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lunedì 15 giugno 2015

IL MUSEO DIOCESANO A BRESCIA

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Istituito nel 1978 dal vescovo di Brescia monsignor Luigi Morstabilini, il Museo Diocesano è collocato all'interno del chiostro maggiore del complesso conventuale di San Giuseppe, un tempo sede dei Francescani Minori Osservanti. L'ampio convento, sorto all'inizio del Cinquecento, giungeva a compimento solo sul finire del secolo con la costruzione del chiostro maggiore nel quale trovava posto anche il monumentale refettorio. Tornato alla Diocesi di Brescia dopo le soppressioni ottocentesche, il chiostro è diventato sede del Museo Diocesano.
Le collezioni permanenti, poste al primo piano, sono divise in quattro sezioni dedicate alla pittura e alla scultura, ai codici miniati, all'oreficeria sacra e al tessuto liturgico. Al piano terreno il refettorio monumentale è utilizzato per congressi, conferenze e diverse esposizioni permanenti.

L’idea di costituire un Museo Diocesano a Brescia è relativamente recente.
Dell’iniziativa si faceva carico monsignor Angelo Pietrobelli nella seconda metà degli anni settanta del novecento; questi individuò nel complesso conventuale di San Giuseppe, un tempo sede dei Francescani Osservanti, la sede adeguata per accogliere il primo nucleo di opere provenienti per lo più da chiese non più officiate e quindi difficilmente fruibili. Nel 1978, il vescovo di Brescia Luigi Morstabilini istituiva canonicamente la “Fondazione di religione” denominata “Museo Diocesano di Arte Sacra”.
Il museo veniva inaugurato il 23 dicembre dello stesso anno e aveva sede nei primi due chiostri del complesso conventuale. Il 21 aprile 1988, il vescovo Bruno Foresti, sostituiva il precedente statuto con uno nuovo, in cui si stabiliva che, oltre al recupero e alla conservazione di opere d’arte e di materiali della Diocesi minacciati di rovina e di dispersione, sono finalità del museo anche il restauro, le iniziative culturali e le attività didattiche.
Nel frattempo giungeva al suo compimento l’acquisizione del chiostro maggiore del complesso di San Giuseppe, di proprietà demaniale, processo lungo e complesso che ha permesso, sul finire degli anni ottanta, di collocare le collezioni del Museo Diocesano in una sede più idonea e prestigiosa.
Nel 2007 il vescovo Giulio Sanguineti dotava il Museo Diocesano di un nuovo statuto, avviando contemporaneamente l'iter per il riconoscimento civile della fondazione Canonica.
Il 3 febbraio 2010 il Ministero dell'Interno ha riconosciuto il Museo Diocesano come Fondazione di Religione e di Culto.

Il Museo Diocesano ha avuto, fin dal suo nascere, il compito di garantire la tutela e la custodia in primo luogo delle opere d’arte sacra la cui conservazione era resa precaria dalla collocazione in edifici ecclesiastici chiusi al culto, fatiscenti o insicuri.
Nella sezione dedicata alla pittura e alla scultura sono esposte opere di artisti di area bresciana e veneta. Capolavoro del Trecento veneto è la Madonna col Bambino di Paolo Veneziano; alla metà del secolo successivo risale il Polittico di Sant’Orsola di Antonio Vivarini.
Il Cinquecento locale è ben rappresentato da opere dei maggiori pittori bresciani: Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Girolamo Romanino e Pietro Maria Bagnatore. Di Jacopo Tintoretto è il bozzetto della Trasfigurazione per la chiesa di Sant’Afra a Brescia; alla bottega di Tiziano è dato un Volto di Cristo dipinto su pietra.
Il Seicento e il Settecento locale trovano nelle opere di Giuseppe Tortelli, Gian Antonio Capello, Pietro Avogadro e Francesco Savanni i loro maggiori esponenti. La linea veneta è presente con Andrea Celesti (Madonna col Bambino e i santi Anna, Giacomo Maggiore e Benedetto), Francesco Capella detto il Daggiù (Rebecca al pozzo), Gian Battista Pittoni (Madonna col Bambino e i santi Leonardo e Francesco da Paola) e Giambattista Tiepolo (Battesimo di Costantino).

Nella sezione dedicata ai codici miniati è possibile ammirare una raccolta di volumi manoscritti, realizzati a partire dal XII secolo; di particolare importanza il piccolo libro della Regola della Confraternita dei santi Faustino e Giovita di Collio, le cui prime due carte sono completamente miniate dal bresciano Floriano Ferramola.
La sezione ospita ventidue codici che vanno dal XII secolo alla metà del XVI provenienti quasi esclusivamente dalla biblioteca capitolare della Cattedrale di Brescia. I manoscritti più antichi furono realizzati per il vescovo di Brescia Giacomo degli Atti (1335-1344) e raccolgono per lo più opere di san Tommaso d’Aquino, impreziosite da miniature di scuola francese e bolognese. Di grande importanza è anche il manoscritto di Bonizone da Sutri, De vita christiana della seconda metà del XII secolo e il cosiddetto ‘Capitolare 13’, un manoscritto musicale del XII secolo che contiene la prima officiatura completa della festa dei santi Faustino e Giovita, patroni di Brescia. Al XV secolo appartengono libri liturgici (messali e breviari) e musicali (antifonari e graduali) ornati con grandi capolettera miniati decorati con motivi vegetali e floreali. All’inizio del XVI secolo risale la cosiddetta ‘Mariegola di Collio’, libretto della Confraternita dei Santi Faustino e Giovita della parrocchia di Collio in Valtrompia le cui prime due carte sono interamente miniate dal pittore bresciano Floriano Ferramola.
La sezione dedicata all’oreficeria sacra annovera manufatti a partire dalla seconda metà del XV secolo. Tra le opere di maggior rilievo si annoverano il Reliquiario Gambara, opera di argentiere romano della metà del XVI secolo, in ebano e argento, e il Calice di Pontevico, in oro, argento e pietre preziose, realizzato dall’orefice milanese Carlo Grossi.

La sezione dedicata all’oreficeria passa in rassegna in ordine cronologico e tipologico, un nutrito gruppo di suppellettili d’uso liturgico che coprono un arco temporale che va dalla seconda metà del XV secolo a tutto l’Ottocento.
Di notevole interesse è il calice di manifattura italiana della seconda metà del Quattrocento, decorato con smalti e il Reliquiario del dito di san Gaudioso dove le forme ancora tardogotiche cedono il passo alle nuove forme classiciste del primo Rinascimento, ben esemplificate nel Reliquiario di San Crispino. Pregiata è anche la croce da tavolo in metallo dorato e pietre dure proveniente dalla chiesa di Sant’Eufemia in Brescia di pieno Rinascimento e la Croce astile d’inizio Cinquecento con figure a getto applicate alla sommità dei bracci e clipei decorati con raffigurazioni ad incisione.
Pezzi di eccezione sono, infine, il Reliquiario Gambara, opera di argentiere romano della metà del XVI secolo, realizzato in ebano e argento e il calice detto ‘di Pontevico’ in oro, argento e pietre preziose, capolavoro dell’orefice milanese Carlo Grossi (1714).

Nella sezione dedicata al tessuto sono esposti un centinaio di paramenti preziosi (solo parte di quelli conservati nei depositi del Museo) che coprono un arco temporale che va dalla fine del XV secolo all’inizio del XIX. La sezione, una delle più ampie in Italia dedicata al tessuto liturgico, predilige le tessiture (per lo più veneziane e francesi) anche se una parte è dedicata all’arte del ricamo. Il percorso segue un ordinamento cronologico e presenta le diverse tipologie decorative che evidenziano lo stretto rapporto tra le ornamentazioni utilizzate per l’abbigliamento civile e quelle impiegate nelle manifatture d’uso liturgico. Di intonazione più prettamente liturgica e simbolica sono le decorazioni realizzate a ricamo, spesso in sete policrome e fili d’oro, che, insieme a elementi floreali combinano talvolta simboli religiosi.




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sabato 6 giugno 2015

IL MUSEO DIOCESANO DI ARTE SACRA A LODI

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Il museo diocesano è collocato in un'ala del Palazzo Vescovile, edificio di pregio storico artistico, di origine medievale, ricostruito nel XVIII secolo, per volere del Vescovo Mezzabarba, su progetto dell'architetto Veneroni. E' stato istituito dal Vescovo Monsignor Oggioni con decreto vescovile del 15 ottobre 1975 e inaugurato il 19 gennaio 1980 dal suo successore, Monsignor Magnani. Conserva preziosi oggetti liturgici, dipinti ed affreschi, tessuti, sculture, provenienti dalla Cattedrale e dal Vescovado ma anche da varie parrocchie del territorio lodigiano, testimonianza dell'Arte e della Fede cristiana. Tra questi, il museo diocesano vanta preziose opere di arte tessile e orafa rinascimentale facenti un tempo parte del tesoro della Cattedrale, detto "di S.Bassiano".

Al museo diocesano si accede salendo uno scalone al termine della navata laterale destra della Cattedrale. Si osservi, lo scalone scenografico e monumentale che conduce negli ambienti museali e che mette in comunicazione diretta la Cattedrale con la residenza vescovile. Alle pareti si possono osservare alcuni dipinti del XVII secolo, tra cui un'Annunciazione di Camillo Procaccini e due interessanti opere, ex ante di organo, di Ercole Procaccini il Giovane.

Nella ex cappella privata del Vescovo, ora adibita a spazio museale, si può ammirare la decorazione pittorica delle volte con motivi floreali e vegetali, stucchi dorati, e finte architetture, di gusto rococò. Tutt'intorno, in vetrine, sono collocati oggetti liturgici, in legno e metallo (tabernacoli, croci astili processionali, legature di messale, carteglorie, ferule, ecc.), che vanno dal XVI al XIX secolo, oltre ad abiti e paramenti liturgici del XVIII e XIX secolo. Inoltre, troviamo vari paliotti in tessuto, con splendidi ricami, dei secc. XVIII, XIX e XX.

Si prosegue poi nella sala I, dove sono esposti alcuni frammenti di epoca romana, un frammento di colonna miliare del IV sec. d.C. e un frammento di lapide commemorativa del I sec. d.C., rinvenuti nelle strutture della Cattedrale il secolo scorso. Interessante è anche un meccanismo di orologio del XVIII secolo e un frammento del pavimento del XII secolo della Cattedrale, realizzato in "cocciopesto".

Nella sala II vi sono testimonianze di scultura lignea della fine del XV secolo (un "Cristo deposto" di anonimo e il polittico dei fratelli Lupi), oltre a dipinti di Alberto Piazza, realizzati per la Cattedrale (parte del "polittico dell'Assunta", di cui sono esposti i due pannelli laterali del registro inferiore con "S.Sebastiano" e "S.Bassiano"), e affreschi attribuiti a Callisto Piazza.

Nella sala III, alle pareti, dipinti di anonimi artisti del XVII e XVIII secolo e, degne di nota, otto miniature provenienti dall'abbazia olivetana di Villanova del Sillaro, attribuite a Francesco Binasco, miniatore attivo alla corte sforzesca a Milano, tra la fine del XV e la prima metà del secolo successivo.

Entrando nella sala IV poi, si possono ammirare i capolavori del museo, della fine del XV secolo: il prezioso tabernacolo o ostensorio Pallavicino, in argento, coralli e smalti, la mantovana Pallavicino con perline bianche di fiume, smalti policromi su lamina d'argento e, guardando col naso all'insù, il baldacchino Pallavicino con ricami con sete, fili d'oro e d'argento e perline bianche di fiume, secondo una moda diffusa nella corte sforzesca, di cui restano però rare testimonianze. Queste preziose opere facevano parte del tesoro della Cattedrale o "di San Bassiano".

Si prosegue nell'atrio, dove troviamo sulle pareti, dipinti tra cui degni di nota sono una "Visitazione", attribuita a Carlo Donelli detto il Vimercati ed un paliotto dipinto con la "Deposizione di Cristo" del XVII secolo.

Dall'atrio si accede ad altre sale, che conservano dipinti e sculture contemporanee realizzate nel XX secolo da artisti lodigiani e non, aventi tutte soggetti sacri, e donate al museo diocesano in seguito a mostre o donazioni degli stessi artisti, e alla sala dedicata al Mons. Quartieri, che è stato il primo Direttore del Museo.





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mercoledì 13 maggio 2015

IL MUSEO DEL DUOMO DI MONZA

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Frutto della perizia di generazioni di artisti e della generosità di devoti committenti, l’inestimabile patrimonio di reliquie e opere d'arte ospitato nel Museo e Tesoro del Duomo di Monza costituisce una raccolta unica al mondo non solo per la rarità e la preziosità dei materiali, ma perché permette di seguire con puntualità le vicende della Basilica di San Giovanni Battista dalla sua fondazione fino ai nostri giorni.

Un percorso lungo più di 1400 anni, durante i quali la storia della chiesa si è spesso intrecciata con quella delle grandi istituzioni politiche e religiose dell’Italia e dell’Europa, in una trama di relazioni di cui le collezioni sono una vivida e spesso spettacolare testimonianza.

A chiarire il legame tra gli oggetti esposti e la storia del duomo contribuiscono gli spazi, i percorsi e gli allestimenti museali, a partire dalla sezione Filippo Serpero, dedicata al Tesoro della scomparsa basilica alto medievale, per arrivare alla sezione Carlo Gaiani, appositamente progettata per esporre le opere che hanno arricchito il patrimonio della chiesa dalla sua ricostruzione nel 1300 fino ad oggi.

Museo e tesoro del duomo di Monza, già Museo capitolare del duomo Filippo Serpero, è stato ampliato e riaperto al pubblico nel 2007. Vi si accede dalla base del campanile del duomo.

Il museo conserva opere celeberrime dell'antichità tardo romana e dell'alto medioevo, a partire dalla dotazione di suppellettili liturgiche donata dalla regina dei Longobardi Teodolinda. Il tesoro è stato successivamente incrementato da Berengario I re d'Italia e dai Visconti.

Tra il 1797 e il 1815, a seguito delle campagne napoleoniche, il tesoro è stato forzosamente trasferito a Parigi nel Cabinet des Médailles della Bibliothèque nationale da cui ha fatto successivamente ritorno a Monza, pur se incompleto, dopo il Congresso di Vienna.

La nuova sede del museo, che amplia la precedente del 1965, è interamente sotterranea e presenta, oltre agli oggetti del Tesoro, una nutrita serie di opere d'arte mai esposte in precedenza, dal Trecento al Novecento. Questa parte è intitolata Museo Gaiani.

Il Museo e Tesoro del Duomo costituisce un’eccezionale raccolta di opere d’arte e testimonia di come la fede abbia saputo ispirare nel corso dei secoli tante generazioni di artisti ed artigiani, sostenuti da non meno importanti atti di sincero mecenatismo.

Il Tesoro ha reso Monza e la sua Basilica, famosa nei secoli. Purtroppo quello che resta oggi è solo parte di un patrimonio importantissimo, il cui primo inventario conosciuto risale all’anno 1275. Le perdite più ingenti si ebbero in epoca napoleonica, quando, per provvedere alle spese di guerra, nel 1796, la Basilica dovette consegnare due terzi dell’oro e metà dell’argento che possedeva, per essere fusi.

Nonostante le perdite, il Museo e Tesoro del Duomo conserva intatto il fascino che gli deriva dalla lunghissima tradizione ma anche dalle capacità di rinnovarsi ed arricchirsi, come avvenuto nel 2007, con l’inaugurazione della nuova ‘Sezione Gaiani’, che amplia notevolmente gli spazi del precedente nucleo ipogeo della ‘Sezione Serpero’, del 1963.

La sezione dedicata alla memoria di Filippo Serpero è dedicata soprattutto alla scomparsa basilica altomedioevale, mentre la sezione dedicata a Carlo Gaiani raccoglie soprattutto testimonianze a partire dal 1300, data d’inizio della ricostruzione dell’attuale basilica.

Per conferire alla Basilica di Monza il ruolo di fondazione regia e di importante centro di culto cattolico, Teodolinda e Agilulfo la dotarono di un prezioso corredo di reliquie e suppellettili, che sono in parte giunte fino a noi e che costituiscono non solo una delle più importanti testimonianze al mondo di oreficerie provenienti da una corte barbarica di fine VI e inizio VII secolo, ma anche un esempio significativo delle diverse spinte culturali che segnarono la produzione artistica in Italia nel passaggio tra l’età tardo antica e il Medioevo.

La serie inizia con due rarissimi gruppi di reliquiari: il primo costituito da sedici ampolle in lega di piombo e stagno, forgiate in Palestina tra VI e VII secolo, contenenti campioni degli olii delle lampade accese nei santuari della Terrasanta; il secondo da ventisei ampolle di vetro contenenti gocce di olio estratte intorno all’anno 600 dalle lampade che ardevano sulle tombe dei martiri nelle catacombe romane.

Segue la stanza del Tesoro, dove si trova il nucleo superstite delle suppellettili liturgiche donate alla basilica dalla coppia di sovrani longobardi: la Croce di Adaloaldo, un reliquiario della Vera Croce inviato, secondo la tradizione, da papa Gregorio Magno a Teodolinda nel 603 in occasione del battesimo del figlio; la Legatura dell’Evangeliario di Teodolinda, scandita da due grandi croci gemmate, da cornici in smalti alveolati, da cammei romani di riuso e da una scritta che ricorda la fondazione della basilica; la Croce di Agilulfo, rivestita su entrambe le facce da gemme e perle incastonate con perfetta simmetria; la Corona di Teodolinda, l’unica superstite delle corone votive longobarde un tempo presenti nel Tesoro; il gruppo in lamina d’argento dorato della Chioccia con sette pulcini, rinvenuto nel Medioevo nella tomba della Regina e realizzato forse in due tempi, tra il IV e il VII secolo, da orafi milanesi.

All’età romana risale invece la cosiddetta Tazza di Zaffiro, una coppa di vetro blu, rimontata nel XV secolo su un fusto in oro, identificata per tradizione con quella che Teodolinda avrebbe utilizzato per la cerimonia del fidanzamento con Agilulfo. Di datazione incerta (VII o IX secolo) sono infine l’astuccio d’argento dorato per il flabello e il pettine montato in argento e gemme, entrambi riferiti per tradizione al corredo personale della Regina.

All’inizio del X secolo, grazie alla munificenza di Berengario del Friuli, eletto re d’Italia nell’888 e imperatore nel 915, entrarono nel Tesoro altri splendidi manufatti, a partire da due importanti prodotti di oreficeria realizzati tra IX e l’inizio del X secolo: una croce-reliquiario in oro, pietre preziose e perle, detta Croce del Regno per il fatto di venire indossata dai sovrani durante le cerimonie di incoronazione; quindi il Reliquiario del dente di san Giovanni, con il fronte in oro ricoperto da un’esuberante decorazione di gemme, perle e filigrane disposte intorno ad una stella a otto raggi, e il dorso inciso con una scena di Crocifissione.

Tra i doni offerti da Berengario erano compresi anche alcuni codici liturgici, per le cui legature furono usati antichi dittici d’avorio, in modo da farne degli oggetti unici e preziosissimi, degni di un lascito imperiale. Il più noto è il Dittico di Stilicone, così chiamato dal nome del generale vandalo che, nominato tutore dell’imperatore Onorio ed eletto console nel 400, vi è raffigurato in compagnia della moglie Serena e del figlio Eucherio.

Del Tesoro fanno parte anche numerose stoffe antiche, che furono a lungo venerate come reliquie per il fatto di essere appartenute a santi, o per essere state “a contatto” con altre reliquie.

Tra di esse si segnalano due frammenti di tessuto egiziano del VI-VII secolo provenienti dalle vesti di papa Gregorio Magno e tre corporali, cioè piccole tovaglie d’altare, d’analoga epoca e provenienza. Seguono le cosiddette Sporte degli Apostoli, cinque piccole borse realizzate con foglie di palma intrecciate e ornate da fasce a disegni geometrici, riconducibili ad una tipica produzione palestinese documentata dall’età romana al X secolo.
Il percorso dedicato al rapporto tra il Duomo di Monza e i Visconti copre un arco temporale che va dal 1277, quando questa potente famiglia si impossessò di Milano, al 1447, anno della morte del duca Filippo Maria.

Il materiale esposto presenta in modo mirabile questo delicato snodo storico, chiarendo il legame dei Visconti con la Basilica di San Giovanni, nell’intento sia di affermare in modo stabile il loro potere su Monza, sia di sostenere la discendenza del loro casato dai Longobardi, onde ribadire la piena legittimità del potere conquistato.
Ad accogliere il visitatore è un ritratto di Giovanni Visconti, l'arcivescovo e signore di Milano che nel 1345 ottenne la restituzione del Tesoro del Duomo, trasferito nel 1324 presso la corte pontificia ad Avignone. A ricordare l’evento è la pergamena con l’inventario dei preziosi oggetti recuperati, esposta in una teca accanto a una copia della Corona Ferrea e alla Bibbia di Alcuino, un codice realizzato nel IX secolo nello scriptorium di Tour, scelto per alludere ai legami del sacro diadema con la cultura carolingia. Oltre la teca, due ante dell’organo della basilica, dipinte all’inizio del Cinquecento dalla bottega dei De Donati, presentano la scena della Restituzione del Tesoro, che alcuni inservienti dispongono sull’altare maggiore della chiesa, al cospetto di Giovanni Visconti e di san Giovanni Battista.

La parete di fronte è dedicata a Matteo da Campione, l'architetto e scultore che tra il 1360 circa e il 1396 progettò e realizzò la facciata del nuovo edificio, lo scomparso fonte battesimale e il pulpito che ancora troneggia nella navata centrale. A testimoniare questi interventi sono presentate diverse lastre con figure di santi, simboli religiosi e profani, e alcune testine che decoravano in origine la sommità dei gugliotti della facciata.

Non manca, anche qui, un richiamo a Teodolinda e alla devozione tributatale dalla popolazione di Monza, ricordata da una teca contenente i resti ritrovati nel 1941 nel sarcofago in cui le spoglie della Regina erano state traslate nel 1308 e, più avanti, da un grande affresco raffigurante la Messa di San Michele, dove appare, tra i personaggi effigiati, anche la sovrana longobarda. Accanto a questo dipinto sono collocati un frammento di affresco raffigurante la Crocifissione, attribuito a Michelino da Besozzo, lo stocco di Estorre Visconti, ritrovato con la sua mummia in una tomba nel chiostrino, e alcune oreficerie tardo gotiche e rinascimentali, tra le quali svetta un capolavoro come il Calice di Gian Galeazzo Visconti.

La seconda parte del percorso è dedicata al periodo della signoria sforzesca, che va dal 1450, anno dell’elezione di Francesco Sforza a duca di Milano, al 1535, quando, con l’estinguersi della sua discendenza diretta, lo stato passò sotto il controllo della monarchia spagnola.

Testimonianze di quest’epoca sono uno splendido polittico di gusto tardo-gotico realizzato attorno al 1450 e forse destinato alla Cappella di Teodolinda, e alcuni pannelli di gusto rinascimentale pertinenti a due pale d’altare per le cappelle laterali della basilica, dipinte nel 1478-80 dal milanese Stefano de’ Fedeli, autore anche dei cartoni preparatori per il rosone della facciata, messo in opera alla fine del Quattrocento e ora sistemato al centro del Museo, su una parete alta circa 12 metri, appositamente approntata per ospitarlo.

Ai primi decenni del Cinquecento risalgono invece due arazzi copri leggio di fattura lombarda, raffiguranti san Giovanni Battista, e altri tre rari arazzi fiamminghi “Millefleurs” sistemati nella sala inferiore. Coeve sono le statue lignee policrome pertinenti a una Crocifissione sistemate all’uscita della sala, accanto a un’altra anta dell’organo con la raffigurazione di San Giovanni al Limbo, che condivide con le statue un’attribuzione alla bottega dei De Donati.

Della seconda metà del secolo sono invece i magnifici arazzi dedicati alle Storie di san Giovanni Battista che venivano annualmente esposti in duomo nel giorno della festa del santo (24 giugno). Furono realizzati su cartone di Giuseppe Arcimboldi, autore con Giuseppe Meda dell’affresco con l’Albero di Jesse sulla testata del transetto meridionale (1556-1562 circa).

Numerose erano in età sforzesca le chiese che costellavano la città: alcune di antica origine, altre più recenti, sono oggi in buona parte distrutte, ma sono testimoniate in museo da dipinti e sculture, tra cui un bel polittico in terracotta del 1540-1460 circa proveniente dalla chiesa di San Pietro Martire.

La terza parte della sezione Gaiani riguarda i manufatti giunti in Duomo durante il lungo periodo delle dominazioni spagnola e austriaca sulla Lombardia, quando l’edificio assunse il suo aspetto definitivo.

Primo promotore delle nuove trasformazioni fu l’arcivescovo Carlo Borromeo (1563-84), che istituì il culto del Sacro Chiodo contenuto nella Corona Ferrea e ordinò al Capitolo di adeguare la fabbrica e la sua decorazione alle norme liturgiche stabilite dal Concilio di Trento. Avviati con gli affreschi delle testate del transetto (1556-80), gli interventi decorativi proseguirono tra il Sei e il Settecento nelle navate e nelle cappelle. Affidati ad alcuni tra i maggiori pittori lombardi dell’epoca e conclusi nel 1753, essi trasformarono il duomo in uno dei più fastosi monumenti della pittura barocca lombarda. Ne sono testimonianza i dipinti della quadreria esposti in museo, con opere, tra gli altri, di Moncalvo, Procaccini, Nuvolone e Sant’Agostino, cui si affiancano alcuni bozzetti relativi agli affreschi realizzati da Legnanino e Borroni.

Oltre alla decorazione pittorica e ad alcuni importanti interventi architettonici (nuovo presbiterio, torre campanaria, cripta, battistero), il rinnovamento della chiesa comportò anche quello dell’arredo liturgico. Nuovi manufatti confluirono perciò nel Tesoro, che tra il Sei e il Settecento si arricchì di uno splendido assortimento di reliquiari e suppellettili barocche, realizzate dai più rinomati orafi milanesi. Buona parte di questo materiale è inserito nel percorso museale grazie a un allestimento appositamente progettato per permetterne una fruizione ravvicinata e realmente immersiva.

Con la fine del XVIII secolo ebbe inizio un’altra fase della storia del duomo, illustrata nella quarta parte del percorso. Tra il 1792 e il 1798 Andrea Appiani provvide a realizzare il nuovo altare maggiore, testimoniato in Museo dai gessi delle sue magnifiche sculture modellati da Angelo Pizzi su disegno dello stesso Appiani.

Dal 1796, data d’inizio dell’occupazione napoleonica, per la basilica cominciarono però tempi duri. La metà degli oggetti d’argento e due terzi di quelli d’oro del Tesoro vennero infatti requisiti e destinati alla Zecca di Milano per essere trasformati in moneta, oppure inviati ai musei di Parigi, dove alcuni di essi furono rubati e distrutti nel 1804, mentre quelli superstiti furono restituiti nel 1816.

Alle razzie seguì però una nuova stagione di donazioni, durante la quale pervennero alla chiesa alcune raccolte di opere antiche, come gli intagli lignei provenienti dal Monte Athos donati nel 1809 dall’architetto Carlo Amati o gli antichi avori italiani e francesi ceduti nel 1825 dalla contessa Carolina Durini Trotti. Esposti alla fine del percorso, tali manufatti si affiancano a delle eleganti suppellettili liturgiche neoclassiche e a vari oggetti utilizzati nelle ultime incoronazioni, il cui fascino rimane immutato, a cominciare da quello che promana dai due pani votivi in argento realizzati per la messa dell’incoronazione di Napoleone nel 1805 e dal cofanetto in velluto e perle utilizzato per trasportare a Vienna la Corona Ferrea in occasione dell’incoronazione di Ferdinando d’Austria nel 1838.

Trasferito in Austria dopo l’unità d’Italia, il sacro diadema fu restituito al Duomo di Monza nel 1866 per interessamento di re Vittorio Emanuele II. Dopo averne decretato nel 1883 il carattere di reliquia nazionale e di insegna del regno, re Umberto I ordinò invece di sistemarla in un nuovo altare, che fu appositamente eretto nel 1895-96 da Luca Beltrami nella Cappella di Teodolinda, dove fu sistemato anche il sarcofago della regina. Nello stesso periodo, Beltrami provvide anche al restauro della basilica, che si concluse nel 1908 con il rifacimento del rivestimento lapideo della facciata e la ricostruzione delle guglie precedentemente abbattute, con le relative statue.
Tra di esse anche quella di Teodolinda, colta nell’atto di donare il Duomo, il cui gesso preparatorio è esposto nel percorso, a simboleggiare il perenne ruolo di protagonista che la regina longobarda ha avuto in questa straordinaria storia di arte, cultura e spiritualità.

Un breve ma intenso fuori programma è costituito dalle acquisizioni, commissioni e donazioni che negli ultimissimi anni hanno continuato ad arricchire il patrimonio della chiesa e che forniscono una vivida testimonianza dei caratteri dell’arte sacra contemporanea. Tra i pezzi esposti si segnalano due piccole sculture: una Crocifissione in ceramica policroma realizzata verso il 1953 da Lucio Fontana, padre dello Spazialismo, e un Cristo risorto fuso in bronzo nel 1974 da Luciano Minguzzi, autore della celebre Porta del bene e del male per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Ad esse si affiancano due grandi cartoni preparatori per le vetrate del presbiterio, con Sant’Ambrogio e San Carlo Borromeo, dipinti nel 1995 da Sandro Chia.


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mercoledì 15 aprile 2015

PERSONE DI PORTO VALTRAVAGLIA : ARTURO GALLI

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Arturo Galli è stato un pittore (1895-1963).

 «I dimenticati pittori del sacro». Così un acuto storico dell’arte come Giorgio Mascherpa già trent’anni fa aveva definito quel folto e variegato gruppo di artisti italiani che nella prima metà del ventesimo secolo si era dedicato prevalentemente a tematiche religiose, dentro e fuori le chiese del nostro Paese, e che anche solo per questo, al di là dei meriti personali, per modestia propria o per snobbismo altrui, era stato confinato in una sorta di impenetrabile cono d’ombra. Dimenticati, sì. Emarginati, perfino, dal gran mondo dell’arte, come artigiani di seconda classe, come decoratori di basso livello...
Oltre cinquanta sacri edifici in tutta la diocesi portano il segno dell’arte del Galli, dal cuore di Milano al varesotto, dal lecchese alla cintura metropolitana: chi interi e vasti cicli di affreschi, chi vetrate multicolori, chi ancora pale d’altare o semplici quadri con figure di santi, quasi una sorta di moderni ex voto. Eppure pochi, probabilmente, ricordano il nome del loro autore, e ancor meno ne conoscono la figura e il suo intenso operato.
Arturo Galli era nato a Milano, nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo. I primi rudimenti della pittura li ebbe in famiglia, per poi frequentare l’allora prestigiosa Scuola d’arte del Castello Sforzesco e i corsi dell’Accademia di Brera. Un talento naturale per il disegno dal vero, per il ritratto, per la figura. Tanto da conseguire rapidamente l’abilitazione all’insegnamento. E tentare, a neppure vent’anni, la dura competizione dei concorsi e dei premi. Ma le sue opere, pur assai lodate, non ottennero i riconoscimenti sperati, provocando forse in lui quella delusione e quell’amarezza che lo portarono ben presto ad abbandonare il pubblico dei saloni e delle mostre, per concentrarsi su una pittura più intima e meditata.
Di carattere schivo e riservato, animato da una fede sincera, Galli dovette intuire allora quale fosse la sua vera strada al servizio dell’arte sacra, stimolato e confortato anche dal sostegno di alcune significative personalità religiose come, ad esempio, monsignor Buttafava, all’epoca canonico del Duomo di Milano.
La prima commissione di rilievo l’ebbe nel 1926, per la parrocchiale di Paderno Dugnano, oggi purtroppo distrutta. Con quel grandioso lavoro, Arturo Galli dimostrò una tale padronanza dell’antica tecnica dell’affresco e una tale abilità interpretativa e compositiva da assicurarsi l’ammirazione di molti in campo ecclesiastico, e non solo, tanto da iniziare, dopo di allora, un’attività pluridecennale a dir poco frenetica, con richieste da ogni parte in terra di Lombardia.
Proprio le continue richieste, del resto, che a volte andarono accavallandosi in diversi cantieri aperti contemporaneamente, possono spiegare talora una pittura un po’ manierata e ripetitiva. Pittura, tuttavia, che là dove è riuscita a dare il meglio di sé si dimostra ariosa e solenne, michelangiolesca nell’ispirazione e neorinascimentale nell’impostazione, quasi nella ripresa di quelle stesse indicazioni accademiche suggerite agli inizi del Seicento dal cardinale Federico Borromeo per un’arte veramente pia. E che gli valsero il plauso dello stesso cardinal Schuster.
Che poi quella di Arturo Galli fosse una scelta ragionata e non una carenza di aggiornamento culturale, lo rivelano i molti bozzetti e schizzi del maestro giunti fino a noi, dove il segno vivace e il tocco brioso dimostrano la consapevolezza di appartenere al proprio tempo e la conoscenza della modernità. Che Galli non volle ripudiare, ma in qualche modo trasfigurare nelle sue opere in una ricerca di eternità.
A Palazzolo affrescò (anni ’40) la prepositurale di S. Martino Vescovo. Affreschi sono conservati nel Cimitero di Cassina Amata (Cappella pubblica e Cappella Rebosio).

Arturo Galli si formò alla Scuola Professionale Cattolica, alla Scuola Superiore d’Arte del Castello e all’Accademia di Brera e preferì dedicarsi all’affresco mettendo le sue capacità al servizio della fede. Con dedizione impressionante per la vastità delle realizzazioni, dipinse con uno stile classico, con riferimenti ai grandi del ‘500 e ‘600, attento, tuttavia, ai fermenti del Novecento.
Una profonda sensibilità religiosa, unita a una vasta conoscenza biblica, gli consentì di perseguire il fine dell’arte sacra: raccontare, dire Dio ed essere precisa catechesi.
A Carnate, Maggianico, Rancio di Lecco, Calò, Fagnano Olona, Palazzolo Milanese, Bresso, si dedicò (oltre agli affreschi, alle tele, alle vetrate) anche alle decorazioni.

Una ricca raccolta di studi, cartoni e tele di soggetto sacro e profano (conservata dagli eredi), documenta l’impegno e le grandi doti di disegnatore.

Morì il 3 febbraio 1963 mentre stava completando le vetrate in Santa Maria Nascente, luogo del suo primo importante incarico.


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domenica 22 marzo 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA DEL TIGLIO

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Imponente sulle acque del Lario, Santa Maria del Tiglio è un "pezzo" più unico che raro nel panorama dell'architettura religiosa lombarda.

Edificata nel XII secolo, deve il nome a una leggenda secondo la quale una pianta di tiglio sarebbe cresciuta sul campanile a fine costruzione. La cornice paesaggistica in cui s'inserisce l'edificio – a fasce alternate di marmo bianco e pietra scura –, con alle spalle il fondale turchese del lago, accresce intensamente il fascino del luogo. È questa la cosiddetta "area sacra" di Gravedona, dove si trovano oggi le chiese di Santa Maria del Tiglio, per l'appunto, e di San Vincenzo (XVII sec.).

La chiesa di S. Maria del Tiglio fu eretta come battistero delle pieve in sostituzione di un antico battistero paleocristiano, risalente al V-VI secolo, di cui furono trovati i resti nel corso degli scavi eseguiti nel 1953 in occasione del restauro dell'edificio. L'antico battistero era stato edificato su un'area sacra in età romana, come sembra testimoniare la presenza di un'ara romana murata nell'interno della chiesa. Questo primo edificio, dedicato a S. Giovanni Battista, fu probabilmente oggetto di interventi in epoca carolingia e conservava un affresco raffigurante l'Adorazione dei Magi oggetto nell'anno 823 di un evento miracoloso, ricordato in cronache coeve, che avrebbe richiamato a Gravedona anche l'Imperatore Ludovico il Pio. Nel XII secolo ebbe inizio la costruzione del nuovo battistero a pianta centrale nella quale si innestavano le absidi ed il vestibolo di ingresso. Il primo documento che testimonia la presenza del nuovo edificio risale al 1154 e l'analisi delle murature e degli elementi decorativi sembra confermare la realizzazione della costruzione nella prima metà del XII secolo. Il battistero fu quindi arricchito da una decorazione pittorica realizzata in varie fasi a cavallo fra il XIII secolo, al quale sembra riferibile il Giudizio Universale in controfacciata, ed il XV secolo durante il quale fu realizzato probabilmente l'affresco con l'Adorazione dei Magi sopra l'absidiola destra.
La torre campanaria in facciata, che presenta un andamento singolare, venne realizzata in più fasi e fu oggetto di vari interventi di riparazione. Sopra la prima porzione a base quadrata, eseguita nel XIV secolo, fu aggiunta la porzione superiore a pianta ottagonale in forma romaniche ma completata solamente nel corso del XVI secolo, come documentano le carte d'archivio messe in luce da recenti studi. Le visite pastorali testimoniano anche la seconda denominazione, oltre alla dedicazione a S. Giovanni Battista, come chiesa della Beata Vergine del Tiglio, in relazione alla presenza secolare di un albero di tiglio, e confermano la destinazione dell'edificio come chiesa battesimale. Nel corso del XVII secolo nel battistero furono aggiunti due altari: uno nella cappella laterale destra, dedicato a Santa Marta, ed uno nella cappella laterale sinistra, dedicato alla Vergine del Carmine. Un ulteriore altare sul lato destro, dedicato alla Beata Vergine del Tiglio, risulta documentato nelle visite pastorali del XVIII secolo. Già nella seconda metà del XIX secolo la chiesa venne fatta oggetto di indagini legate agli studi sull'architettura romanica lombarda che auspicavano l'esecuzione di interventi di restauro dell'edificio. Il primo intervento fu avviato nel 1875 e comprese lo scavo dell'area circostante, per mettere in luce il basamento delle murature e cercare i resti del battistero paleocristiano, e il rifacimento della copertura, del cornicione e dello zoccolo. tetto. Nel 1925 e nel 1937 furono effettuati interventi anche sugli affreschi ma nel 1953 fu avviato un restauro radicale dell'edificio che comportò la rimozione delle aggiunte barocche al fine di recuperare l'assetto romanico. Sulla parete dietro l'altare sinistro, dedicato alla Beata Vergine, fu messo in luce un ciclo di affreschi ignorato fino a quella data dagli studiosi. In questa occasione furono compiuti anche gli scavi sotto la pavimentazione che consentirono di individuare i resti del fonte battesimale paleocristiano, utilizzato probabilmente fino al XVI secolo.

La chiesa come la vediamo oggi risale al XII secolo: il nome deriverebbe da una pianta di tiglio cresciuta sul campanile a fine costruzione. È un esempio chiaro di stile romanico, costruita utilizzando la pietra locale: il marmo bianco di Musso e la pietra nera di Olcio.

La pianta è centrale, nella tradizione dei battisteri, e presenta tre absidi semicircolari sui tre lati, mentre la facciata è caratterizzata dal campanile aggettante, un unicum nell'architettura lombarda, derivato da modelli renani e borgognoni; il campanile ha base quadrata, mentre la parte superiore è ottagonale, e probabilmente venne costruito in epoca più tarda. Alla base si trova il portale d'ingresso, lievemente strombato; un secondo portale si trova sul fianco destro. Lungo tutta la base del tetto corre una decorazione ad archetti pensili, tipica dello stile romanico, che si trova anche sopra la prima monofora del campanile. Accanto e sopra a questa finestra ci sono dei blocchi di marmo scolpiti, probabilmente materiali di recupero dal precedente edificio. Infatti, si nota una testina umana di età tardo-romana, incastonata come chiave di volta nella monofora: forse apparteneva ad una stele funeraria. Ai fianchi della monofora, conci in marmo, scolpiti a bassorilievo: sono datati al periodo altomedievale e raffigurano soggetti vari con valore simbolico, come un centauro con l'arco, un serpente e un nodo gordiano. Sul retro della chiesa, un altro marmo scolpito inserito nel muro esterno: appena sotto il primo ordine di archetti, un bassorilievo raffigurante due rilievi tondeggianti, chiamati "le mammelle della regina Teodolinda", che allude al tema della fertilità.

L'interno è un ampio ambiente caratterizzato dalle due absidi laterali, dal presbiterio in cui sono state ricavate tre nicchie e dal loggiato che corre sopra le absidi. Il pavimento è recente, ma nell'angolo nord-est si trova un frammento del mosaico pavimentale del V secolo: si riconoscono motivi geometrici formati da tessere bianche, nere e rosse, tipiche del periodo romano. Un tempo i muri dovevano essere decorati da un ricco ciclo di affreschi, di cui oggi restano poche testimonianze. Nel presbiterio si vedono ancora lacerti delle Storie di San Giovanni Battista, risalenti al XV secolo, e figure di Santi, tra cui Santo Stefano e San Gottardo, patrono dei passi alpini. Sopra la nicchia centrale di destra si trova un'Adorazione dei Magi, che venne realizzato al posto del fatiscente affresco miracoloso, citato negli Annali di Fulda.

Al centro dell'abside meridionale si vedono i resti di un affresco devozionale raffigurante la Vergine in trono col Bambino e Santi, mentre, in controfacciata si trova quello che è l'affresco più antico della chiesa: il Giudizio Universale. Quest'affresco risale alla prima metà del XIV secolo: vi si vede raffigurato il Cristo Redentore in mandorla, circondato dalle file dei beati e dei dannati; sullo sfondo, il paesaggio della Gerusalemme celeste, dove si notano campanili molto simili a quello della stessa chiesa di Santa Maria del Tiglio e della vicina Abbazia di Piona, prima del suo rifacimento nel XVIII secolo.

L'abside settentrionale è decorata dai resti di affreschi devozionali risalenti alla seconda metà del XIV secolo, raffiguranti Sant'Anna, Santa Susanna, San Giovanni Battista, San Lucio e San Giuliano l'ospitaliere nell'atto di uccidere i propri genitori. La presenza di santi come , Gottardo, Lucio e San Cristoforo, affrescati vicino all'arcone dell'ingresso, richiama la funzione di Gravedona come nodo di traffico dei commerci provenienti e direttismo verso l'area transalpina: sono infatti i santi invocati dai viaggiatori e Santa Maria del Tiglio era probabilmente una tappa per i commercianti che si incamminavano verso la difficile via delle Alpi. La parete nord ospita anche un capolavoro della scultura romanica lombarda: un "Crocifisso" ligneo scolpito nel XII secolo. La scultura, in legno di pioppo e ontano, raffigura un Cristo dai tratti del volto molto allungati, che richiamano la scultura dell'area renana e nordeuropea.



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