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lunedì 18 luglio 2016

PAPA GIOVANNI XXIII

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« Tornando a casa, troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite: "Questa è la carezza del Papa!" »
(Papa Giovanni XXIII)

Nato a Brusicco frazione di Sotto il Monte, un piccolo paese della provincia di Bergamo, il 25 novembre del 1881, da Battista Roncalli e da Marianna Mazzola, quarto di tredici fratelli, veniva - a differenza del suo predecessore, Eugenio Pacelli, che era di stirpe nobile - da una famiglia di umili origini: i suoi parenti lavoravano infatti come mezzadri. Ricevette il sacramento della cresima il 13 febbraio 1889 dal vescovo di Bergamo monsignor Guindani. Grazie all'aiuto economico di suo zio Zaverio, studiò presso il seminario minore di Bergamo, vinse una borsa di studio e si trasferì al seminario dell'Apollinare di Roma, l'attuale Pontificio Seminario Romano Maggiore, dove completò brillantemente gli studi e fu ordinato prete nella chiesa di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo, il 10 agosto 1904.

Durante la permanenza a Roma partecipando nel 1903 ai funerali del cardinal Lucido Maria Parocchi ebbe a scrivere: "Se io possedessi la scienza e la virtù sua, io potrei ben chiamarmi soddisfatto". Da ragazzo, e durante il seminario, manifestò la venerazione per la Vergine con numerosi pellegrinaggi al Santuario della Madonna del Bosco ad Imbersago. Nel 1901 era stato coscritto ed arruolato nel 73º Reggimento fanteria, brigata Lombardia, di stanza a Bergamo.

Venne ordinato sacerdote il 10 agosto 1904 dall'Arcivescovo Giuseppe Ceppetelli.
Nel 1905 monsignor Giacomo Radini-Tedeschi, allora nuovo vescovo di Bergamo lo nominò suo segretario personale. Roncalli si segnalò per la dedizione, la discrezione e l'efficienza. A sua volta Radini-Tedeschi rimarrà sempre guida ed esempio per Angelo Roncalli. La personalità di questo vescovo, riuscirà a sensibilizzare Roncalli a nuove idee e movimenti della chiesa del tempo, rendendolo sensibile alla questione sociale, in un'epoca in cui valeva ancora il "non expedit" che, dopo il 1861, impediva ai cattolici di impegnarsi in politica. In particolare Radini Tedeschi e Roncalli saranno figure fondamentali nello sciopero di Ranica (BG) tanto che saranno anche messi sotto accusa dal Sant'Uffizio, salvo poi uscirne indenni. Roncalli restò al fianco di Radini-Tedeschi fino alla morte di questi, il 22 agosto 1914, durante questo periodo si dedicò altresì all'insegnamento della storia della Chiesa presso il seminario di Bergamo. Si contraddistinse anche nel lavoro di ricerca storica sulla diocesi, lavorando sull'edizione critica degli atti della visita apostolica a Bergamo di San Carlo Borromeo.

Fu richiamato nel 1915, a guerra iniziata, nella sanità militare e ne fu poi congedato col grado di tenente cappellano. L'affermazione, nel 1919, del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, fu vista da Roncalli come "una vittoria del pensiero cristiano".

Nel 1921 papa Benedetto XV lo nominò prelato domestico (che gli valeva l'appellativo di monsignore) e presidente del Consiglio Nazionale Italiano dell'Opera della Propagazione della Fede. In tale ambito egli si occupò fra l'altro della redazione del motu proprio del nuovo papa Pio XI Romanorum pontificum, che divenne la magna charta della cooperazione missionaria.

L'avvento del fascismo non trovò monsignor Roncalli particolarmente favorevole al nuovo regime: alle ultime elezioni che si tennero con liste contrapposte (1924), dichiarò alla famiglia di restar fedele al Partito Popolare, nonostante la politica filo-fascista dell'Azione Cattolica. Il suo giudizio su Mussolini è abbastanza negativo, pur nella consueta moderazione dei toni: "la salute dell'Italia non può venire neanche da Mussolini, per quanto sia un uomo d'ingegno. I suoi fini sono forse buoni e retti, ma i mezzi sono iniqui e contrari alla legge del Vangelo".

Nel 1925 papa Pio XI lo nominò visitatore apostolico in Bulgaria, elevandolo alla dignità episcopale e affidandogli la sede titolare, pro illa vice con titolo arcivescovile, di Areopoli. Si trattava di una diocesi antica della Palestina, un tempo chiamata in partibus infidelium, ossia, semplicemente, un titolo disponibile per attribuire il rango di vescovo - in questo caso a Roncalli - senza dovere affidare al prescelto le cure pastorali di una diocesi effettiva. Roncalli scelse come motto episcopale Oboedientia et pax ("Ubbidienza e pace", in latino), frase che divenne il simbolo del suo operato e che aveva ripreso dal motto del cardinale Cesare Baronio Pax et oboedientia.

La consacrazione episcopale, presieduta dal cardinale Giovanni Tacci Porcelli, Segretario della Congregazione Orientale, si tenne il 19 marzo 1925 a Roma nella chiesa di San Carlo al Corso. Inizialmente il suo ministero in Bulgaria doveva durare solo qualche mese, per espletare cinque compiti: visitare tutte le comunità cattoliche del regno (cosa che fece dal maggio al settembre 1925); risolvere il conflitto nella Diocesi di Nicopoli tra don Karl Raev e il vescovo passionista monsignor Damian Theelen (cosa che realizzò nei primissimi mesi); promuovere ed avviare un seminario nazionale per la formazione di sacerdoti locali (cosa che non riuscì mai ad ottenere); riorganizzare la comunità di rito orientale (cosa che realizzò nel 1926, con l'ordinazione del primo esarca monsignor Kirill Kurtev); avviare le relazioni diplomatiche con la corte e il governo, in vista di una piena rappresentanza della Santa Sede (lavorò che portò alla creazione, il 26 settembre 1931, della Delegazione Apostolica).

Per diversi motivi i previsti pochi mesi diventarono dieci anni, e così monsignor Roncalli ebbe occasione di inserirsi più profondamente nella vita del popolo bulgaro, di cui anche imparò la lingua. Si ritrovò anche in contatto con la maggioranza ortodossa della popolazione, nei confronti della quale dimostrò una particolare carità, sempre nell'ambito dell'ideale unionista, senza alcuna anticipazione ecumenica. In seguito dovette occuparsi pure del matrimonio tra il re bulgaro Boris III, ortodosso, e la figlia del re d'Italia Vittorio Emanuele III, Giovanna di Savoia.

Papa Pio XI aveva infatti concesso la dispensa per il matrimonio di mista religione a condizione che lo sposalizio non venisse ripetuto nella Chiesa ortodossa e che l'eventuale prole fosse battezzata ed educata cattolicamente. Dopo la cerimonia cattolica celebrata ad Assisi il 25 ottobre 1930, il 31 ottobre 1930 la coppia reale, pur senza rinnovare il consenso matrimoniale, diede ad intendere al popolo bulgaro di aver ripetuto il connubio nella cattedrale ortodossa di Sofia. La profonda irritazione di papa Pio XI per l'accaduto diede luogo a una solenne protesta papale. Il battesimo ortodosso dei figli della coppia, a partire da quello di Maria Luisa nel gennaio del 1933, diede spunto ad ulteriore indignazione, che prese la forma di nuova pubblica protesta pontificia.

Nel 1934 fu nominato arcivescovo titolare di Mesembria, antica città della Bulgaria, con l'incarico di delegato apostolico in Turchia e in Grecia ed inoltre di amministratore apostolico "sede vacante" del Vicariato apostolico di Istanbul. Questo periodo della vita di Roncalli, che coincise con la seconda guerra mondiale, è ricordato in particolare per i suoi interventi a favore degli ebrei in fuga dagli stati europei occupati dai nazisti.

Roncalli strinse uno stretto rapporto con l'ambasciatore di Germania ad Ankara, il cattolico Franz von Papen, ex cancelliere del Reich, pregandolo di adoperarsi in favore degli ebrei. Così testimonierà l'ambasciatore tedesco: "Andavo a Messa da lui nella delegazione apostolica. Parlavamo del modo migliore per garantire la neutralità della Turchia. Eravamo amici. Io gli passavo soldi, vestiti, cibo, medicine per gli ebrei che si rivolgevano a lui, arrivando scalzi e nudi dalle nazioni dell'est europeo, man mano che venivano occupate dalle forze del Reich. Credo che 24 mila ebrei siano stati aiutati a quel modo".

Durante la guerra, una nave piena di bambini ebrei tedeschi, miracolosamente sfuggita ad ogni controllo, giunse al porto di Istanbul. Secondo le regole della neutralità, la Turchia avrebbe dovuto rimandare quei bambini in Germania, dove sarebbero stati avviati ai campi di sterminio. Monsignor Roncalli si adoperò giorno e notte per la loro salvezza e, alla fine - grazie anche alla sua amicizia con von Papen - i bambini si salvarono.

Nel luglio del 1943 Angelo Roncalli scrisse sul diario: «La notizia più grave del giorno è il ritiro di Mussolini dal potere. L'accolgo con molta calma. Il gesto del Duce lo credo atto di saggezza, che gli fa onore. No, io non getterò pietre contro di lui. Anche per lui sic transit gloria mundi. Ma il gran bene che lui ha fatto all'Italia resta. Il ritirarsi così è espiazione di qualche suo errore. Dominus parcat illi (Dio abbia pietà di lui)».

Nel 1944 papa Pio XII nominò monsignor Roncalli nunzio apostolico a Parigi. Nel frattempo, con l'occupazione tedesca dell'Ungheria, erano iniziate le deportazioni e le esecuzioni di massa anche in quel paese. La collaborazione del nunzio apostolico e il diplomatico svedese Raoul Wallenberg consentì a migliaia di ebrei di evitare la camera a gas. Venuto a conoscenza - grazie a Wallenberg - che migliaia di ebrei erano riusciti a varcare il confine dell'Ungheria e a rifugiarsi in Bulgaria, Roncalli scrisse una lettera a re Boris III (in debito verso il nunzio, che aveva fatto celebrare il suo matrimonio, nonostante le difficoltà sopra descritte), pregandolo di non cedere all'ultimatum di Adolf Hitler che aveva ordinato di rispedire indietro i profughi.

I vagoni con gli ebrei erano già al confine, ma il re annullò l'ordine di deportazione. Una ricerca portata avanti dalla Fondazione Wallenberg e dal Comitato Roncalli, con la partecipazione di alcuni storici, ha messo in luce che il nunzio apostolico, approfittando delle sue prerogative diplomatiche, provvide a inviare, agli ebrei ungheresi, falsi certificati di battesimo e di immigrazione per la Palestina, dove infine giunsero. Il suo intervento si estese a favore degli ebrei di Slovacchia e Bulgaria e si moltiplicò per molte altre vittime del nazismo. La International Raoul Wallenberg Foundation, sin dal settembre 2000, ha chiesto formalmente allo Yad Vashem di Gerusalemme di inserire il nome di Angelo Giuseppe Roncalli nell'elenco dei Giusti tra le nazioni.

Fra i maggiori successi diplomatici a Parigi si segnala la riduzione del numero di vescovi di cui il governo francese reclamava l'epurazione in quanto compromessi con la Francia di Vichy. Roncalli riuscì a fare sì che Pio XII fosse costretto ad accettare soltanto le dimissioni di tre vescovi (quelli di Mende, Aix e Arras), oltre quello di un vescovo ausiliare di Parigi e di tre vicari apostolici delle colonie d'Oltremare. Quando, nel 1953, Roncalli fu creato cardinale, il presidente francese Vincent Auriol, (benché socialista e notoriamente ateo), reclamò un antico privilegio riservato ai monarchi francesi e gli impose personalmente la berretta cardinalizia durante una cerimonia al Palazzo dell'Eliseo (lo stesso Presidente francese gli conferì la Gran Croce della Legione d'Onore della Repubblica Francese il 14 gennaio 1958).

Nel 1953, oltre a essere creato cardinale da papa Pio XII nel concistoro del 12 gennaio di quell'anno, fu nominato patriarca di Venezia, dove poté finalmente esercitare quel lavoro pastorale immediato, a stretto contatto con i sacerdoti e il popolo che aveva sempre desiderato fin dal giorno della sua ordinazione sacerdotale.

Il nuovo Patriarca condusse una vita modesta, evitando barriere formali con fedeli e sconosciuti; faceva spesso lunghe passeggiate per le strade e i campielli, accompagnato solo dal nuovo segretario don Loris Francesco Capovilla, fermandosi a conversare in dialetto anche con i gondolieri. Chiunque poteva andare a trovarlo nella dimora patriarcale perché – fece sapere - "chiunque può aver bisogno di confessarsi e non potrei rifiutare le confidenze di un'anima in pena". Secondo un'espressione testuale attribuita da un giornale ad un veneziano, "riceveva senza tante storie anche l'ultimo degli straccioni".

Inoltre durante questo periodo si segnalò per alcuni gesti di apertura: fra i tanti va ricordato il messaggio che inviò al Congresso del PSI - partito ancora alleato del PCI i cui dirigenti e propagandisti erano stati scomunicati da papa Pio XII nel 1949 -, quando il 6 febbraio 1957 i socialisti si riunirono nella città lagunare. Ciò nonostante, non rinnegò mai la continuità con le posizioni storiche della Chiesa nei confronti delle sfide quotidiane: Jean Guitton, accademico di Francia e osservatore laico al Concilio Vaticano II, ricorda che, come riportato in una rivista del 2 gennaio 1957, Angelo Roncalli individuava le «cinque piaghe d'oggi del Crocifisso» nell'imperialismo, nel marxismo, nella democrazia progressista, nella massoneria e nel laicismo.

A Venezia, Roncalli non abbandonò l'impegno apostolare ecumenico già esercitato nelle sue missioni in Oriente: proseguirono, infatti i suoi contatti con i "fratelli separati" e partecipò ogni anno all'Ottava per l'Unità delle Chiese con omelie e conferenze.

Alla sua partenza per il Conclave del 1958, per la morte di Pio XII, una grande folla l'accompagnò alla stazione facendogli a gran voce gli auguri di buon viaggio e di buon lavoro.

Il 28 ottobre 1958, con grande sorpresa della maggior parte dei fedeli, Roncalli fu eletto papa e il 4 novembre dello stesso anno fu incoronato, divenendo così il 261º Sommo pontefice. Secondo alcuni analisti sarebbe stato scelto principalmente per un'unica ragione: la sua età. Dopo il lungo pontificato del suo predecessore, i cardinali avrebbero perciò scelto un uomo che presumevano, per via della sua età avanzata e della modestia personale, sarebbe stato un papa di «transizione». Ciò che giunse inaspettato fu il fatto che il calore umano, il buon umore e la gentilezza di Giovanni XXIII, oltre alla sua esperienza diplomatica, conquistarono l'affetto di tutto il mondo cattolico e la stima dei non cattolici.



Fin dal momento della scelta del nome, molti cardinali si accorsero che Roncalli non era ciò che loro si aspettavano, infatti Giovanni era un nome che nessun papa adottava da secoli, possibilmente perché nella storia, dal 1410 al 1415, c'era stato un antipapa di nome Giovanni XXIII.

Inoltre, fatto che non succedeva dall'elezione di Pio IX, al momento dell'apertura momentanea della Cappella Sistina per far entrare monsignor Alberto di Jorio, segretario del Conclave, subito dopo l'elezione e l'accettazione, appena il prelato si inginocchiò in segno di omaggio davanti a lui, il nuovo Papa, ancora seduto sul suo scranno da porporato, vestito degli abiti cardinalizi, si tolse dal capo lo zucchetto rosso e lo posò in testa a Di Jorio, fra la sorpresa generale dei cardinali confratelli che lo attorniavano e che si accorsero, già da questo fatto, che il nuovo Pontefice sarebbe stato un uomo di sorprese e non un "vecchietto accomodante". Scelse quale segretario privato monsignor Loris Francesco Capovilla, che già lo assisteva quand'era patriarca di Venezia. Capovilla è restato, dopo la morte di Roncalli, un fedele custode della sua memoria.

Quando il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli fu eletto e divenne papa Giovanni, ci fu una piccola controversia per decidere se lui doveva essere chiamato Giovanni XXIII oppure Giovanni XXIV; lui stesso dichiarò che il suo nome pontificale era Giovanni XXIII chiudendo la questione.

La decisione di Roncalli di non essere chiamato Giovanni XXIV, come ci si poteva aspettare, valeva come una conferma dello stato di antipapa di questo primo Giovanni XXIII. La scelta del numerale "XXIII" da parte di Roncalli venne presa, in un certo senso, già sabato 27 settembre 1958 a Lodi dove l'allora ancora porporato, quale legato pontificio per le celebrazioni del centenario della rifondazione della città, accolto dal vescovo Tarcisio Vincenzo Benedetti, visitò la quadreria della Sala Gialla del palazzo vescovile di Lodi, dove sono presenti le effigi dell'antipapa Giovanni XXIII e dell'imperatore Sigismondo, che si incontrarono a Lodi nel 1414. Roncalli fece notare bonariamente all'amico Benedetti che non era conveniente tenere in un palazzo vescovile il quadro di un antipapa. Sorta la discussione circa il nome Giovanni XXIII o XXIV in un'eventuale scelta di "Giovanni" da parte di un nuovo pontefice, Roncalli espresse l'opinione che fosse giusto Giovanni XXIII, poiché Baldassarre Cossa era stato un antipapa. Non sapeva che da lì a pochi mesi sarebbe stato lui, come successore di Pio XII, a compiere quella scelta.

Già nel dicembre 1958 papa Giovanni XXIII provvide a integrare il Collegio cardinalizio, che a causa dei rari concistori di Pio XII era ormai numericamente assai ridotto. In quattro anni e mezzo creò cinquantadue nuovi cardinali, superando il tetto massimo di settanta, fissato nel XVI secolo da papa Sisto V. Nel concistoro del 28 marzo 1960 nominò il primo cardinale di colore, l'africano Laurean Rugambwa, il primo cardinale giapponese, Peter Tatsuo Doi, e il primo cardinale filippino, Rufino Jiao Santos. Il 6 maggio 1962, elevò agli altari anche il primo santo di colore, Martín de Porres, il cui iter canonico era iniziato nel 1660 e poi interrotto.

Il suo pontificato fu segnato da episodi indelebilmente registrati dalla memoria popolare, oltre che da un'aneddotica celeberrima e vastissima. I suoi «fuori programma», talvolta strepitosamente coinvolgenti, riempirono quel vuoto di contatto con il popolo che le precedenti figure pontificie avevano accuratamente preservato come modo di comunicazione distante e immanentista del «Vicario di Cristo in Terra», quale è il ruolo dogmatico del pontefice. Per il primo Natale da papa visitò i bambini malati dell'ospedale romano Bambin Gesù, ove benedisse i piccoli, alcuni dei quali lo avevano scambiato per Babbo Natale.

Il giorno di santo Stefano, sempre del suo primo anno di pontificato, il 26 dicembre 1958, visitò i carcerati nella prigione romana di Regina Coeli, dicendo loro: «Non potete venire da me, così io vengo da voi... Dunque eccomi qua, sono venuto, m'avete visto; io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore... La prima lettera che scriverete a casa deve portare la notizia che il papa è stato da voi e si impegna a pregare per i vostri familiari». Memorabilmente, accarezzò il capo del recluso che, disperato, inaspettatamente gli si buttò ai piedi domandandogli se «le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me».

In totale si contano 152 uscite dalle mura del Vaticano del Papa bergamasco, nel suo breve pontificato, adottando per primo l'abitudine della visita domenicale alle parrocchie romane. Un suo tratto distintivo era l'immancabile battuta. Quando si recò al vicino Ospedale Santo Spirito per visitare senza tanto clamore un suo amico sacerdote ricoverato, suonò personalmente alla porta delle suore che, senza chiedere chi fosse, aprirono e si trovarono davanti il Pontefice. La suora superiora, emozionata, si presentò: "Santo Padre... sono la Madre Superiora dello Spirito Santo!". Con prontezza di spirito, il Papa rispose: "Beata lei, che carriera! Io sono solo il servo dei servi di Dio!".

Quando la moglie del Presidente degli Stati Uniti, Jacqueline Kennedy, si recò in visita in Vaticano per incontrarlo, egli iniziò a provare nervosamente le due formule di benvenuto che gli era stato consigliato di usare: «mrs Kennedy, madame» o «madame, mrs Kennedy». Quando la Kennedy arrivò, comunque, per il divertimento della stampa, abbandonò entrambe e le venne incontro appellandola semplicemente: «madame Jacqueline!».

Il radicalismo di papa Giovanni XXIII non si fermò all'informalità. Fra lo stupore dei suoi consiglieri e vincendo le remore e le resistenze della parte conservatrice della Curia, indisse un concilio ecumenico, meno di novant'anni dopo il Concilio Vaticano I; mentre i suoi consiglieri pensavano a tempi lunghi (almeno un decennio) per i preparativi, Giovanni XXIII lo programmò e lo organizzò in pochi mesi. Il 25 dicembre 1961 nella Bolla d'Indizione “Humanae Salutis”, Giovanni XXIII indicò la finalità del Concilio nella ricerca dell'unità e nella pace del mondo.

Giovanni XXIII ebbe rapporti fraterni con i rappresentanti di diverse confessioni cristiane e non cristiane, in particolar modo con il pastore David J. Du Plessis, ministro pentecostale della Chiesa Cristiana Evangelica delle Assemblee di Dio. Il venerdì Santo del 1959, senza alcun preavviso, diede ordine di “cancellare” dalla preghiera “Pro Judaeis”, che veniva recitata in quel giorno durante la liturgia solenne, il penoso aggettivo che qualificava “perfidi” gli Ebrei. Questo gesto fu considerato un primo passo verso il riavvicinamento tra le due religioni monoteiste e indusse Jules Isaac, direttore dell'Associazione “Amicizia ebraico-cristiana” a chiedere un'udienza al Papa, che venne accordata il 13 giugno 1960.

Il 2 dicembre 1960 Giovanni XXIII incontrò in Vaticano, per circa un'ora, Geoffrey Francis Fisher, arcivescovo di Canterbury. Fu la prima volta in oltre 400 anni che un capo della Chiesa Anglicana visitava il Papa.

Il 17 ottobre 1961, in occasione dell'anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, papa Giovanni XXIII ricevette in Vaticano un gruppo di centotrenta ebrei provenienti dagli Stati Uniti per ringraziarlo per la sua opera a favore del popolo ebraico, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, e li accolse con le parole bibliche: “Io sono Giuseppe, vostro fratello”, in riferimento (oltre che al proprio nome di battesimo) all'incontro in Egitto e alla riconciliazione tra il patriarca Giuseppe e i suoi undici fratelli che, in gioventù, lo avevano perseguitato.

Il 3 gennaio 1962 si diffuse la notizia che papa Giovanni XXIII avesse scomunicato Fidel Castro dando seguito al decreto del 1949 di papa Pio XII che vietava ai cattolici di appoggiare i governi comunisti. A parlare di scomunica fu l'arcivescovo Dino Staffa, in quel momento segretario della Congregazione per i seminari, che in base ai suoi studi di diritto canonico la considerava già operata de facto se non di diritto; inoltre altri importanti esponenti della curia volevano con questa mossa lanciare un segnale ostile al centrosinistra nascente in Italia. L'autorevolezza di tali voci fece in modo che la leggenda della scomunica non venisse smentita dal Papa (che però ci rimase molto male) e che fosse creduta da tutti, anche dallo stesso Castro, che aveva precedentemente abbandonato la fede cattolica e che dunque lo considerò un evento di scarse conseguenze poiché per sua stessa ammissione non è mai stato credente.

In realtà tale atto non è stato mai effettuato dal Pontefice, come ha rivelato il 28 marzo 2012 l'allora segretario di Angelo Giuseppe Roncalli, monsignor Loris Capovilla, secondo cui la parola "scomunica" non faceva parte del vocabolario del Papa buono. A testimonianza di quanto dichiarato, basti leggere il diario di Giovanni XXIII in cui egli non accenna al provvedimento né il 3 gennaio 1962 (data in cui parla solamente delle sue udienze) né in altre date.

Nello stesso 1962, il Sant'Uffizio nella figura del cardinale Alfredo Ottaviani redasse il Crimen sollicitationis, con l'avallo di papa Giovanni: un documento diretto a tutti i vescovi del globo, che stabilisce le pene da comminare secondo il diritto canonico nelle cause di sollicitatio ad turpia (latino, «provocazione a cose turpi»), cioè quando un chierico (presbitero o vescovo) veniva accusato di usare il sacramento della confessione per fare avances sessuali ai penitenti. In esso fu prevista, per gli episodi più gravi, la scomunica per coloro che non vi si fossero attenuti.

Il 4 ottobre 1962, ad una settimana dall'inizio del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII si recò in pellegrinaggio a Loreto e Assisi per affidare le sorti dell'imminente Concilio alla Madonna e a San Francesco (Roncalli era dall'età di 14 anni terziario francescano). Per la prima volta dall'unità d'Italia un papa uscì dai confini di Roma e dintorni. Il breve tragitto costituì l'esempio di papa pellegrino che fu poi seguito dai suoi successori (Paolo VI, Giovanni Paolo II, ecc.). La gente accolse l'iniziativa affollando a dismisura le varie stazioni dove sostò il treno papale e i due santuari meta del tragitto (ad Assisi persino i frati salirono sui tetti antistanti la basilica).

Uno dei più celebri discorsi di papa Giovanni - forse una delle allocuzioni in assoluto più celebri della storia della Chiesa - è quello che ormai si conosce come «Il discorso della luna». L'11 ottobre 1962, in occasione della serata di apertura del Concilio, piazza San Pietro era gremita di fedeli. Chiamato a gran voce, Roncalli decise di affacciarsi, per limitarsi a benedire i presenti. Poi si convinse a pronunciare, a braccio, un discorso semplice, dolce e poetico, con un richiamo straordinario alla luna, pur tuttavia contenente elementi del tutto innovativi:

« Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare a questo spettacolo. »
Poi il Papa salutò i fedeli della diocesi di Roma (essendone anche il vescovo), e si produsse in un atto di umiltà forse senza precedenti, asserendo tra le altre cose:

« La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato padre per volontà di Nostro Signore, ma tutti insieme paternità e fraternità è grazia di Dio (..)
(...) Facciamo onore alle impressioni di questa sera, che siano sempre i nostri sentimenti, come ora li esprimiamo davanti al cielo, e davanti alla terra: fede, speranza, carità, amore di Dio, amore dei fratelli. E poi tutti insieme, aiutati così, nella santa pace del Signore, alle opere del bene. »
E, sulla linea dell'umiltà, impartì un ordine da pontefice con il parlare di un curato:

« Tornando a casa, troverete i bambini. Date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare, dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza. »

Pochi giorni dopo l'apertura del Concilio ecumenico, il mondo sembra precipitare nel baratro di un conflitto nucleare. Il 22 ottobre 1962, il presidente degli Stati Uniti d'America, John F. Kennedy, infatti, annuncia alla nazione la presenza di installazioni missilistiche a Cuba e l'avvicinamento all'isola di alcune navi sovietiche con a bordo le testate nucleari per l'armamento dei missili. Il Presidente statunitense impone un blocco navale militare a 800 miglia dall'isola, ordinando agli equipaggi di essere pronti ad ogni eventualità, ma le navi sovietiche sembrano intenzionate a forzare il blocco.

Di fronte alla drammaticità della situazione, il Papa sente la necessità di agire per la pace. Il 25 ottobre successivo, alla Radio Vaticana, rivolge "a tutti gli uomini di buona volontà" un messaggio in lingua francese, già consegnato - in precedenza - all'ambasciatore degli Stati Uniti presso la santa Sede e ai rappresentanti dell'Unione Sovietica: “Alla Chiesa sta a cuore più d'ogni altra cosa la pace e la fraternità tra gli uomini; ed essa opera senza stancarsi mai, a consolidare questi beni. A questo proposito, abbiamo ricordato i gravi doveri di coloro che portano la responsabilità del potere. Oggi noi rinnoviamo questo appello accorato e supplichiamo i Capi di Stato di non restare insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventevoli conseguenze. Continuino a trattare. Sì, questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia. Promuovere, favorire, accettare trattative, ad ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e prudenza, che attira le benedizioni del Cielo e della terra”.

Il messaggio suscita consenso in entrambe le parti in causa e, alla fine, la crisi rientra.

Non sono stati ancora pubblicati documenti sull'attività per la pace esercitata in quei giorni della diplomazia vaticana nei confronti del cattolico Kennedy e sull'Unione Sovietica, per tramite del governo italiano, presieduto dal democristiano Amintore Fanfani. È certo, peraltro che, il 27 ottobre alle ore 11.03, dopo nemmeno quarantotto ore dal radiomessaggio del Papa, giunge a Washington una proposta di Nikita Chrušcv, concernente il ritorno in Patria delle navi sovietiche e lo smantellamento delle postazioni cubane in cambio del ritiro delle testate atomiche americane dalla Turchia e dall'Italia (base di San Vito dei Normanni). Poiché in quella stessa mattinata, nella Capitale degli Stati Uniti, era presente Ettore Bernabei, uomo di fiducia di Fanfani, già con l'incarico di consegnare al presidente Kennedy una nota del governo italiano con la quale si accettava il ritiro dei missili dalla base italiana, non è improbabile che la mediazione diplomatica sia stata abilmente concertata tra il Vaticano e Palazzo Chigi.

Il 28 ottobre gli Stati Uniti accettano la proposta sovietica.

L'importanza del passo compiuto dal Papa è testimioniata dal russo Anatoly Krasikov, nella biografia di Giovanni XXIII scritta da Marco Roncalli: “Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il Papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell'abisso”. In data 15 dicembre 1962, infatti, perveniva al Papa un biglietto di ringraziamento del leader sovietico del seguente tenore: "In occasione delle sante feste di Natale La prego di accettare gli auguri e le congratulazioni... per la sua costante lotta per la pace e la felicità e il benessere". La drammatica esperienza convince ancor più Giovanni XXIII a un rinnovato impegno per la pace. Da questa consapevolezza, nasce, nell'aprile del 1963, la stesura dell'enciclica Pacem in Terris.

La Pacem in Terris resta tuttora un brano fondamentale della teologia cattolica sul versante della socialità e della vita civile. Ed è per altro verso comunque un brano importante anche per la cultura sociale occidentale (anche laica) del Novecento, un testo la cui lettura (peraltro discretamente agevole) è necessaria per la comprensione di alcune tracce della politica vaticana e di quella occidentale.

Giovanni XXIII rivelò che aveva affidato la composizione delle sue encicliche più famose, quelle di carattere sociale, a suoi collaboratori: nel caso della Mater et Magistra fu lui stesso a confermarlo alla finestra di piazza san Pietro, precisando che il gruppo degli esperti incaricati di stendere questo testo si era rifugiato in Svizzera e lui ne aveva perduto ogni traccia. Per l'enciclica Pacem in Terris accadde lo stesso: ricevendo il primo ministro del Belgio, Théo Lefévre, che si complimentava per la pubblicazione del documento, gli confidò: «Guardi, a parte alcune righe che sono mie, tutto il resto è il frutto del lavoro di altri... Sono problemi che il Papa non può conoscere a fondo». Anche il giornale umoristico belga Pan riportò l'episodio. È la prima enciclica che oltre al clero e ai fedeli cattolici si rivolge "a tutti gli uomini di buona volontà".

Letta nelle titolazioni dei suoi capoversi parrebbe un documento pressoché statutario, costituzionale, di organica classificazione di diritti e doveri. Letta storicamente, invece, contiene in sé elementi che valsero di force de frappe per superare l'immobilismo nei rapporti idealistici fra Chiesa e Stati, allora praticamente stagnante. Il richiamo alle necessità dello stato sociale, mentre nel mondo occidentale cominciavano ad essere proposti schemi di capitalismo oltranzista sullo stile statunitense, giungeva in piena guerra fredda, con nazioni europee intente a pagare anche politicamente ed amministrativamente i tributi della disfatta e per questo più inclini a considerare (ciò che sarebbe stato anche strumento di facilitazione gestionale per i governi) riduzioni delle spese pubbliche per assistenza.

Per contro, l'enciclica non andava certo verso proposte di stato che da sociale potesse divenire socialista, e ristorava il ruolo di centralità dell'uomo, di libero pensiero e intendimento, ragione e motore delle scelte ideali ed obiettivo della socialità. Vale la pena di riportare il punto 5:
« In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili »
La pace, oggetto fondamentale e dichiarato dell'enciclica, può sorgere solo dalla riconsiderazione, in senso forse «particulare» o forse meglio umanistico, del valore dell'uomo "singolo individuo" che non può annientarsi al cospetto dei sistemi, siano essi capitalistici o socialisti. È la poco ricordata «terza via», anche detta «via del buon senso», oggi riscoperta da sempre più persone e gruppi, ma già al tempo ben definita.

Sin dal settembre 1962, prima ancora dunque dell'apertura del Concilio, si erano manifestate le avvisaglie della malattia fatale: un tumore dello stomaco, patologia che aveva già colpito altri fratelli Roncalli. Il 7 marzo 1963, tra lo stupore generale, concesse udienza a Rada Chrušcva, figlia del segretario generale del PCUS Nikita Chrušcv e a suo marito Alexei Adžubej. Quest'ultimo rappresentò l'apprezzamento del suocero per le iniziative del Papa in favore della pace, lasciando intendere la disponibilità per lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra il Vaticano e l'Unione Sovietica. Il Papa espresse la necessità di procedere per tappe in tale direzione, perché altrimenti tale passo non sarebbe stato compreso dall'opinione pubblica.

Pur visibilmente provato dal progredire del cancro, papa Giovanni firmò l'11 aprile 1963 l'enciclica Pacem in Terris e, un mese più tardi, l'11 maggio 1963, ricevette dal presidente della Repubblica italiana Antonio Segni il premio Balzan per il suo impegno in favore della pace. Fu il suo ultimo impegno pubblico: il 23 maggio 1963, solennità dell'Ascensione, si affacciò per l'ultima volta dalla finestra per recitare il Regina Coeli. Il 31 maggio 1963 iniziò l'agonia. Nel primo pomeriggio del 3 giugno 1963, papa Giovanni patì di una febbre altissima, circa 42 gradi, in conseguenza alla malattia che lo affliggeva da tempo.

Nell’aria c’era già l’odore dell’estate, ma il giorno era triste. Quel 3 giugno 1963 una luce si spegneva nel mondo: il “Papa buono” era morto. Calde lacrime solcavano il viso delle tante persone che appresero in quei momenti la notizia della sua scomparsa. Nel suo breve ma intenso pontificato, durato poco meno di cinque anni, Papa Giovanni era riuscito a farsi amare dal mondo intero, che adesso ne piangeva la perdita.
Ma già subito dopo la sua morte incominciava il fervore della devozione popolare, che doveva avvolgere la sua figura di una precoce quanto indiscussa aureola di santità, e prendeva avvio il processo di beatificazione: un lavoro ciclopico, durato ben 34 anni, con l’avvicendarsi di diversi Postulatori e montagne di documenti da vagliare prima di pronunciarsi sulla sua eroicità.

Giovanni XXIII morì alle 19:49 del 3 giugno 1963. «Perché piangere? È un momento di gioia questo, un momento di gloria» furono le sue ultime parole rivolte al suo segretario, Loris Francesco Capovilla. Dal Concilio Vaticano II, che Giovanni XXIII non vide dunque terminare, si sarebbero prodotti negli anni successivi fondamentali cambiamenti che avrebbero dato una nuova connotazione al cattolicesimo moderno; gli effetti più immediatamente visibili consistettero nella riforma liturgica, in un nuovo ecumenismo e infine in un nuovo approccio al mondo e alla modernità.

Giovanni XXIII venne inizialmente sepolto nelle Grotte Vaticane e all'atto della beatificazione il suo corpo fu riesumato. La salma fu trovata in un perfetto stato di conservazione (salvo annerimenti vari e lievi colliquazioni nelle parti declivi), grazie al particolare processo d'imbalsamazione eseguito dal professor Gennaro Goglia subito dopo il decesso, consistente tra l'altro nell'iniettare molti litri di liquido conservativo nelle arterie principali, sostituendo il sangue. Praticati alcuni interventi conservativi, sul volto e sulle mani fu applicato uno strato conservativo di cera. Indi, dopo la cerimonia di beatificazione e l'ostensione ai fedeli, la salma fu tumulata in un'urna di vetro in un altare della navata destra della basilica di San Pietro.

Giovanni XXIII fu dichiarato beato da papa Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000. Il Martirologio Romano indica come data di culto il 3 giugno, mentre le diocesi di Roma e di Bergamo e l'arcidiocesi di Milano ne celebrano la memoria locale l'11 ottobre, anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962). A seguito della canonizzazione, è stata stabilita come unica data a livello universale l'11 ottobre.

In generale, ai fini della beatificazione, la Chiesa cattolica ritiene necessario un miracolo: nel caso di Giovanni XXIII, ha ritenuto miracolosa la guarigione improvvisa, avvenuta a Napoli il 25 maggio 1966, di suor Caterina Capitani, delle Figlie della Carità, affetta da una gastrite ulcerosa emorragica gravissima che l'aveva ridotta in fin di vita. La suora, dopo aver pregato papa Giovanni XXIII insieme alle consorelle, avrebbe avuto una sua visione, seguita dalla subitanea guarigione, dichiarata in seguito scientificamente inspiegabile dalla Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi. Dal 2000 numerose sono state le segnalazioni e i presunti miracoli.

Il 5 luglio 2013 papa Francesco ha firmato il decreto per la canonizzazione di Giovanni XXIII che è avvenuta il 27 aprile 2014, contestualmente a quella di Giovanni Paolo II, prescindendo dai risultati del processo indetto dalla congregazione competente per la veridicità di un secondo miracolo.

Alla cerimonia in piazza San Pietro, celebrata da papa Francesco alla presenza del papa emerito Benedetto XVI, di ventiquattro capi di Stato, otto vicecapi, dieci capi di governo e 122 delegazioni straniere, hanno partecipato circa un milione di fedeli, mentre sono state stimate in 2 miliardi le persone che hanno seguito l'evento in mondovisione. Oltre ai maxischermi posti in chiese e piazze di tutto il mondo, per la prima volta nella storia un evento è stato trasmesso in diretta 3D anche in più di 500 cinema di venti paesi (in Italia è altresì andato in onda in tale formato sul canale a pagamento Sky 3D). L'evento è anche stato registrato in Ultra HD 4K grazie alla collaborazione tra il Centro Televisivo Vaticano, Sony e Sky Italia.

Il piccolo paese del bergamasco, che diede i natali ad Angelo Roncalli, è oggi meta di numerosi pellegrinaggi. Oltre la casa natale, particolarmente significativo è il museo che monsignor Loris Francesco Capovilla, segretario particolare di Giovanni XXIII, ha allestito dal 1988 nella residenza di Ca' Maitino (sempre presso Sotto il Monte), dove Roncalli era solito recarsi per le sue ferie estive prima di essere eletto papa. Questo museo conserva innumerevoli cimeli appartenuti a Giovanni XXIII lì raccolti da monsignor Capovilla, fra i quali il letto su cui il Pontefice spirò il 3 giugno 1963 e l'altare della cappella privata.

Durante il suo pontificato fu pubblicato su “L’Osservatore Romano” un suo “Piccolo saggio di devoti pensieri distribuiti per ogni decina del Rosario, con riferimento alla triplice accentuazione: mistero, riflessione ed intenzione”: in una scrittura limpida e chiara c’è il succo delle riflessioni che egli veniva maturando nella personale preghiera del S. Rosario. “Nell’atto che ripetiamo le Avemarie, quanto è bello contemplare il campo che germina, la messe che s’innalza…”, diceva con efficace metafora presa da quel mondo contadino a lui così familiare. “Ciascuno avverte nei singoli misteri l’opportuno e buon insegnamento per sé, in ordine alla propria santificazione e alle condizioni in cui vive”.
Papa Giovanni auspicava che il Rosario venisse recitato ogni sera in casa, nelle famiglie riunite, in ogni luogo della terra.


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sabato 5 marzo 2016

I GHETTI EBRAICI

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Quasi sempre, nella storia, gli ebrei sono stati vittime di pregiudizi, perseguitati e costretti a lasciare la propria terra per spostarsi alla ricerca, vana, di un po’ di tranquillità. Ma la persecuzione di gran lunga più grave appartiene alla storia recente: uno dei genocidi più terrificanti dell’umanità, quello che sterminò poco meno di sei milioni di ebrei, operato dal nazifascismo tra il 1940 e il 1945, durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo essere stati oggetto di persecuzione e discriminazione per secoli e secoli, dopo aver visto i propri diritti calpestati dalla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV Carafa, nel 1555, e dopo essere stati costretti alla convivenza in quartieri separati chiamati ghetti, gli ebrei abitanti nel regno di Sardegna ottennero finalmente, nel 1848, l’eguaglianza dei diritti con gli altri cittadini per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia; sarebbero stati poi in molti a partecipare al processo di unificazione nazionale.

Il ghetto è un'area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, o unite da una determinata cultura o religione, vivono in gruppo, volontariamente o forzosamente, in un regime di reclusione più o meno stretto. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere ebraico, quella zona della città in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Modernamente è chiamato ghetto anche la parte malfamata della città

Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei (essi infatti risiedevano anteriormente nel Sestiere della Giudecca), era una fonderia di ferro: il nome del quartiere deriva dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso.

Il nome era stato prima utilizzato nella cittadina di Antrodoco (provincia di Rieti) nella seconda metà del XIII secolo e stava ad indicare la parte più alta della cittadina; essa fu la prima parte della cittadina ad essere edificata proprio da una famiglia ebrea, da cui il termine Ghetto.

Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. In Castiglia erano chiamati Judería e nei paesi catalani call. Vale la pena di notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano I Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola.

Nel Medioevo non c'era obbligo, per gli Ebrei, di risiedere nel ghetto. Preferibilmente vivevano in quartieri chiamati Giudecca. La differenza tra Giudecca e Ghetto era che la prima era una residenza preferenziale, legata a motivi di sicurezza e salvaguardia culturale, il secondo invece un domicilio coatto.

In vari luoghi, inoltre, come ad esempio a Forlì, potevano possedere terreni e fabbricati. Col Cinquecento, la possibilità si restrinse ai soli fabbricati. Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero.

La comunità ebraica, pur rappresentando una percentuale molto piccola della popolazione italiana, è stata ininterrottamente presente nella nostra penisola da circa 2200 anni. Nell’antica Roma, all’incirca nel 4 a. C., su un totale di 800 mila persone si stimava che ci fossero 40 mila ebrei:

molto tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d. C., molto tempo prima che i successori di Pietro facessero di Roma la città santa del cristianesimo, una colonia ebraica si era insediata sulle rive del Tevere. Infatti lo storico Giuseppe ricorda che almeno ottomila ebrei vi vivevano la Sinagoga precedette il Vaticano”.

E, se ci spingiamo un millennio più avanti, ci accorgiamo che su un numero molto incrementato di abitanti (circa 10 milioni negli spazi italiani), c’erano soltanto diecimila ebrei in più. Questo numero era destinato a crescere grazie all’arrivo degli ebrei espulsi espulsi dalla Spagna in seguito al provvedimento messo in atto da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492 (la cosiddetta “Cacciata dei Marrani”).

In Italia, gli ebrei sono sempre vissuti in gruppi con riti e tradizioni diversi, a seconda della loro provenienza e delle loro origini: italiani, sefarditi (provenienti dalla Spagna) e ashkenaziti (di provenienza tedesca), ai quali, dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah, e durante tutti gli anni ’50, si sono aggiunti altri ebrei di origine persiana, libanese, egiziana e libica.

Proprio negli anni successivi a quelli della deportazione e dello sterminio, la comunità ebraica è andata consolidandosi: oggi nel nostro paese sono presenti circa 30 mila ebrei disseminati in 21 comunità riconosciute dallo Stato italiano.

Tuttavia, con la salita al potere del fascismo, si raggiunse un livello insopportabile:gli ebrei non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto, ma già con il concordato del 1929 con il Vaticano l’unica religione di stato diventava il cattolicesimo.

Fu con l’avvicinarsi della guerra, nel 1938, che furono presi i primi provvedimenti legislativi antisemiti: il fascismo promulgò le leggi razziali, che escludevano gli ebrei dall’esercizio delle professioni, dalla scuola e dalle università e limitavano ogni diritto di proprietà:

come emerge chiaramente da una lettera del camerata A.G. di Roma apparsa  ne “La difesa della razza”, essi fanno, secondo l’ideale fascista, “praticamente parte dell’esercito nemico!” L’ebreo “è un soldato nemico che noi ospitiamo e che, lungi dal rinchiuderlo nei pur confortevoli (troppo!) nostri campi di concentramento, lasciamo a piede libero, senza sorveglianza, colmandolo di sorrisi, di attenzioni, di gentilezze, offrendogli spesso complicità immonde”.

Al termine della seconda guerra mondiale, gli ebrei in Italia erano 21.000, mentre prima del conflitto erano circa 50.000: in molti erano emigrati, ma più di ottomila erano stati deportati nei campi di concentramento nazisti; di questi, soltanto pochissimi furono i superstiti.

Le persecuzioni cessarono, ma è soltanto con la legge d’Intesa (in ottemperanza agli articoli 8 e 19 della costituzione italiana) firmata nel febbraio del 1987 tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che gli ebrei si vedono i loro diritti pienamente riconosciuti:

art 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Art 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume.

Queste forme di "giudeofobia" si manifestarono solo in piccola parte durante il Medioevo poichè la separazione degli ebrei dai non ebrei era improponibile da parte della chiesa che voleva garantire la libertà di culto al popolo giudaico in quanto testimone vivente del messaggio divino. Un'alta esigenza era di vitale importanza per la società medioevale: gli ebrei erano abili operatori economici e quindi risultava estremamente dannoso privare la collettività di quei servizi fiscali necessari effettuati per la maggior parte dal popolo ebreo. Se queste esigenze non potevano essere compromesse allora si fece ricorso ad altri mezzi: gli ebrei dovevano portare un segno di riconoscimento, non si potevano sposare o avere relazioni sessuali con i cristiani e addirittura gli venne impedito di frequentare gli stessi luoghi pubblici, gli ebrei dovevano restare rinchiusi durante i giorni della Settimana Santa, e così via.
Le prescrizioni contro gli ebrei aumentarono significativamente sia nel mondo cristiano che in quello islamico trasformando in obbligo la loro libera scelta di installarsi in un determinato quartiere. Anche se la segregazione degli ebrei avveniva sotto costrizione, nel Medioevo non si verificò mai una vera e propria ghettizzazione, infatti la clausura non era controllata dall'esterno e alcuni vivevano ancora in quartieri popolati perlopiù da cristiani e conservando i propri luoghi di culto.
Certamente la pressione della Chiesa per una più accurata separazione tra Ebrei e Cristiani andava accentuandosi, il passo decisivo fu compiuto con il concilio di Breslavia (1266) che, a Gniezno, istituì il primo quartiere fisicamente separato per gli ebrei. Comunque le richieste dei pontefici per la clausura obbligatoria non vennero soddisfatte ovunque, ma là dove non arrivava la Chiesa i "ghetti" venivano istituiti dai poteri civili sotto la spinta delle masse popolari o sollecitati dal clero locale.
Ormai le segregazioni coatte di ebrei si assomigliavano sempre più a quelle che sarebbero state realizzate nel sedicesimo secolo. In Spagna già dal duecento iniziarono a sorgere quartieri ebraici distinti: nel 1243 Giacomo di Aragona ordinò agli ebrei di Terragona di concentrarsi in un unico quartiere. Di lì a poco in tutta la penisola iberica si accentuarono le persecuzioni, le prime espulsioni di massa fino ad arrivare ad una vera e propria "ghettizzazione" che fu promulgata nel 1480 da Ferdinando il Cattolico e Isabella. Dodici anni più tardi gli ebrei furono espulsi dalla Spagna o costretti a convertirsi. Come in Spagna anche gli ebrei tedeschi e francesi seguirono la stessa sorte evitando, però, l'espulsione.
Nei paesi arabi, al contrario di quelli europei, non si era quasi mai sostenuto l'esigenza di separare gli "infedeli" sebbene esistessero "quartieri ebraici" (così definiti solo perché la maggioranza della popolazione che vi risiedeva era costituita da ebrei), venivano chiamati "shara" in Tunisia e Algeria e "mahallat Yahud" in Persia. Questi non erano circondati da mura e non escludevano la mescolanza di ebrei con il resto della popolazione. Solo nella prima metà del 1400 comparvero nei paesi arabi i veri e propri ghetti, ma si trattava comunque di casi isolati (Marrakesh, Mekness, Fez e alcune città dello Yemen).
Il nome ghetto fu "coniato" a Venezia nel 1515 quando gravi tensioni interne avevano condotto i veneziani a porsi il problema dell'eccessiva presenza ebraica in città. dato che era sconveniente ricorrere all'espulsione, si pensò di creare un quartiere ebraico come era avvenuto nelle colonie dell'Egeo. Naturalmente l'opposizione degli ebrei fu vana e, per la paura di un'espulsione di massa, accettarono di essere raccolti in un'area a loro destinata: il quartiere di Cannaregio. Il ghetto di Venezia conobbe un incredibile aumento della popolazione che portò la popolazione ad effettuare notevoli ampliamenti, qui non c'erano solo gli ebrei ma tutti coloro che non erano accettati dalla società perchè giudicati pericolosi o diversi.
Durante tutto il seicento la pressione della Chiesa sugli stati italiani per l'adesione al programma di segregazione del popolo ebraico si fece sempre più inevitabile per mantenere la propria autonomia, le proprie tradizioni religiose, cosicchè vennero realizzati numerosi nuovi ghetti su tutto il territorio italiano: a Ferrara, Urbino,Padova, Verona. I casi più in vista furono Mantova, Modena, Reggio e Livorno, dove la popolazione ebraica era molto più numerosa che in tutte le altre città italiane.
A Mantova Clemente ottavo impose l'istituzione di un nuovo ghetto al duca Vincenzo primo che si decise ad aprire trattative con gli ebrei. Questi ultimi non si opposero poichè lo videro come uno strumento di protezione ma dovettero provvedere a tutte le spese per la sistemazione del ghetto.
A Modena e a Reggio i ghetti furono meno opprimenti infatti i mercanti vennero autorizzati a tenere alcune botteghe fuori del perimetro e ci furono progressivi adeguamenti dello spazio man mano che la popolazione aumentava.
A differenza di tutte le città citate fino ad adesso Livorno presenta un'eccezione, infatti i Granduchi di Toscana concessero ospitalità a tutti gli stranieri (Ebrei compresi) al fine di trasformare Livorno in un importante centro commerciale. Non si assistette, quindi alla fondazione di un nuovo ghetto ma semplicemente ad un libero insediamento.
In quasi tutti gli stati italiani i ghetti non si limitarono alle grandi città ma vennero fondati anche nelle minuscole localita' di confine, nei piccoli borghi e nei centri agricoli. Il ghetto divenne in Italia l'unico scenario della vita quotidiana della grande maggioranza degli Ebrei.
Un caso isolato è quello del Piemonte. Quello di Torino fu il primo vero ghetto dello stato di Savoia, già dal Quattrocento c'erano state iniziative di segregazione degli ebrei in Piemonte e il vescovo di Alessandria tentò di far istituire il ghetto nella sua città ma solo a Torino nel 1621 si arrivò alla realizzazione. Sotto la reggenza di Maria Giovanna Battista di Nemours, moglie del defunto Carlo Emanuele secondo, scelse come area di insediamento l'Ospedale di Carità, un'istituzione già destinata alla segregazione di poveri e malati. Con la nascita del Regno di Sardegna Amedeo II estese l'obbligo di risiedere nei ghetti a tutti i sudditi ebrei.
Ancora una volta gli ebrei non si opposero alla loro segregazione, intimoriti dall'ostilità cristiana.
La segregazione degli ebrei nei ghetti ebbe perlopiù una funzione protettrice, per questo non si verificarono quasi mai resistenze violente, infatti l'istituzione dei "recinti" non era legata a ragioni ideali bensì a ragioni pratiche. Il ghetto godeva di ampia autonomia e si autogovernava attraverso leggi religiose.
Anche se nei ghetti vigevano leggi ferree che assicuravano un'esistenza tranquilla e pacifica ai suoi abitanti, non mancavano di certo pericoli che potevano mettere a rischio l'intera comunità. Questi rischi provenivano sopratutto dall'esterno. Alla fine del settecento, in Italia, si era diffusa la convinzione che gli ebrei stessero dalla parte della "rivoluzione" e questo indusse le masse popolari ad aggredire i ghetti e a massacrarne gli abitanti, ma questo accadde anche perchè alcuni ghetti vennero aperti senza gradualità e quindi senza che le autorità avessero ancora preso le contromisure necessarie per un pacifico reinserimento degli ebrei nella società che ormai da secoli era abituata a tenerli fisicamente separati.
L'altro grave problema riguardava le condizione di degrado in cui vivevano gli abitanti del ghetto, infatti l'intrico delle abitazioni esponeva gli ebrei ad una maggior propagazione delle epidemie, senza pensare poi a quello che poteva accadere in caso di inondazioni, terremoti, incendi e più in generale tutte le calamità naturali.
Solo nell'ottocento si arrivò alla cancellazione dei ghetti, già durante il settecento le concessioni si erano moltiplicate e poi in molte città la clausura venne abolita, ma questo accadde solo nell'Europa occidentale, perchè in quella orientale, e soprattutto in Germania, la dottrina antisemita assunse i toni più virulenti.
Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento in Germania la diversità dell'ebreo fu avvertita come diversità nazionale, il che portò il paese ospitante a sospettare di infedeltà al popolo tedesco. Ciò accadde soprattutto dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e le drammatiche vicende della repubblica di Weimar.
La popolazione ebraica fu colpita da una serie di limitazioni crescenti e dall'odio di una nazione che si preparava ad una dittatura in nome del mito della razza ariana.
Con l'invasione della Polonia, i nazisti si trovarono di fronte ad una popolazione ebraica di gran lunga più numerosa che in occidente, i provvedimenti di discriminazione apparvero irrealizzabili e per questo si passò alla segregazione coatta degli ebrei all'interno di una serie di quartieri cittadini. Queste zone vennero chiamate ghetti e all'inizio non ci furono resistenze da parte degli ebrei, anche perchè era ancora inimmaginabile il folle progetto di Hitler (la soluzione finale ).
Nel ghetto nazista gli ebrei erano visti come prigionieri (come negli Shtetl dell'ottocento ) e perdevano qualsiasi diritto.
L'occupazione tedesca della Polonia implicò la costruzione di numerosi ghetti, con il consenso del popolo polacco, qualsiasi forma di resistenza venne schiacciata con la violenza.
Nel giro di un anno i ghetti vennero sigillati e l'operazione proseguì anche quando i nazisti optarono per l'eliminazione fisica di tutti gli ebrei (e di tutti quelli considerati un "pericolo" per la stabilità del regime ), si iniziò con le fucilazioni di massa per poi passare alle camere a gas.
Dalla fine del 1941 iniziarono le evacuazioni forzate, gli ebrei venivano prelevati dai ghetti per essere portati verso nuove terre di insediamento o verso campi di lavoro che in realtà erano campi di sterminio. Quindi il ghetto non era più uno strumento per segregare gli ebrei, come era stato ad esempio in Italia, bensì una trappola per illuderli e condurli al massacro senza opposizione.
Molte rivolte si scatenarono contro i nazisti e tra queste la più conosciuta è certamente quella del ghetto di Varsavia, dove è stato ritrovato un archivio clandestino costituito da un gruppo di storici che vivevano in questo ghetto.
La vita nel ghetto di Varsavia era disumana, dai tedeschi dipendeva tutto, anche le razioni di cibo o la possibilità di lavoro. La popolazione era decimata dalla fame e dalle epidemie e nonostante tutto c'era chi trattava affari con i tedeschi e collaborava nelle spietate repressioni. Nei ghetti tradizionali la vita si svolgeva pienamente attorno alla religione, diversamente a Varsavia si era creata una fiorente attività politica e culturale. Le varie organizzazioni politiche trovarono un accordo nella rivolta contro i nazisti, poichè presero coscienza di quello che stava succedendo e lo scopo delle evacuazioni forzate. Si venne così a formare un ampio fronte antinazista che condusse in accordo con la resistenza polacca per convincere gli ebrei di quello che i tedeschi avevano in mente, per fare arrivare in Occidente le prove di quanto stava accadendo e per fornirsi di armi in vista di uno scontro violento.
Il primo scontro armato avvenne il 18 gennaio 1943 ma la vera rivolta esplose il 19 aprile dello stesso anno quando ormai tutti gli abitanti avevano preso coscienza di quello che li aspettava. La rivolta durò diversi giorni fino a che i tedeschi non si decisero a distruggere il ghetto e a deportare tutti gli abitanti. Dopo alcuni mesi dalla distruzione i piccoli gruppi di resistenti sopravvissuti continuavano a combattere fino alla morte o alla loro cattura.




Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma).

Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello. Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto (proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti del ghetto anche durante il giorno.

I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una vera e propria piccola città nella città.

Le caratteristiche dei ghetti hanno subìto notevoli variazioni nei secoli e anche in tempi relativamente brevi: poiché gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto durante i periodi di crescita demografica, i ghetti avevano strade anguste e case alte e affollate. Ogni abitante del ghetto rispettava le leggi di un ben preciso sistema giudiziario interno e, poiché spesso c’era bisogno di un visto per lasciare il ghetto, era raro che potesse passarne i confini, delimitati da mura sistematicamente chiuse la notte e durante le feste.

I quartieri separati per gli ebrei vennero poi aboliti, in un primo tempo durante la rivoluzione francese, poi, progressivamente, nel corso del secolo XIX. In Italia, l’ultimo ghetto ad essere demolito fu quello di Roma, nel 1870.

Tuttavia, con la seconda guerra mondiale i ghetti diventano di nuovo tristemente famosi: durante la guerra, i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti. Gli abitanti dei ghetti dell’Europa Orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni diritto e sottoalimentati, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio durante l’olocausto.

Sicuramente più di uno storico ha sottolineato le condizioni di vita disperate dei ghetti. Significative sono le parole di Anna Foa: “la vita nel ghetto non doveva essere assolutamente facile e di sicuro la filosofia del quartiere ebraico era del tutto cambiata rispetto alla mentalità originaria”. O quelle di Renzo De Felice: ”la vita nel ghetto era difficile e degradante”. Questa degradazione emerge chiaramente dal suggestivo quadro che ci dà la storica italo-americana Susan Zuccotti:

in molte città gli ebrei potevano lavorare soltanto come ambulanti, straccivendoli, mercanti di oggetti di seconda mano e prestatori di denaro su pegno. Le donne, cui era vietato confezionare o vendere indumenti nuovi, rammendavano abiti vecchi che poi venivano venduti dagli uomini. La miseria era endemica. Gli alloggi poverissimi, il lezzo terribile  le costruzioni che venivano innalzate per sopperire alle necessità di dare alloggio a tutti, a volte crollavano e lasciavano molta gente per strada.

Gli ebrei del ghetto affrontavano i problemi organizzando associazioni assistenziali per ogni aspetto della vita quotidiana. C’erano società che aiutavano i poveri, fornivano dote alle ragazze, assistevano le partorienti e i malati, finanziavano i funerali, provvedevano agli orfani. Gli ebrei lottavano contro l’isolamento e la disperazione acquisendo un’istruzione.

In Italia gli ebrei pagavano tasse e tributi esosi, senza speranza di appello. La Polizia poteva entrare nelle case confiscare ogni suppellettile; punivano i cristiani che accendevano il fuoco del sabbath il sabato, accusandoli di lavorare illegalmente per gli ebrei.  Negli stati pontifici la polizia, dove il sistema del ghetto era più repressivo, perseguiva inoltre gli ebrei quando eludevano l’obbligo di assistere ai sermoni interminabili tenuti da preti zelanti  che spesso erano loro stessi convertiti e che avevano appunto lo scopo di sollecitare le conversioni.

Oltre ai grandi ghetti dei capoluoghi, nella nostra penisola, in molti piccoli paesi e nei centri di provincia ne esistevano di importanti per la loro cultura e storia. Ne è un esempio quello del paese di Alessano, centro più importante del Salento, nella parte più a sud della Puglia, terra che da sempre è crocevia di popoli, tradizioni ed etnie diverse: greci e arabi, ebrei e cattolici. E proprio nelle vie di questo borgo sorse, nell’epoca aragonese (soprattutto fra il XV e il XVI secolo), un ghetto, che da quel momento fu ininterrottamente abitato e, durante il secondo conflitto mondiale, fu quartiere di reclusione degli ebrei:

il ricordo della presenza ebraica ad Alessano rivive in un toponimo molto significativo: via Della Giudecca. Il piccolo quartiere appare periferico rispetto all’antico nucleo cittadino e quasi sua appendice, per cui la sua costruzione non dovrebbe essere anteriore al XV secolo. Questo periodo d’altronde, è nel suo insieme uno dei più felici del regno di Napoli, dove accorsero numerosi i profughi ebrei della Germania, della Provenza e della penisola Iberica.

Ma ciò che di particolare c’è riguardo a questo ghetto è il mistero che da sempre aleggia intorno ad esso: camminando per le sue strade e accostando gli edifici di pietra, si respira un’aria misteriosa e leggendaria, a partire dalla prima sinagoga, poi interrata chissà quando e da chi e mai scoperta e della quale si hanno informazioni confuse e fonti non certe.

Tradizioni millenarie, come quella ebraica, sono state compromesse e soppresse dal nazifascismo, e tutto nel giro di pochi anni.

Accanto a questi quartieri di veneranda memoria, nacquero, verso la metà del Ventennio fascista, anche i cosiddetti “campi di internamento civile”, nei quali vennero internati i perseguitati politici e, in seguito, gli ebrei. Ne è un esempio quello, divenuto piuttosto grande, di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo, che sorge però ancora sulla riva marchigiana dell’omonimo fiume che segna il confine fra le due regioni.

“il campo di Civitella del Tronto, entrò in funzione nei primi giorni del 1940  e inizialmente gli internati alloggiarono nell’ex convento francescano di Santa Maria dei Lumi.

Le condizioni di vita, a parte l’umidità degli edifici, l’affollamento abitativo e la carenza di riscaldamento, non furono particolarmente dure. Tuttavia, gli internati a Civitella rimanevano poco poiché venivano subito diretti prima a Fossoli e poi smistati nei vari campi nazisti.”

Il campo di Civitella fu attivo fino al maggio del ‘44, con un continuo passaggio di uomini, soprattutto “sudditi nemici” .

Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).

Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano.



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sabato 25 aprile 2015

BUON ONOMASTICO MARCO

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San Marco evangelista (in ebraico מרקוס, in greco Μάρκος; Palestina, 20 circa – Alessandria, seconda metà del I secolo d.C.) fu discepolo dell'apostolo Paolo e, in seguito, di Pietro ed è tradizionalmente ritenuto l'autore del Vangelo secondo Marco. È venerato come santo da varie Chiese cristiane, tra cui quella cattolica, quella ortodossa e quella copta, che lo considera proprio patriarca e primo vescovo di Alessandria.

L'etimologia di Marco è nato in marzo, sacro a Marte, dal latino.

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L'evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell'828 nella città della Venezia.

La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio: fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Il culto di san Marco, per l'importanza religiosa rivestita dalla condizione di evangelista, è estremamente diffuso e capillare tra le chiese cristiane. Centrale per le chiese orientali d' Egitto, derivate dall'antico patriarcato di Alessandria, per i patriarcati italiani - oggi soppressi - di Aquileia e di Grado e per il patriarcato di Venezia, nella cui chiesa cattedrale, la basilica di San Marco, è tuttora conservato il corpo del Santo.

La memoria religiosa è il 25 aprile, in occasione della ricorrenza del martirio. Nell'antica Repubblica di Venezia, tuttavia erano dedicati a san Marco anche il 31 gennaio, ricordo della traslazione a Venezia delle reliquie, e il 25 giugno, data del rinvenimento, nel 1094, del luogo in cui esse erano state occultate (secondo la leggenda, dentro un pilastro).

La raffigurazione di san Marco compare sin dalla prima arte cristiana, assieme a quella degli altri Evangelisti. San Girolamo (IV secolo) argomentò come si possano associare i quattro evangelisti con i simboli del "tetramorfo" che compaiono nelle profezie di Ezechiele, riprese poi nelle visioni dell'Apocalisse:

« Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola; i quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi »
Nell'iconografia dell'inizio del V secolo – come si osserva ad esempio nei mosaici della Basilica di Santa Pudenziana a Roma – furono tali simboli ad essere rappresentati al posto dei quattro santi: san Marco vi appare come leone alato.

Già nell'arte bizantina, tuttavia, alcuni mosaici – ad esempio in quelli della Basilica di San Vitale a Ravenna - raffiguravano i quattro evangelisti in forma umana, con in mano il Vangelo e con a fianco i loro simboli. Tale iconografia divenne diffusissima nell'arte romanica, poi in quella gotica. Nelle chiese di tale periodo i quattro santi vennero molto spesso effigiati nelle vele delle volte a crociera, seduti allo scrittoio, intenti alla stesura dei vangeli; talvolta si affiancano a essi i quattro Dottori della Chiesa. Troviamo anche talvolta (ad es. nei bassorilievi che ornano il Battistero di Parma) la raffigurazione dei quattro santi in forme mostruose, ove su un corpo umano alato si erge la testa del loro simbolo.

Le figure degli evangelisti – e tra esse quella di Marco – compaiono poi nelle rappresentazione degli apostoli che troviamo in ogni espressione dell'arte sacra cristiana. Alcune pale d'altare esprimono una speciale devozione per san Marco, come la celebre tela di Tiziano raffigurante San Marco in trono nella Basilica di Santa Maria della Salute a Venezia.

La narrazione della vita dei santi costituì come noto un impegno costante dell'arte sacra. Per quanto attiene san Marco, patrono di Venezia, si trovano già raffigurate scene della sua vita nei mosaici della Basilica di San Marco (XIII secolo). Nel periodo rinascimentale gli episodi narrati nella Leggenda Aurea divennero soggetto per numerosi capolavori eseguiti da artisti della scuola veneta. Tra i maggiori esempi la grande tela di Gentile e Giovanni Bellini raffigurante la Predica di san Marco ad Alessandria e anche le quattro tele di Tintoretto eseguite per la Scuola di San Marco a Venezia, aventi per soggetto Il miracolo di san Marco che libera uno schiavo, San Marco salva un saraceno durante un naufragio, Trafugamento del corpo di san Marco, Il ritrovamento del corpo di san Marco.

Tutti e quattro gli evangelisti hanno un simbolo iconico che generalmente viene raffigurato vicino o al posto del santo nelle pitture e nelle sculture. Questi simboli sono associati al Vangelo proprio del santo e al verso dell'Apocalisse 4,7, dove vengono descritti quattro esseri viventi, un leone, un uomo, un vitello ed uno «simile ad aquila mentre vola», i quali, attorno a Dio, sono intenti a cantarne le lodi. Il simbolo di san Marco è il leone. Il motivo principale sembra essere il fatto che nel Vangelo di Marco viene narrato il maggior numero di profezie che Cristo fece riguardo alla propria risurrezione (Mc 8,31; Mc 9,9; Mc 9,31; Mc 10,34; Mc 14,28), ed il leone rappresenterebbe, in virtù della sua fortezza, proprio la risurrezione. Questo in accordo sia con il pensiero del Padre della Chiesa San Gregorio Magno, sia con quanto diceva la glossa della Sacra Bibbia sempre usata (la glossa all'epoca aveva una rilevanza maggiore di quella attuale).

Lo stesso San Gregorio Magno suggerisce anche un secondo motivo, ovvero il leone sarebbe il simbolo di Marco in quanto il suo Vangelo inizia con la voce di san Giovanni Battista che, nel deserto, si eleva simile a un ruggito, preannunciando agli uomini la venuta del Cristo.

San Marco evangelista è il patrono di Venezia. Secondo un'antichissima tradizione delle Venezie, un angelo in forma di leone alato avrebbe rivolto al santo, naufrago nelle lagune, le parole «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum.»(Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo.) preannunciandogli che in quelle terre avrebbe trovato un giorno riposo e venerazione il suo corpo. La Repubblica di Venezia assunse il leone alato, detto leone di san Marco come proprio simbolo. Non è storicamente provata la tradizione che indica il libro simbolo di pace quando aperto con su scritta la frase «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS», o di guerra, quando era rappresentato chiuso. Il leone poteva essere rappresentato con il libro chiuso con la zampa sinistra e con una spada nella destra. Il leone di san Marco viene rappresentato infine con due posture: andante, cioè in piedi sulle quattro zampe, oppure in moleca, cioè seduto. Tuttora è il simbolo dei veneti, che hanno come bandiera il leone alato, ripreso dalla tradizione della Serenissima.





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giovedì 9 aprile 2015

PIETRO BELLOTTO

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Bellotto Pietro nacque a Volciano, sulla riva bresciana del lago di Garda, nel 1627, morì a Gargnano del Garda nel 1700 fu un pittore italiano, attivo durante il periodo Barocco.

Studiò a Venezia nella fiorente scuola del padovano Girolamo Forabosco, che seguì specialmente come ritrattista e come figurista. Dipinse soprattutto vecchi e vecchie, con accuratezza, ma con minore pastosità del maestro e con predilezioni per le tinte ceree e notturne, in cui precedette Bernardo Bellotto, che si deve ritenere suo nipote, al pari di un altro Pietro Bellotto vedutista, forse di lui fratello, che si era trapiantato a Nantes intorno al 1768, detti entrambi Canaletto per via della madre, sorella del celebre Antonio. Il suo fare si vede specialmente nell'Uomo che legge della Pinacoteca di Brera, assegnatogli per antica attribuzione, e nella Vecchia che fila, la cosiddetta Lachesi di Stoccarda (firmata e datata 1654), a cui corrispondeva una mezza figura di vecchio, conservataci in copia nel museo di Feltre. Agli Uffizî se ne ha l'autoritratto, del pari firmato e datato 1651. Ed è sua in Palazzo Ducale, nella sala dello scrutinio, la Storia di Margaritino.

La sua prima produzione di ritratti e di figure fantasiose venne accolta favorevolmente e gli garantì una certa notorietà anche al di fuori del capoluogo veneto.

Tra i suoi protettori figurarono importanti personaggi dell'epoca, come ad esempio il cardinale Mazzarino, il papa AlessandroVIII, la principessa Adelaide di Savoia.

Dopo un soggiorno all'estero, a Monaco di Baviera, ottenne l'incarico di soprintendente alle Gallerie di Città da parte del duca di Mantova Ferdinando Gonzaga.

Tra le sue opere più emblematiche si annoverarono la Presa e distruzione del castello turco Margariti in Albania, su ambientazione storica ed eseguito seguendo l'influenza del maestro Forabosco, pur senza eguagliarne la qualità per le tinte, per i particolari e per l'impostazione compositiva.

Le doti del Bellotto si espressero al meglio nelle raffigurazioni fantasiose, che valorizzarono i chiaroscuri, le analisi dei dettagli e soprattutto la novità di un realismo quasi caricaturale, come evidenziarono Autoritratto (1658) e Luchesi (1654). Nella chiesa di San Domenico, a Capodistria, con il pittore Stefano Celesti, realizzò i Misteri del Rosario.

Nella sua ricerca di una realizzazione artistica veristica, Bellotto venne influenzato dalla pittura popolaresca del Keil, anche se nell'ultimo periodo tenderà verso un humour talvolta grottesco e brutale.

Sebbene il nome di Pietro sia da tempo conosciuto agli studiosi, le sue opere non sono mai state oggetto di un'analisi che ponesse in risalto le peculiari caratteristiche stilistiche, mettendole a confronto con quelle dei dipinti degli altri componenti il clan dei Canal: Bernardo Canal, Antonio Canal, Bernardo Bellotto.
A Tolosa dove il 25 marzo 1749 si unì in matrimonio con Françoise Lacombe, dalla quale aveva avuto una figlia, Barbe, battezzata alla vigilia delle nozze (Mesuret 1952, p. 170). Dal matrimonio nacquero altri due figli di cui uno, dal nome sconosciuto, fu pittore di anatomia e ritrattista. Negli anni 1755, 1760, 1765, 1774 e 1790 i dipinti di Bellotti (il cognome venne francesizzato anche in Beloty) furono esposti al Salon dell'Académie Royale de Peinture, Sculpture et Architecture di Tolosa. Il più importante Salon fu quello del 1765 nel quale vennero presentati, sotto il n. 35 del catalogo, «Vingt petits Tableaux, par Belloti, peintre, qui sont de Vues en perspective». Di questo nutrito gruppo di vedute ben diciassette tele, tutte misuranti 37x48 cm, sono state individuate da Robert Mesuret nel castello di Merville, presso Tolosa, nella collezione del marchese di Beaumont.
Le vedute, finora pubblicate solo in piccola parte, raffigurano varie città europee, tra cui Venezia, Firenze, Roma, Milano Genova, Malta, Marsiglia, Versailles, L'Aia, e sembrano quasi tutte derivate da stampe. Altri dipinti della stessa serie mostrano l'interno di una chiesa, un lago, un porto di mare al tramonto con edifici d'invenzione capricciosa.
Tra le vedute di Venezia esposte al Salon del 1765, quella raffigurante Il molo con la Piazzetta e il palazzo Ducale si basa sul prototipo di Antonio Canal nella collezione del duca di Norfolk (Constable, Links 1989, n. 104), mentre quella con San Giorgio Maggiore verso la riva degli Schiavoni deriva, con minime variazioni nelle figure, dalla corrispondente acquaforte di Michele Marieschi facente parte della serie pubblicata nel 1741.
I dipinti di Bellotti sono quasi sempre derivati da stampe. Per quanto riguarda le vedute veneziane, il pittore utilizzò le raccolte di Michele Marieschi (1741), di Antonio Visentini (1742) e del Canaletto (1745-1746), mentre per i capricci si avvalse anche delle incisioni di Fabio Berardi derivate da dipinti del Canaletto.

Lavorò in Germania (a Monaco specialmente), a Milano e a Mantova, oltreché nel Veneto, ma, ad onta dei guadagni, morì in miseria.


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