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mercoledì 8 luglio 2015

BRAONE

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Braone è un comune della Val Camonica.
La storia di Braone (dal latino "brago" = palude oppure dal greco "bragos" o da "brieg" luogo acquitrinoso o dal francese "brai" = fango)è legata a una famiglia nobile e a una comunità articolata su poche famiglie che, con le loro corti, hanno formato il villaggio . Si hanno alcune notizie sull'esistenza del paese soltanto dal XII sec., quando anche Braone, come le altre comunità della Vallecamonica, venne infeudato dal Vescovo di Brescia e consegnato alla famiglia Griffi di parte Guelfa. Tuttavia la comunità e il villaggio sembra si siano sviluppati posteriormente, nei sec. XVI-XVII, sotto la dominazione della Serenissima Repubblica di Venezia (1427 - 1797), come testimoniano le date ancora esistenti sui portali delle corti.

Vicinia fin dal Medioevo, Braone diventa più tardi frazione del Comune di Niardo, ricostituendosi in Comune autonomo nel 1820. Nel 1927, con l'avvento del fascismo, Braone venne fuso in unico comune con Breno e Losine. Solo nel 1950 gli fu restituita l'autonomia.

Nel 1956 sono state rinvenute delle monete, definite solitamente come il tesoro di Braone, oggi esposte al Museo nazionale della Valcamonica, le più recenti delle quali databili a Anastasio I Dicoro (circa 518 ev).

La famiglia guelfa dei Griffi ebbe un forte radicamento un questo abitato.

La presenza della contrada "motta" fa supporre che anticamente fosse esistita una struttura militare del genere.

È presente un'ampia comunità di artigiani chiamati "Scalpellini" di Braone dediti oggi alla riscoperta della tecnica della lavorazione del granito, materiale presente in elevate quantità in questa zona ed utilizzato principalmente per l'edilizia.

Oltre alle dimore risalenti al 1500 e 1600, che sono ancora visibili nel centro storico, una menzione va a Casa Griffi, in posizione quasi staccata rispetto al paese, di linee particolarmente eleganti che ricordano la presenza importante che ebbe questa famiglia.
La Parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine, rifatta quasi completamente nel 1700. Dall’antica e precedente chiesa quattrocentesca sarebbe il bell’affresco sulla facciata esterna. Si ha certezza che autore del portale in pietra di Sarnico è il milanese Carlo Verde. All’interno sono visibili degli affreschi dei pittori camuni Giovanni Chizzola di Breno e Domenico Faletti, di Cividate. Quest’ultimo fu autore anche della Via Crucis. Vi sono custoditi alcuni dipinti del 1600 attribuiti a G. Mauro della Rovere, detto il Fiamminghino e alla sua scuola.

La macchina delle Quarant’ore e del Triduo dei morti è  un pregevole manufatto dell’artigianato e dell’arte dell’intarsio del legno che viene applicato armoniosamente all’altare maggiore. Per allestire questa macchina si uniscono tra loro, come in un puzzle, 6 pesanti pezzi di legno di castagno sul contorno dei quali, tra una voluta e l’altra, svettano ben 55 candele.

Un tempietto di pregevole fattura dedicato alla “Madonna della Neve” è interamente costruito con pietre ben lavorate a mano in granito dell’Adamello e i blocchi sono sistemati a “corso”.Ha forma rettangolare ,a una navata,col tetto a due falde ricoperto di lamiere di rame;la sua lunghezza di m.6 e la larghezza di m.4 e l’altezza in colmo è di m.5 . L’entrata è costituita da un portale con arco a sesto acuto in stile gotico le cui spalle sono grossi monoliti finemente lavorati (due pilastri di un cancello di una villa signorile probabilmente di Pianborno) con la chiave di volta sulla quale campeggia in alto rilievo,sempre in granito, un magnifico cappello alpino scolpito da Prandini Enrico detto Cifra. Presenta due finestrelle sulle pareti laterali con vetro decorato artisticamente (Un orante con sullo sfondo il Pizzo Badile e la chiesa parrocchiale di Braone con sullo sfondo la Concarena) da Bonfadini G.Carlo. Sulla parete dietro l’altare vi è un bellissima pala in bronzo che rappresenta la Madonna della neve che col suo mantello protegge la montagna(il Pizzo Badile) e la chiesetta medesima ,opera di Pizio da Lozio. Il porfido per il pavimento,il rame,i materiali edili e tutte le suppellettili sono stati donati da persone generose. La costruzione della chiesetta è stata finalizzata alla memoria di tre alpini “andati avanti” prematuramente come testimonia le lapide commemorativa posizionata all’interno del tempio.

Braone ha vecchie case di struttura contadina con involti, tipici portali in granito, d’ogni epoca, come documentano le date incise sugli architravi, molte fontane sempre in granito, fornito dal torrente Pallobbia che scorre al lato del paese, che purtroppo non sempre s’è mostrato generoso. Questa abbondanza di granito ha favorito nei tempi passati, ma anche oggi, la presenza di una vera e propria scuola di scalpellini.

Ogni "curt" possedeva il proprio forno, un tipico esempio di vita che si svolgeva in chiusi clan familiari, durata fino ai tempi napoleonici e, in parte, anche nell'Ottocento. Ben ristrutturate sono due case della nobile famiglia Griffi, che ancora mantengono il fascino delle case signorili, con bei contorni di pietra grigia alle finestre, ai portoni, con archi, colonnine e capitelli, ornate da giardini, circondate da orti e prati verdi.
Nel paese si trova la sede del Dipartimento di Valcamonica del Centro Camuno di Studi preistorici, che può essere interessante visitare.

Il torrente Palobbia, nasce dalle montagne del Listino e del Galiner e dopo aver attraversato il comune di Braone, sfocia nel fiume Oglio, risultando uno dei maggiori affluenti.
L'acqua del torrente viene utilizzata in gran parte per produrre corrente tramite una centrale idroelettrica.
Il torrente Palobbia, viene regolarmente "ripopolato" dal gruppo "A.P.S.Braone", con rilascio di fauna ittica di dimensione variabile fra i 6-9 centimetri, ovvero avannotti di trote fario consegnati dalla Provincia di Brescia.

Il 23 aprile 1984 è stato inaugurato nella Piazzetta Griffi il Monumento ai Caduti in sostituzione delle due lapidi commemorative dei caduti delle guerre mondiali esposte in piazza S.Maria e ora alloggiate al cimitero.
Il monumento è composto da 15 stele di pietra di varia grandezza posizionate a mo' di canne d'organo e da altre che costituiscono il basamento. La materia utilizzata è granito dell'Adamello a grana fine tipica della montagna di Braone; infatti tali pietre sono state estratte dalla cava di Piazze di Braone e lavorate dalla Ditta Cappellini e dagli scalpellini del paese. Il manufatto presenta la scritta:BRAONE A TUTTE LE VITTIME DEL LAVORO E A TUTTI  I CADUTI DELLE GUERRE ;inoltre vi sono posizionate due sculture in bronzo con simboli del lavoro(galleria e martello) e della guerra (cappello alpino e cannone).

Fino al 1930 Braone era servito da fontane pubbliche le cui acque sgorgavano da sorgenti localizzate appena sopra l’abitato (alcune fontane o lavatoi erano alimentati anche dal torrente Pallobia).
Le fontane esistenti nelle corti,non essendoci la rete idrica che potesse dare un servizio alle singole abitazioni,erano essenziali come abbeveratoi per gli animali e per attingere acqua ad uso domestico.
Una delle sorgenti sgorgava nei pressi della chiesa parrocchiale ed alimentava pure una fontana situata nella zona di Sommavilla almeno dalla metà del ‘700.Detta fontana chiamata “Funtani’ dè Shumaìla” ,rispetto ad altre di granito di pregevole fattura ma costruite in tempi più recenti (1923) o a quelle più antiche più semplici fatte con lastre varie,è interessante per la forma e per l’età. Infatti fu scavata in un unico masso di granito non perfettamente regolare (m2xm1)senza i mezzi moderni, quindi a mano,da uno scalpellino di cui si conoscono solo le iniziali (G.B.) nel 1766 come testimonia l’incisione sulla parte frontale del manufatto.
Negli anni “30-40 durante la costruzione del canale SEB(Società Elettrica Bresciana) la sorgente ha interrotto il flusso d’acqua per cui detta Società ha provveduto a fornire le fontane della zona alta del paese col pompaggio dell’acqua attinta probabilmente dalla stessa sorgente che nel frattempo aveva abbassato la propria falda a livello del canale(quest’acqua oggi alimenta Via Dossi ,Brendibusio,Gisole).Nel 1956 la fontana,in occasione del posizionamento della prima rete idrica , venne alimentata con l’acqua della sorgente di Poia.
Nel 1988 la via Sommavilla ,in prossimità della Parrocchiale, fu allargata e il “funtani’ “fu spostato e riposizionato in una nicchia ricavata nel nuovo muro di sostegno della scarpata retrostante.
Interessante notare che,mentre si procedeva alla demolizione del vecchio muro all’interno dello stesso dietro la fontana ,fu trovato l’antico sgocciolatoio anch’esso in granito lavorato,per cui questo importante manufatto fu rimesso al suo posto originale,sostituendo il provvisorio tubo di ferro(utilizzato per 40 anni) completando in modo egregio il monumento e dunque riportandolo a com’era nella metà del ‘700.

La Santella del torrente Palobbia è stata eretta per devozione e  per voto della comunità di Braone, oltre che con intento apotropaico, cioè per allontanare il pericolo di inondazioni.All’interno del fornice, chiusa da un’inferriata, è affrescata la Pietà. Il quadro ha l’aspetto di ex-voto. Infatti la Madonna con il Cristo sulle  ginocchia è presentata seduta su un muro in pietra sovrastante il corso d’acqua su uno sfondo a tinte fosche  come a simulare una turbolenza atmosferica.
A sinistra di chi guarda sono rappresentati S. Raimondo e S. Giovanni Nepomuceno sovrapposti all’affresco precedente in cui compare l’immagine probabile di S. Apollonio vescovo di Brescia. A destra si intravedono tratti delle figure dei  7 fratelli martiri Maccabei. Nella voltina c’è la rappresentazione del Padreterno. All’esterno, sulla parte più alta, è raffigurata, in sovrapposizione l’Annunciazione di fattura novecentesca, mentre più in basso a sinistra compare la figura di S. Cristoforo rivolto al torrente in atto di presentare il Bambino affrescata precedentemente; a destra invece le immagini si sono sbiadite nel tempo.  Il tetto è a doppio spiovente con copertura in piode.
La santella al torrente (detta anche santella Griffi), è di antica costruzione. Si dice che esista documentazione in cui si rammenta che nel 1533, in occasione di una delle inondazioni del torrente Palobia, davanti a “questo santello” vi fosse concorso di popolo in preghiera. Nel tempo furono eseguiti vari interventi, come quando “fu restaurato a spese della chiesa nel 1821 e nel 1846”.

La Santella della Madonna di Lourdes si erge da terra ed è addossata al muro dell’antica abitazione Gelmini-Bonfadini. La piccola nicchia con arco a sesto ribassato contiene una statuetta della Madonna di Lourdes collocata alla fine degli anni ’50 del ‘900 e da poco ridipinta; riporta sulla cornice di base la scritta: AVE O MARIA SS. ed è chiusa da una grata in ferro.

La Santella al Brolo Parrocchiale raffigura una Madonna con la luna ai piedi, con postura di leggera torsione del busto.
Nell’anno 1747 Don Bartolomeo Bonariva nella sala fece dipingere sotto il soffitto tra cornici di legno l’immagine dell’Immacolata, poi nel 1895 essendo pericolante il soffitto, fu levata questa immagine e conservata intera fu trasportata per formar un santello all’entrata del brolo.

Un affresco su muro di casa del centro storico che ritrae, in falsa nicchia, la Madonna Immacolata  con i piedi sul quarto di luna e il giglio bianco e sorretta da quattro teste d’angelo. Posta su un muro del balcone, è ben visibile dalla strada nonostante le ridotte dimensioni dell’opera. L’affresco è di  fattura discreta  e di modalità stilistiche classiche.  I segni di pitture precedenti sottostanti segnalano le tracce di una consuetudine presente anche nel passato di affrescare alcune parti esterne delle abitazioni del  centro storico.

Santella di casa Lardelli è un affresco che rappresenta la Sacra Famiglia con due angeli che volteggiano in alto. Accanto vi sono S. Pietro e S. Domenico
L’affresco è stato eseguito all’inizio degli anni ’30 del ‘900 da un lavorante alla costruzione del canale che passa sotto il paese. Nel 1997, volendo il Comune allargare la strada, la famiglia Lardelli rifece il muro e fu eseguito lo strappo delle immagini ad opera del decoratore Carlo Bettoni di Bienno e della pittrice Angelita Mattioli di Braone. Dal 1999 il trittico è appeso ad una parete dell’atrio della tromba delle scale del Comune.

La Santella di via Ziralda, casa Bonfadini consiste in nicchia di forma absidale con quattro personaggi nimbati. Ambedue i santi sono all’interno della nicchia e si presentano con i classici semi. La Madonna  è assisa su un trono di nubi e il Bambino è seduto su un cuscino sul  ginocchio sinistro di Lei.
L’opera risale al 1970 ed è di Giuseppe Mogni.

La Santella della Madonna del Rosario rappresenta con modalità di ex-voto la Madonna con Bambino in atto di dare la corona del Rosario ad un devoto genuflesso.

Sulla facciata della Chiesa Parrocchiale c'è un affresco che rappresenta una Madonna incoronata con Bambino e due santi.
Nel 1738 vennero dipinte tre immagini: La Madonna incoronata seduta in trono con Bambino e i santi Bartolomeo apostolo e  S. Cristoforo con il Bambino sulle spalle”. Nel 1983 il parroco Don Domenico Baruselli staccò il dipinto ormai quasi del tutto deteriorato e lo sistemò in chiesa sopra il confessionale delle donne. Nel 2012 l’attuale parroco don Angelo Corti lo ha collocato sulla parete sinistra del presbiterio della Chiesetta  di S. Luigi.

La santella di Vicolo Cocchi è un affresco di ridotte dimensioni che riproduce un’immagine di S. Antonio con saio e la scritta S. Antonio di Padova.
Non si conosce notizia circa l’origine dell’immagine di S. Antonio da Padova affrescata al di sopra del portale di ingresso del cortile di vicolo Cocchi. L’opera è precedente all’intervento di intonacatura del muro in malta cementizia avvenuto negli anni ’80 del ‘900.

La Santella  di S. Marco  rappresenta il Santo in piedi, con bordone, dal quale fuoriescono tre fiori bianchi. Sotto la voltina compare la colomba con ramo d’ulivo. In alto c’è la scritta “S. Marco Evangelista”. Una cancellata chiude l’ingresso.
Di antica fondazione fu ristrutturata nel 1894. Dell’antica santella rimane il nome del personaggio e la struttura muraria, che è stata mantenuta anche in occasione dell’allargamento della strada della seconda metà degli anni ’80 perché, si dice, la santella era arretrata rispetto alla sede stradale. Il proprietario Gianni Gelmini incaricò per le immagini  il pittore Giuseppe Mogni, che ha rifatto completamente la parte pittorica. La santella è stata benedetta nel 1986 dal parroco don Domenico Baruselli.

La santella al canale è edificata in calcestruzzo con tetto a due spioventi con copertura in rame e chiusa da una cancellata in ferro. All’interno è collocata la statuetta della Madonna di Lourdes.Fu edificata nella prima metà degli anni ’30 del ‘900 al tempo in cui si costruiva il canale che si trova lì vicino innalzandola sopra un muro di cinta di un terreno prospiciente una delle  stradine di campagna, ora in disuso, che collegava con i campi del Comune di Ceto.

La Santella di via Dossi è una grotta costruita aggiungendo ad un’anima in ferro, con malta di cemento, pietre all’interno e pietre più grandi all’esterno. Vi è sistemata dentro una statua della Madonna di Lourdes.
Santella della famiglia Cocchi- Asticher costruita nel 1965 da Cocchi Andrea con pietre di tufo portate poco per volta da Tavernola, dove egli lavorava alla cava. La statuetta precedente, deteriorata, è stata sostituita dal figlio nei primi anni ’80 del ‘900. All’interno vi sono le tracce della scritta con le conchiglie: AVE MARIA. La conchiglia è il simbolo del pellegrino.

All’interno della Santella dei Ronchei sulla volta vi compare la colomba con raggi di luce. Sul fondo tre teste d’angelo poggiano su nuvole sopra due infiorescenze bianche. A sinistra è ritratto S. Giuseppe nimbato. A destra il vescovo S. Agostino nimbato. Sul frontespizio in alto vi è il triangolo con occhio divino.
Costruita anticamente per devozione,  è stata ristrutturata più volte. Una è del 1959 per iniziativa di Agostino Facchini  in seguito a voto effettuato nella ritirata della campagna di Russia: è stata rifatta la muratura e sostituito il tetto di legno e piode con uno in cemento. Pietro Bortolo Bettoni di Bienno, detto Peo, lo stesso che compose le immagini alla santella di Piazzola, rifece completamente la parte decorativa nel 1979. Dato che le pitture, non di affresco, tendevano a deteriorarsi e a staccarsi, la famiglia Gelmini intervenne con lavori di drenaggio del terreno e incaricando la decoratrice braonese Moira M. che nel  2013 riportò le immagini ai primitivi colori del Bettoni. Fu sostituita la statuetta della Madonna in gesso con una più grande in marmo di Carrara dell’artista braonese  Mario Prandini.

La santella di via Provinciale è con nicchia su basamento in conci di granito e tetto di cemento. Vi è l’immagine di una Madonna come è stata immaginata dal pittore Giuseppe Mogni. Un cancelletto in ferro chiude l’entrata e presenta le lettere A M ad indicare Ave Maria.Voluta da Facchini Giovanmaria negli anni ’70 del ‘900, originario di Braone e trasferitosi poi al Badetto. E’ stata dipinta nel 1996 in sostituzione di un preesistente Cristo inginocchiato nell’orto dei Getzemani dello stesso autore ed è stata benedetta dal parroco Don Domenico Baruselli  il 20 settembre 1997 durante la processione dei festeggiamenti del bicentenario della chiesa parrocchiale. La firma è in basso a destra.

Nella Santella della Prada è ritratta una Madonna con il Bambino con dito in bocca.
Storia ed interventi: l’antica santella fu costruita per voto su iniziativa della fabbriceria nella seconda  la metà dell’’800 per la benedizione della campagna e vi erano raffigurate Maria SS., S. Apollonia e S. Lucia. Quella andò distrutta per i lavori di ampliamento della strada ad opera dell’Amministrazione provinciale e fu ricostruita nella seconda metà degli anni ’60 del ‘900 per interessamento di Francesca Prandini. La precedente icona che ritraeva la Madonna su pannello di multistrato molto deteriorato è stata sostituita per iniziativa di B.G.M. nella primavera del 2008 da una nuova ancora su multistrato ed è opera di Maria Do. L’autrice, ricordando i fatti di cronaca dei bambini di Gravina di Puglia caduti nella cisterna nel 2008 e 2006 ricorda come uno di essi fosse stato trovato rannicchiato con il dito in bocca.
Ora la santella appare lontana dalla via Provinciale e orientata fuori asse rispetto alla direzione attuale perchè quando è stata costruita la superstrada verso la fine del ‘900 è stata effettuata la deviazione della Provinciale in sottopassaggio.

La Santella di Gisole si presenta ristrutturata con modalità conservative, con una copertura metallica. All’interno è rappresentata la natività con la caratteristica della Vergine che tiene sul capo tre corone. A sinistra è presente l’immagine, in parte perduta, di un santo vescovo che potrebbe essere S. Apollonio, messo a difesa contro le inondazioni; si trova infatti a pochi metri dal fiume Oglio. A destra si nota in piedi una figura non identificata, con veste bianca, con la palma del martirio.
Costruita da Facchini Marta fu Francesco, è stata ristrutturata dall’Amministrazione comunale nella seconda metà degli anni ottanta del ‘900 sovrapponendovi anche una protezione metallica. La caratteristica delle tre corone in capo alla Vergine è aspetto singolare e rarissimo nell’iconografia mariana e richiama cultura fiorentina del XVII secolo che ha elaborato l’immagine di Maria madre e sposa della SS. Trinità.

La Santella di Piazzola si presenta come cappella con altare, dall’aspetto neoclassico, l’unica di queste dimensioni tra le antiche santelle di Braone. Sono rappresentate le classiche immagini della Madonna del Rosario di Pompei con i santi Domenico e Caterina da Siena.  A sinistra sono riprodotti S. Lucia e S. Rocco, a destra S. Agostino e S. Antonio abate. Non si sa quando sia stata costruita benchè ci siano delle ipotesi tra cui una: “Il santello alla Piazzola ... è probabile sia il più antico, costruito nel 1300 per voto di questa esigua popolazione, per preservarsi dalla rovina che un tempo discese da questi monti e distrusse le poche case che vi erano sottostanti in contrada Fontana e Clusdònega, che formavano il paesello di Braone. Indi di tempo in tempo veniva restaurato dalla chiesa o da privati. Come avvenne  nel 1798, che fu restaurato dal Rev. Curato Perotti. In seguito…dal pittore Vielmi di Breno”.
Nel 1978 Raimondo Facchini assunse l’iniziativa di ristrutturare il manufatto: all’interno si rifece la cornice, e all’esterno si ricostituì quanto deteriorato riportando tutto l’insieme alle linee architettoniche neoclassicheggianti delle suddette precedenti ristrutturazioni. Fu rifatto il tetto. Facchini diede incarico a Bortolo Bettoni di Bienno di decorare l’interno con le immagini di Santi: fu rifatto tutto mantenendo memoria di quanto vi fosse prima. La presenza di S. Rocco, protettore contro la peste, le dimensioni del manufatto e la distanza dal paese, presuppongono un uso nella famosa peste manzoniana del 1630.
Nel 2008, costatando il forte deterioramento delle pitture per l’umidità ambientale, per la tecnica non ad affresco e per i colori dati su base cementizia, Raimondo prese di nuovo l’iniziativa di intervenire su di esse. L’inarrestabile deterioramento richiese poi un nuovo intervento. Fu data ventilazione alle murature, furono consolidate  le immagini e riportati i colori dell’opera originaria per mano del pittore biennese Franco M. nella primavera dei 2014.

La santella di Negola è in muratura posta su roccia viva. E’ ricavata una nicchia e all’interno di una struttura in pezzo unico di ferro si trova la statuetta della Madonna e all’esterno è impressa la scritta: “Nostra Signora di Fatima”. In basso vi è una targhetta metallica con la scritta "PROTEGGI CHI PASSANDO TI GUARDA".
Di antica edificazione, è stata ricostruita da Pierino Binetti  dopo che si era ridotta a un cumulo di pietre, alle soglie degli anni ’60 del’900. Fu benedetta dal parroco don Stefano Guizzardi nell’agosto 1960 con concorso di popolo.C’è monitoraggio periodico da parte del Binetti.
Nel 2013 sono state ripassate tutte le superfici di nuovo colore.

La Santella si Mezzana è costruita su un muro di sostegno posto a monte sulla strada di Mezzana. All’interno è stata collocata una statuetta della Madonna di Medjugorje.
Storia ed interventi: è stata costruita nel 2006 da Bonfadini G.M. in seguito ad un fatto di cronaca: per scampato pericolo alla guida del trattore mentre eseguiva lavori di manutenzione della strada di Mezzana  per conto della Protezione Civile.

Nella nicchia ricavata sulla facciata di un antico cascinale sul pianoro di Négola è stato affrescato un S. Antonio da Padova.
Non si conosce l’origine. In seguito ad una recente ristrutturazione del cascinale, vi sono stati dei ritocchi di consolidamento dell’opera.

La Santella al bivio di Servil è in muratura con tetto a vista a doppio spiovente che sopravanza.E' stata fabbricata da Donina Antonio. Nel 1980 Bortolo Poli ha ristrutturato l’antica santella diroccata dando incarico al figlio Ulisse di procedere con le pitture. Viene ritratta con colori a tempera su muratura asciutta la Madonna di Fatima che appare ai tre pastorelli inginocchiati. Ai lati sono ritratti S. Giacomo e S. Agostino in onore dei nonni. Nel frontespizio si legge: “Spes nostra salve”. E’ detta la hantela dela ólta de Hervìl.

Nella nicchia della facciata della cascina Cocchi in Piazze vi è una croce lavorata grezzamente. Verso la fine dell’ '800 le famiglie Gheza e Cocchi costruirono la cascina sul prato più a monte del pianoro di Piazze. In seguito la famiglia Cocchi acquisì tutto lo stabile.  A metà anni ’60 del ‘900 Cocchi Antonio collocò nella nicchia preesistente una croce di legno del posto, che osservata a distanza assume aspetto caratteristico. Negli anni ’70 e ’80, prima della costruzione della chiesetta degli  Alpini poco distante, davanti alla cascina veniva celebrata la S. Messa estiva in Piazze.

Su un dosso roccioso si erge la santella dei cacciatori in muratura con granito locale. Il tetto a doppio spiovente è ricoperto da lamiera. Sul colmo è fissata una croce in ferro su cui si sta attorcigliando un serpente. All’interno è collocata una statuetta della Madonna di Lourdes. Nel 1980 l’Associazione Cacciatori ha costruito la santella e vi ha collocato la Madunina, all’inizio del pianoro di Foppe Sotto, sul luogo dove sono i ruderi di una vecchia cascina atterrata per l’urto di macigni caduti dalla montagna nel 1895.

Il Crocifisso al Ponte è un crocifisso con copertura in legno piantato nel terreno.
Il Cristo in bronzo su croce di legno è stato collocato nel 2006 da Soave Cocchi nella stessa struttura che conteneva una precedente immagine di Cristo in legno risalente alla metà dell’ '800 distrutta da mani ignote due mesi prima.

Il crocifisso di via Dossi è in legno proveniente da Ortisei in provincia di Bolzano, collocato su base granitica ed è stato eretto nel 1996 da mons. Mario Rebuffoni.

Salendo da Braone o da Ceto e proseguendo a piedi con la mulattiera, segnata come sentiero dell’Adamello n.38, che parte dalla località Scalassone, si sale verso le Foppe di Braone dove vi sono due malghe e due rifugi.
Dopo 40-60 minuti di cammino, a quota 1350m.s.l.m. nei pressi del “Funtani’ dè S. Carlo” vi è una deviazione con relativa segnaletica che porta al torrente Palobbia ad un luogo di rara bellezza naturalistica a dir poco emozionante perché suggestivo e primitivo. Infatti agli occhi del visitatore si apre all’improvviso una finestra con un paesaggio mozzafiato per le grandi rocce compatte di granito ,con un netto taglio verticale e levigate alle base dal millenario scorrere tumultuoso del torrente, e per la presenza di una magnifica cascata (“Salt dè Rebèt”) di circa 70 metri con le sue acque limpide e spumeggianti.

I “silter” erano dei piccoli frigor naturali per prodotti caseari che si trovano qua e là spersi in località di montagna.
Non si può dire con certezza quando furono costruiti,tuttavia è presumibile  che nelle vallate alpine chiuse appaiono nell'era moderna quando la popolazione aumentò considerevolmente, per cui gli abitanti dei fondo-valle cominciarono a disboscare e a bonificare alcuni pianori situati tra i 500 e i 1800 di altitudine.
Infatti nel territorio di Braone le prime baite o cascine(bàicc),costruite quasi a secco erano modeste costruzioni realizzate con materia prima locale(pietra di granito,legno e piode di ardesia), formate di solito da due ambienti sovrapposti(stalla e fienile) per il ricovero degli animali,del fieno,degli attrezzi e delle persone durante la transumanza estiva per e dalle malghe. Di tali costruzioni le più antiche,ad es.in località Piazze m.950 s.l.m.,pur non essendoci documenti di riferimento circa la loro edificazione,si possono datare non prima del XVII sec.(nella mappa napoleonica del 1813 in Piazze si notano solo n.4 cascine che si possono individuare ancora esistenti ancora oggi sebbene un po' modificate).
Attraverso questo paesaggio antropizzato percorrevano i tratturi di montagna pecore,capre e mucche condotte agli alpeggi in località sempre più alte essendo sempre più insufficienti i foraggi del fondovalle. Pertanto se il fieno dello sfalcio poteva essere accatastato nei fienili per essere riutilizzato in autunno,se le persone si accontentavano di un angolo del “bàit”per un focolare  per cuocere le vivande e un mucchietto di fieno per dormire e gli animali più bisognosi ricoverati nelle stalle, i prodotti caseari per la loro conservazione dovevano essere collocati in luoghi freschi e il più vicino possibile ai prati e alle cascine.
Ecco che i contadini cercavano negli anfratti delle rocce bocche di aria fresca proveniente dal sottosuolo dovuta a corsi d'acqua sotterranea ,  le ampliavano e le modificavano per collocarvi i latticini. Infatti ne ricavavano delle piccole e basse stanze(silter) aventi per tetto dei grossi massi e la parte frontale,rivolta sempre a nord,composta da muretti a secco con la porticina di accesso. All'interno  vi era un arredamento essenziale costruito con pietre di granito semilavorate ossia delle mensole posizionate lungo il perimetro del silter per appoggiarvi vaschette rotonde colme di latte per formare la panna, ricotte e pani di burro. Qualche volta per la presenza li vicino di un ruscello parte della sua acqua veniva deviata dentro il silter e un apposito canaletto la faceva scorrere parallela alle mensole per rinfrescare di più l'ambiente. Ancora oggi questi reperti agro-silvo-pastorali  si possono vedere anche se spesso sono nascosti dalla vegetazione perché non più utilizzati da  60-70 anni.  Avrebbero bisogno di un intervento almeno conservativo perché,oltre a far parte del patrimonio ambientale ,sono elementi antropici  testimoni culturali di parte della nostra storia e servono per farci comprendere come hanno vissuto i nostri avi e quanti sacrifici hanno compiuto per  garantire anche il nostro futuro.

Nel territorio di Braone non abbiamo date o reperti archeologici o altri documenti antichi che testimoniano la presenza di cascine prima del XVIII sec. In quanto a date incise su pietra le più antiche risalgono alla metà dell'800 (1869); altri segni incisi su pietra per delimitare confini possono risalire a censimenti effettuati nel XIX° sec.Vi è poi un documento cartaceo,come la mappa napoleonica del 1813 che raffigura   cascine sparse nella campagna attorno  Braone ma pure alcune in località come  Negola,Servìl e Piazze.
I“bàicc”delle zone suddette ,ancora esistenti anche se aumentati di numero e di dimensione per necessità varie,presentano spesso le caratteristiche di un mondo contadino ormai passato. Infatti tali abitazioni presentavano e talvolta ancora presentano due ambienti:uno nella parte inferiore la stalla e l'altro nella parte superiore il fienile. Le cascine erano costruite con materiale del posto:pietre di granito a secco o con calce per i muri,legno di abete o larice per i solai e i tetti e piode di ardesia per la copertura. In tempi recenti,tranne la copertura dei tetti e i pavimenti,per le ristrutturazioni vengono utilizzati ancora pietra e legno.
Caratteristiche particolari delle cascine osservate nel territorio di Braone erano e talvolta  ancora oggi sono queste:le stalle con la mangiatoia e con il canaletto per il liquame, con volto ribassato di sassi annegati nella calce oppure con solaio di tavole di resinose sostenute da travi in legno appoggiate a mensole di pietra uscenti dai muri perimetrali e con finestrino di aerazione;i fienili con pavimenti in assi , con piccole finestre e con botola in un angolo per il passaggio  del fieno dal fienile  alla stalla sottostante,in un angolo lontano dal fieno c'era un caminetto in pietra e vicino al fieno un giaciglio per la notte; i bàìcc spesso costruiti a ridosso di grandi massi presenti in zona per risparmio di terreno utile alla fienagione e  di materiale da costruzione.
In tempi recenti le cascine di Negola ,Servil ,Piazze e Scalassone hanno avuto un'importante funzione logistica nella transumanza in quanto venivano utilizzate come stazioni per ricovero provvisorio di animali,come magazzini per il fieno falciato d'estate e come abitazione per le persone. Pertanto,sia durante l'accompagnamento degli animali alle malghe delle Foppe (monticazione in giugno) ,sia per lo sfalcio dei prati(“rishìa”in luglio),sia per il pascolo al ritorno dalle malghe(settembre)queste modeste strutture ricettive fecero un prezioso servizio economico ai privati e alla collettività.
Oggi, pur soggette a limiti legislativi perché si trovano nel Parco Adamello,quasi tutte le cascine risultano ristrutturate e pertanto adattate alle esigenze igienico sanitarie delle persone in quanto utilizzate esclusivamente per le vacanze estive o per escursioni di fine settimana.



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sabato 13 giugno 2015

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IL DUOMO VECCHIO DI BRESCIA

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Rappresenta un esempio di straordinaria bellezza di architettura romanica in Italia.
E' noto a tutti, in ragione della sua forma, come "La Rotonda".
Venne incominciato dai maestri comacini alla fine dell' XI secolo sopra le rovine di quella che fu la basilica (invernale) di S. Maria Maggiore del VII sec.
La Rotonda in origine era dotata di due ingressi (nord - sud), ora però non più utilizzati;
l'attuale ingresso principale fu invece creato nel 1571.
L'esterno del Duomo Vecchio presenta un corpo a pianta circolare mentre l'interno è caratterizzato da una cupola emisferica appoggiata su otto grandi archi sostenuti da pilastri e sovrastante l'ampio spazio centrale.
Di fronte alla porta d'ingresso è posizionato il sarcofago (in marmo rosso di Verona) di Berardo Maggi, mentre dal presbiterio - attraverso due scale - si accede alla Cripta di S. Filastrio, che faceva parte dell'antica basilica di cui sono rimasti alcuni resti di mosaici.
Il Duomo Vecchio ospita alcune importanti opere del Moretto, tra cui: l'Assunta, gli evangelisti Luca e Marco, la Cena dell'agnello pasquale, Elia e l'Angelo; due tele del Romanino e una di Franco Maffei (pittore vicentino).
Degno di nota è pure il grandioso organo risalente al 1536 realizzato dall'Antegnati.
Nella Rotonda è custodito il Tesoro delle SS. Croci e la Croce del Campo che un tempo veniva issata sul Carroccio.
La storia del Duomo vecchio ha inizio con la demolizione dell'ormai vecchia e inadeguata Basilica di Santa Maria Maggiore de Dom, un edificio paleocristiano costruito forse nel VII secolo e approssimativamente coevo alla Basilica di San Pietro de Dom, oggi sostituita dal Duomo nuovo. La basilica, di pianta longitudinale, senza transetto, coperta da un semplice tetto di capriate a vista e arricchita nell'VIII secolo dalla "Cripta di San Filastrio", doveva inoltre essere uscita verosimilmente distrutta o molto danneggiata dall'incendio che devastò la città nel 1095. Studi compiuti negli ultimi anni del Novecento hanno concluso che il cantiere della nuova cattedrale dovette essere già avviato, più o meno largamente, prima del grande incendio e che quest'ultimo, pertanto, si limitò a confermare definitivamente la sorte della basilica paleocristiana. Nella prima metà del XII secolo la nuova cattedrale doveva essere compiuta, conservando di Santa Maria Maggiore solamente la cripta sottostante.

Verso la fine del Duecento, Berardo Maggi, vescovo e primo signore di Brescia, opera un ampliamento del presbiterio e fa decorare gli interni, ma non si è certi se l'intervento riguardò le sole volte di copertura del deambulatorio oppure anche le pareti e la cupola centrale. Lavori più imponenti vengono messi in pratica nella stessa zona fra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento per mano di Bernardino da Martinengo, che prolunga notevolmente il presbiterio a est (1490), coprendolo con volte a crociera di carattere ancora gotico. Al cantiere partecipa anche Filippo Grassi, futuro direttore del cantiere di palazzo della Loggia. Nella stessa circostanza viene inoltre aggiunto il transetto, completandolo con la cappella delle Sante Croci sul lato sinistro (1495). Il nuovo presbiterio vede la partecipazione di Gasparo Cairano nella realizzazione delle chiavi di volta, mentre Vincenzo Civerchio ne affresca le pareti con le Storie della Vergine, in seguito perdute. All'indomani del tragico sacco di Brescia per opera dell'esercito di Gaston de Foix-Nemours, nel 1512, il Comune di Brescia decide di dedicare maggiori sforzi all'abbellimento della cattedrale: nel 1518 viene installato l'organo di Giovanni da Pinerolo, decorato con ante dipinte da Floriano Ferramola e dal Moretto oggi conservate nella chiesa di Santa Maria in Valvendra a Lovere. Nel 1536 lo strumento è già sostituito da quello ancora presente, opera monumentale di Giangiacomo Antegnati, che viene arricchito da ante realizzate dal Romanino, oggi nel Duomo nuovo.

Dal 1571 ha inizio il riordino degli interni secondo le direttive della Controriforma, affidato all'architetto Giovanni Maria Piantavigna. È stata inoltre appena vinta, il 7 ottobre, la Battaglia di Lepanto dalle forze della Repubblica di Venezia, dominante sulla città: era il giorno dedicato a Santa Giustina di Padova e la costruzione di cappelle a lei dedicate si diffonde velocemente in tutti i territori della Repubblica. Il Piantavigna, per ragioni di simmetria con la già presente cappella delle Sante Croci, posiziona la nuova cappella di Santa Giustina sul lato destro del transetto, che cambierà poi intitolazione come cappella del Santissimo Sacramento. Inoltre, ristruttura la cappella delle Sante Croci e fa ridipingere il transetto da Tommaso Sandrini e Francesco Giugno, la cui opera è giunta fino a noi a tratti. La cappella delle Sante Croci, fra l'altro, subirà un ulteriore e definitivo restauro nei primi anni il Seicento. Infine, sposta l'ingresso originario della cattedrale e lo pone dov'è tuttora.

Gli interni della cattedrale passano indisturbati sia il Settecento, sia l'Ottocento, fino alla fine di quest'ultimo quando, in seguito a preoccupanti problemi statici manifestatisi, il Duomo viene sottoposto a un radicale e generalizzato intervento di restauro e consolidamento delle strutture, diretto da Luigi Arcioni. Il restauro porta all'eliminazione di molte aggiunte e sovrastrutture barocche, ridonando all'imponente mole romanica parte del suo essenziale aspetto originario.

Alla fine del Novecento gli affreschi del transetto vengono ripuliti e restaurati, soprattutto per rimediare ai costanti problemi di umidità che affliggono l'edificio. Nei primi mesi il 2010, inoltre, dopo una serie di piogge abbondanti, il problema ha raggiunto l'apice con l'inondazione della cripta, rimasta sommersa sotto una decina di centimetri d'acqua per alcune settimane. Una certa soluzione sembra essere stata fornita da opere di coibentazione dei muri interrati, messe in pratica durante l'estate del 2010.

Per le sue caratteristiche e per l'altissimo grado di conservazione delle strutture originarie, il Duomo vecchio di Brescia si posiziona fra i più tradizionali e importanti esempi di rotonde romaniche in Italia. L'aspetto attuale è frutto di due ampliamenti: uno della fine del Quattrocento, che aggiunse l'attuale presbiterio e l'abside sul fondo, e uno praticato durante la seconda metà del Cinquecento, che completò il transetto e praticò altri interventi. Di grande importanza è anche la sottostante cripta, risalente al VI secolo ma restaurata nell'VIII secolo.

L'esterno del Duomo vecchio non è pienamente apprezzabile a causa del considerevole innalzamento della Piazza del Duomo. La grande struttura cilindrica di epoca romanica è composta di blocchi regolari di medolo, una pietra biancastra locale, interrotti da monofore con archi a tutto sesto disposte su tre diversi livelli: il primo sulle pareti del deambulatorio, il secondo alla base del cilindro centrale, il terzo, molto fitto, sulla sommità di quest'ultimo, dove le monofore sono sostituite, in direzione nord, sud e est, da oculi circolari. In questa fascia, le monofore presentano anche una tripla strombatura degradante verso l'interno. Il cilindro centrale, inoltre, è decorato da leggere e sottili lesene disposte a intervalli regolari e coronato da un fregio in cotto con archetti, tipico dell'arte decorativa del periodo.

Sul fronte principale, in asse con il presbiterio interno, si trova l'ingresso alla cattedrale, che fu aperto nel 1571 in sostituzione a quello inferiore all'epoca ormai definitivamente interrato, che si può ancora vedere dall'interno. Al di sopra dell'ingresso si alzava il campanile del duomo, ma un malaugurato ingrandimento del portale, effettuato nel Seicento, portò al crollo della torre nel 1708. Il campanile, ad oggi, è ben visibile in solamente due raffigurazioni: un dipinto di Francesco Maffei, conservato all'interno della basilica, e la miniatura in copertina all'Estimo della città di Brescia del 1588, che raffigura il lato est di Piazza del Duomo con il Broletto, la Basilica di San Pietro de Dom e appunto il Duomo vecchio con il campanile. Dalle immagini si evince che si trattasse di una tradizionale torre campanaria romanica, approssimativamente molto simile al campanile della chiesa di San Giorgio, sebbene molto più alta. L'attuale ingresso è decorato da un portale in marmo in moderato gusto barocco, con timpano semicircolare sul portale e cimasa a coronamento del corpo d'ingresso.

Sul lato destro del Duomo si apre un'area dove, attraverso uno sterro, è stato riproposto il livello originario che aveva la piazza al momento della costruzione della cattedrale. In questa zona si può osservare un'arcata decorata da conci di pietra e mattoni alternati: si tratta dell'ingresso destro del nartece originario che fungeva da accesso al Duomo, il quale era, pertanto, privo di ingresso frontale. L'altro ingresso del nartece, posto simmetricamente a quello oggi visibile, rimane attualmente interrato sotto la piazza.

La parte retrostante del duomo, difficile da osservare dall'esterno a causa degli edifici addossati attorno all'edificio, mostra l'evoluzione della fabbrica nel corso dei secoli con i vari ampliamenti praticati, in particolare quelli cinquecenteschi. Dalla Piazza del Duomo, in particolare, è visibile l'intervento del Piantavigna, con il corpo della cappella del Santissimo Sacramento e le due piccole cupole con lanterna, una posta sopra la cappella e una sull'estremità del transetto. Altri particolari del retro del duomo sono visibili dalla retrostante Via Mazzini, sul fondo di una breve rientranza immediatamente di fianco alla parete del Duomo nuovo, dove il profilo murario degli edifici residenziali medievali è assente ed è pertanto possibile vedere molto chiaramente il lato sinistro del transetto, il retro della cappella delle Sante Croci e l'odierno campanile della cattedrale. Quest'ultimo, molto piccolo e quasi incoerente con l'importanza dell'edificio, fu costruito nel Settecento dopo il crollo della torre originaria. L'area non è accessibile al pubblico ma solo visibile dall'esterno, essendo un cortile di servizio alla cattedrale direttamente connesso con la sacrestia interna.

L'aspetto esterno della cattedrale, in più punti, ha un aspetto rabberciato o, comunque, di fattura successiva: è il caso, ad esempio, delle grandi monofore alla base del cilindro centrale, le quali più d'una sono circondate da un "alone" murario visibilmente ricostruito. Si tratta degli interventi di restauro operati alla fine dell'Ottocento da Luigi Arcioni, che si adoperò per ridare alla struttura l'originale aspetto romanico. Gli interventi furono vari e molto diffusi, all'esterno e all'interno: nel caso citato, Arcioni fece ricostruire le originali monofore in sostituzione dei grandi finestroni aperti alla fine del Cinquecento.

L'interno del Duomo vecchio risulta suddiviso in varie zone poste a più livelli. Caratterizzato dalla sobria solennità dell'architettura romanica, deve il suo aspetto attuale ai lavori di restauro ottocenteschi di Luigi Arcioni, che hanno eliminato tutte la stratificazione successiva e riportato alla luce la base originale.

L'attuale ingresso permette ad un unico sguardo di abbracciare la platea inferiore, gli ambulacri e il presbiterio quattrocentesco: questa visuale privilegiata, che non corrisponde a quella originaria, venne aperta nel 1571 da Giovanni Maria Piantavigna, che in quel punto rialzò il pavimento dell'ambulacro sottostante fino al livello del nuovo ingresso, mentre ai due lati del rialzo pose due scalinate che riportano al livello originario.

Ai lati dell'attuale portale si scorgono le due scale che conducevano al campanile crollato nel 1708. Anche queste scalette, con colonne romaniche, sono state riportate alla luce dal restauro ottocentesco.

L'interno del Duomo vecchio si può riassumere nel seguente schema: dall'ingresso rialzato, tramite le scale costruite dal Piantavigna si può scendere, sia da destra sia da sinistra, nell'ambulacro circolare che fa da perimetro esterno alla cattedrale. L'ambulacro è separato dal nucleo centrale, detto "Platea di Santa Maria", da otto imponenti pilastri che, mediante archi a tutto sesto, sostengono la grande cupola superiore. Alla platea si può accedere attraverso scalette in metallo di moderna installazione, poste immediatamente a lato del punto d'arrivo sull'ambulacro delle scale del Piantavigna; procedendo invece sull'ambulacro, si arriva all'intersezione fra questo e il corpo del presbiterio dove, scesa una breve scalinata che conclude sia l'ambulacro destro sia il sinistro, si possono risalire alcuni grandini per raggiungere il presbiterio, oppure scendere nella "Cripta di San Filastrio" attraverso i due cunicoli laterali. Saliti i gradini del presbiterio si arriva nel transetto, prolungato su entrambi i lati, mentre procedendo ancora si salgono nuovamente dei gradini e si arriva nel coro, e da lì all'abside.

La Platea di Santa Maria, nucleo centrale circolare del duomo è posto al livello più basso (non considerando la cripta) e si raggiunge mediante scalette metalliche di moderna installazione; solo da qui si può apprezzare appieno l'imponenza della struttura romanica, con gli otto pilastri di contorno, gli arconi, le dieci monofore che illuminano l'interno e la grande cupola centrale. Nella zona della platea in direzione opposta al presbiterio si nota l'arco dell'ingresso antico, al quale si giungeva attraverso due porte congiunte da un nartece, viste all'esterno. Chiusi i due ingressi, il nartece è stato trasformato in cappella battesimale e vi si trova un fonte in marmo del Quattrocento.

Di particolare interesse nella platea sono i resti della precedente Basilica di Santa Maria Maggiore de Dom, emersi durante gli scavi del 1894. Sul pavimento della platea, utilizzando delle piastrelle nere, è evidenziato il profilo delle fondazioni della basilica, scoperte in quell'occasione: si tratta di muri di modesto spessore e privi di particolari contrafforti, il che, unito al periodo di costruzione della basilica, ha portato a credere che essa fosse di struttura molto semplice, con tetto in capriate a vista e oltretutto a navata unica, poiché non sono state trovate tracce di pilastri interni. Dell'antica basilica, in questa zona, rimangono anche lacerti degli originali mosaici che ricoprivano i pavimenti, posti sotto le due scalette d'accesso in metallo: si tratta di mosaici a motivi geometrici risalenti al V secolo o al VI secolo, periodo di fondazione della basilica.

La cripta del Duomo vecchio, raggiungibile mediante scale ai lati dei gradini che salgono al presbiterio, faceva parte della precedente Basilica di Santa Maria Maggiore de Dom e, in quanto tale, è il luogo più antico a noi giunto riguardante la cristianità bresciana. La cripta è composta da tre navate da quattro campate ciascuna, separate da due colonnati e coperte da una serie di volte a crociera. Il colonnato, sotto forma di lesene, ricorre anche lungo le pareti, dove sostiene l'imposta delle volte. Le tre navate sono concluse, sul fondo, da tre absidi, mentre nicchie rettangolari e rientranze nei muri movimentano i muri laterali, soprattutto nella zona d'ingresso, dove arrivano le due scale provenienti dal presbiterio.

La cripta risale almeno al VI secolo, cioè quando fu costruita la basilica, ma non ha mantenuto l'originale assetto, rivisto forse nell'VIII secolo. La cripta è denominata "di San Filastrio" poiché, il 9 aprile 838, il vescovo San Ramperto collocò qui le reliquie del santo vescovo bresciano vissuto nel IV secolo, traslandole dalla Basilica di Sant'Andrea, prima cattedrale di Brescia e già distrutta a quel tempo. Non è inverosimile, quindi, che la cripta sia stata restaurata, assumendo il nuovo e attuale aspetto, proprio in quell'importante occasione. Dell'ambiente, pertanto, sono originali del VI secolo solamente i muri perimentrali, mentre le volte a crociera delle campate e, comunque, la posizione delle colonne risalgono almeno all'VIII secolo. Quasi tutte le colonne e i capitelli utilizzati nella cripta sono di epoca romana: è tutto materiale di spoglio, tratto da edifici romani ormai abbandonati o in decadenza. Molti capitelli sono invece bizantini, risalenti all'VIII secolo o al IX secolo, posizionati dunque durante il restauro della cripta, e per la maggior parte sono rozze copie dei più raffinati capitelli di ordine corinzio romani. Sebbene gli elementi utilizzati siano in gran parte di spoglio, si può comunque apprezzare un certo ordine nel loro posizionamento: quasi tutte le colonne sono accoppiate e poste simmetricamente, oppure i capitelli fra loro simmetrici, se non uguali, sono simili o con gli stessi motivi decorativi.

A parte i capitelli e le colonne, l'ambiente appare completamente spoglio: di tutto ciò che un tempo, sicuramente, doveva occupare la cripta, nulla è giunto fino a noi quanto ad altari, sculture, sarcofagi o arredi. Ultimo, degradatissimo lacerto di una qualche decorazione resta nell'abside della navatella centrale: qui, molto sbiadito, è posto un affresco raffigurante forse Cristo in gloria fra angeli e i Santi Filastrio e Apollonio. La figura di quello che dovrebbe essere Gesù è posta al centro e se ne distinguono, molto in alto vicino alla cornice della semicalotta di copertura, i tratti del volto. Ai lati di questa figura, si notano in basso due figure umane riccamente vestite, sormontate da un angelo a sinistra e da quella che appare un'aquila a destra. Sui bordi dell'abside appaiono, più conservati, motivi decorativi quali cornici e un vaso contenente vegetali, mentre la fascia di base, alta poco più di mezzo metro, è decorata con un motivo a panneggi, purtroppo anch'esso molto vago. Gli affreschi, resi in questo stato da secoli di umidità, risalgono all'XI o al XII secolo, probabilmente apposti al momento della costruzione del duomo. Della stessa epoca, ma molto meglio conservati, sono Sant'Apollonio, San Gaudenzio, San Filastro e l'Arcangelo Michele raffigurati nelle vele della volta a crociera dell'ultima campata centrale, proprio davanti all'abside.

Nel Duomo vecchio sono custodite numerosissime opere di vario tipo, collocate in più punti nella cattedrale ma concentrate nella zona del transetto e del presbiterio.

La prima opera custodita nel Duomo vecchio che accoglie chiunque vi entri dall'ingresso principale è il grande sarcofago in marmo rosso di Verona dove è sepolto Berardo Maggi, vescovo e primo signore di Brescia, vissuto nella seconda metà del Duecento e vera pietra miliare nella storia della città. Il 25 marzo 1298, Berardo Maggi impone infatti la pace fra le fazioni che dilaniavano la vita del Comune, i tradizionali guelfi e ghibellini, ponendosi come Signore della città e, essendo già vescovo, unificando il potere civile e temporale sotto una sola figura. Si tratta di un grande parallelepipedo monoblocco di marmo rosso di Verona, quasi privo di decorazioni, chiuso da un coperchio a doppio spiovente invece riccamente decorato. L'opera, di finissima fattura ed elevato pregio artistico, risale ai primi anni del Trecento (Berardo Maggi morì nel 1308).
Lo spiovente anteriore, rivolto verso l'ingresso del duomo, è decorato con il Giuramento di pace e fedeltà al vescovo, la cosiddetta "Pace di Berardo Maggi" con la quale fu sancita la concordia fra le fazioni. La scena raffigura due cortei di persone che escono uno dal Broletto, posto all'estremità destra, e dalla Basilica di San Pietro de Dom a sinistra, dunque dai due edifici simbolo delle fazioni, e si incontrano in un'arcata centrale. Qui, ai lati di un altare, i rappresentanti dei due cortei sono raffigurati nell'atto del giuramento con la mano sopra un libro, verosimilmente la Bibbia, mentre Berardo Maggi, in piedi fra i due, tiene fra le mani una lunga pergamena recante gli accordi fra le fazioni. Curiosamente, il corteo dei ghibellini che proviene da destra è più lungo di quello dei guelfi, uscente da sinistra, e pertanto la scena centrale con il Giuramento risulta essere di poco spostata verso sinistra. Evidentemente, la fazione ghibellina contava molti più membri e difatti era proprio così, essendo Brescia fondamentalmente ghibellina. Il fatto è anche testimoniato dal coronamento della scena sul margine superiore dello spiovente, costituito infatti da una merlatura ghibellina.
Sullo spiovente posteriore, invece, è posto Berardo Maggi raffigurato a grandezza naturale, disteso su un lenzuolo fittamente drappeggiato, vestito con la tunica vescovile e la mitria. Nella mano sinistra tiene il pastorale, mentre la destra è in gesto di benedizione. Sullo sfondo è raffigurato il corteo dei Funerali di Berardo Maggi, mentre sui quattro angoli del lenzuolo dove è disteso il vescovo sono posti i quattro animali dell'Apocalisse di Giovanni, simbolo degli Evangelisti. Ai quattro angoli del coperchio, sul fianco di cubi sporgenti dallo spiovente, sono raffigurati i Santi Pietro e Paolo sul lato della Pace e, sul lato dei Funerali, i Santi Filastrio e Gaudenzio a sinistra e i Santi Faustino e Giovita a destra. I due frontoni laterali del coperchio, di forma trapezoidale, recano da un lato una semplice croce greca e dell'altro l'episodio di San Giorgio che trafigge il Drago. L'unica incisione sul sarcofago sottostante, invece, è posta sul lato dei Funerali ed è l'iscrizione dedicatoria del sepolcro: "BERARDI MADII EPISC AC PRINCIP UR BRI", cioè "A Berardo Maggi Vescovo e Principe della Città di Brescia". Il sarcofago, in origine, era collocato dietro o a fianco dell'altare maggiore: da lì, nel 1571, fu trasferito nella testata sinistra del transetto e trasportato nel luogo attuale solo nel 1896.

A destra dell'ingresso, sotto la rampa di scale che anticamente portava al campanile, è posta una lastra marmorea del Duecento scolpita a bassorilievo, recante la figura e l'effigie di Sant'Apollonio. La figura è posta entro un contesto architettonico di colonne e archi e, molto probabilmente, faceva parte di un'opera maggiore, forse un dittico, essendo la colonna scolpita a sinistra troncata a metà.
Il lato sinistro del deambulatorio ospita, in un'arcata ricavata dentro il muro perimetrale, la cappella dell'Angelo Custode, chiusa da un cancello in ferro con bronzi dorati. L'altare della cappella risale al Seicento, è in marmo botticino e breccia rosata ed è caratterizzato da eleganti forme classiche. L'altare è adornato da una tela ottagonale opera di inizio Seicento di Antonio Gandino, raffigurante l'Angelo Custode che indica a un bimbo la via del Cielo.

Accanto alla cappella, entro una nicchia a metà altezza sul muro, è collocato in monumento funebre al vescovo bolognese Balduino Lambertini, che resse la diocesi di Brescia fra il 1344 e il 1349. Il sepolcro è opera di Bonino da Campione, importante scultore nell'arte gotica di fine Trecento. Il fronte è decorato con un altorilievo raffigurante, al centro, la Vergine Maria con il Bambin Gesù: quest'ultimo sta benedicendo il vescovo Lambertini che, inginocchiato, è presentato da San Lorenzo al cospetto di altri santi, fra i quali Sant'Ambrogio che tiene nella destra un flagello. Ai lati della cassa, in due ricettacoli rettangolari aggettanti, sono invece raffigurati San Pietro e San Paolo a mezzo busto. Sopra il sepolcro è posta una struttura a piramide tronca che culmina con la statua del Christus patiens e simula un baldacchino dalle cortine aperte, dietro le quali è distesa la figura del vescovo in abiti pontificali e mani incrociate.

L'odierno presbiterio della cattedrale è il risultato di ben due ampliamenti: il primo consiste dalla grande volta a crociera affrescata che costituisce oggi il centro del transetto, mentre il secondo consiste nel coro che procede lungo l'asse centrale dell'edificio, concluso dall'abside di fondo. Il primo è opera della ricostruzione operata nella seconda metà del Duecento per volontà di Berardo Maggi, mentre il secondo fa parte del più esteso ampliamento di fine Quattrocento. Sul pavimento, invece, proprio come nella Platea di Santa Maria, sono visibili i resti delle pavimentazioni a mosaico della Basilica di Santa Maria Maggiore de Dom. In particolare, proprio in cima ai gradini che salgono al presbiterio, è visibile un mosaico databile al VI secolo che reca la scritta dedicatoria di un diacono di nome Siro il quale, a quanto pare, aveva offerto le decorazioni a mosaico della basilica. La scritta è poi circondata dai Dodici Agnelli, simbolo apostolico. Il mosaico è visibile a un livello più basso dell'odierna pavimento tramite l'utilizzo di un vetro. Nella zona, lungo il transetto, sono visibili altri mosaici dello stesso tipo, visibili allo stesso modo sotto il pavimento, sia appartenuti alla basilica, sia di epoca romana.

La grande volta a crociera che copriva il presbiterio duecentesco, come detto, è ancora completamente affrescata e le pitture, scoperte e restaurate solo nel 1957, si sono ottimamente conservate fino a noi. Nelle quattro vele, entro tondi, sono posti i simboli dei quattro Evangelisti, mentre nelle lunette di imposta sono raffigurati un Arcangelo e l'Albero della Vita. Il resto della volta è fittamente decorato da cornici, rosoni e motivi geometrici, così come i costoloni. Nella chiave di volta è raffigurato l'Agnus Dei. L'immagine della Vergine orante incensata dagli angeli è dipinta sulla lunetta che immette nella platea e, come il Cristo benedicente posto di fronte, presenta caratteri notevolmente bizantini. Frammenti di pitture dello stesso periodo, rappresentanti una Teoria di angeli entro clipei, si scorgono al di sotto della decorazione a racemi quattrocentesca dell'arcone d'ingresso al nuovo presbiterio.

Quest'ultimo, realizzato da Bernardino da Martinengo alla fine del Quattrocento, è composto da una campata quadrata coperta da volta a crociera che costituisce il coro, chiusa sul fondo da un'abside poligonale coperto da una volta a ombrello, il tutto molto sviluppato in altezza e attinente alle direttive dell'architettura gotica, sebbene si fosse già alle soglie del Cinquecento. Le pareti sono illuminate solamente da due alte bifore e le uniche decorazioni presenti sono quelle sui costoloni delle volte, a motivi vegetali. Le due chiavi di volta in marmo policromato sono opera di Gasparo Cairano e raffigurano Sant'Anatalone, primo vescovo di Brescia, e Santa Maria Assunta. Perdute, invece, sono le Storie della Vergine di Vincenzo Civerchio che ornavano le pareti. Al centro del presbiterio si trova il grande altare maggiore in marmo rosso di Verona, costruito forse al tempo di Berardo Maggi, pertanto alla fine del Duecento, ma consacrato solo nel 1342. Al di sopra, come ultimo sfondo di tutta la cattedrale, campeggia l'enorme Assunzione della Vergine, dipinta dal Moretto tra il 1524 e il 1526 e racchiusa entro un'elegante cornice in legno dorato, opera di arte rinascimentale. La tela, dalle raffinate cromie di gusto veneziano, è da considerarsi il vertice della produzione giovanile del pittore.

Sotto la grande pala è posto un busto marmoreo raffigurante Papa Alessandro VIII, che fu cardinale a Brescia dal 1664 al 1674, opera di Orazio Marinali del 1690. Ai lati della pala del Moretto sono poste due tele del Romanino provenienti dalla cappella del Santissimo Sacramento nella Basilica di San Pietro de Dom, che furono qui trasferite alla demolizione della chiesa. Le tele raffigurano la Caduta della manna nel deserto e l'Acqua che sgorga dalla roccia. La loro sistemazione in questo punto deve considerarsi provvisoria. Gli stalli del coro sono opera di più autori che vi hanno lavorato a varie riprese: iniziati da Antonio da Soresina nel 1524, sono stati da lui curati fino al 1529, dopodiché l'incarico è passato a Giovanni Maria Zampedris da Martinengo il quale, operando su disegno di Stefano Lamberti, li completa nel 1534.

Di grande importanza è lo storico organo conservato sulla parete destra del presbiterio, monumentale opera di Giangiacomo Antegnati del 1536. Nel 1826, l'organo viene rimontato e ampliato dalla ditta Serassi, fortunatamente mantenendo tutto il materiale fonico; l'ultimo restauro risale al 1959 per opera di Armando Maccarinelli. Il disegno di gusto rinascimentale e la realizzazione della cassa si devono al bolognese Battista Piantavigna. L'organo possedeva due ante dipinte dal Romanino con le Storie della Vergine, oggi conservate nel Duomo nuovo. La consolle e di tipo a finestra, con unica tastiera di 61 tasti e pedaliera retta di 22 pedali.

Il transetto fa parte dell'ampliamento cinquecentesco del Duomo vecchio, ma l'aspetto attuale è dato dai numerosi restauri praticati nei secoli successivi. Gli affreschi che lo ricoprono, in particolare, sono opera di Tommaso Sandrini e Francesco Giugno e risalgono agli inizi del Seicento. Sulla testata di fondo di questo lato del transetto si trova un altare di legno dorato dalle esuberati forme barocche, probabilmente realizzato alla fine del Seicento. In questa zona, oltretutto, la forte umidità proveniente dalle pareti ha rovinato molto gli affreschi, mettendo alla luce lacerti del sottostante strato decorativo cinquecentesco, purtroppo altrettanto degradato.

Sulla parete destra, di fronte alla cappella del Santissimo Sacramento, è collocato un grande dipinto eseguito nel 1656 dal vicentino Francesco Maffei, raffigurante la Traslazione dei corpi dei vescovi Dominatore, Paolo e Anastasio. L'evento avvenne nel 1581: San Carlo Borromeo, visitando la chiesa di Santo Stefano in Arce (oggi non più esistente), trovò le reliquie in cattivo stato di conservazione e ne ordinò la traslazione in più degna sede. Il dipinto, con grande sfarzo coloristico, raffigura la solenne processione del clero bresciano, presente anche San Carlo Borromeo in abito pontificale rosso, che accompagna il baldacchino contenente un sarcofago con le reliquie dei santi verso il Duomo vecchio, il tutto sovrastato da gruppi di angeli in gloria. Il dipinto, solitamente, è ricordato per il fatto di raffigurare il crollato campanile della cattedrale, visibile all'estrema destra. Poco più in là, seminascosta da un gruppo di angeli, è collocata anche la Basilica di San Pietro de Dom, della quale sono visibili un fianco e, vagamente, il rosone di facciata. Quella basilica, al tempo della realizzazione del dipinto, era già stata abbattuta da più di cinquant'anni (nel 1601), ancora prima della nascita di Francesco Maffei, avvenuta nel 1605 circa. All'epoca della realizzazione del dipinto, però, il cantiere della nuova cattedrale era ben lungi dall'essere completato e neppure si conosceva l'aspetto che avrebbe avuto il nuovo duomo, su cui ancora si discuteva; di conseguenza, non potendo lasciare il vuoto in quel tratto della piazza, Maffei vi dipinse una sommaria riproduzione di San Pietro de Dom, probabilmente ottenuta attraverso le descrizioni di qualche cittadino che era riuscito a vederla, oppure traendo spunto da altre riproduzioni. Non è un caso, quindi, che il profilo sia così vago, nascosto in gran parte dal gruppo di angeli che vi sta davanti: Francesco Maffei non conosceva nulla della basilica ormai demolita e si limitò a tratteggiarne il rosone e il tetto a doppio spiovente, unici tratti distintivi dell'edificio di cui poteva essere certo.

La costruzione della cappella del Santissimo Sacramento risale al 1572 e, come già detto, era inizialmente dedicata a Santa Giustina di Padova, poiché nel giorno a lei dedicato era stata vinta, pochi mesi prima, la Battaglia di Lepanto. Alla demolizione della Basilica di San Pietro de Dom, che avvenne circa trent'anni dopo, tutte le tele presenti nella cappella del Santissimo Sacramento di quella chiesa furono trasferite qui e il titolo della cappella fu cambiato. Le tele erano state commissionate verso la metà del Cinquecento al Romanino e al Moretto per decorarne le pareti. Attualmente, quelle del Moretto sono ancora presenti nella cappella, mentre le due del Romanino sono provvisoriamente poste nell'abside della cattedrale, ai lati della pala centrale. Un'ultima tela del Moretto, facente parte del medesimo ciclo, si trova sulla testata sinistra del transetto.

La struttura della cappella, a pianta quadrata con una piccola cupola di copertura, è dominata dall'altare maggiore in marmi pregiati e decorato da statue in pietra dei Carra, famiglia di importanti scultori rinascimentali del Cinquecento bresciano. Queste opere, in particolare, così come le balaustre poste all'ingresso della cappella, provengono dalla mano dei fratelli Giovanni e Carlo Carra e sono dei primi del Seicento. Serve da pala d'altare un Cristo flagellato, affresco del tardo Quattrocento attribuito a Paolo Caylina il Vecchio, staccato nel 1603 dal passaggio che, dal Duomo vecchio, portava a San Pietro de Dom. I dipinti alle pareti, opera del Moretto, fanno parte della maturità e attività estrema dell'autore e sono Elia confortato dall'angelo sulla parete sinistra, il Convitto dell'agnello pasquale sulla destra, l'Evangelista Marco e l'Evangelista Luca sulla parete di fondo. Ai lati della cancellata, invece, sono posti gli Evangelisti Matteo e Giovanni, opera della metà del Seicento di Francesco Barbieri da Legnago, detto "lo Sfrisato".

Tutta la zona del transetto sinistro, come detto, è stata aggiunta alla cattedrale alla fine del Quattrocento, ma l'assetto attuale della sua metà sinistra è quello conferito da Giovanni Maria Piantavigna nel 1571. Gli affreschi, invece, esattamente come il transetto destro ma molto meglio conservati, sono opera di Tommaso Sandrini e Francesco Giugno e risalgono agli inizi del Seicento. Sulla parete sinistra, davanti alla cappella delle Sante Croci, è posta la tomba monumentale del cardinale Francesco Morosini, vescovo di Brescia dal 1585 al 1596. Il sepolcro, dalle linee imponenti e di gusto tardo-manieristico, è opera di Antonio Carra e risale ai primi del Seicento. Sulla testata del transetto, invece, è addossata una lastra funeraria risalente all'inizio del Cinquecento di un non meglio noto Battista L., mentre in alto è appesa una tela raffigurante Melchisedech offre pane e vino al patriarca Abramo, opera estrema del Moretto con apporto dell'allievo Luca Mombello, già parte del ciclo di tele realizzato per la cappella del Santissimo Sacramento nella Basilica di San Pietro de Dom.

La cappella delle Sante Croci, costruita nel 1495 da Bernardino da Martinengo al posto della vecchia sacrestia della cattedrale, deve l'aspetto attuale ai lavori di ristrutturazione effettuati nel 1596: in quell'anno, il decoratore Andrea Colomba opera gli stucchi della cupola. Nel 1605 si decide di completare il lavoro commissionando a vari autori un ciclo di cinque tele da appendere alle pareti, delle quali solo due vengono realizzate. Quella a sinistra è l'Apparizione della Croce a Costantino, dipinta da Grazio Cossali nel 1606, mentre quella a destra raffigura la Donazione di Namo di Baviera, realizzata da Antonio Gandino nello stesso periodo. La balaustra e l'altare in marmi pregiati, decorati con putti in marmo botticino, sono opera dello scultore Carlo Carra. La cappella contiene il tesoro delle Sante Croci, custodito nel cassone in ferro dorato visibile sulla sommità dell'altare. Si tratta di quattro importanti pezzi, fra i quali spicca la Reliquia Insigne, cioè tre frammenti della Vera Croce. Il tesoro è amministrato e salvaguardato dalla storica compagnia dei Custodi delle Sante Croci, fondata ufficialmente nel 1520.

L'ambulacro sinistro della cattedrale, simmetricamente con il destro, ospita incastonato nella parete il monumento funebre di Domenico de Dominici, che resse la diocesi cittadina fra il 1464 e il 1478, anno della sua morte. Si tratta di uno splendido esempio di scultura rinascimentale quattrocentesca a Brescia, in un'epoca in cui l'arte gotica era ancora assolutamente radicata e utilizzata. Caratterizzata da una forte impronta classicista, l'opera è concepita in forme rigorose e sobrie, con due lesene laterali decorate con candelabre. Festoni e clipei arricchiscono il tutto: in questi ultimi, inoltre, sono effigiati busti di personaggi dell'antichità visti di profilo. Le due lesene sostengono un architrave e come coronamento è posto un timpano triangolare: all'interno del profondo vano centrale è quindi posta la cassa, sulla quale è scolpita la figura del vescovo giacente a mani incrociate. Una lunga iscrizione in latino ricorda e celebra la cultura umanistica, la dottrina e l'attività di politico e di diplomatico che portarono il de Dominici fino alla corte ungherese di Mattia Corvino.

Poco più in là si apre la cappella della Madonna, chiusa da una cancellata in ferro simile a quella dell'opposta altare dell'Angelo Custode. L'altare, in legno dorato molto elaborato, è collocabile tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento e ripropone elementi classici come le colonne di ordine corinzio scanalate e il doppio timpano arcuato e spezzato, senza risparmiare inserti e motivi tipici dell'arte barocca. Il centro dell'ancona, di linee rococò e databile quindi al Settecento, racchiude la preziosa tela della Madonna col Bambino o Madonna della tenerezza, opera di Pietro Marone, importante artista bresciano fra il Cinquecento e il Seicento.

In prossimità della scala che riconduce all'ingresso, addossata alla parete ma originariamente pavimentale, è collocata la lastra tombale di Aurelio Duranti, arcidiacono del Capitolo della Cattedrale morto nel 1541. La volta a crociera superiore, oltretutto, è l'unica fra tutte quelle che coprono il deambulatorio ad aver mantenuto il manto pittorico apposto nel Duecento, al pari della grande volta del vecchio presbiterio. In questo caso, però, l'affresco è più rovinato e i toni cromatici sono notevolmente più spenti.


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mercoledì 13 maggio 2015

IL MUSEO DEL DUOMO DI MONZA

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Frutto della perizia di generazioni di artisti e della generosità di devoti committenti, l’inestimabile patrimonio di reliquie e opere d'arte ospitato nel Museo e Tesoro del Duomo di Monza costituisce una raccolta unica al mondo non solo per la rarità e la preziosità dei materiali, ma perché permette di seguire con puntualità le vicende della Basilica di San Giovanni Battista dalla sua fondazione fino ai nostri giorni.

Un percorso lungo più di 1400 anni, durante i quali la storia della chiesa si è spesso intrecciata con quella delle grandi istituzioni politiche e religiose dell’Italia e dell’Europa, in una trama di relazioni di cui le collezioni sono una vivida e spesso spettacolare testimonianza.

A chiarire il legame tra gli oggetti esposti e la storia del duomo contribuiscono gli spazi, i percorsi e gli allestimenti museali, a partire dalla sezione Filippo Serpero, dedicata al Tesoro della scomparsa basilica alto medievale, per arrivare alla sezione Carlo Gaiani, appositamente progettata per esporre le opere che hanno arricchito il patrimonio della chiesa dalla sua ricostruzione nel 1300 fino ad oggi.

Museo e tesoro del duomo di Monza, già Museo capitolare del duomo Filippo Serpero, è stato ampliato e riaperto al pubblico nel 2007. Vi si accede dalla base del campanile del duomo.

Il museo conserva opere celeberrime dell'antichità tardo romana e dell'alto medioevo, a partire dalla dotazione di suppellettili liturgiche donata dalla regina dei Longobardi Teodolinda. Il tesoro è stato successivamente incrementato da Berengario I re d'Italia e dai Visconti.

Tra il 1797 e il 1815, a seguito delle campagne napoleoniche, il tesoro è stato forzosamente trasferito a Parigi nel Cabinet des Médailles della Bibliothèque nationale da cui ha fatto successivamente ritorno a Monza, pur se incompleto, dopo il Congresso di Vienna.

La nuova sede del museo, che amplia la precedente del 1965, è interamente sotterranea e presenta, oltre agli oggetti del Tesoro, una nutrita serie di opere d'arte mai esposte in precedenza, dal Trecento al Novecento. Questa parte è intitolata Museo Gaiani.

Il Museo e Tesoro del Duomo costituisce un’eccezionale raccolta di opere d’arte e testimonia di come la fede abbia saputo ispirare nel corso dei secoli tante generazioni di artisti ed artigiani, sostenuti da non meno importanti atti di sincero mecenatismo.

Il Tesoro ha reso Monza e la sua Basilica, famosa nei secoli. Purtroppo quello che resta oggi è solo parte di un patrimonio importantissimo, il cui primo inventario conosciuto risale all’anno 1275. Le perdite più ingenti si ebbero in epoca napoleonica, quando, per provvedere alle spese di guerra, nel 1796, la Basilica dovette consegnare due terzi dell’oro e metà dell’argento che possedeva, per essere fusi.

Nonostante le perdite, il Museo e Tesoro del Duomo conserva intatto il fascino che gli deriva dalla lunghissima tradizione ma anche dalle capacità di rinnovarsi ed arricchirsi, come avvenuto nel 2007, con l’inaugurazione della nuova ‘Sezione Gaiani’, che amplia notevolmente gli spazi del precedente nucleo ipogeo della ‘Sezione Serpero’, del 1963.

La sezione dedicata alla memoria di Filippo Serpero è dedicata soprattutto alla scomparsa basilica altomedioevale, mentre la sezione dedicata a Carlo Gaiani raccoglie soprattutto testimonianze a partire dal 1300, data d’inizio della ricostruzione dell’attuale basilica.

Per conferire alla Basilica di Monza il ruolo di fondazione regia e di importante centro di culto cattolico, Teodolinda e Agilulfo la dotarono di un prezioso corredo di reliquie e suppellettili, che sono in parte giunte fino a noi e che costituiscono non solo una delle più importanti testimonianze al mondo di oreficerie provenienti da una corte barbarica di fine VI e inizio VII secolo, ma anche un esempio significativo delle diverse spinte culturali che segnarono la produzione artistica in Italia nel passaggio tra l’età tardo antica e il Medioevo.

La serie inizia con due rarissimi gruppi di reliquiari: il primo costituito da sedici ampolle in lega di piombo e stagno, forgiate in Palestina tra VI e VII secolo, contenenti campioni degli olii delle lampade accese nei santuari della Terrasanta; il secondo da ventisei ampolle di vetro contenenti gocce di olio estratte intorno all’anno 600 dalle lampade che ardevano sulle tombe dei martiri nelle catacombe romane.

Segue la stanza del Tesoro, dove si trova il nucleo superstite delle suppellettili liturgiche donate alla basilica dalla coppia di sovrani longobardi: la Croce di Adaloaldo, un reliquiario della Vera Croce inviato, secondo la tradizione, da papa Gregorio Magno a Teodolinda nel 603 in occasione del battesimo del figlio; la Legatura dell’Evangeliario di Teodolinda, scandita da due grandi croci gemmate, da cornici in smalti alveolati, da cammei romani di riuso e da una scritta che ricorda la fondazione della basilica; la Croce di Agilulfo, rivestita su entrambe le facce da gemme e perle incastonate con perfetta simmetria; la Corona di Teodolinda, l’unica superstite delle corone votive longobarde un tempo presenti nel Tesoro; il gruppo in lamina d’argento dorato della Chioccia con sette pulcini, rinvenuto nel Medioevo nella tomba della Regina e realizzato forse in due tempi, tra il IV e il VII secolo, da orafi milanesi.

All’età romana risale invece la cosiddetta Tazza di Zaffiro, una coppa di vetro blu, rimontata nel XV secolo su un fusto in oro, identificata per tradizione con quella che Teodolinda avrebbe utilizzato per la cerimonia del fidanzamento con Agilulfo. Di datazione incerta (VII o IX secolo) sono infine l’astuccio d’argento dorato per il flabello e il pettine montato in argento e gemme, entrambi riferiti per tradizione al corredo personale della Regina.

All’inizio del X secolo, grazie alla munificenza di Berengario del Friuli, eletto re d’Italia nell’888 e imperatore nel 915, entrarono nel Tesoro altri splendidi manufatti, a partire da due importanti prodotti di oreficeria realizzati tra IX e l’inizio del X secolo: una croce-reliquiario in oro, pietre preziose e perle, detta Croce del Regno per il fatto di venire indossata dai sovrani durante le cerimonie di incoronazione; quindi il Reliquiario del dente di san Giovanni, con il fronte in oro ricoperto da un’esuberante decorazione di gemme, perle e filigrane disposte intorno ad una stella a otto raggi, e il dorso inciso con una scena di Crocifissione.

Tra i doni offerti da Berengario erano compresi anche alcuni codici liturgici, per le cui legature furono usati antichi dittici d’avorio, in modo da farne degli oggetti unici e preziosissimi, degni di un lascito imperiale. Il più noto è il Dittico di Stilicone, così chiamato dal nome del generale vandalo che, nominato tutore dell’imperatore Onorio ed eletto console nel 400, vi è raffigurato in compagnia della moglie Serena e del figlio Eucherio.

Del Tesoro fanno parte anche numerose stoffe antiche, che furono a lungo venerate come reliquie per il fatto di essere appartenute a santi, o per essere state “a contatto” con altre reliquie.

Tra di esse si segnalano due frammenti di tessuto egiziano del VI-VII secolo provenienti dalle vesti di papa Gregorio Magno e tre corporali, cioè piccole tovaglie d’altare, d’analoga epoca e provenienza. Seguono le cosiddette Sporte degli Apostoli, cinque piccole borse realizzate con foglie di palma intrecciate e ornate da fasce a disegni geometrici, riconducibili ad una tipica produzione palestinese documentata dall’età romana al X secolo.
Il percorso dedicato al rapporto tra il Duomo di Monza e i Visconti copre un arco temporale che va dal 1277, quando questa potente famiglia si impossessò di Milano, al 1447, anno della morte del duca Filippo Maria.

Il materiale esposto presenta in modo mirabile questo delicato snodo storico, chiarendo il legame dei Visconti con la Basilica di San Giovanni, nell’intento sia di affermare in modo stabile il loro potere su Monza, sia di sostenere la discendenza del loro casato dai Longobardi, onde ribadire la piena legittimità del potere conquistato.
Ad accogliere il visitatore è un ritratto di Giovanni Visconti, l'arcivescovo e signore di Milano che nel 1345 ottenne la restituzione del Tesoro del Duomo, trasferito nel 1324 presso la corte pontificia ad Avignone. A ricordare l’evento è la pergamena con l’inventario dei preziosi oggetti recuperati, esposta in una teca accanto a una copia della Corona Ferrea e alla Bibbia di Alcuino, un codice realizzato nel IX secolo nello scriptorium di Tour, scelto per alludere ai legami del sacro diadema con la cultura carolingia. Oltre la teca, due ante dell’organo della basilica, dipinte all’inizio del Cinquecento dalla bottega dei De Donati, presentano la scena della Restituzione del Tesoro, che alcuni inservienti dispongono sull’altare maggiore della chiesa, al cospetto di Giovanni Visconti e di san Giovanni Battista.

La parete di fronte è dedicata a Matteo da Campione, l'architetto e scultore che tra il 1360 circa e il 1396 progettò e realizzò la facciata del nuovo edificio, lo scomparso fonte battesimale e il pulpito che ancora troneggia nella navata centrale. A testimoniare questi interventi sono presentate diverse lastre con figure di santi, simboli religiosi e profani, e alcune testine che decoravano in origine la sommità dei gugliotti della facciata.

Non manca, anche qui, un richiamo a Teodolinda e alla devozione tributatale dalla popolazione di Monza, ricordata da una teca contenente i resti ritrovati nel 1941 nel sarcofago in cui le spoglie della Regina erano state traslate nel 1308 e, più avanti, da un grande affresco raffigurante la Messa di San Michele, dove appare, tra i personaggi effigiati, anche la sovrana longobarda. Accanto a questo dipinto sono collocati un frammento di affresco raffigurante la Crocifissione, attribuito a Michelino da Besozzo, lo stocco di Estorre Visconti, ritrovato con la sua mummia in una tomba nel chiostrino, e alcune oreficerie tardo gotiche e rinascimentali, tra le quali svetta un capolavoro come il Calice di Gian Galeazzo Visconti.

La seconda parte del percorso è dedicata al periodo della signoria sforzesca, che va dal 1450, anno dell’elezione di Francesco Sforza a duca di Milano, al 1535, quando, con l’estinguersi della sua discendenza diretta, lo stato passò sotto il controllo della monarchia spagnola.

Testimonianze di quest’epoca sono uno splendido polittico di gusto tardo-gotico realizzato attorno al 1450 e forse destinato alla Cappella di Teodolinda, e alcuni pannelli di gusto rinascimentale pertinenti a due pale d’altare per le cappelle laterali della basilica, dipinte nel 1478-80 dal milanese Stefano de’ Fedeli, autore anche dei cartoni preparatori per il rosone della facciata, messo in opera alla fine del Quattrocento e ora sistemato al centro del Museo, su una parete alta circa 12 metri, appositamente approntata per ospitarlo.

Ai primi decenni del Cinquecento risalgono invece due arazzi copri leggio di fattura lombarda, raffiguranti san Giovanni Battista, e altri tre rari arazzi fiamminghi “Millefleurs” sistemati nella sala inferiore. Coeve sono le statue lignee policrome pertinenti a una Crocifissione sistemate all’uscita della sala, accanto a un’altra anta dell’organo con la raffigurazione di San Giovanni al Limbo, che condivide con le statue un’attribuzione alla bottega dei De Donati.

Della seconda metà del secolo sono invece i magnifici arazzi dedicati alle Storie di san Giovanni Battista che venivano annualmente esposti in duomo nel giorno della festa del santo (24 giugno). Furono realizzati su cartone di Giuseppe Arcimboldi, autore con Giuseppe Meda dell’affresco con l’Albero di Jesse sulla testata del transetto meridionale (1556-1562 circa).

Numerose erano in età sforzesca le chiese che costellavano la città: alcune di antica origine, altre più recenti, sono oggi in buona parte distrutte, ma sono testimoniate in museo da dipinti e sculture, tra cui un bel polittico in terracotta del 1540-1460 circa proveniente dalla chiesa di San Pietro Martire.

La terza parte della sezione Gaiani riguarda i manufatti giunti in Duomo durante il lungo periodo delle dominazioni spagnola e austriaca sulla Lombardia, quando l’edificio assunse il suo aspetto definitivo.

Primo promotore delle nuove trasformazioni fu l’arcivescovo Carlo Borromeo (1563-84), che istituì il culto del Sacro Chiodo contenuto nella Corona Ferrea e ordinò al Capitolo di adeguare la fabbrica e la sua decorazione alle norme liturgiche stabilite dal Concilio di Trento. Avviati con gli affreschi delle testate del transetto (1556-80), gli interventi decorativi proseguirono tra il Sei e il Settecento nelle navate e nelle cappelle. Affidati ad alcuni tra i maggiori pittori lombardi dell’epoca e conclusi nel 1753, essi trasformarono il duomo in uno dei più fastosi monumenti della pittura barocca lombarda. Ne sono testimonianza i dipinti della quadreria esposti in museo, con opere, tra gli altri, di Moncalvo, Procaccini, Nuvolone e Sant’Agostino, cui si affiancano alcuni bozzetti relativi agli affreschi realizzati da Legnanino e Borroni.

Oltre alla decorazione pittorica e ad alcuni importanti interventi architettonici (nuovo presbiterio, torre campanaria, cripta, battistero), il rinnovamento della chiesa comportò anche quello dell’arredo liturgico. Nuovi manufatti confluirono perciò nel Tesoro, che tra il Sei e il Settecento si arricchì di uno splendido assortimento di reliquiari e suppellettili barocche, realizzate dai più rinomati orafi milanesi. Buona parte di questo materiale è inserito nel percorso museale grazie a un allestimento appositamente progettato per permetterne una fruizione ravvicinata e realmente immersiva.

Con la fine del XVIII secolo ebbe inizio un’altra fase della storia del duomo, illustrata nella quarta parte del percorso. Tra il 1792 e il 1798 Andrea Appiani provvide a realizzare il nuovo altare maggiore, testimoniato in Museo dai gessi delle sue magnifiche sculture modellati da Angelo Pizzi su disegno dello stesso Appiani.

Dal 1796, data d’inizio dell’occupazione napoleonica, per la basilica cominciarono però tempi duri. La metà degli oggetti d’argento e due terzi di quelli d’oro del Tesoro vennero infatti requisiti e destinati alla Zecca di Milano per essere trasformati in moneta, oppure inviati ai musei di Parigi, dove alcuni di essi furono rubati e distrutti nel 1804, mentre quelli superstiti furono restituiti nel 1816.

Alle razzie seguì però una nuova stagione di donazioni, durante la quale pervennero alla chiesa alcune raccolte di opere antiche, come gli intagli lignei provenienti dal Monte Athos donati nel 1809 dall’architetto Carlo Amati o gli antichi avori italiani e francesi ceduti nel 1825 dalla contessa Carolina Durini Trotti. Esposti alla fine del percorso, tali manufatti si affiancano a delle eleganti suppellettili liturgiche neoclassiche e a vari oggetti utilizzati nelle ultime incoronazioni, il cui fascino rimane immutato, a cominciare da quello che promana dai due pani votivi in argento realizzati per la messa dell’incoronazione di Napoleone nel 1805 e dal cofanetto in velluto e perle utilizzato per trasportare a Vienna la Corona Ferrea in occasione dell’incoronazione di Ferdinando d’Austria nel 1838.

Trasferito in Austria dopo l’unità d’Italia, il sacro diadema fu restituito al Duomo di Monza nel 1866 per interessamento di re Vittorio Emanuele II. Dopo averne decretato nel 1883 il carattere di reliquia nazionale e di insegna del regno, re Umberto I ordinò invece di sistemarla in un nuovo altare, che fu appositamente eretto nel 1895-96 da Luca Beltrami nella Cappella di Teodolinda, dove fu sistemato anche il sarcofago della regina. Nello stesso periodo, Beltrami provvide anche al restauro della basilica, che si concluse nel 1908 con il rifacimento del rivestimento lapideo della facciata e la ricostruzione delle guglie precedentemente abbattute, con le relative statue.
Tra di esse anche quella di Teodolinda, colta nell’atto di donare il Duomo, il cui gesso preparatorio è esposto nel percorso, a simboleggiare il perenne ruolo di protagonista che la regina longobarda ha avuto in questa straordinaria storia di arte, cultura e spiritualità.

Un breve ma intenso fuori programma è costituito dalle acquisizioni, commissioni e donazioni che negli ultimissimi anni hanno continuato ad arricchire il patrimonio della chiesa e che forniscono una vivida testimonianza dei caratteri dell’arte sacra contemporanea. Tra i pezzi esposti si segnalano due piccole sculture: una Crocifissione in ceramica policroma realizzata verso il 1953 da Lucio Fontana, padre dello Spazialismo, e un Cristo risorto fuso in bronzo nel 1974 da Luciano Minguzzi, autore della celebre Porta del bene e del male per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Ad esse si affiancano due grandi cartoni preparatori per le vetrate del presbiterio, con Sant’Ambrogio e San Carlo Borromeo, dipinti nel 1995 da Sandro Chia.


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