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giovedì 4 febbraio 2016

APRICA

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Aprica è un comune situato a cavallo dell'omonimo passo, il più agevole tra la Val Camonica e la Valtellina, sulle Alpi Orobie, costituito da un'ampia sella piana lunga circa tre chilometri, oggi in buona parte edificata.

Aprica costituiva originariamente una frazione del Comune di Teglio, il cui capoluogo è situato sul versante opposto della Valtellina; dal 1927 è municipalità a sé stante. Fin dal Medioevo, ma con ogni probabilità già dall'epoca romana, l'omonimo passo rappresentava un'importante via di comunicazione tra Valtellina e Valcamonica.

Le fortune del villaggio furono segnate dalla costruzione, a partire dal 1848, su iniziativa del governo austriaco del Regno Lombardo Veneto, di una strada (oggi la Strada statale 39 dell'Aprica) che collegò, appunto tramite il passo dell'Aprica, Edolo e la Val Camonica con Tresenda e la Valtellina. Ciò consentì di evitare i perigliosi Zapéi d'Abriga (Zappelli di Aprica) e gli altri valichi più a monte: il Passo di Piatolta (Pian di Gembro), il Passo di Guspessa, il Passo del Mortirolo e il Passo dello Stelvio, questi ultimi impraticabili per molti mesi l'anno. La strada fu terminata dagli Austriaci proprio alla vigilia della II Guerra d'Indipendenza, che li avrebbe definitivamente cacciati dalla Lombardia.

Subito dopo l'Unità d'Italia, Aprica chiese di divenire Comune autonomo. Tale richiesta fu reiterata nel 1871 e 1879, ma soltanto negli anni venti dello scorso secolo iniziò formalmente e si concluse l'iter amministrativo definitivo, sfociato nel distacco di Aprica da Teglio nel 1927.

Verso la fine del XIX secolo prese avvio in paese l'attività turistica che, dapprima integrandosi con quella agro-pastorale, poi gradualmente soppiantandola, è arrivata ad essere oggi di gran lunga il principale settore economico locale. In realtà Aprica ha sempre avuto, da secoli, una naturale vocazione all'ospitalità, favorita dall'essere punto obbligato di passaggio e dalla splendida geografia. Nella contrada di San Pietro - detta in origine Ospitale - già in epoca medioevale esisteva infatti uno xenodochio, dove sostavano gruppi più o meno numerosi di viandanti, specie soldati dei più svariati eserciti e pellegrini. Il primo albergo degno di tal nome, l'Hotel Aprica cosiddetto dei Negri (ora residenza turistico-alberghiera sotto altro nome), fu edificato già prima del 1870. Vi furono ospiti anche personaggi del mondo aristocratico, alto borghese e scientifico ottocentesco; come la famosa violinista Teresina Tua in Quadrio che soggiornava in estate in una villa vicino alla Chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo e il rettore dell'Università di Pavia - primo premio Nobel italiano - Camillo Golgi, Premio Nobel per la Medicina 1906, originario della vicina Córteno, che vi soggiornò dal 1880 al 1913.

Ad Aprica si celebra ogni anno, a fine febbraio, Sunà da Mars (letteralmente: "suonare di marzo"), una delle più antiche e sentite tradizioni folcloristiche legate alla cosiddetta chiama dell'erba. Falangi di scampanatori in costume locale, provenienti da ciascuna delle sei contrade (Liscedo, Liscidini, Santa Maria, Mavigna, Dosso e San Pietro) s'incontrano e confrontano, scuotendo ritmicamente i loro grandi e fragorosi campanacci, prima in Piazza Mario Negri scultore (davanti al Municipio), indi in Piazza del Palabione. Qui, al termine della lunga e assordante tenzone, tutti s'acquietano e partecipano al rito conviviale del mach, rustica pietanza locale. Sunà da Mars, di antica origine, è una delle più originali manifestazioni nazionali - e in particolare montane - dai significati ancestrali legati al risveglio primaverile della Natura.

Legate ad Aprica sono alcune leggende valtellinesi, di cui un paio fanno riferimento alla figura storica di San Carlo Borromeo.

Aprica, con oltre 50 km di piste da sci alpino e i suoi impianti di risalita, è una delle più importanti stazioni turistiche invernali ed estive della Valtellina. Le skiaree del comprensorio Aprica - Corteno Golgi, ben collegate tra loro e tutte dotate di innevamento artificiale, sono quattro: Palabione, Magnolta, Baradello e Campetti, quest'ultima attigua a case e alberghi. D'inverno vengono anche allestiti uno Snowboard Initial Park, alcuni campi all'aperto per pattinaggio su ghiaccio, oltre a una parete di arrampicata su ghiaccio, situata presso l'area tennis. Sono presenti, a pochi km di strada dal centro, alcuni tracciati per sci di fondo, racchette da neve e sci-escursionismo: Pian di Gembro e Trivigno. In paese, località al Plà, si trova infine un anello di fondo più piccolo, lungo 0,8 km, una specie di campo-scuola ad accesso libero.

Durante il periodo estivo è possibile praticare trekking su più di 50 itinerari escursionistici segnalati dal CAI di Aprica. Per le mountain bike è presente in paese un bike skill center e, ad una quota di circa 1700 metri, un tracciato di cinque chilometri a mezza costa dal comprensorio del Palabione fino a Corteno Golgi. Ad Aprica sono fruibili campi da tennis, una piscina coperta con centro benessere, un campo pratica di golf, un campetto da calcio. È inoltre possibile praticare agevolmente l'arrampicata sportiva, la pesca sportiva e il parapendio.

La località è stata per tre volte sede, dal 1975 al 1981, della Coppa del Mondo di sci alpino e, dopo gli albori degli sport bianchi negli anni '1920, di numerose altre competizioni nazionali ed internazionali di sci alpino (oltre che in passato sci di fondo), tra cui le World Series (vincitore Ingemar Stenmark), prove di Coppa Europa, Campionati nazionali e Campionati italiani e mondiali Maestri (tra i vincitori dell'edizione 1982 Zeno Colò).

Aprica è stata la prima località invernale lombarda ad ospitare la Coppa del Mondo di sci alpino.

Aprica è sede di partenza e arrivo della Granfondo Giordana (ex Granfondo Marco Pantani), la cui decima edizione si è disputata il 22 giugno 2014 e che nel 2015 vedrà nuovamente il cambio di nome in La Campionissimo.

Ad Aprica, all'interno del Palazzetto dello Sport della località, dove i Climber Aprica hanno creato e allestito delle pareti artificiali tra le più tecniche del panorama nazionale, si sono disputate le quattro prove di Coppa del mondo lead di arrampicata.

Aprica è dotata anche dell'Osservatorio Eco-faunistico, struttura che si inserisce nel progetto di sviluppo del Parco delle Orobie Valtellinesi: sono state immesse nella zona sopra l'abitato, svariate specie di animali selvatici.
Da non perdere il museo etnografico e naturalistico e la sorgente Ferruginosa (località Camizzone). Interessanti la Parrocchiale di Santa Maria Assunta, esistente dal XVI secolo ed ampliata nel XVII-XVIII secolo e la Parrocchiale di San Pietro, esistente dal XIII secolo.

Il valico di Aprica svolse un ruolo molto importante sin dall'epoca preistorica. Infatti è attraverso questa naturale via di comunicazione che avvennero le prime relazioni tra le genti delle valli dell'Adda e quelle camune. Nel corso del Medioevo fu poi un'importante via di transito per mercanti, soldati e pellegrini che potevano spingersi sino alla Pianura Padana dopo aver sostato e trovato ristoro nello xenodochio di San Pietro.
Nel 1855 venne ultimata la carrozzabile e il paese, che anticamente dipendeva da Teglio, andò poco a poco aumentando la sua autonomia sino ad assurgere a Comune nel 1927.
Aprica è oggi una nota località turistica dotata di ogni tipo di servizio necessario ai villeggianti.

A causa della sua altitudine non eccessiva ha da sempre rappresentato la via di comunicazione preferenziale per scendere dall'alta Valtellina alla pianura padana; le alternative sono infatti il passo del Gavia ed il passo del Mortirolo che si trovano ad altitudini maggiori e che presentano tracciati più impegnativi.


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sabato 25 luglio 2015

CERVENO



Cerveno è un comune della Val Camonica e giace ai piedi della Concarena, sul versante occidentale della Valle Camonica, di fronte alla frazione Badetto del comune di Ceto.

Presso Cerveno si estraeva il marmo occhialino.

I primi reperti che testimoniano insediamenti umani nella zona di Cerveno risalgono all'età romana; il nome "Cervinica" appare per la prima volta nell'837 in un diploma del re d'Italia Lotario e diventa "Villa Cervis" in un documento del 960.
Attorno al Mille la zona fu donata da Carlo Magno ai monaci del convento francese di Tour, mentre dal 1200 il Vescovo di Brescia la infeudò ai signori di Cemmo, che così raccoglievano tasse e decime spettanti alla Curia.
Nel 1300 Cerveno si costituì Comune autonomo e rimase tale fino all'inizio del '900: forse per questa lunga e ininterrotta continuità amministrativa il nome originario di Cerveno, contrariamente a molti altri paesi camuni, non subì mutamenti di rilievo.
Nel '300 furono costruite anche la maggior parte delle costruzioni del centro storico, edificate strettamente addossate le une alle altre aggrappate ad un ripido pendio.
Durante il Medio Evo e le guerre tra il ducato di Milano e Venezia, Cerveno seguì le vicende dei borghi limitrofi; successivamente, con Napoleone, entrò a far parte di uno dei dieci Cantoni della Montagna, in cui la Provincia di Brescia era stata divisa.
Nel 1429 fu fondato il forno fusorio, votato all'unanimità dall'assemblea dei vicini, che stabilì anche che introiti e utili dovevano essere sempre divisi tra i vicini stessi.
Dopo che la Vallecamonica, con la pace di Lodi, divenne parte integrante del territorio della Serenissima Repubblica Veneta, nel Catastico del 1610 il Lezze scriveva che gli abitanti di Cerveno si dedicavano, oltre che all'agricoltura, "a cavar vene di ferro et condurle al loro forno per far il ferro"; vi erano anche quattro mulini e un forno per panificare.
Durante il ventennio fascista (1927-1947), che accorpò i piccoli comuni con quelli di maggiore grandezza, Cerveno fu per tutte le funzioni amministrative aggregato a Ceto e riacquistò la propria autonomia nel 1947.

Il centro storico di Cerveno conserva l'aspetto tipico del borgo medievale: case addossate, strade strette in salita, piazze esigue e i tipici archivolti.
I portali in pietra degli edifici, costruiti con materiale detritico della Concarena e calcare di Esino, riportano ancora incise la data della loro costruzione, in alcuni casi l'inizio del '400, ma sono più numerosi gli edifici risalenti al '500/'600, un periodo di prosperità economica.
La struttura dei portali è quella tipica dell'arco a tutto sesto o ad ogiva oppure con architrave piano, poggiato su mensole sagomate, come nei portali "a gruccia".
Numerose sono le fontane in pietra e granito che, dall'inizio del secolo scorso, forniscono acqua buona a tutto il paese. Sono ancora visitabili l'antico mulino ad acqua, presumibilmente del '500 e recentemente ristrutturato, il caseificio ternario, che necessita di interventi conservativi, e una "calchera" per la produzione della calce.

Vicino all’impetuoso torrente di nome “Re”, con portata d’acqua costante in tutte le stagioni, si concentravano le attività produttive della comunità di Cerveno: il Mulino, recentemente acquisito e restaurato dal Comune, il caseificio, testimonianza delle tradizionali attività di allevamento e lavorazione del latte, con zangola azionata ad acqua, alcune fucine e soprattutto il forno fusorio, di cui rimangono solo tracce documentali, che lo classificano come uno dei primi della Valle Camonica: “17 febbraio 1429. Qui nella pubblica seduta di tutti i Vicini, nell’assemblea del popolo del Comune, degli uomini e delle persone di tutta l’università della terra di Cerveno, …, tutti costoro, d’intesa con il loro console ed il loro camparo, unanimemente, concordemente e senza che nessuno tra di loro dissentisse, hanno solennemente convenuto tra di loro e deliberato di far costruire un forno per il ferro nella terra di Cerveno, vicino all’acqua del Re, in un piccolo appezzamento a prato appena comprato dagli eredi di Comino Carnevali di Cerveno. Ugualmente hanno stabilito che il reddito, l’introito ed i proventi di questo forno devono essere per sempre divisi tra gli stessi, cioè tra il Comune e gli uomini di Cerveno”. Nella piazza antistante il Municipio e nelle vicinanze si possono ammirare “La porta del silenzio”, singolare monumento ai caduti dell’artista Franca Ghitti, la meridiana seicentesca legata ai ritmi della vita contadina, alcuni portali datati: 1561, 1578, 1667

La “Casa Museo di Cerveno”, edificio rurale di fine ‘500 recentemente ristrutturato,costituisce una concreta testimonianza dei metodi costruttivi edili, visibili nell’organizzazione degli spazi e nell’uso dei materiali locali: pietra calcarea, legno e ferro. I reperti raccolti e gli arredi recuperati denotano stili di vita particolari; gli attrezzi impiegati nel lavoro dei campi, specificatamente per la viticoltura e la vinificazione, e quelli per l’allevamento, le attività silvo-pastorali e l’artigianato esprimono il livello di abilità manuale-creativa dell’homo faber, che sa costruire, adattare, riadattare quando gli serve per vivere e per sopravvivere.

Significativa, nel museo, anche la presenza del materiale prodotto per la realizzazione della Santa Crus, rappresentazione vivente, a cadenza decennale, della Passione di Cristo. Gli abiti utilizzati dai figuranti, le armi, le corazze, i segni della Passione, le immagini riproducenti le fasi preparatorie della manifestazione esprimono efficacemente la complessità del lavoro che si compie, la coralità che lo caratterizza, la partecipazione collegiale dell’intera comunità, a testimonianza dell’atavica fede, delle tradizioni consolidate e dell’identità locale.

Evocare i tratti distintivi dell’identità del paese e della sua gente è lo scopo di questa Casa Museo. Una casa rurale che ha fatto parte per almeno cinque secoli della storia della comunità e che oggi raccoglie oggetti e immagini utili per trasmettere saperi e memorie.

La Casa Museo è luogo di incontri e mostre temporanee, occasioni di confronto e di formazione per gli adulti, attività didattiche e ludiche per i bambini e i ragazzi, lavori di preparazione per la manifestazione decennale della Santa Crus.

La Casa Museo rimanda al paese e al territorio che la circonda offrendo indicazioni utili per accostarsi al patrimonio storico e artistico di Cerveno e per seguire percorsi di conoscenza del paesaggio, dell’ambiente e degli altri abitati ai piedi della Concarena..

La chiesetta dei Morti è sorta come lazzaretto per le vittime della peste del 1630, ampliata e consacrata nel 1869.

Il Santuario della Via Crucis conserva le 14 stazioni di un capolavoro dell’intaglio ligneo del ‘700: le cappelle sono raccolte ai lati di una scalinata, a custodire un unico edificio la cui facciata dà sulla piccola piazza di Cerveno. Le stazioni sono composte da gruppi scultorei in legno e gesso per un totale di 198 statue, in gran parte opera dello scultore Beniamino Simoni da Saviore, completate fra il 1752 e il 1764. Le stazioni VIII –IX – X sono state completate dai nipoti del Fantoni, mentre la XIV è dell’artista milanese Selleroni (quella originale del Simoni è conservata nel Duomo di Breno). Gli affreschi alle pareti sono dello Scotti e dei fratelli Corbellini. L’entrata abituale al Santuario avviene attraverso la porta principale della chiesa parrocchiale, che si apre di fronte alla prima cappella; la altre stazioni seguono sul muro settentrionale in discesa e poi risalgono sul lato opposto fino alla grande cappella della Deposizione, situata sul fondo dell’edificio stesso.

La chiesa parrocchiale di S. Martino di Tours fu eretta nel '200 sul luogo di un antico castello medievale o di una rocca fortificata; conserva della struttura romanica poche e dubbie tracce. L'attuale edificio fu iniziato nel '400 e completato nel '600. Nel '700 Andrea Fantoni e la sua bottega realizzarono due confessionali e la cornice della Pala dell'altar maggiore, oltre ad alcune strutture. La pala della Madonna del Rosario è del palazzolese Coggi (1741). Restano tracce degli affreschi quattrocenteschi, il battistero del Concelli e tele di Andrea Celesti e Pompeo Ghitti. Annesso alla parrocchiale vi è l'oratorio della Madonna del Carmine in cui, grazie ai restauri del 1974, sono stati recuperati affreschi del '400-500 formanti un ciclo sulla vita della Madonna. Nella volta, il medaglione raffigura il Cristo "Lux mundi" circondato da Evangelisti, Santi, Padri della Chiesa.



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mercoledì 8 luglio 2015

SAVIORE DELL'ADAMELLO



Saviore dell'Adamello è un comune della Val Camonica ed è il più elevato dei paesi della Valle di Saviore; il suo territorio comunale, che si estende soprattutto in territorio montano, è uno dei più estesi della Val Camonica.

Il territorio del comune di Saviore dell'Adamello era già abitato dall'uomo fin dall'epoca antichissima, infatti sono state ritrovate incisioni rupestri e dei reperti presso il lago d'Arno. Nel 1337 Giovanni e Graziolo da Cemmo infeudarono il comune mentre nel '400 erano i Della Torre di Cemmo che riscuotevano le decime; nel '500 ebbe influenza la famiglia dei Lodrone.
                                                 
Quando si formarono i liberi Comuni italiani, anche Saviore si libera dal dominio dei signorotti locali. Sotto il governo di Venezia, a metà del '600, assume importanza il passo di Campo, la più breve via di comunicazione tra la Vallecamonica e Venezia; infatti da qui travalicavano eserciti, contrabbandieri, briganti e mercanti e arrivava in Valle il sale. Nel 1651 un grosso incendio distrusse interamente il paese.                                                                                                        
In epoca napoleonica il notaio di Cividate Bonafini era a capo di un gruppo anti-giacobino che saccheggiò e danneggiò il paese.
Alla fine dell''800 la posizione isolata e la scarsità di risorse indussero gli abitanti a un'emigrazione diffusa, durata quasi fino ai giorni nostri, nonostante la positività, per l'economia locale, della realizzazione, nel primo decennio del '900, di tre importanti centrali idroelettriche. Drammatica è la storia recente: durante la Prima Guerra Mondiale Saviore fu zona di trincea sul confine al Passo di Campo che conduce in Trentino e durante la resistenza ha visto consumarsi gli eroici sacrifici dei partigiani, soprattutto nel maggio 1944, quando i nazi-fascisti effettuarono dei rastrellamenti, portando morte e distruzione nel paese.

Seguendo un apposito itinerario è possibile immergersi nell’atmosfera senza tempo del bellissimo centro storico: fienili, stalle, fontane, lavatoi ed altri piccoli tesori fanno da cornice ad uno dei borghi meglio conservati dell’intera Valcamonica. L’uso quasi esclusivo di granito locale e legno per la costruzione degli edifici sono la viva testimonianza del mondo rurale alpino
Per gli appassionati di gite in montagna Saviore è il punto di partenza ideale per le escursioni ai rifugi alpini, laghi e vette della Val Salarno, sovrastata dai ghiacci perenni del Pian di Neve e della cima Adamello.
La facciata della Parrocchiale di San Giovanni Battista, imponente e proporzionata, è modulata da due ordini di lesene, al centro un portale in granito di pregevole fattura. La torre campanaria fu affiancata all’edificio nel 1852; in blocchi di granito squadrati, termina con quattro merli ghibellini, a coda di rondine, come la maggior parte dei campanili camuni, raggiungendo i 35 metri d’altezza.                                              
In stile barocco, la navata unica comprende sei altari laterali, dedicati alla Madonna, a Sant’Agnese, a San Valentino, scanditi da lesene sormontate da capitelli che riprendono lo stile corinzio. La pavimentazione è in lastre di granito bocciardato, risalenti all’epoca della costruzione, restaurata e riposizionata nel 1998. Nella sacrestia, mobili del XVI e XVII secolo ed una Santa Maria Maddalena di scuola veneta, dipinta ad olio, del XVI secolo. La Madonna lignea conservata in una nicchia presso l’altare della Madonna (il primo alla destra del presbiterio) è attribuita ai Ramus, una dinastia di intagliatori originari di Mu di Edolo, attivi tra il 1630 ed il 1700 nelle vallate alpine.
                                                                                 
Tra i tanti dipinti, è bene soffermarsi sulla pala dell’altare maggiore che risulta essere il tesoro di più grande valore artistico: dipinta ad olio, delle dimensioni di circa 2x3 metri, riporta il Battesimo di Cristo. L’affermazione, improbabile, secondo la quale la tela sarebbe stata portata a Saviore da Bernardino Zendrini a bordo di un asinello, non è suffragata da alcuna testimonianza scritta. Nelle rimanenti pale possiamo ammirare i Santi Antonio Abate, Rocco e Carlo Borromeo (XVII secolo), la Madonna con i Santi Antonio da Padova e Filippo Neri.
Il primo altare di destra porta una pala di scuola veneta seicentesca, racchiusa in una bella soasa e raffigurante la Madonna del Rosario, i Santi Domenico e Caterina con i committenti. Sulla controfacciata vi sono due tele accostate, aventi per soggetto il Crocifisso e la Deposizione, del XVII secolo. La volta a botte è arricchita da affreschi e decorazioni, ripresi nel 1942 dal pittore Giacomo Piccinini, che nell’occasione raffigurò anche alcuni savioresi.

La chiesa parrocchiale di Valle è dedicata a S. Bernardino; è della prima metà del '500 ma è stata ricostruita nel 1685 in stile barocco. Sull'altare maggiore c'è una pala a olio su tela di Bartolomeo Litterini, da notare è anche l'altare ligneo di S. Croce, opera dello scultore della Val Gardena Perathoner.

Della chiesa di Santa Maria di Ponte cominciano ad apparire notizie a partire dal 1495 quando sono elencati alcuni beni. La visita cinquecentesca presenta l’antica struttura: “la chiesa ha la cappella maggiore intonacata e dipinta, il resto del tetto è coperto da pietre.
                                                                                         
Ha due porte, sul frontale e sulla parete destra e una lobbia corrispondente al numero di abitanti. L’altare maggiore è consacrato, ha un bel quadro e al di sopra un gran crocifisso”. All’interno della chiesa di santa Maria di Ponte è possibile ammirare “l’Adorazione dei Magi”, posizionata in prossimità della sacrestia.
                                                     
Si tratta dell’opera più antica presente in Valsaviore, la cui origine è da far risalire ai maestri altoatesini tra il 15° e 16° secolo. L’unica possibilità di confronto è con un’opera dell’inizio del XVI secolo presente nel Museo “Poldi Pezzoli” di Milano.

Il centro storico di Saviore e di Valle conserva ancora il volto tipico di una terra alpestre, soprattutto per i bei portali in granito e per i caratteristici loggiati in granito con affreschi. Le case che si affacciano su via Risorgimento furono di illustri famiglie: Sisti, Boldrini, Zendrini, fra cui c'era l'illuminista matematico, medico e scienziato Bernardino (1679 - 1747) che fondò la moderna idraulica fluviale e ideò i "Murazzi" per difendere la laguna veneziana dall'acqua alta.

La Valle di Saviore, solcata dal torrente Poia, è la più estesa di tutto il Parco dell'Adamello. Il monte Re di Castello (2891 m) domina la valle Ghilarda, che scende verso il lago d'Arno, grande bacino usato a scopo idroelettrico. Da Valle di Saviore ci si immette nella lunga Valle Adamè, attraversata dal torrente Poia di Adamè, che nasce dall'omonima Vedretta che scende dal Pian di Neve, uno fra i nevai più estesi di tutto il gruppo alpino. Lungo il coster di sinistra si ergono le cime di: Levade, Artigliere, Coster, Buciaga, Corno di Grevo, monte Campellio e Zucchello. Sul coster di destra si trovano il corno Triangolo e Gioia, le cime Coppellotti, Poia, Frampola, Gana, il corno Lendeno e di Bos, con la piccola conca glaciale che ospita il lago di Bos.
Da Saviore si accede alla Valle di Salarno con i suoi tre laghi; risalendo il corso del torrente si giunge al lago Salarno, da cui inizia la parte alta della vallata, coronata da Punta del Pian di Neve, Cornetto di Salarno e Corno Miller, fra i quali scende una notevole lingua glaciale, la Vedretta di Salarno, proveniente dal Pian di Neve. Sul coster di destra le quote più elevate sono dei corni Remulo e Maccesso, cima Prudenzini e Coppo; verso est il monte Marser e il Pian della Regina.

In Valsaviore negli ultimi anni sono stati fatti ritrovamenti di rocce incise a Dos Curù, ad Androla, a Loa e a Plot Campana.

Situate nella pineta sopra il paese di Ponte, sono lunghe e intricate gallerie scavate nella roccia in tempi antichi per l'estrazione del ferro, che veniva poi lavorato poi nelle fucine di Fresine. La visita non è difficile se accompagnati da una persona esperta del luogo, poichè la folta vegetazione ne nasconde le entrate.
Il "Bus de la glassa" (buco del ghiaccio) è situato a est di Valle in località Forami, è una grotta formata da grossi massi dell'età glaciale dove, per combinazione di correnti d'aria sotterranee, la temperatura è sempre sotto zero in ogni stagione e quindi c'è il ghiaccio anche d'estate.

Il vecchio mulino fu costruito nel 1923 dall'ingegno di Primo Rossi per dare occupazione e sostentamento ai sette figli, l’impianto è costituito da due macine mosse da un antico motore elettrico. Tra alti e bassi rimase in funzione fino al 1954, dopodiché venne abbandonato. Tuttavia nel 2005 iniziarono le opere di restauro e messa in sicurezza dell’impianto, al fine di rimetterlo in funzione per scopi dimostrativi e turistici: sono visibili le due macine, il piano di lavoro di una macina e gli organi di movimento.
La struttura, divisa in due piani, ospita anche una mostra permanente di erbe officinali, creando un straordinario connubio di attività che mirano al recupero e riscoperta di antiche tradizioni.

Il museo della civiltà contadina è ospitato nell’ex caseificio e grazie alla collezione di circa 400 oggetti concessi dalle famiglie del paese rappresenta un importante tassello della memoria collettiva.
In questa pregevole raccolta di attrezzi tradizionali dell’economia rurale di un tempo, avviata negli anni ’80 dall’insegnante e pittore Primo Tinelli, si possono ammirare strumenti per il lavoro dei campi, finimenti per cavalli e buoi, aratri e gioghi, pentolame di antiche cucine e due curiosità: gli attrezzi del calzolaio ed i numerosi utensili del caseificio. Non semplici oggetti “senz’anima”, bensì strumenti grazie ai quali far scoprire o far emergere dall’oblio la cultura rurale di montagna che si sta via via dissolvendo e stimolare le giovani generazioni a frenare lo spopolamento dei piccoli borghi alpini.

Il Plot Campana è un sito archeologico situato a 1.400 metri di quota è facilmente raggiungibile con una piacevole passeggiata dall’abitato di Saviore dell’Adamello. Oltre ad essere un interessante abbinamento al sentiero etrusco-celtico, è immerso in una pineta attrezzata per pic-nic con tavoli e barbecue.
La superficie del grande masso a forma di piramide che dà il nome all’area (tradotta significa “sasso della campana”), è caratterizzata da antichissime incisioni rupestri.
Inoltre nei pressi del Plot a seguito di studi archeologici è stata accertata la presenza di una struttura preistorica definita "castelliere", un insediamento fortificato risalente all'Età del Ferro. Nell'area sono presenti altre sedici rocce e massi incisi con coppelle, canaletti, figure schematiche e segni astratti databili soprattutto tra il primo ed il secondo millennio a.C.

Per valorizzare il centro storico l’associazione “Resistere” ha attivato un progetto che prevede, tra l’altro, il recupero delle antiche meridiane e la creazione di nuove. Particolarmente significativa è quella realizzata sulla facciata sud della Casa Parrocchiale, dove fino agli anni Settanta spiccava un’antica meridiana che però andò distrutta. Questa iniziativa è stata resa possibile solo grazie alla memoria degli anziani del paese. Questi orologi solari, grazie all’abilità di artisti e di uno “gnomoni sta” locale sono delle vere e proprie opere d’arte che consentono di misurare diversi fasi della giornata: le ore solari vere, le ore mancanti al tramonto del sole (ore italiche), gli equinozi di primavera-autunno ed i solstizi di inverno e primavera.

La chiesa di Sant’Antonio si trova nell’omonima piazza, principale luogo di ritrovo e commerciale di Saviore. L’imponente edificio in blocchi squadrati di tonalite (caratteristico granito locale) venne eretto in posizione sopralevata nel 1652 dalla ricca famiglia Sisti con la funzione di oratorio privato. La facciata è rivolta verso sud ed è caratterizzata da cinque nicchie contenenti statue.
E’ consigliata anche la visita dell’interno, dove si possono ammirare l’altare in marmo bianco di Carrara, gli affreschi recuperati dalla quattrocentesca chiesa di S. Rocco, delle opere della scuola del Foppa e un’Adorazione che per alcune fonti è attribuibile alla scuola del Tiepolo.
La dedicazione a Sant’Antonio da Padova testimonia la devozione a un santo invocato per la benedizione del bestiame condotto al pascolo nei mesi estivi.
 
Le altre frazioni del comune sono: Valle, Fresine ed il minuscolo ma grazioso borgo di Ponte.
La più popolosa è Valle, nota per aver dato i natali a Bernardino Zendrini (1679-1747), grande matematico della Repubblica di Venezia. Nel centro storico sono ancora presenti eleganti dimore signorili appartenute alla sua ricca e potente famiglia.
Dall’abitato proseguendo lungo una strada pianeggiante si raggiunge facilmente località Rasega, dove vi sono diverse attrazioni di interesse turistico. Un esempio sono la struttura “La Plasa”, dotata di bar-ristorante e ampie sale multifunzionali; la pista di pattinaggio su ghiaccio; il campo sportivo ed il parco giochi. E’ prevista, inoltre, la realizzazione di un percorso ad anello di 2500 metri che in inverno servirà da pista di sci di fondo (omologata per gare nazionali secondo la normativa FISI) ed in estate come sentiero per il trekking.
Per gli amanti della montagna Valle è la meta ideale poiché si ha accesso alla stupenda Valle Adamè ed ai suoi rifugi, maghe e cime.



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SONICO

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Sonico è un comune  della Val Camonica, il suo territorio comunale si estende dall'ultima parte della media Val Camonica superiore all'iniziale alta Val Camonica, che è caratterizzata dalla linea Insubrica.

Il nome ha origini abbastanza incerte tant'è che gli studiosi di toponomastica hanno espresso più tesi: la più accreditata è quella di una derivazione da "summus vicus" già presente in altre antiche denominazioni di vari paesi della Valle Camonica (Sommaprada, Sellero ecc ecc), potrebbe altresì derivare dell'aggettivo "Iustionicus", tratto a sua volta dal nome personale "Iustio". Da non scartare pure la tesi che fa derivare Sonico dal sostantivo medievale "Tzònec" che identificava in genere gli abitanti di una zona recintata o fortificata. Con analogo significato di "recinto" o zona cintata sono le antiche voci, iberica "düno" e germanica "dönk", che nella parlata comune possono essere facilmente passate poi a "Süno" o "sönoc".

La presenza in zona di antichissimi insediamenti umani o il passaggio di gruppi di uomini preistorici, forse cacciatori che si erano spinti in alta Valle Camonica o che erano scesi dalla non lontana Valtellina, seguendo la cacciagione in fuga, è attestata da alcuni utensili in selce ma specialmente da belle incisioni rupestri che sono state individuate sul (Còren de le fàte) Corno delle Fate, a circa 800 m. di quota.

La posizione elevata e panoramica del paese di Garda, da cui si domina un vasto tratto della valle sottostante, dovette essere il motivo principale perché nella zona venisse insediato, già in epoca pre-romana, un recinto fortificato, un castelliere o una torretta di avvistamento per il controllo visivo dell'alta Valle Camonica: dalla zona che inizia alla "strettoia" sopra Cedegolo, alla impervia valle di Paisco, fino ad oltre Edolo.
Anche i Romani, dopo la conquista della Valle Camonica, nel 16 a C., posero nella zona un punto di cambio cavalli, forse custodita e sorvegliata da una piccola guarnigione o impiantarono una stazione di posta. La loro presenza è chiaramente attestata anche dai resti di un ponte che, venuto alla luce durante l'alluvione del 1960, in località Dassa (dove sorge un altro ponte sull'Oglio, molto più recente, e un sovrappasso ferroviario che, nel 2010, è stato inagurato per evitare una strettoia, sulla SS42, che aveva creato per decenni un strozzatura alla viabilità di tutta l'alta Valle Camonica), è caratterizzato da un arco a sesto ribassato e da pietrame locale con conci fortemente e saldamente incuneati tra loro.
Una prima certa documentazione dell'esistenza di un centro abitato (vicus), dove oggigiorno sorge il borgo di Sonico, è posteriore alla dominazione Longobarda e successivo alla conquista Carolingia: nell'anno 842, Autchari, in accordo con il fratello germano Alcario, "Duchi dell'alta Valle Camonica", investirono il ricco monastero di San Ambrogio di numerosi beni, vaste proprietà e servizi sulle terre di Sonico: il documento diomostrava che i Longobardi, in circa 400 anni di dominazione, si erano radicati profondamente anche nell'alta Valle Camonica, ma con il sopraggiungere dei Franchi dovettero cedere le loro proprietà.
Forse anteriore all'anno mille è la costruzione di un edificio fortificato (forse una rocca o un castelaltico) a Rino: ne è testimonianza una bella torre che sorge in piazza Sant'Antonio. L'importanza del sito in epoca medioevale è attestata anche da un vasto caseggiato, annesso alla torre, che dovette essere edificato, forse su una costruzione precedente, nel 1200 e poi ampliato nel secolo successivo. Interessante è il portone principale a tutto sesto. Passato l'anno mille, le terre di tutta la zona, vennero inglobate nelle proprietà della Curia vescovile di Brescia (il vescovo di Brescia aveva anche il titolo di Duca della Valle Camonica) che nel 1198 concesse, a titolo livellario (e cioè solo per lo sfruttamento del soprassuolo) l'affitto di numerosi appezzamenti. Sono diversi gli atti ufficiali che riportano i testi di questi (contratti) giuramenti che furono frequenti (e forse necessari per ribadire, a diverse scadenze, la supremazia e il possesso della lontana Curia) nel 1200, 1233 e 1299 ma anche pere tutto il secolo successivo.
Importanti e antiche famiglie bresciane e della Valle Camonica, giurando fedeltà alla Curia, ebbero a Sonico vasti possedimenti e ricevettero molti diritti feudali che il Vescovo di Brescia concedeva per la riscossione delle imposte e la ricca raccolta delle decime che andavano poi all'antichissima pieve di Edolo. Di queste stirpi che in zona, dopo l'infeudamento vescovile, rivendicarono per un lungo periodo dei diritti e privilegi di proprietà e possesso vanno ricordati i Ronchi di Breno, i Federici di Erbanno (uno dei tanti rami in cui si divideva questa famiglia che ricevette benefici anche da Federico Barbarossa, da cui sembra abbiamo preso il nome), i Magnoni di Malonno, i Personi di Ossimo, i Dalla Torre di Cemmo che nella zona rivendicarono privilegi fino oltre il 1300.
Fu solo verso la fine del 1200 che Sonico venne staccato dalla grande Pieve di Edolo e ottenne il fonte battesimale ed ebbe la possibilità di far svolgere nella chiesa del paese i propri servizi religiosi. Questa indipendenza religiosa (che era anche indipendenza economica, dato che le decime non venivano più inviate a Edolo, ma investite nella parrocchia locale) dovette essere riaffermata ufficialmente anche nel 1459 quando, in zona, fece sosta il delegato, inviato in alta Valle Camonica, del Vescovo di Brescia, monsignor Benvenuto Vanzio che con atto ufficiale documentò, finalmente, la definitiva avvenuta separazione.
Fu nel 1500 che a Sonico venne eretta la parrocchiale di San Lorenzo che fu edificata dove prima esisteva una semplice diaconia che oltre a luogo di culto era anche posto di rifugio e riparo (ospizio) per pellegrini e poveri. Gli ospizi erano una presenza frequente in tutto l'arco alpino e sorgevano lungo le strade percorse dai pellegrini, dai viandanti ma anche dai mercanti. E' documentato che proprio a Sonico era già presente, nella stessa epoca, anche un altro (e forse più importante e antico) ospizio che però sorgeva sul dosso posto ad ovest dell'abitato di Sonico, dove poi fu edificata la chiesa di San Andrea. Era antichissima consuetudine, per i parrocchiani di questo tempio, stendere delle lenzuola bianche sul sagrato, prima dell'inizio delle funzioni religiose o di riti propiziatori (molti dei quali di chiara origine pagana e che risalivano all'epoca pre-romana dei riti naturali dei Camuni), perché visibili da molto lontano e fungessero da richiamo ai fedeli, dato che le campane non erano ancora presenti sui campanili di molte chiese.
Sul bel santuario della Madonna della Pradella esiste una "bota" (una storia locale, trasmessa oralmente: metà verità storica ma metà anche leggenda) che si è tramandata fino ai nostri giorni e che racconta come sul campanile venisse issata la più antica campana della Valle Camonica e forse di tutte le terre bresciane: la data fusa su questa campana è quella del 1421: dunque testimone attendibile della propria veneranda età. Si racconta anche che il nobile Omobono dei Federici di Sonico, durante la fusione della campana, che avveniva sul sagrato e nei pressi del campanile, abbia gettato, nel crogiolo ardente, con un gesto teatrale, le proprie argenterie perché la campana stessa, fusa con questa lega così impreziosita, potesse avere "un timbro più squillante nel cielo delle montagne".
Solo nel 1630 la parrocchiale di Rino ottenne la separazione da quella di Sonico che fino ad allora era ritenuta la chiesa madre e in cui si svolgevano tutte le funzioni religiose (che in quel periodo avevano anche un profondo significato politico e amministrativo). Come in altri numerosi paesi della Valle Camonica, anche per Sonico, dall'epoca romana, durante tutto il medio evo e poi sotto la lunga dominazione della Serenissima Repubblica Veneta, una grossa fonte di reddito e ricchezza fu l'estrazione e la lavorazione di materiali ferrosi. Numerose erano le fucine e i forni fusori tra cui uno di proprietà della potente famiglia bresciana dei Martinengo che aveva vasti possedimenti in tutta l'alta valle.
Una certa notorietà, non solo locale, ebbero numerosi artigiani Sonicesi che, insieme a quelli di Santicolo di Corteno, gestivano una rinomata scuola di arte muraria da cui partivano numerosi lavoratori che si recavano anche in stati esteri e molto lontani a costruire palazzi e magioni signorili ma specialmente edifici religiosi.
Anche Sonico e le sue terre furono colpiti a più riprese da carestie e pestilenze. La più tragica e devastante fu la grande peste del 1630 (di Manzoniana memoria) che ridusse, in brevissimo tempo, quasi della metà la popolazione residente.
Nella millenaria storia della Valle Camonica grandi sventure naturali colpirono periodicamente queste terre: erano le inondazioni che l'Oglio o i numerosi e violenti torrenti, non regimentati per secoli, procuravano ai borghi che attraversavano o lambivano. Ma specialmente erano i furiosi incendi che, avendo facile esca nelle abitazioni costruite prevalentemente in legno, devastavano case e opifici: anche a Sonico alcuni di questi disastri fecero grandi danni e molte vittime.
Come in quasi tutti i paesi della Valle Camonica, anche Sonico, a causa delle difficili condizioni di vita, ha conosciuto la piaga endemica dell'emigrazione, che raggiunse notevoli flussi negli anni 1904/1905: furono 177 i Sonicesi, su una popolazione di 1441 residenti ad andarsene anche in terre lontane a crecare fortuna, mentre ancora negli anni dal 1946 al 1960, su 1840 residenti, furono in 323 a emigrare. Sonico negli ultimi anni, forse per la sua vicinanza a Edolo, ha ripercorso le tappe del più popoloso vicino e sfruttando la sua vocazione turistica (specie nelle piccole frazioni montane), si è affacciato a questo settore.

Nel territorio di Sonico vi sono molte testimonianze di antichissimi insediamenti umani o il passaggio di gruppi di uomini preistorici, forse cacciatori che si erano spinti in alta Valle Camonica o che erano scesi dalla non lontana Valtellina, seguendo la cacciagione in fuga, è attestata da alcuni utensili in selce ma specialmente da belle incisioni rupestri che sono state individuate sul (Còren de le fàte) Corno delle Fate, a circa 800 m. di quota. Questo sito è uno sperone roccioso posto in stupenda posizione panoramica, su cui gli antichi sacerdoti del popolo dei Camuni (del ceppo Ligure e poi Celtico) sicuramente, come in altri siti elevati e perciò più vicini algi dei, celebravano i loro ancestrali culti pagani. Le varie incisioni rupestri trovate sul Corno rappresentano infatti dei simboli solari, delle figure di idoli, degli ominidi ma anche animali, armi e palette. Altre incisioni sono state rinvenute su alcune rocce levigate poste nei pressi del dosso “Fobbio”, ai cui piedi doveva transitare l’antichissimo sentiero che collegava i primi insediamenti abitativi della zona: i borghi di Garda e di Rino. Anche i Romani, dopo la conquista della Valle Camonica, nel 16 a C., posero nella zona un punto di cambio cavalli, forse custodita e sorvegliata da una piccola guarnigione o impiantarono una stazione di posta. La loro presenza è chiaramente attestata anche dai resti di un ponte che, venuto alla luce durante l’alluvione del 1960, in località Dassa, è caratterizzato da un arco a sesto ribassato e da pietrame locale con conci fortemente e saldamente incuneati tra loro.

La Chiesa di San Lorenzo si trova nella frazione di Garda. L’edificio si affaccia da un terrapieno ricavato nella roccia ai margini di Garda, in posizione dominante la valle. La chiesa è orientata ad est e presenta una poderosa torre campanaria. Si presenta divisa in due navate, con un ampio presbiterio rettangolare. Tracce della struttura romanica sono visibili nella parte inferiore della facciata e nel fianco meridionale. Una incisione alla destra del porale sembrerebbe datarla al 1159. A metà del XII secolo doveva essere una struttura ad aula singola, quasi certamente conclusa da un’abside semicircolare. Nel seicento subisce una profonda ristrutturazione con l’aggiunta della seconda navata, e del campanile, forse in sostituzione della torre precedente. Nel corso del novecento l’altare marmoreo viene trasferito in Santa Maria Nascente, la chiesa che ne prende anche il posto di parrocchiale, pur dipendendo comunque dalla Pieve di Edolo. Adiacente alla chiesetta sorgeva in origine un convento utilizzato dalle suore per i ritiri spirituali, ora, ristrutturato e riadattato, ospita un albergo-ristorante.
La rupe sulla quale sorge la chiesa di S. Lorenzo deve essere stata, fin da tempi remoti, un osservatorio che teneva sotto controllo le primitive vie d’accesso a Edolo: infatti, Garda significa in antico germanico recinto militare di osservazione. La tradizione militare parla di un castello che sorgeva sul luogo dove poi fu fondata la chiesa: innegabilmente i muraglioni dell’antica canonica fanno pensare ad un fortilizio.

La chiesa di S. antonio di Rino fu ricostruita agli inizi del '700 sulle vestigia di una chiesa precedente. La facciata, a tre ordini, ha il portale in marmo occhialino e il campanle, del '600, in granito con bifore. L'interno, di stile barocco, è stato interramente affrescato da Giacomo Antonio Cerruti, detto il Pitocchetto e contiene un affresco del '700 del Corbellini.

La chiesa parrocchiale di S. Maria, del XVIII secolo, conserva decorazioni interne in stucco, una bella soasa dell'altar maggiore e un settecentesco pulpito in noce.

La Chiesa di Sant'Andrea, edificata nella prima metà del XII secolo, è stata a lungo la Parrocchiale di Sonico, benché sorga fuori dal paese, su una piccola altura lungo l’argine destro del fiume Oglio. Dell’originaria struttura romanica restano i muri dell’unica navata più volte restaurati durante i secoli, mentre l’abside primitiva è stata sostituita da un presbiterio rettangolare. La porta principale non è sulla facciata, ma su una parete laterale. La dedica a Sant’Andrea e la particolare posizione fanno pensare all’esistenza di un ricovero per i viandanti. Nel 1500 la Parrocchia viene trasferita nella nuova chiesa di San Lorenzo, e Sant’Andrea viene custodita e curata da un eremita, dopo anni di abbandono, le recenti opere di recupero sono volte a restituire alla costruzione l’antica dignità.

Il Santuario della Madonna della Pradella fu eretto nel 1400, ma numerosi sono stati gli interventi nel corso dei secoli successivi: anche attualmente luogo di pellegrinaggio, come lo fu per secoli. Sulla parete di fondo del tempio è visibile una statua della "Madonna con Bambino". Della campana posta sul campanile, recante la data 1421 (la più antica di tutta la provincia di Brescia) si è già scritto nella storia.
Nella bella frazione di Rino possiamo ancora notare la struttura muraria di una Torre medievale, in piazza Sant'Antonio. Questo antichissimo manufatto, di chiara origine militare, risalirebbe a prima dell'anno Mille.

Garda di Sonico sorge sulle pendici nordoccidentali del Piz di Olda, solcate dal torrente Zazza. Si raggiunge seguendo la strada che si avvia dal ponte sul Remulo a Rino di Sonico, in mezzo a castagneti fruttiferi secolari. Un tempo i campi sul pendio che digrada verso l'Oglio erano coltivati a frumento, orzo e segale, mentre sui dossi a monte del paese si estendono i vasti e antichi pascoli di Garda e di Olda, raggiunti da una mulattiera e contornati da rigogliosi boschi di conifere. Nella contrada di S. Lorenzo vi sono la chiesa di S. Lorenzo e il cimitero, mentre la chiesa parrocchiale della Natività di Maria Santissima sorge nel centro storico, più in alto. La sua antichità è ricordata in una lapide dei tempi dell'impero qui reperita e pubblicata dallo storico bresciano Federico Odorici.
L'antico centro industriale del comune di Sonico sorge sopra un dosso tra la Val Rabbia e il torrente Remulo, che sbocca dalla Val Malga descrivendo un'ampia curva prima di scendere nella piaa di Greano. Ancora nel 1820 la Val Rabbia si gettava nel Remulo e cinquant'anni dopo puntava, come ora, diritta nell'Oglio, scorrendo sopra un vasto cono di deiezione formato da enormi massi. L'ambiente circostante è caratterizzato da folti castagneti secolari. Il paesino è collegato con Sonico dalla strada suaccennata e direttamente con la Statale 42 da una stradina che si avvia sulla sponda sinistra dell'Oglio al Ponte di Dazza. Attualmente le case sono costruite su entrambe le sponde del Remulo.



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BRAONE

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Braone è un comune della Val Camonica.
La storia di Braone (dal latino "brago" = palude oppure dal greco "bragos" o da "brieg" luogo acquitrinoso o dal francese "brai" = fango)è legata a una famiglia nobile e a una comunità articolata su poche famiglie che, con le loro corti, hanno formato il villaggio . Si hanno alcune notizie sull'esistenza del paese soltanto dal XII sec., quando anche Braone, come le altre comunità della Vallecamonica, venne infeudato dal Vescovo di Brescia e consegnato alla famiglia Griffi di parte Guelfa. Tuttavia la comunità e il villaggio sembra si siano sviluppati posteriormente, nei sec. XVI-XVII, sotto la dominazione della Serenissima Repubblica di Venezia (1427 - 1797), come testimoniano le date ancora esistenti sui portali delle corti.

Vicinia fin dal Medioevo, Braone diventa più tardi frazione del Comune di Niardo, ricostituendosi in Comune autonomo nel 1820. Nel 1927, con l'avvento del fascismo, Braone venne fuso in unico comune con Breno e Losine. Solo nel 1950 gli fu restituita l'autonomia.

Nel 1956 sono state rinvenute delle monete, definite solitamente come il tesoro di Braone, oggi esposte al Museo nazionale della Valcamonica, le più recenti delle quali databili a Anastasio I Dicoro (circa 518 ev).

La famiglia guelfa dei Griffi ebbe un forte radicamento un questo abitato.

La presenza della contrada "motta" fa supporre che anticamente fosse esistita una struttura militare del genere.

È presente un'ampia comunità di artigiani chiamati "Scalpellini" di Braone dediti oggi alla riscoperta della tecnica della lavorazione del granito, materiale presente in elevate quantità in questa zona ed utilizzato principalmente per l'edilizia.

Oltre alle dimore risalenti al 1500 e 1600, che sono ancora visibili nel centro storico, una menzione va a Casa Griffi, in posizione quasi staccata rispetto al paese, di linee particolarmente eleganti che ricordano la presenza importante che ebbe questa famiglia.
La Parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine, rifatta quasi completamente nel 1700. Dall’antica e precedente chiesa quattrocentesca sarebbe il bell’affresco sulla facciata esterna. Si ha certezza che autore del portale in pietra di Sarnico è il milanese Carlo Verde. All’interno sono visibili degli affreschi dei pittori camuni Giovanni Chizzola di Breno e Domenico Faletti, di Cividate. Quest’ultimo fu autore anche della Via Crucis. Vi sono custoditi alcuni dipinti del 1600 attribuiti a G. Mauro della Rovere, detto il Fiamminghino e alla sua scuola.

La macchina delle Quarant’ore e del Triduo dei morti è  un pregevole manufatto dell’artigianato e dell’arte dell’intarsio del legno che viene applicato armoniosamente all’altare maggiore. Per allestire questa macchina si uniscono tra loro, come in un puzzle, 6 pesanti pezzi di legno di castagno sul contorno dei quali, tra una voluta e l’altra, svettano ben 55 candele.

Un tempietto di pregevole fattura dedicato alla “Madonna della Neve” è interamente costruito con pietre ben lavorate a mano in granito dell’Adamello e i blocchi sono sistemati a “corso”.Ha forma rettangolare ,a una navata,col tetto a due falde ricoperto di lamiere di rame;la sua lunghezza di m.6 e la larghezza di m.4 e l’altezza in colmo è di m.5 . L’entrata è costituita da un portale con arco a sesto acuto in stile gotico le cui spalle sono grossi monoliti finemente lavorati (due pilastri di un cancello di una villa signorile probabilmente di Pianborno) con la chiave di volta sulla quale campeggia in alto rilievo,sempre in granito, un magnifico cappello alpino scolpito da Prandini Enrico detto Cifra. Presenta due finestrelle sulle pareti laterali con vetro decorato artisticamente (Un orante con sullo sfondo il Pizzo Badile e la chiesa parrocchiale di Braone con sullo sfondo la Concarena) da Bonfadini G.Carlo. Sulla parete dietro l’altare vi è un bellissima pala in bronzo che rappresenta la Madonna della neve che col suo mantello protegge la montagna(il Pizzo Badile) e la chiesetta medesima ,opera di Pizio da Lozio. Il porfido per il pavimento,il rame,i materiali edili e tutte le suppellettili sono stati donati da persone generose. La costruzione della chiesetta è stata finalizzata alla memoria di tre alpini “andati avanti” prematuramente come testimonia le lapide commemorativa posizionata all’interno del tempio.

Braone ha vecchie case di struttura contadina con involti, tipici portali in granito, d’ogni epoca, come documentano le date incise sugli architravi, molte fontane sempre in granito, fornito dal torrente Pallobbia che scorre al lato del paese, che purtroppo non sempre s’è mostrato generoso. Questa abbondanza di granito ha favorito nei tempi passati, ma anche oggi, la presenza di una vera e propria scuola di scalpellini.

Ogni "curt" possedeva il proprio forno, un tipico esempio di vita che si svolgeva in chiusi clan familiari, durata fino ai tempi napoleonici e, in parte, anche nell'Ottocento. Ben ristrutturate sono due case della nobile famiglia Griffi, che ancora mantengono il fascino delle case signorili, con bei contorni di pietra grigia alle finestre, ai portoni, con archi, colonnine e capitelli, ornate da giardini, circondate da orti e prati verdi.
Nel paese si trova la sede del Dipartimento di Valcamonica del Centro Camuno di Studi preistorici, che può essere interessante visitare.

Il torrente Palobbia, nasce dalle montagne del Listino e del Galiner e dopo aver attraversato il comune di Braone, sfocia nel fiume Oglio, risultando uno dei maggiori affluenti.
L'acqua del torrente viene utilizzata in gran parte per produrre corrente tramite una centrale idroelettrica.
Il torrente Palobbia, viene regolarmente "ripopolato" dal gruppo "A.P.S.Braone", con rilascio di fauna ittica di dimensione variabile fra i 6-9 centimetri, ovvero avannotti di trote fario consegnati dalla Provincia di Brescia.

Il 23 aprile 1984 è stato inaugurato nella Piazzetta Griffi il Monumento ai Caduti in sostituzione delle due lapidi commemorative dei caduti delle guerre mondiali esposte in piazza S.Maria e ora alloggiate al cimitero.
Il monumento è composto da 15 stele di pietra di varia grandezza posizionate a mo' di canne d'organo e da altre che costituiscono il basamento. La materia utilizzata è granito dell'Adamello a grana fine tipica della montagna di Braone; infatti tali pietre sono state estratte dalla cava di Piazze di Braone e lavorate dalla Ditta Cappellini e dagli scalpellini del paese. Il manufatto presenta la scritta:BRAONE A TUTTE LE VITTIME DEL LAVORO E A TUTTI  I CADUTI DELLE GUERRE ;inoltre vi sono posizionate due sculture in bronzo con simboli del lavoro(galleria e martello) e della guerra (cappello alpino e cannone).

Fino al 1930 Braone era servito da fontane pubbliche le cui acque sgorgavano da sorgenti localizzate appena sopra l’abitato (alcune fontane o lavatoi erano alimentati anche dal torrente Pallobia).
Le fontane esistenti nelle corti,non essendoci la rete idrica che potesse dare un servizio alle singole abitazioni,erano essenziali come abbeveratoi per gli animali e per attingere acqua ad uso domestico.
Una delle sorgenti sgorgava nei pressi della chiesa parrocchiale ed alimentava pure una fontana situata nella zona di Sommavilla almeno dalla metà del ‘700.Detta fontana chiamata “Funtani’ dè Shumaìla” ,rispetto ad altre di granito di pregevole fattura ma costruite in tempi più recenti (1923) o a quelle più antiche più semplici fatte con lastre varie,è interessante per la forma e per l’età. Infatti fu scavata in un unico masso di granito non perfettamente regolare (m2xm1)senza i mezzi moderni, quindi a mano,da uno scalpellino di cui si conoscono solo le iniziali (G.B.) nel 1766 come testimonia l’incisione sulla parte frontale del manufatto.
Negli anni “30-40 durante la costruzione del canale SEB(Società Elettrica Bresciana) la sorgente ha interrotto il flusso d’acqua per cui detta Società ha provveduto a fornire le fontane della zona alta del paese col pompaggio dell’acqua attinta probabilmente dalla stessa sorgente che nel frattempo aveva abbassato la propria falda a livello del canale(quest’acqua oggi alimenta Via Dossi ,Brendibusio,Gisole).Nel 1956 la fontana,in occasione del posizionamento della prima rete idrica , venne alimentata con l’acqua della sorgente di Poia.
Nel 1988 la via Sommavilla ,in prossimità della Parrocchiale, fu allargata e il “funtani’ “fu spostato e riposizionato in una nicchia ricavata nel nuovo muro di sostegno della scarpata retrostante.
Interessante notare che,mentre si procedeva alla demolizione del vecchio muro all’interno dello stesso dietro la fontana ,fu trovato l’antico sgocciolatoio anch’esso in granito lavorato,per cui questo importante manufatto fu rimesso al suo posto originale,sostituendo il provvisorio tubo di ferro(utilizzato per 40 anni) completando in modo egregio il monumento e dunque riportandolo a com’era nella metà del ‘700.

La Santella del torrente Palobbia è stata eretta per devozione e  per voto della comunità di Braone, oltre che con intento apotropaico, cioè per allontanare il pericolo di inondazioni.All’interno del fornice, chiusa da un’inferriata, è affrescata la Pietà. Il quadro ha l’aspetto di ex-voto. Infatti la Madonna con il Cristo sulle  ginocchia è presentata seduta su un muro in pietra sovrastante il corso d’acqua su uno sfondo a tinte fosche  come a simulare una turbolenza atmosferica.
A sinistra di chi guarda sono rappresentati S. Raimondo e S. Giovanni Nepomuceno sovrapposti all’affresco precedente in cui compare l’immagine probabile di S. Apollonio vescovo di Brescia. A destra si intravedono tratti delle figure dei  7 fratelli martiri Maccabei. Nella voltina c’è la rappresentazione del Padreterno. All’esterno, sulla parte più alta, è raffigurata, in sovrapposizione l’Annunciazione di fattura novecentesca, mentre più in basso a sinistra compare la figura di S. Cristoforo rivolto al torrente in atto di presentare il Bambino affrescata precedentemente; a destra invece le immagini si sono sbiadite nel tempo.  Il tetto è a doppio spiovente con copertura in piode.
La santella al torrente (detta anche santella Griffi), è di antica costruzione. Si dice che esista documentazione in cui si rammenta che nel 1533, in occasione di una delle inondazioni del torrente Palobia, davanti a “questo santello” vi fosse concorso di popolo in preghiera. Nel tempo furono eseguiti vari interventi, come quando “fu restaurato a spese della chiesa nel 1821 e nel 1846”.

La Santella della Madonna di Lourdes si erge da terra ed è addossata al muro dell’antica abitazione Gelmini-Bonfadini. La piccola nicchia con arco a sesto ribassato contiene una statuetta della Madonna di Lourdes collocata alla fine degli anni ’50 del ‘900 e da poco ridipinta; riporta sulla cornice di base la scritta: AVE O MARIA SS. ed è chiusa da una grata in ferro.

La Santella al Brolo Parrocchiale raffigura una Madonna con la luna ai piedi, con postura di leggera torsione del busto.
Nell’anno 1747 Don Bartolomeo Bonariva nella sala fece dipingere sotto il soffitto tra cornici di legno l’immagine dell’Immacolata, poi nel 1895 essendo pericolante il soffitto, fu levata questa immagine e conservata intera fu trasportata per formar un santello all’entrata del brolo.

Un affresco su muro di casa del centro storico che ritrae, in falsa nicchia, la Madonna Immacolata  con i piedi sul quarto di luna e il giglio bianco e sorretta da quattro teste d’angelo. Posta su un muro del balcone, è ben visibile dalla strada nonostante le ridotte dimensioni dell’opera. L’affresco è di  fattura discreta  e di modalità stilistiche classiche.  I segni di pitture precedenti sottostanti segnalano le tracce di una consuetudine presente anche nel passato di affrescare alcune parti esterne delle abitazioni del  centro storico.

Santella di casa Lardelli è un affresco che rappresenta la Sacra Famiglia con due angeli che volteggiano in alto. Accanto vi sono S. Pietro e S. Domenico
L’affresco è stato eseguito all’inizio degli anni ’30 del ‘900 da un lavorante alla costruzione del canale che passa sotto il paese. Nel 1997, volendo il Comune allargare la strada, la famiglia Lardelli rifece il muro e fu eseguito lo strappo delle immagini ad opera del decoratore Carlo Bettoni di Bienno e della pittrice Angelita Mattioli di Braone. Dal 1999 il trittico è appeso ad una parete dell’atrio della tromba delle scale del Comune.

La Santella di via Ziralda, casa Bonfadini consiste in nicchia di forma absidale con quattro personaggi nimbati. Ambedue i santi sono all’interno della nicchia e si presentano con i classici semi. La Madonna  è assisa su un trono di nubi e il Bambino è seduto su un cuscino sul  ginocchio sinistro di Lei.
L’opera risale al 1970 ed è di Giuseppe Mogni.

La Santella della Madonna del Rosario rappresenta con modalità di ex-voto la Madonna con Bambino in atto di dare la corona del Rosario ad un devoto genuflesso.

Sulla facciata della Chiesa Parrocchiale c'è un affresco che rappresenta una Madonna incoronata con Bambino e due santi.
Nel 1738 vennero dipinte tre immagini: La Madonna incoronata seduta in trono con Bambino e i santi Bartolomeo apostolo e  S. Cristoforo con il Bambino sulle spalle”. Nel 1983 il parroco Don Domenico Baruselli staccò il dipinto ormai quasi del tutto deteriorato e lo sistemò in chiesa sopra il confessionale delle donne. Nel 2012 l’attuale parroco don Angelo Corti lo ha collocato sulla parete sinistra del presbiterio della Chiesetta  di S. Luigi.

La santella di Vicolo Cocchi è un affresco di ridotte dimensioni che riproduce un’immagine di S. Antonio con saio e la scritta S. Antonio di Padova.
Non si conosce notizia circa l’origine dell’immagine di S. Antonio da Padova affrescata al di sopra del portale di ingresso del cortile di vicolo Cocchi. L’opera è precedente all’intervento di intonacatura del muro in malta cementizia avvenuto negli anni ’80 del ‘900.

La Santella  di S. Marco  rappresenta il Santo in piedi, con bordone, dal quale fuoriescono tre fiori bianchi. Sotto la voltina compare la colomba con ramo d’ulivo. In alto c’è la scritta “S. Marco Evangelista”. Una cancellata chiude l’ingresso.
Di antica fondazione fu ristrutturata nel 1894. Dell’antica santella rimane il nome del personaggio e la struttura muraria, che è stata mantenuta anche in occasione dell’allargamento della strada della seconda metà degli anni ’80 perché, si dice, la santella era arretrata rispetto alla sede stradale. Il proprietario Gianni Gelmini incaricò per le immagini  il pittore Giuseppe Mogni, che ha rifatto completamente la parte pittorica. La santella è stata benedetta nel 1986 dal parroco don Domenico Baruselli.

La santella al canale è edificata in calcestruzzo con tetto a due spioventi con copertura in rame e chiusa da una cancellata in ferro. All’interno è collocata la statuetta della Madonna di Lourdes.Fu edificata nella prima metà degli anni ’30 del ‘900 al tempo in cui si costruiva il canale che si trova lì vicino innalzandola sopra un muro di cinta di un terreno prospiciente una delle  stradine di campagna, ora in disuso, che collegava con i campi del Comune di Ceto.

La Santella di via Dossi è una grotta costruita aggiungendo ad un’anima in ferro, con malta di cemento, pietre all’interno e pietre più grandi all’esterno. Vi è sistemata dentro una statua della Madonna di Lourdes.
Santella della famiglia Cocchi- Asticher costruita nel 1965 da Cocchi Andrea con pietre di tufo portate poco per volta da Tavernola, dove egli lavorava alla cava. La statuetta precedente, deteriorata, è stata sostituita dal figlio nei primi anni ’80 del ‘900. All’interno vi sono le tracce della scritta con le conchiglie: AVE MARIA. La conchiglia è il simbolo del pellegrino.

All’interno della Santella dei Ronchei sulla volta vi compare la colomba con raggi di luce. Sul fondo tre teste d’angelo poggiano su nuvole sopra due infiorescenze bianche. A sinistra è ritratto S. Giuseppe nimbato. A destra il vescovo S. Agostino nimbato. Sul frontespizio in alto vi è il triangolo con occhio divino.
Costruita anticamente per devozione,  è stata ristrutturata più volte. Una è del 1959 per iniziativa di Agostino Facchini  in seguito a voto effettuato nella ritirata della campagna di Russia: è stata rifatta la muratura e sostituito il tetto di legno e piode con uno in cemento. Pietro Bortolo Bettoni di Bienno, detto Peo, lo stesso che compose le immagini alla santella di Piazzola, rifece completamente la parte decorativa nel 1979. Dato che le pitture, non di affresco, tendevano a deteriorarsi e a staccarsi, la famiglia Gelmini intervenne con lavori di drenaggio del terreno e incaricando la decoratrice braonese Moira M. che nel  2013 riportò le immagini ai primitivi colori del Bettoni. Fu sostituita la statuetta della Madonna in gesso con una più grande in marmo di Carrara dell’artista braonese  Mario Prandini.

La santella di via Provinciale è con nicchia su basamento in conci di granito e tetto di cemento. Vi è l’immagine di una Madonna come è stata immaginata dal pittore Giuseppe Mogni. Un cancelletto in ferro chiude l’entrata e presenta le lettere A M ad indicare Ave Maria.Voluta da Facchini Giovanmaria negli anni ’70 del ‘900, originario di Braone e trasferitosi poi al Badetto. E’ stata dipinta nel 1996 in sostituzione di un preesistente Cristo inginocchiato nell’orto dei Getzemani dello stesso autore ed è stata benedetta dal parroco Don Domenico Baruselli  il 20 settembre 1997 durante la processione dei festeggiamenti del bicentenario della chiesa parrocchiale. La firma è in basso a destra.

Nella Santella della Prada è ritratta una Madonna con il Bambino con dito in bocca.
Storia ed interventi: l’antica santella fu costruita per voto su iniziativa della fabbriceria nella seconda  la metà dell’’800 per la benedizione della campagna e vi erano raffigurate Maria SS., S. Apollonia e S. Lucia. Quella andò distrutta per i lavori di ampliamento della strada ad opera dell’Amministrazione provinciale e fu ricostruita nella seconda metà degli anni ’60 del ‘900 per interessamento di Francesca Prandini. La precedente icona che ritraeva la Madonna su pannello di multistrato molto deteriorato è stata sostituita per iniziativa di B.G.M. nella primavera del 2008 da una nuova ancora su multistrato ed è opera di Maria Do. L’autrice, ricordando i fatti di cronaca dei bambini di Gravina di Puglia caduti nella cisterna nel 2008 e 2006 ricorda come uno di essi fosse stato trovato rannicchiato con il dito in bocca.
Ora la santella appare lontana dalla via Provinciale e orientata fuori asse rispetto alla direzione attuale perchè quando è stata costruita la superstrada verso la fine del ‘900 è stata effettuata la deviazione della Provinciale in sottopassaggio.

La Santella di Gisole si presenta ristrutturata con modalità conservative, con una copertura metallica. All’interno è rappresentata la natività con la caratteristica della Vergine che tiene sul capo tre corone. A sinistra è presente l’immagine, in parte perduta, di un santo vescovo che potrebbe essere S. Apollonio, messo a difesa contro le inondazioni; si trova infatti a pochi metri dal fiume Oglio. A destra si nota in piedi una figura non identificata, con veste bianca, con la palma del martirio.
Costruita da Facchini Marta fu Francesco, è stata ristrutturata dall’Amministrazione comunale nella seconda metà degli anni ottanta del ‘900 sovrapponendovi anche una protezione metallica. La caratteristica delle tre corone in capo alla Vergine è aspetto singolare e rarissimo nell’iconografia mariana e richiama cultura fiorentina del XVII secolo che ha elaborato l’immagine di Maria madre e sposa della SS. Trinità.

La Santella di Piazzola si presenta come cappella con altare, dall’aspetto neoclassico, l’unica di queste dimensioni tra le antiche santelle di Braone. Sono rappresentate le classiche immagini della Madonna del Rosario di Pompei con i santi Domenico e Caterina da Siena.  A sinistra sono riprodotti S. Lucia e S. Rocco, a destra S. Agostino e S. Antonio abate. Non si sa quando sia stata costruita benchè ci siano delle ipotesi tra cui una: “Il santello alla Piazzola ... è probabile sia il più antico, costruito nel 1300 per voto di questa esigua popolazione, per preservarsi dalla rovina che un tempo discese da questi monti e distrusse le poche case che vi erano sottostanti in contrada Fontana e Clusdònega, che formavano il paesello di Braone. Indi di tempo in tempo veniva restaurato dalla chiesa o da privati. Come avvenne  nel 1798, che fu restaurato dal Rev. Curato Perotti. In seguito…dal pittore Vielmi di Breno”.
Nel 1978 Raimondo Facchini assunse l’iniziativa di ristrutturare il manufatto: all’interno si rifece la cornice, e all’esterno si ricostituì quanto deteriorato riportando tutto l’insieme alle linee architettoniche neoclassicheggianti delle suddette precedenti ristrutturazioni. Fu rifatto il tetto. Facchini diede incarico a Bortolo Bettoni di Bienno di decorare l’interno con le immagini di Santi: fu rifatto tutto mantenendo memoria di quanto vi fosse prima. La presenza di S. Rocco, protettore contro la peste, le dimensioni del manufatto e la distanza dal paese, presuppongono un uso nella famosa peste manzoniana del 1630.
Nel 2008, costatando il forte deterioramento delle pitture per l’umidità ambientale, per la tecnica non ad affresco e per i colori dati su base cementizia, Raimondo prese di nuovo l’iniziativa di intervenire su di esse. L’inarrestabile deterioramento richiese poi un nuovo intervento. Fu data ventilazione alle murature, furono consolidate  le immagini e riportati i colori dell’opera originaria per mano del pittore biennese Franco M. nella primavera dei 2014.

La santella di Negola è in muratura posta su roccia viva. E’ ricavata una nicchia e all’interno di una struttura in pezzo unico di ferro si trova la statuetta della Madonna e all’esterno è impressa la scritta: “Nostra Signora di Fatima”. In basso vi è una targhetta metallica con la scritta "PROTEGGI CHI PASSANDO TI GUARDA".
Di antica edificazione, è stata ricostruita da Pierino Binetti  dopo che si era ridotta a un cumulo di pietre, alle soglie degli anni ’60 del’900. Fu benedetta dal parroco don Stefano Guizzardi nell’agosto 1960 con concorso di popolo.C’è monitoraggio periodico da parte del Binetti.
Nel 2013 sono state ripassate tutte le superfici di nuovo colore.

La Santella si Mezzana è costruita su un muro di sostegno posto a monte sulla strada di Mezzana. All’interno è stata collocata una statuetta della Madonna di Medjugorje.
Storia ed interventi: è stata costruita nel 2006 da Bonfadini G.M. in seguito ad un fatto di cronaca: per scampato pericolo alla guida del trattore mentre eseguiva lavori di manutenzione della strada di Mezzana  per conto della Protezione Civile.

Nella nicchia ricavata sulla facciata di un antico cascinale sul pianoro di Négola è stato affrescato un S. Antonio da Padova.
Non si conosce l’origine. In seguito ad una recente ristrutturazione del cascinale, vi sono stati dei ritocchi di consolidamento dell’opera.

La Santella al bivio di Servil è in muratura con tetto a vista a doppio spiovente che sopravanza.E' stata fabbricata da Donina Antonio. Nel 1980 Bortolo Poli ha ristrutturato l’antica santella diroccata dando incarico al figlio Ulisse di procedere con le pitture. Viene ritratta con colori a tempera su muratura asciutta la Madonna di Fatima che appare ai tre pastorelli inginocchiati. Ai lati sono ritratti S. Giacomo e S. Agostino in onore dei nonni. Nel frontespizio si legge: “Spes nostra salve”. E’ detta la hantela dela ólta de Hervìl.

Nella nicchia della facciata della cascina Cocchi in Piazze vi è una croce lavorata grezzamente. Verso la fine dell’ '800 le famiglie Gheza e Cocchi costruirono la cascina sul prato più a monte del pianoro di Piazze. In seguito la famiglia Cocchi acquisì tutto lo stabile.  A metà anni ’60 del ‘900 Cocchi Antonio collocò nella nicchia preesistente una croce di legno del posto, che osservata a distanza assume aspetto caratteristico. Negli anni ’70 e ’80, prima della costruzione della chiesetta degli  Alpini poco distante, davanti alla cascina veniva celebrata la S. Messa estiva in Piazze.

Su un dosso roccioso si erge la santella dei cacciatori in muratura con granito locale. Il tetto a doppio spiovente è ricoperto da lamiera. Sul colmo è fissata una croce in ferro su cui si sta attorcigliando un serpente. All’interno è collocata una statuetta della Madonna di Lourdes. Nel 1980 l’Associazione Cacciatori ha costruito la santella e vi ha collocato la Madunina, all’inizio del pianoro di Foppe Sotto, sul luogo dove sono i ruderi di una vecchia cascina atterrata per l’urto di macigni caduti dalla montagna nel 1895.

Il Crocifisso al Ponte è un crocifisso con copertura in legno piantato nel terreno.
Il Cristo in bronzo su croce di legno è stato collocato nel 2006 da Soave Cocchi nella stessa struttura che conteneva una precedente immagine di Cristo in legno risalente alla metà dell’ '800 distrutta da mani ignote due mesi prima.

Il crocifisso di via Dossi è in legno proveniente da Ortisei in provincia di Bolzano, collocato su base granitica ed è stato eretto nel 1996 da mons. Mario Rebuffoni.

Salendo da Braone o da Ceto e proseguendo a piedi con la mulattiera, segnata come sentiero dell’Adamello n.38, che parte dalla località Scalassone, si sale verso le Foppe di Braone dove vi sono due malghe e due rifugi.
Dopo 40-60 minuti di cammino, a quota 1350m.s.l.m. nei pressi del “Funtani’ dè S. Carlo” vi è una deviazione con relativa segnaletica che porta al torrente Palobbia ad un luogo di rara bellezza naturalistica a dir poco emozionante perché suggestivo e primitivo. Infatti agli occhi del visitatore si apre all’improvviso una finestra con un paesaggio mozzafiato per le grandi rocce compatte di granito ,con un netto taglio verticale e levigate alle base dal millenario scorrere tumultuoso del torrente, e per la presenza di una magnifica cascata (“Salt dè Rebèt”) di circa 70 metri con le sue acque limpide e spumeggianti.

I “silter” erano dei piccoli frigor naturali per prodotti caseari che si trovano qua e là spersi in località di montagna.
Non si può dire con certezza quando furono costruiti,tuttavia è presumibile  che nelle vallate alpine chiuse appaiono nell'era moderna quando la popolazione aumentò considerevolmente, per cui gli abitanti dei fondo-valle cominciarono a disboscare e a bonificare alcuni pianori situati tra i 500 e i 1800 di altitudine.
Infatti nel territorio di Braone le prime baite o cascine(bàicc),costruite quasi a secco erano modeste costruzioni realizzate con materia prima locale(pietra di granito,legno e piode di ardesia), formate di solito da due ambienti sovrapposti(stalla e fienile) per il ricovero degli animali,del fieno,degli attrezzi e delle persone durante la transumanza estiva per e dalle malghe. Di tali costruzioni le più antiche,ad es.in località Piazze m.950 s.l.m.,pur non essendoci documenti di riferimento circa la loro edificazione,si possono datare non prima del XVII sec.(nella mappa napoleonica del 1813 in Piazze si notano solo n.4 cascine che si possono individuare ancora esistenti ancora oggi sebbene un po' modificate).
Attraverso questo paesaggio antropizzato percorrevano i tratturi di montagna pecore,capre e mucche condotte agli alpeggi in località sempre più alte essendo sempre più insufficienti i foraggi del fondovalle. Pertanto se il fieno dello sfalcio poteva essere accatastato nei fienili per essere riutilizzato in autunno,se le persone si accontentavano di un angolo del “bàit”per un focolare  per cuocere le vivande e un mucchietto di fieno per dormire e gli animali più bisognosi ricoverati nelle stalle, i prodotti caseari per la loro conservazione dovevano essere collocati in luoghi freschi e il più vicino possibile ai prati e alle cascine.
Ecco che i contadini cercavano negli anfratti delle rocce bocche di aria fresca proveniente dal sottosuolo dovuta a corsi d'acqua sotterranea ,  le ampliavano e le modificavano per collocarvi i latticini. Infatti ne ricavavano delle piccole e basse stanze(silter) aventi per tetto dei grossi massi e la parte frontale,rivolta sempre a nord,composta da muretti a secco con la porticina di accesso. All'interno  vi era un arredamento essenziale costruito con pietre di granito semilavorate ossia delle mensole posizionate lungo il perimetro del silter per appoggiarvi vaschette rotonde colme di latte per formare la panna, ricotte e pani di burro. Qualche volta per la presenza li vicino di un ruscello parte della sua acqua veniva deviata dentro il silter e un apposito canaletto la faceva scorrere parallela alle mensole per rinfrescare di più l'ambiente. Ancora oggi questi reperti agro-silvo-pastorali  si possono vedere anche se spesso sono nascosti dalla vegetazione perché non più utilizzati da  60-70 anni.  Avrebbero bisogno di un intervento almeno conservativo perché,oltre a far parte del patrimonio ambientale ,sono elementi antropici  testimoni culturali di parte della nostra storia e servono per farci comprendere come hanno vissuto i nostri avi e quanti sacrifici hanno compiuto per  garantire anche il nostro futuro.

Nel territorio di Braone non abbiamo date o reperti archeologici o altri documenti antichi che testimoniano la presenza di cascine prima del XVIII sec. In quanto a date incise su pietra le più antiche risalgono alla metà dell'800 (1869); altri segni incisi su pietra per delimitare confini possono risalire a censimenti effettuati nel XIX° sec.Vi è poi un documento cartaceo,come la mappa napoleonica del 1813 che raffigura   cascine sparse nella campagna attorno  Braone ma pure alcune in località come  Negola,Servìl e Piazze.
I“bàicc”delle zone suddette ,ancora esistenti anche se aumentati di numero e di dimensione per necessità varie,presentano spesso le caratteristiche di un mondo contadino ormai passato. Infatti tali abitazioni presentavano e talvolta ancora presentano due ambienti:uno nella parte inferiore la stalla e l'altro nella parte superiore il fienile. Le cascine erano costruite con materiale del posto:pietre di granito a secco o con calce per i muri,legno di abete o larice per i solai e i tetti e piode di ardesia per la copertura. In tempi recenti,tranne la copertura dei tetti e i pavimenti,per le ristrutturazioni vengono utilizzati ancora pietra e legno.
Caratteristiche particolari delle cascine osservate nel territorio di Braone erano e talvolta  ancora oggi sono queste:le stalle con la mangiatoia e con il canaletto per il liquame, con volto ribassato di sassi annegati nella calce oppure con solaio di tavole di resinose sostenute da travi in legno appoggiate a mensole di pietra uscenti dai muri perimetrali e con finestrino di aerazione;i fienili con pavimenti in assi , con piccole finestre e con botola in un angolo per il passaggio  del fieno dal fienile  alla stalla sottostante,in un angolo lontano dal fieno c'era un caminetto in pietra e vicino al fieno un giaciglio per la notte; i bàìcc spesso costruiti a ridosso di grandi massi presenti in zona per risparmio di terreno utile alla fienagione e  di materiale da costruzione.
In tempi recenti le cascine di Negola ,Servil ,Piazze e Scalassone hanno avuto un'importante funzione logistica nella transumanza in quanto venivano utilizzate come stazioni per ricovero provvisorio di animali,come magazzini per il fieno falciato d'estate e come abitazione per le persone. Pertanto,sia durante l'accompagnamento degli animali alle malghe delle Foppe (monticazione in giugno) ,sia per lo sfalcio dei prati(“rishìa”in luglio),sia per il pascolo al ritorno dalle malghe(settembre)queste modeste strutture ricettive fecero un prezioso servizio economico ai privati e alla collettività.
Oggi, pur soggette a limiti legislativi perché si trovano nel Parco Adamello,quasi tutte le cascine risultano ristrutturate e pertanto adattate alle esigenze igienico sanitarie delle persone in quanto utilizzate esclusivamente per le vacanze estive o per escursioni di fine settimana.



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martedì 7 luglio 2015

IL LAGO DEL PICCOLO

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Il "Lago Pìcol", come viene chiamato in valle, sorge a 2.378 metri di quota, nella conca della Val Brandèt. Ha una superficie di 123mila metri quadrati e raggiunge una profondità di ben 60 metri: con queste misure, è probabilmente il lago alpino più grande della Lombardia.
Nel settembre del 2008, un gruppo di sommozzatori del North Underwater Explorers Team e dell’Adrenalin Diving hanno eseguito diverse immersioni nel lago, raccogliendo campioni e dati scientifici che negli scorsi mesi sono stati analizzati dai ricercatori di scienze ambientali. Le immersioni sono state anche oggetto di alcune ricerche mediche.

I segreti del più grande e profondo lago naturale alpino d’Italia ad alta quota, dalla geologia alle specie biologiche che lo abitano. E le verità svelate dai diari del Bivacco Davide, scritti con passione, simpatia e amore per la montagna dalle centinaia di escursionisti che sono passati da questo splendido angolo di paradiso tra la Val Brandet e la Val Camonica. Si protende verso le pendici del Monte Torsolèto distendendosi per più di mezzo chilometro e allargandosi per 385 metri, rispecchiando nelle sue cristalline acque le vette del Monte Borga e del Castel di Pìcol. Ma, per poter entrare nei guinness dei primati quale bacino interamente naturale più grande d’Italia (e forse d’Europa) al di sopra dei 2000 metri, ha dovuto scendere sino alla profondità di 65 metri. È conosciuto come Lago di Piccolo, ma il suo vero nome è Lago di Pìcol, poiché così tanto piccolo questo lago proprio non è.
Il regno naturale che circonda il Lago di Pìcol permette al visitatore di conoscere ad uno ad uno anche i nove Laghetti del Torsolèto. Questi ultimi rivendicano la propria natura attraendo l’occhio dell’escursionista per la curiosa forma, oppure per lo scintillio delle loro acque, che sovente riflettono il candore dei nevai anche all’inizio della stagione estiva.

Sino a luglio può apparire come un sorprendente fiordo nordico, con tanto di piccoli bianchi iceberg galleggianti nelle acque di un intenso blu cobalto.



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