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sabato 24 settembre 2016

SIMBOLI CRIMINALI

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I segni, i simboli sono dei codici molto importanti usati in mille aspetti della vita e della società. Sono utilizzati per i fini più nobili e sofisticati e per quelli più brutali, come nel caso della mafia siciliana. Sia nell’Ottocento che nel Novecento la mafia siciliana metteva in essere dei precisi “segni”, che avevano un chiaro significato verso le vittime e rappresentavano un minaccioso monito verso la popolazione tutta. Spesso veniva fatto rinvenire il cadavere di un avversario della mafia o un mafioso che aveva “sbagliato”, con dei determinati segni esteriori, in modo che tutti sapessero il perché di quella uccisione e si guardassero bene dal compiere certe azioni. Fra i tanti segnali attuati sul cadavere di un uomo vi era una mano tagliata: voleva dire che il morto aveva rubato, sapendo che non poteva rubare in quella zona o a quell’individuo protetto dalla mafia; gli occhi cavati e chiusi in un pugno significava che il morto aveva ucciso un uomo legato alla mafia; una pala di ficodindia sul petto significava che il morto si era impossessato di denaro che non gli pertineva. Ancora, un fazzoletto o un sasso in bocca significavano che quell’uomo avrebbe dovuto tacere; gli organi genitali intorno al collo significava che aveva molestato donne di mafiosi arrestati. Invece la lettera di scrocco, il petrolio sulla frutta, gli animali sgarrettati erano alcuni pressanti inviti a pagare il pizzo. La testa di un animale nei pressi dell’abitazione, un cuore di metallo bucherellato, una bara vuota, un uccello morto erano invece avvertimenti di una “promessa” di morte.

E’ il più tremendo degli avvertimenti mafiosi. Quando ti viene recapitato vuol dire che sei veramente in brutte acque. L’oggetto utilizzato rappresenta la vittima, ma la vittima a volte non è proprio tale. Stiamo parlando delle teste di agnello, pecora o capretto, spedite a chi si deve intimidire o a chi (comunque da intimidire) ha commesso un torto agli amici. La devono vedere tutti, la testa. Meglio se i familiari e magari la moglie che ti va su di giri. Se sanguinolenta, significa che è fresca. Chi ti vuole male l’hai sul collo, dietro l’angolo. Ti controlla e può prenderti quando vuole. Il sangue, se di vecchio taglio, non imbratterebbe più; cosa da principianti.

L’agnello da minaccia è anche una metafora di una Italia primitiva e niente affatto residuale. Sicuramente più presente di tante improbabili vittorie animaliste più attente alle sempre commerciabili foche canadesi che, ad esempio, ai cavalli di mafia liberi di circolare grazie al Codice della Strada .

Quello che sconvolge è che il regalino ti arriva fin dentro casa o comunque, ovviamente imprevisto, dove meno te lo aspetti. L’effetto non può che essere devastante. Come una bomba ad orologeria legata alle tue mani. Non è da escludere che molti di questi avvertimenti non vengano mai denunciati. Se hai deviato dall’ordine costituito, devi subito tornare sulla retta via.

I mandanti possono essere piccoli o grandi.

Da sempre la religione fornisce alimento alla mafia. Al punto che il padrino del rito religioso, il Godfather, è ormai l' archetipo del caposca. E il padrinato è diventato un' affiliazione mistico mafiosa. Vice padre, o "compadre", il devotissimo Bernardo Provenzano, mettendo la mano sulla spalla di un ragazzo, lo cresima e lo rende figlioccio per sempre. E la stessa cresima si trasfigura. La bellezza e il fascino della liturgia, ragnatela che cattura la ragione, diventano coreografia dell' iniziazione, danno sostanza di sacramento alla "punciuta". Nel covo di Provenzano abbiamo visto bibbie, altarini, santini di padre Pio e crocefissi. Ma è solo in questa esibita devozione che il miserabile padrino catturato nella sua Corleone somiglia al tenebroso padrino tipizzato da Marlon Brando. Per il resto, il padrino in carne e ossa non somiglia mai al padrino metafora del mafioso. In Sicilia gli omicidi di mafia non hanno le musiche di Nino Rota come colonna sonora. Nessuno dice al killer: «Live the gun and take cannoli», posa la pistola e prendi i cannoli. C' è però il segno della croce. Il padrino Provenzano prega e uccide, bacia il crocefisso e spara, recita la Bibbia e strangola. Ed è passato nella simbologia mafiosa l' intero sistema penale dell' Inquisizione, che in Sicilia fu uno Stato nello Stato, e faceva pagare il pizzo sulla fede, costringendo per esempio il non cattolico, l' ebreo soprattutto, a versare multe e a cedere parte del patrimonio. Ed è sorprendente ritrovare tutta la ferocia dell' Inquisizione, con le sue punizioni spettacolari che sono quelle ancora oggi decretate da Riina e Provenzano.


La faccia tagliata, per esempio, segno indelebile di infamia tra i mafiosi, era la tortura che la Chiesa infliggeva all' eretico. E il sasso in bocca è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore. E si potrebbe continuare nell'illustrare il rapporto tra mafia e religione, che è davvero molto stretto e molto inquietante, e non solo perché i mafiosi sono padrini devotissimi e Provenzano porta al collo tre crocefissi. Tuttavia, se si esclude la religiosità, mai i padrini somigliano al Padrino. Nella Sicilia orientale si chiama patrozzu, ed è una figura arcaica che con la mafia c' entrava poco. Il padrinato, "godparenthood", infatti è una struttura probabilmente precristiana che gli studiosi hanno ritrovato in tutte le società mediterranee, tra gli albanesi, tra i serbi, tra i montenegrini. è una tecnica di rafforzamento familiare, con il padre che chiede protezione per il proprio figlio e in cambio offre la propria protezione al figlio del "compadre", del compare, in un' alleanza interfamiliare. Del resto, il padrino-garante esiste anche nella struttura massonica. Più in generale, c' è il padrino in tutte le organizzazioni segrete e nelle prassi iniziatiche. Ancora oggi sono necessari due padrini per l' iscrizione ai circoli privati. Ci volevano quattro padrini per fare un duello. E anche nei partiti comunisti il nuovo iscritto doveva essere garantito da almeno due padrini. Ma il padrino della mafia è il Godfather, il padre in nome di Dio. In inglese significa sia padrino sia compare. E sono italoamericani la fisiognomica mafiosa del Padrino e il potenziamento tribale dei riti e dei miti religiosi. L' incantesimo estetico delle vecchie cerimonie pietrificate dalla nostalgia, e persino la preghiera non sono più una manifestazione dello Spirito ma il dispiegamento pittoresco del potere interfamiliare tra gli immigrati, beduini senza Stato. Insomma, è da lì che nasce la tipizzazione letteraria. Nella famiglia allargata degli immigrati il padrino della cresima esprime l' autorità carismatica dell' uomo di potere, con la battuta giusta al posto giusto, il riserbo ironico, la cattiveria divertente, il delitto come necessità profonda, poche e maschie parole piene di pensiero. Il contrario, come si vede, dei Riina e dei Provenzano, che sono parchi di parole perché poveri di pensiero. è un codice che ha già prodotto la sua controtipizzazione letteraria, nei libri di John Fante per esempio. Ma è un codice che restituisce all' Italia e alla Sicilia una parola deformata dall' uso che se ne è fatto altrove. Il padrino è un tranello linguistico. Prima di Mario Puzo non c' erano mai stati padrini nella mafia. Non ne parlano i mafiologi e gli storici, da Franchetti e Sonnino a Salvatore Lupo, non ne fanno cenno gli inquirenti, non ce ne è traccia tra i mafiosi. Il padrino è un' invenzione del cinema americano, come il poliziotto rambo e l' avvocato Perry Mason. Ma in Sicilia non esiste. Brusca ha lo sguardo del macellaio inebetito e non quello penetrante di Robert Duvall. Liggio era uno psicopatico di campagna e non un Abramo biblico. Totò Riina è grasso e corto come Marlon Brando ma la sua pesantezza non appartiene al genere shakespeariano. Nella mafia siciliana esiste il capo, il don, lo zio, oppure "il Padrenostro" com'era Navarra a Corleone o "il Papa" Michele Greco che persino durante il processo rispondeva al giudice citando salmi e versetti. Ma nella mafia siciliana non esiste il padrino. C'è, invece, la parrina nel gergo della criminalità palermitana, nel baccaghiu. Ma la parrina era la tenutaria del bordello. Parrina come deformazione di madrina, dunque: la piccola madre delle ragazze perdute. Ebbene, il parrinu, in quell' antico gergo dei bassifondi palermitani, è l' uomo della parrina, vale a dire il magnaccia, il parassita «tutto sesso e calze di seta» che il mafioso tradizionalmente disprezzava. Nel repertorio delle parole utilizzate dalla mafia, il parrino era dunque il piccolo pappone, il ricottaro, il delinquente infame di poco conto. Esattamente il contrario del temuto e rispettato capocosca. Del resto, se così non fosse, Leonardo Sciascia non avrebbe dato il soprannome di Parrineddu all'idealtipo dei confidenti di questura, «miserabili uomini, fango di paura e di vizio». Se dunque il padrino è diventato il suo contrario è solo grazie alla religione fanatizzata custodita dagli immigrati. Al punto che il Godfather mafioso è ormai come il borghese di Balzac, il miserabile di Hugo, l' ebreo di Shakespeare, il capitalista di Marx è finzione a cui si aggrappa la realtà per farsi leggere meglio. Ma la letteratura, che ha definitivamente trasfigurato il rito religioso del padrino, lo ha poi restituito alla realtà mafiosa con un corto circuito vita-cinema-vita. Il padrino cinematografico ha infatti imposto un linguaggio, un' estetica e un' epopea che sono per sempre lo stile della mafia. Con quel film la testa mozza di cavallo diventa un annunzio di morte. Un cappello incartato con due pesci significa che la testa dell' uomo che lo indossava ora dorme in fondo al mare. «Gli faremo una proposta che non potrà rifiutare» è il modo mafioso di minacciare. Anche la preghiera è diventata sospetta. E così la confessione auricolare che assolve. E nel battesimo si distribuiscono confetti e pallottole. L' eccesso di Dio nasconde sempre l' assenza di Dio. L' esibizione di Dio è sempre ateismo.



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lunedì 15 giugno 2015

IL MUSEO DIOCESANO A BRESCIA

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Istituito nel 1978 dal vescovo di Brescia monsignor Luigi Morstabilini, il Museo Diocesano è collocato all'interno del chiostro maggiore del complesso conventuale di San Giuseppe, un tempo sede dei Francescani Minori Osservanti. L'ampio convento, sorto all'inizio del Cinquecento, giungeva a compimento solo sul finire del secolo con la costruzione del chiostro maggiore nel quale trovava posto anche il monumentale refettorio. Tornato alla Diocesi di Brescia dopo le soppressioni ottocentesche, il chiostro è diventato sede del Museo Diocesano.
Le collezioni permanenti, poste al primo piano, sono divise in quattro sezioni dedicate alla pittura e alla scultura, ai codici miniati, all'oreficeria sacra e al tessuto liturgico. Al piano terreno il refettorio monumentale è utilizzato per congressi, conferenze e diverse esposizioni permanenti.

L’idea di costituire un Museo Diocesano a Brescia è relativamente recente.
Dell’iniziativa si faceva carico monsignor Angelo Pietrobelli nella seconda metà degli anni settanta del novecento; questi individuò nel complesso conventuale di San Giuseppe, un tempo sede dei Francescani Osservanti, la sede adeguata per accogliere il primo nucleo di opere provenienti per lo più da chiese non più officiate e quindi difficilmente fruibili. Nel 1978, il vescovo di Brescia Luigi Morstabilini istituiva canonicamente la “Fondazione di religione” denominata “Museo Diocesano di Arte Sacra”.
Il museo veniva inaugurato il 23 dicembre dello stesso anno e aveva sede nei primi due chiostri del complesso conventuale. Il 21 aprile 1988, il vescovo Bruno Foresti, sostituiva il precedente statuto con uno nuovo, in cui si stabiliva che, oltre al recupero e alla conservazione di opere d’arte e di materiali della Diocesi minacciati di rovina e di dispersione, sono finalità del museo anche il restauro, le iniziative culturali e le attività didattiche.
Nel frattempo giungeva al suo compimento l’acquisizione del chiostro maggiore del complesso di San Giuseppe, di proprietà demaniale, processo lungo e complesso che ha permesso, sul finire degli anni ottanta, di collocare le collezioni del Museo Diocesano in una sede più idonea e prestigiosa.
Nel 2007 il vescovo Giulio Sanguineti dotava il Museo Diocesano di un nuovo statuto, avviando contemporaneamente l'iter per il riconoscimento civile della fondazione Canonica.
Il 3 febbraio 2010 il Ministero dell'Interno ha riconosciuto il Museo Diocesano come Fondazione di Religione e di Culto.

Il Museo Diocesano ha avuto, fin dal suo nascere, il compito di garantire la tutela e la custodia in primo luogo delle opere d’arte sacra la cui conservazione era resa precaria dalla collocazione in edifici ecclesiastici chiusi al culto, fatiscenti o insicuri.
Nella sezione dedicata alla pittura e alla scultura sono esposte opere di artisti di area bresciana e veneta. Capolavoro del Trecento veneto è la Madonna col Bambino di Paolo Veneziano; alla metà del secolo successivo risale il Polittico di Sant’Orsola di Antonio Vivarini.
Il Cinquecento locale è ben rappresentato da opere dei maggiori pittori bresciani: Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Girolamo Romanino e Pietro Maria Bagnatore. Di Jacopo Tintoretto è il bozzetto della Trasfigurazione per la chiesa di Sant’Afra a Brescia; alla bottega di Tiziano è dato un Volto di Cristo dipinto su pietra.
Il Seicento e il Settecento locale trovano nelle opere di Giuseppe Tortelli, Gian Antonio Capello, Pietro Avogadro e Francesco Savanni i loro maggiori esponenti. La linea veneta è presente con Andrea Celesti (Madonna col Bambino e i santi Anna, Giacomo Maggiore e Benedetto), Francesco Capella detto il Daggiù (Rebecca al pozzo), Gian Battista Pittoni (Madonna col Bambino e i santi Leonardo e Francesco da Paola) e Giambattista Tiepolo (Battesimo di Costantino).

Nella sezione dedicata ai codici miniati è possibile ammirare una raccolta di volumi manoscritti, realizzati a partire dal XII secolo; di particolare importanza il piccolo libro della Regola della Confraternita dei santi Faustino e Giovita di Collio, le cui prime due carte sono completamente miniate dal bresciano Floriano Ferramola.
La sezione ospita ventidue codici che vanno dal XII secolo alla metà del XVI provenienti quasi esclusivamente dalla biblioteca capitolare della Cattedrale di Brescia. I manoscritti più antichi furono realizzati per il vescovo di Brescia Giacomo degli Atti (1335-1344) e raccolgono per lo più opere di san Tommaso d’Aquino, impreziosite da miniature di scuola francese e bolognese. Di grande importanza è anche il manoscritto di Bonizone da Sutri, De vita christiana della seconda metà del XII secolo e il cosiddetto ‘Capitolare 13’, un manoscritto musicale del XII secolo che contiene la prima officiatura completa della festa dei santi Faustino e Giovita, patroni di Brescia. Al XV secolo appartengono libri liturgici (messali e breviari) e musicali (antifonari e graduali) ornati con grandi capolettera miniati decorati con motivi vegetali e floreali. All’inizio del XVI secolo risale la cosiddetta ‘Mariegola di Collio’, libretto della Confraternita dei Santi Faustino e Giovita della parrocchia di Collio in Valtrompia le cui prime due carte sono interamente miniate dal pittore bresciano Floriano Ferramola.
La sezione dedicata all’oreficeria sacra annovera manufatti a partire dalla seconda metà del XV secolo. Tra le opere di maggior rilievo si annoverano il Reliquiario Gambara, opera di argentiere romano della metà del XVI secolo, in ebano e argento, e il Calice di Pontevico, in oro, argento e pietre preziose, realizzato dall’orefice milanese Carlo Grossi.

La sezione dedicata all’oreficeria passa in rassegna in ordine cronologico e tipologico, un nutrito gruppo di suppellettili d’uso liturgico che coprono un arco temporale che va dalla seconda metà del XV secolo a tutto l’Ottocento.
Di notevole interesse è il calice di manifattura italiana della seconda metà del Quattrocento, decorato con smalti e il Reliquiario del dito di san Gaudioso dove le forme ancora tardogotiche cedono il passo alle nuove forme classiciste del primo Rinascimento, ben esemplificate nel Reliquiario di San Crispino. Pregiata è anche la croce da tavolo in metallo dorato e pietre dure proveniente dalla chiesa di Sant’Eufemia in Brescia di pieno Rinascimento e la Croce astile d’inizio Cinquecento con figure a getto applicate alla sommità dei bracci e clipei decorati con raffigurazioni ad incisione.
Pezzi di eccezione sono, infine, il Reliquiario Gambara, opera di argentiere romano della metà del XVI secolo, realizzato in ebano e argento e il calice detto ‘di Pontevico’ in oro, argento e pietre preziose, capolavoro dell’orefice milanese Carlo Grossi (1714).

Nella sezione dedicata al tessuto sono esposti un centinaio di paramenti preziosi (solo parte di quelli conservati nei depositi del Museo) che coprono un arco temporale che va dalla fine del XV secolo all’inizio del XIX. La sezione, una delle più ampie in Italia dedicata al tessuto liturgico, predilige le tessiture (per lo più veneziane e francesi) anche se una parte è dedicata all’arte del ricamo. Il percorso segue un ordinamento cronologico e presenta le diverse tipologie decorative che evidenziano lo stretto rapporto tra le ornamentazioni utilizzate per l’abbigliamento civile e quelle impiegate nelle manifatture d’uso liturgico. Di intonazione più prettamente liturgica e simbolica sono le decorazioni realizzate a ricamo, spesso in sete policrome e fili d’oro, che, insieme a elementi floreali combinano talvolta simboli religiosi.




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lunedì 2 marzo 2015

BIBLIOTECHE MILANESI : LA TRIVULZIANA

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La Biblioteca Trivulziana è una biblioteca situata dentro il Castello Sforzesco di Milano. Rappresenta un istituto annesso all’Archivio Storico Civico e al laboratorio di restauro, con i quali divide alcuni locali, tra cui la sala di consultazione.

La Biblioteca Trivulziana possiede ad oggi circa 180.000 volumi, tra cui spiccano più di 1500 codici manoscritti: la collezione contiene lasciti dall'VIII secolo e raccoglie inoltre libri antichi, libri moderni, periodici, microfilm, fotografie, manifesti, stampe, carte geografiche e fondi archivistici; in particolare sono conservate opere sulla storia e letteratura del periodo umanistico-rinascimentale. La biblioteca conserva anche una notevole raccolta delle opere di Dante Alighieri, tra cui tutte le edizioni quattrocentesche della Divina Commedia ed un manoscritto della stessa risalente al 1337. Inoltre, all'interno della sua collezione si trova il Codice Trivulziano di Leonardo da Vinci.

Il laboratorio di restauro, nato nel 1978, lavora in accordo con la biblioteca e l'archivio storico civico per mantenere le condizioni delle opere più antiche.


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