta naturale nella roccia. Dopo la benedizione del parroco, che avveniva poco prima della messa di mezzanotte, ci si ritrovava sulla terrazza sovrastante, nei pressi della lapide che ricorda i cugini Granelli, per scambiarsi gli auguri di un Buon Natale e mangiare in compagnia una fetta di panettone accompagnato da spumante. Una cerimonia semplice questa che si è poi ripresa per diversi anni, ma che rimaneva aperta solo a pochi intimi. Per il gruppo di amici, caldeggiati dallo stesso Giuseppe Marchesotti e da Ovidio Garolla, decise di estendere la partecipazione ad altre persone. Venne di conseguenza fondata un'associazione campeggista dalla Pro Loco di Laveno e presieduta da Antonio Rossi, per realizzare un Presepe Sommerso da collocare nel golfo lavenese, ad una profondità da renderlo visibile a tutti, per questo si scelse l'area antistante la piazza Caduti del Lavoro, nel centro storico di Laveno, dove la presenza verso riva di alcuni massi permetteva di vincolare le piattaforme. Il primo Presepe Subacqueo venne inaugurato e calato nelle acque del golfo lavenese nel periodo natalizio del 1979 ed era composto di sole tre statue, quelle che ancora oggi rappresentano la Sacra Famiglia, seguì la benedizione del parroco. Fu subito successo e alle prime statue offerte da soci e Pro Loco, si unirono ben presto altre offerte dalla gente a da alcuni sponsor. Arrivarono così i Magi con un cammello, i pastori con gli agnelli sulle spalle, le massaie con i polli e i cesti, il viandante che scruta l'orizzonte, gli angeli e gli animali domestici. Da allora, anno dopo anno, la cerimonia si ripete con grande successo. Attualmente, il Presepe Sommerso lavenese è composto da 42 statue a grandezza quasi naturale, collocate su cinque piattaforme in metallo le cui dimensioni totali sono di 15 x 3,5 m. con un peso complessivo di circa 18 tonnellate. Le statue sono scolpite in pietra bianca di Vicenza, ad opera dello scultore Tancredi di Brendale, lo stesso che realizzò la statua di San Francesco.
Il San Francesco che custodisce dalla riva il presepe merita un ricordo speciale perchè segna un evento storico: fu collocato nel 1984 in occasione del 15° Congresso Nazionale dei Presepisti, circa 300 rappresentanti di varie associazioni di presepisti provenienti da tutta Italia, che in quell’anno si tenne proprio a Laveno. Il monumento è unico al mondo, rappresenta San Francesco d’Assisi in grandezza naturale nell’atto di posare Gesù Bambino nella mangiatoia ed è il primo ed unico monumento di San Francesco d’Assisi dichiarato ufficialmente con la dovuta autorizzazione ecclesiastica patrono degli amici del Presepio di tutte le latitudini innalzato dalla sezione di Laveno di fronte al lago. L’opera venne benedetta dal Vescovo Mons. Antonio Bossi e dal prevosto di Laveno Don Giordano Ronchi mentre Madrina della cerimonia era Alma Pizzi allora assessore alla cultura.

Il blocco scultoreo che resta sempre visibile, nell'arco dell'anno, sulla piazza Caduti del Lavoro e che ricorda il 15° Congresso Nazionale dei Presepisti, che si svolse a Villa Frua a Laveno nel 1984. Di notte le statue del Presepio Sommerso, vengono illuminate da 24 potenti fari subacquei che le rendono visibili dalla terrazza prospiciente il lago. Poi al Presepe sommerso si è aggiunto un albero decorato e illuminato, che ancorato sul fondo del lago, tramite un cavo d'acciaio a circa 20 m. viene comandando da un argano a motore, che a intervalli fa riemergere e comparire nelle profondità del lago suggestivamente l'albero illuminato. Infine vi è stata l'aggiunta anche di una fontana galleggiante illuminata. La prima settimana di dicembre, con l'impiego delle potenti autogrù della ditta Ossola di Gavirate, avviene la posa delle piattaforme nel lago, con la collaborazione dei sommozzatori. Le piattaforme vengono così vincolate sul fondale e circondate da rami di alloro a corona, che hanno il compito di attutire il moto ondoso creato dai traghetti che vanno e vengono, collegando Laveno a Intra. La sera della vigilia di Natale alle ore 22, sul lungolago, si danno appuntamento gruppi di subacquei e molti fedeli, per assistere alla cerimonia della posa della statua del Gesù Bambino, che viene portata in processione con le fiaccole dalla Chiesa Parrocchiale dei SS Filippo e Giacomo, in genere dalle due ultime coppie di sposi dell'anno e personaggi lavenesi. In piazza Caduti del Lavoro la statua di Gesù Bambino viene affidata, dopo la benedizione del parroco, alle decine di sommozzatori che con le fiaccole accese la scortano sino alla greppia posta nel presepio sommerso, dove viene deposta. Quindi con le stesse fiaccole accendono il grande falò galleggiante.  La cerimonia continua con l'albero natalizio che emerge dal lago illuminato, con la stella cometa e la scritta di augurio di "Buona Natale" per tutti . Per i presenti vi è quindi lo scambio degli auguri e non manca del caldo vin brulè, distribuito nellle tradizionali brocchette in ceramica che restano a ricordo della manifestazione natalizia. E' consuetudine che i visitatori gettino una monetina in acqua come gesto propiziatorio o più semplicemente come apprezzamento all'iniziativa. I soldi che vengono raccolti servono per le spese della manifestazione.  Nella stessa località i sommozzatori, capitanati da Garolla, hanno eretto una cappella a memoria di tutti gli scomparsi del Verbano, molti dei quali riposano ancora nelle profondità del Verbano, senza una degna sepoltura.



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sabato 18 aprile 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA A ANGERA

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La pieve di Angera risalirebbe nella sua parte più antica al VI secolo, mentre la prima attestazione di organizzazione plebana risale ad epoche più recenti, e cioè al "Liber Notitiae Sanctorum Mediolani" di Goffredo da Bussero, che la definiva sede di un'"Ecclesia Maior" e quindi di una capopieve, che però all'epoca viene citata come avente per patroni i santi Sisinio, Martirio ed Alessandro.

Dall’XI secolo la pieve passò come signoria diretta degli arcivescovi di Milano e tale rimase sino al 1361 quando acquisì indipendenza, erigendo già a partire dal 1398 un collegio canonicale che contava sei membri in tutto compreso il prevosto. Nel 1498 venne consacrato l'altare della nuova chiesa eretta che venne per l'appunto dedicata a santa Maria Assunta. Col Rinascimento poi, la pieve assunse anche una funzione amministrativa civile, come ripartizione locale della Provincia del Ducato di Milano.

Con il Seicento iniziò la decadenza del complesso della pieve. Le prime avvisaglie si ebbero il 27 settembre 1607 quando il cardinale Federico Borromeo in persona si premurò di separare la parrocchia di Arona dalla pieve di Angera, in quanto questi erano possedimenti personali della sua famiglia di origine. Arona venne così arcipretura e sede di un collegio di dieci canonici che di molto superava il numero dei canonici di Angera. A seguito però dei reclami avvenuti per la perdita dell'unico e secolare prestigio di Angera sulle altre città dell'area della sua pieve, fu lo stesso cardinale Borromeo che nel 1625 provvide alla fondazione di una nuova collegiata composta di sette canonici e da un prevosto, con sede sempre ad Angera.

La pieve subì radicali sconvolgimenti a causa della guerra di successione austriaca, al termine della quale il trattato di Aquisgrana (1748) comportò la cessione della sua parte occidentale transticinese al Piemonte in ringraziamento per la sua proficua alleanza con l'Austria. Ciò che rimase della pieve amministrativa fu oggetto di un esperimento riformatore di stampo illuminista da parte dell'imperatore Giuseppe II, che nel 1786 la incluse nella neocostituita provincia di Varese, ripartizione cancellata dopo soli cinque anni dal fratello Leopoldo II, imperatore ben più conservatore. La pieve fu poi soppressa nel 1797 in seguito all'invasione di Napoleone e alla conseguente introduzione di nuovi e più moderni distretti.

Per quanto riguarda la pieve ecclesiastica, l'essere divenuta attraversata dal confine di Stato tra Piemonte e Austria fece sì che si rendesse necessaria una nuova suddivisione anche per quanto riguardava la diocesi. Nel 1819, quindi, le parrocchie di Dagnente, Meina e Nebbiuno furono staccate dalla pieve di Angera e trasferite alla diocesi di Novara. D'altro canto la pieve, dal 1823, ottenne la definitiva annessione di Sesto Calende alla propria area pastorale, che da secoli era stata contesa tra l'arcidiocesi di Milano e la diocesi di Pavia.

La definitiva decadenza della pieve nel Novecento fu annunciata dal 1946 quando essa venne privata della cura d'anime delle parrocchie di Lentate, Lisanza, Mercallo e Oriano Ticino, che vennero assegnante al vicariato foraneo di Sesto Calende, sempre più prosperante. Ottenne in cambio le parrocchie di Cadrezzate, Ispra e Osmate che erano state distaccate dalla pieve di Besozzo. La pieve terminò la propria esistenza sino ai decreti stabiliti dal Sinodo Colombo nel 1972, quando copriva un'area di 76,44 km² con una popolazione di 25.285 abitanti su 16 parrocchie affidate a Piermario Valsecchi, mentre oggi ricade sotto il decanato di Sesto Calende. Nel periodo di massimo splendore tenne reggenza spirituale sulle parrocchie di Angera, Barzola, Capronno, Ispra, Cassina d'Inquassi, Mercallo, Ranco, Uppone, Sesto Calende, Coquo, Lentate, Lisanza, Oriano, Oneda, Taino e Cheglio.

Nel 1498 avvenne la consacrazione della nuova chiesa prepositurale di Santa Maria Assunta, che dicenne la nuova chiesa plebana di Angera. Tra XVI e XVIII secolo, la parrocchia prepositurale di Santa Maria Assunta è costantemente ricordata negli atti delle visite pastorali compiute dagli arcivescovi di Milano e dai delegati arcivescovili nella pieve di Angera.
Nel XVIII secolo vivevano nel suo territorio circa 1500 anime. Nella stessa epoca la parrocchia comprendeva anche le località di Barzola, Capronno e Ranco.
Verso la fine del XVIII secolo, nella tabella delle parrocchie della città e diocesi di Milano, la rendita netta prepositura in cura d’anime di Angera assommava a lire 1005.16.10; la nomina del titolare del beneficio parrocchiale spettava a Roma (Tabella parrocchie diocesi di Milano, 1781).
Nel 1896, all’epoca della prima visita pastorale dell’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari nella pieve e vicariato di Angera, il reddito netto del beneficio parrocchiale assommava a lire 2213,17, al quale si aggiungevano il beneficio coadiutorale di Capronno, la coadiutoria di San Lorenzo di Angera e una coadiutoria superdiaria; il clero era costituito dal parroco e da quattro coadiutori. I parrocchiani erano 3500 circa, compresi gli abitanti delle frazioni di Capronno e Barzola; nel territorio parrocchiale esistevano le chiese e gli oratori di Sant’Alessandro, Sisinio e Martirio; San Quirico al Monte; Santa Maria Maddalena in Capronno; Santi Cosma e damiano in Barzola; Beata Vergine Annunciata alla Paletta; il santuario della Beata Maria Vergine alla Riva e l’oratorio dell’Immacolata delle suore di San Vincenzo; nella chiesa di Sant’Alessandro era eretta la confraternita del Santissimo Sacramento e nella parrocchiale la confraternita di Santa Marta.
Nel corso del XIX e XX secolo, la parrocchia prepositurale di Santa Maria Assunta di Angera rimase sempre sede vicariale, nella regione II, fino alla revisione della struttura territoriale della diocesi, attuata tra il 1971 e il 1972 (decreto 11 marzo 1971, RDMi 1971; Sinodo Colombo 1972, cost. 326), quando fu inclusa nel nuovo vicariato foraneo e poi decanato di Sesto Calende, nella zona pastorale II di Varese.
L'attuale chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta venne costruita ampliando una chiesetta dedicata a S. Maria già testimoniata nel "Liber Notitiae Sanctorum Mediolani" e da un decreto di Gian Galeazzo Visconti della fine del Trecento.
La pieve di Angera mantenne, seppur con qualche lieve modifica, l'originaria estensione fino al 1819, anno in cui furono costituiti i nuovi distretti ecclesiastici.
Dell'antica struttura restano l'abside quadrangolare, tracce degli archetti del muro perimetrale e la sacrestia che presenta ancora alcuni elementi architettonici originali. La restante struttura dell'edificio ha subito nel corso dei secoli numerosi rifacimenti e modifiche di cui rimangono trracce all'esterno sulla parete destra attorno alle aperture laterali. La facciata attuale è il risultato di una ristrutturazione dei primi anni del Novecento, per opera dell'architetto Cesare Nava, ma conserva ancora un rosone affrescato raffigurante il Redentore, piuttosto degradato.
All'apice del frontone triangolare è posata una statua della Madonna di Fatima opera di un artigiano di Angera, A. Mercuriali. Un affresco, piuttosto rovinato, ritenuto del Morazzone è visibile nella lunetta sopra il portale d'ingresso: si tratta dell'Assunzione della Vergine. Nelle due finestre laterali della facciata sono inseriti vetri istoriati che raffigurano il Battesimo di sant'Agostino e san Carlo che amministra l'Eucaristia a San Luigi.
Tutto l'interno, ad eccezione del presbiterio, è stato dipinto dai pittori Volonterio Enrico, autore delle diverse figure, e dal figlio prof. Volonterio Edoardo che ha curato tutta la ricca decorazione (anni 1925-1928). Sulla volta della navata centrale sono illustrate scene della vita della Madonna, mentre sulle volte delle due navate laterali ci sono dei medaglioni che illustrano simbolicamente le litanie lauretane. Sulle pareti delle navate laterali iniziando dalla sinistra sono dipinte, affiancate due a due, le quattordici stazioni della Via Crucis. Nella navata di sinistra, vicino all'ingresso, è collocato l'antico battistero in una nicchia affrescata da G. Poloni (1828), opera del 1768 di Mastro Antonio Merzagora di Angera. Ai suoi lati sono situate due antiche statue in pietra d'Angera che si ritiene raffigurino San Pietro e San Paolo. Esse provengono presumibilmente da un'antica chiesa di Angera oggi scomparsa.

Dietro l'altare compaiono degli sfondi naturalistici con turiboli emananti incenso (simbolo della Madonna che sale verso l'alto) che incorniciano la vetrata, non più originale, con l'effigie della Madonna Assunta. Di grande interesse sono le sculture lignee del presbiterio a destra dell'altare, rappresentanti la Madonna Assunta e i quattro Dottori della Chiesa: san Gregorio, sant'Ambrogio, san Gerolamo, sant'Agostino e del coro rappresentanti i dodici apostoli. Si tratta di opere del secolo XVII attribuite a Giovan Battista Besozzi.



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