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lunedì 18 luglio 2016

PAPA GIOVANNI XXIII

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« Tornando a casa, troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite: "Questa è la carezza del Papa!" »
(Papa Giovanni XXIII)

Nato a Brusicco frazione di Sotto il Monte, un piccolo paese della provincia di Bergamo, il 25 novembre del 1881, da Battista Roncalli e da Marianna Mazzola, quarto di tredici fratelli, veniva - a differenza del suo predecessore, Eugenio Pacelli, che era di stirpe nobile - da una famiglia di umili origini: i suoi parenti lavoravano infatti come mezzadri. Ricevette il sacramento della cresima il 13 febbraio 1889 dal vescovo di Bergamo monsignor Guindani. Grazie all'aiuto economico di suo zio Zaverio, studiò presso il seminario minore di Bergamo, vinse una borsa di studio e si trasferì al seminario dell'Apollinare di Roma, l'attuale Pontificio Seminario Romano Maggiore, dove completò brillantemente gli studi e fu ordinato prete nella chiesa di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo, il 10 agosto 1904.

Durante la permanenza a Roma partecipando nel 1903 ai funerali del cardinal Lucido Maria Parocchi ebbe a scrivere: "Se io possedessi la scienza e la virtù sua, io potrei ben chiamarmi soddisfatto". Da ragazzo, e durante il seminario, manifestò la venerazione per la Vergine con numerosi pellegrinaggi al Santuario della Madonna del Bosco ad Imbersago. Nel 1901 era stato coscritto ed arruolato nel 73º Reggimento fanteria, brigata Lombardia, di stanza a Bergamo.

Venne ordinato sacerdote il 10 agosto 1904 dall'Arcivescovo Giuseppe Ceppetelli.
Nel 1905 monsignor Giacomo Radini-Tedeschi, allora nuovo vescovo di Bergamo lo nominò suo segretario personale. Roncalli si segnalò per la dedizione, la discrezione e l'efficienza. A sua volta Radini-Tedeschi rimarrà sempre guida ed esempio per Angelo Roncalli. La personalità di questo vescovo, riuscirà a sensibilizzare Roncalli a nuove idee e movimenti della chiesa del tempo, rendendolo sensibile alla questione sociale, in un'epoca in cui valeva ancora il "non expedit" che, dopo il 1861, impediva ai cattolici di impegnarsi in politica. In particolare Radini Tedeschi e Roncalli saranno figure fondamentali nello sciopero di Ranica (BG) tanto che saranno anche messi sotto accusa dal Sant'Uffizio, salvo poi uscirne indenni. Roncalli restò al fianco di Radini-Tedeschi fino alla morte di questi, il 22 agosto 1914, durante questo periodo si dedicò altresì all'insegnamento della storia della Chiesa presso il seminario di Bergamo. Si contraddistinse anche nel lavoro di ricerca storica sulla diocesi, lavorando sull'edizione critica degli atti della visita apostolica a Bergamo di San Carlo Borromeo.

Fu richiamato nel 1915, a guerra iniziata, nella sanità militare e ne fu poi congedato col grado di tenente cappellano. L'affermazione, nel 1919, del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, fu vista da Roncalli come "una vittoria del pensiero cristiano".

Nel 1921 papa Benedetto XV lo nominò prelato domestico (che gli valeva l'appellativo di monsignore) e presidente del Consiglio Nazionale Italiano dell'Opera della Propagazione della Fede. In tale ambito egli si occupò fra l'altro della redazione del motu proprio del nuovo papa Pio XI Romanorum pontificum, che divenne la magna charta della cooperazione missionaria.

L'avvento del fascismo non trovò monsignor Roncalli particolarmente favorevole al nuovo regime: alle ultime elezioni che si tennero con liste contrapposte (1924), dichiarò alla famiglia di restar fedele al Partito Popolare, nonostante la politica filo-fascista dell'Azione Cattolica. Il suo giudizio su Mussolini è abbastanza negativo, pur nella consueta moderazione dei toni: "la salute dell'Italia non può venire neanche da Mussolini, per quanto sia un uomo d'ingegno. I suoi fini sono forse buoni e retti, ma i mezzi sono iniqui e contrari alla legge del Vangelo".

Nel 1925 papa Pio XI lo nominò visitatore apostolico in Bulgaria, elevandolo alla dignità episcopale e affidandogli la sede titolare, pro illa vice con titolo arcivescovile, di Areopoli. Si trattava di una diocesi antica della Palestina, un tempo chiamata in partibus infidelium, ossia, semplicemente, un titolo disponibile per attribuire il rango di vescovo - in questo caso a Roncalli - senza dovere affidare al prescelto le cure pastorali di una diocesi effettiva. Roncalli scelse come motto episcopale Oboedientia et pax ("Ubbidienza e pace", in latino), frase che divenne il simbolo del suo operato e che aveva ripreso dal motto del cardinale Cesare Baronio Pax et oboedientia.

La consacrazione episcopale, presieduta dal cardinale Giovanni Tacci Porcelli, Segretario della Congregazione Orientale, si tenne il 19 marzo 1925 a Roma nella chiesa di San Carlo al Corso. Inizialmente il suo ministero in Bulgaria doveva durare solo qualche mese, per espletare cinque compiti: visitare tutte le comunità cattoliche del regno (cosa che fece dal maggio al settembre 1925); risolvere il conflitto nella Diocesi di Nicopoli tra don Karl Raev e il vescovo passionista monsignor Damian Theelen (cosa che realizzò nei primissimi mesi); promuovere ed avviare un seminario nazionale per la formazione di sacerdoti locali (cosa che non riuscì mai ad ottenere); riorganizzare la comunità di rito orientale (cosa che realizzò nel 1926, con l'ordinazione del primo esarca monsignor Kirill Kurtev); avviare le relazioni diplomatiche con la corte e il governo, in vista di una piena rappresentanza della Santa Sede (lavorò che portò alla creazione, il 26 settembre 1931, della Delegazione Apostolica).

Per diversi motivi i previsti pochi mesi diventarono dieci anni, e così monsignor Roncalli ebbe occasione di inserirsi più profondamente nella vita del popolo bulgaro, di cui anche imparò la lingua. Si ritrovò anche in contatto con la maggioranza ortodossa della popolazione, nei confronti della quale dimostrò una particolare carità, sempre nell'ambito dell'ideale unionista, senza alcuna anticipazione ecumenica. In seguito dovette occuparsi pure del matrimonio tra il re bulgaro Boris III, ortodosso, e la figlia del re d'Italia Vittorio Emanuele III, Giovanna di Savoia.

Papa Pio XI aveva infatti concesso la dispensa per il matrimonio di mista religione a condizione che lo sposalizio non venisse ripetuto nella Chiesa ortodossa e che l'eventuale prole fosse battezzata ed educata cattolicamente. Dopo la cerimonia cattolica celebrata ad Assisi il 25 ottobre 1930, il 31 ottobre 1930 la coppia reale, pur senza rinnovare il consenso matrimoniale, diede ad intendere al popolo bulgaro di aver ripetuto il connubio nella cattedrale ortodossa di Sofia. La profonda irritazione di papa Pio XI per l'accaduto diede luogo a una solenne protesta papale. Il battesimo ortodosso dei figli della coppia, a partire da quello di Maria Luisa nel gennaio del 1933, diede spunto ad ulteriore indignazione, che prese la forma di nuova pubblica protesta pontificia.

Nel 1934 fu nominato arcivescovo titolare di Mesembria, antica città della Bulgaria, con l'incarico di delegato apostolico in Turchia e in Grecia ed inoltre di amministratore apostolico "sede vacante" del Vicariato apostolico di Istanbul. Questo periodo della vita di Roncalli, che coincise con la seconda guerra mondiale, è ricordato in particolare per i suoi interventi a favore degli ebrei in fuga dagli stati europei occupati dai nazisti.

Roncalli strinse uno stretto rapporto con l'ambasciatore di Germania ad Ankara, il cattolico Franz von Papen, ex cancelliere del Reich, pregandolo di adoperarsi in favore degli ebrei. Così testimonierà l'ambasciatore tedesco: "Andavo a Messa da lui nella delegazione apostolica. Parlavamo del modo migliore per garantire la neutralità della Turchia. Eravamo amici. Io gli passavo soldi, vestiti, cibo, medicine per gli ebrei che si rivolgevano a lui, arrivando scalzi e nudi dalle nazioni dell'est europeo, man mano che venivano occupate dalle forze del Reich. Credo che 24 mila ebrei siano stati aiutati a quel modo".

Durante la guerra, una nave piena di bambini ebrei tedeschi, miracolosamente sfuggita ad ogni controllo, giunse al porto di Istanbul. Secondo le regole della neutralità, la Turchia avrebbe dovuto rimandare quei bambini in Germania, dove sarebbero stati avviati ai campi di sterminio. Monsignor Roncalli si adoperò giorno e notte per la loro salvezza e, alla fine - grazie anche alla sua amicizia con von Papen - i bambini si salvarono.

Nel luglio del 1943 Angelo Roncalli scrisse sul diario: «La notizia più grave del giorno è il ritiro di Mussolini dal potere. L'accolgo con molta calma. Il gesto del Duce lo credo atto di saggezza, che gli fa onore. No, io non getterò pietre contro di lui. Anche per lui sic transit gloria mundi. Ma il gran bene che lui ha fatto all'Italia resta. Il ritirarsi così è espiazione di qualche suo errore. Dominus parcat illi (Dio abbia pietà di lui)».

Nel 1944 papa Pio XII nominò monsignor Roncalli nunzio apostolico a Parigi. Nel frattempo, con l'occupazione tedesca dell'Ungheria, erano iniziate le deportazioni e le esecuzioni di massa anche in quel paese. La collaborazione del nunzio apostolico e il diplomatico svedese Raoul Wallenberg consentì a migliaia di ebrei di evitare la camera a gas. Venuto a conoscenza - grazie a Wallenberg - che migliaia di ebrei erano riusciti a varcare il confine dell'Ungheria e a rifugiarsi in Bulgaria, Roncalli scrisse una lettera a re Boris III (in debito verso il nunzio, che aveva fatto celebrare il suo matrimonio, nonostante le difficoltà sopra descritte), pregandolo di non cedere all'ultimatum di Adolf Hitler che aveva ordinato di rispedire indietro i profughi.

I vagoni con gli ebrei erano già al confine, ma il re annullò l'ordine di deportazione. Una ricerca portata avanti dalla Fondazione Wallenberg e dal Comitato Roncalli, con la partecipazione di alcuni storici, ha messo in luce che il nunzio apostolico, approfittando delle sue prerogative diplomatiche, provvide a inviare, agli ebrei ungheresi, falsi certificati di battesimo e di immigrazione per la Palestina, dove infine giunsero. Il suo intervento si estese a favore degli ebrei di Slovacchia e Bulgaria e si moltiplicò per molte altre vittime del nazismo. La International Raoul Wallenberg Foundation, sin dal settembre 2000, ha chiesto formalmente allo Yad Vashem di Gerusalemme di inserire il nome di Angelo Giuseppe Roncalli nell'elenco dei Giusti tra le nazioni.

Fra i maggiori successi diplomatici a Parigi si segnala la riduzione del numero di vescovi di cui il governo francese reclamava l'epurazione in quanto compromessi con la Francia di Vichy. Roncalli riuscì a fare sì che Pio XII fosse costretto ad accettare soltanto le dimissioni di tre vescovi (quelli di Mende, Aix e Arras), oltre quello di un vescovo ausiliare di Parigi e di tre vicari apostolici delle colonie d'Oltremare. Quando, nel 1953, Roncalli fu creato cardinale, il presidente francese Vincent Auriol, (benché socialista e notoriamente ateo), reclamò un antico privilegio riservato ai monarchi francesi e gli impose personalmente la berretta cardinalizia durante una cerimonia al Palazzo dell'Eliseo (lo stesso Presidente francese gli conferì la Gran Croce della Legione d'Onore della Repubblica Francese il 14 gennaio 1958).

Nel 1953, oltre a essere creato cardinale da papa Pio XII nel concistoro del 12 gennaio di quell'anno, fu nominato patriarca di Venezia, dove poté finalmente esercitare quel lavoro pastorale immediato, a stretto contatto con i sacerdoti e il popolo che aveva sempre desiderato fin dal giorno della sua ordinazione sacerdotale.

Il nuovo Patriarca condusse una vita modesta, evitando barriere formali con fedeli e sconosciuti; faceva spesso lunghe passeggiate per le strade e i campielli, accompagnato solo dal nuovo segretario don Loris Francesco Capovilla, fermandosi a conversare in dialetto anche con i gondolieri. Chiunque poteva andare a trovarlo nella dimora patriarcale perché – fece sapere - "chiunque può aver bisogno di confessarsi e non potrei rifiutare le confidenze di un'anima in pena". Secondo un'espressione testuale attribuita da un giornale ad un veneziano, "riceveva senza tante storie anche l'ultimo degli straccioni".

Inoltre durante questo periodo si segnalò per alcuni gesti di apertura: fra i tanti va ricordato il messaggio che inviò al Congresso del PSI - partito ancora alleato del PCI i cui dirigenti e propagandisti erano stati scomunicati da papa Pio XII nel 1949 -, quando il 6 febbraio 1957 i socialisti si riunirono nella città lagunare. Ciò nonostante, non rinnegò mai la continuità con le posizioni storiche della Chiesa nei confronti delle sfide quotidiane: Jean Guitton, accademico di Francia e osservatore laico al Concilio Vaticano II, ricorda che, come riportato in una rivista del 2 gennaio 1957, Angelo Roncalli individuava le «cinque piaghe d'oggi del Crocifisso» nell'imperialismo, nel marxismo, nella democrazia progressista, nella massoneria e nel laicismo.

A Venezia, Roncalli non abbandonò l'impegno apostolare ecumenico già esercitato nelle sue missioni in Oriente: proseguirono, infatti i suoi contatti con i "fratelli separati" e partecipò ogni anno all'Ottava per l'Unità delle Chiese con omelie e conferenze.

Alla sua partenza per il Conclave del 1958, per la morte di Pio XII, una grande folla l'accompagnò alla stazione facendogli a gran voce gli auguri di buon viaggio e di buon lavoro.

Il 28 ottobre 1958, con grande sorpresa della maggior parte dei fedeli, Roncalli fu eletto papa e il 4 novembre dello stesso anno fu incoronato, divenendo così il 261º Sommo pontefice. Secondo alcuni analisti sarebbe stato scelto principalmente per un'unica ragione: la sua età. Dopo il lungo pontificato del suo predecessore, i cardinali avrebbero perciò scelto un uomo che presumevano, per via della sua età avanzata e della modestia personale, sarebbe stato un papa di «transizione». Ciò che giunse inaspettato fu il fatto che il calore umano, il buon umore e la gentilezza di Giovanni XXIII, oltre alla sua esperienza diplomatica, conquistarono l'affetto di tutto il mondo cattolico e la stima dei non cattolici.



Fin dal momento della scelta del nome, molti cardinali si accorsero che Roncalli non era ciò che loro si aspettavano, infatti Giovanni era un nome che nessun papa adottava da secoli, possibilmente perché nella storia, dal 1410 al 1415, c'era stato un antipapa di nome Giovanni XXIII.

Inoltre, fatto che non succedeva dall'elezione di Pio IX, al momento dell'apertura momentanea della Cappella Sistina per far entrare monsignor Alberto di Jorio, segretario del Conclave, subito dopo l'elezione e l'accettazione, appena il prelato si inginocchiò in segno di omaggio davanti a lui, il nuovo Papa, ancora seduto sul suo scranno da porporato, vestito degli abiti cardinalizi, si tolse dal capo lo zucchetto rosso e lo posò in testa a Di Jorio, fra la sorpresa generale dei cardinali confratelli che lo attorniavano e che si accorsero, già da questo fatto, che il nuovo Pontefice sarebbe stato un uomo di sorprese e non un "vecchietto accomodante". Scelse quale segretario privato monsignor Loris Francesco Capovilla, che già lo assisteva quand'era patriarca di Venezia. Capovilla è restato, dopo la morte di Roncalli, un fedele custode della sua memoria.

Quando il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli fu eletto e divenne papa Giovanni, ci fu una piccola controversia per decidere se lui doveva essere chiamato Giovanni XXIII oppure Giovanni XXIV; lui stesso dichiarò che il suo nome pontificale era Giovanni XXIII chiudendo la questione.

La decisione di Roncalli di non essere chiamato Giovanni XXIV, come ci si poteva aspettare, valeva come una conferma dello stato di antipapa di questo primo Giovanni XXIII. La scelta del numerale "XXIII" da parte di Roncalli venne presa, in un certo senso, già sabato 27 settembre 1958 a Lodi dove l'allora ancora porporato, quale legato pontificio per le celebrazioni del centenario della rifondazione della città, accolto dal vescovo Tarcisio Vincenzo Benedetti, visitò la quadreria della Sala Gialla del palazzo vescovile di Lodi, dove sono presenti le effigi dell'antipapa Giovanni XXIII e dell'imperatore Sigismondo, che si incontrarono a Lodi nel 1414. Roncalli fece notare bonariamente all'amico Benedetti che non era conveniente tenere in un palazzo vescovile il quadro di un antipapa. Sorta la discussione circa il nome Giovanni XXIII o XXIV in un'eventuale scelta di "Giovanni" da parte di un nuovo pontefice, Roncalli espresse l'opinione che fosse giusto Giovanni XXIII, poiché Baldassarre Cossa era stato un antipapa. Non sapeva che da lì a pochi mesi sarebbe stato lui, come successore di Pio XII, a compiere quella scelta.

Già nel dicembre 1958 papa Giovanni XXIII provvide a integrare il Collegio cardinalizio, che a causa dei rari concistori di Pio XII era ormai numericamente assai ridotto. In quattro anni e mezzo creò cinquantadue nuovi cardinali, superando il tetto massimo di settanta, fissato nel XVI secolo da papa Sisto V. Nel concistoro del 28 marzo 1960 nominò il primo cardinale di colore, l'africano Laurean Rugambwa, il primo cardinale giapponese, Peter Tatsuo Doi, e il primo cardinale filippino, Rufino Jiao Santos. Il 6 maggio 1962, elevò agli altari anche il primo santo di colore, Martín de Porres, il cui iter canonico era iniziato nel 1660 e poi interrotto.

Il suo pontificato fu segnato da episodi indelebilmente registrati dalla memoria popolare, oltre che da un'aneddotica celeberrima e vastissima. I suoi «fuori programma», talvolta strepitosamente coinvolgenti, riempirono quel vuoto di contatto con il popolo che le precedenti figure pontificie avevano accuratamente preservato come modo di comunicazione distante e immanentista del «Vicario di Cristo in Terra», quale è il ruolo dogmatico del pontefice. Per il primo Natale da papa visitò i bambini malati dell'ospedale romano Bambin Gesù, ove benedisse i piccoli, alcuni dei quali lo avevano scambiato per Babbo Natale.

Il giorno di santo Stefano, sempre del suo primo anno di pontificato, il 26 dicembre 1958, visitò i carcerati nella prigione romana di Regina Coeli, dicendo loro: «Non potete venire da me, così io vengo da voi... Dunque eccomi qua, sono venuto, m'avete visto; io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore... La prima lettera che scriverete a casa deve portare la notizia che il papa è stato da voi e si impegna a pregare per i vostri familiari». Memorabilmente, accarezzò il capo del recluso che, disperato, inaspettatamente gli si buttò ai piedi domandandogli se «le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me».

In totale si contano 152 uscite dalle mura del Vaticano del Papa bergamasco, nel suo breve pontificato, adottando per primo l'abitudine della visita domenicale alle parrocchie romane. Un suo tratto distintivo era l'immancabile battuta. Quando si recò al vicino Ospedale Santo Spirito per visitare senza tanto clamore un suo amico sacerdote ricoverato, suonò personalmente alla porta delle suore che, senza chiedere chi fosse, aprirono e si trovarono davanti il Pontefice. La suora superiora, emozionata, si presentò: "Santo Padre... sono la Madre Superiora dello Spirito Santo!". Con prontezza di spirito, il Papa rispose: "Beata lei, che carriera! Io sono solo il servo dei servi di Dio!".

Quando la moglie del Presidente degli Stati Uniti, Jacqueline Kennedy, si recò in visita in Vaticano per incontrarlo, egli iniziò a provare nervosamente le due formule di benvenuto che gli era stato consigliato di usare: «mrs Kennedy, madame» o «madame, mrs Kennedy». Quando la Kennedy arrivò, comunque, per il divertimento della stampa, abbandonò entrambe e le venne incontro appellandola semplicemente: «madame Jacqueline!».

Il radicalismo di papa Giovanni XXIII non si fermò all'informalità. Fra lo stupore dei suoi consiglieri e vincendo le remore e le resistenze della parte conservatrice della Curia, indisse un concilio ecumenico, meno di novant'anni dopo il Concilio Vaticano I; mentre i suoi consiglieri pensavano a tempi lunghi (almeno un decennio) per i preparativi, Giovanni XXIII lo programmò e lo organizzò in pochi mesi. Il 25 dicembre 1961 nella Bolla d'Indizione “Humanae Salutis”, Giovanni XXIII indicò la finalità del Concilio nella ricerca dell'unità e nella pace del mondo.

Giovanni XXIII ebbe rapporti fraterni con i rappresentanti di diverse confessioni cristiane e non cristiane, in particolar modo con il pastore David J. Du Plessis, ministro pentecostale della Chiesa Cristiana Evangelica delle Assemblee di Dio. Il venerdì Santo del 1959, senza alcun preavviso, diede ordine di “cancellare” dalla preghiera “Pro Judaeis”, che veniva recitata in quel giorno durante la liturgia solenne, il penoso aggettivo che qualificava “perfidi” gli Ebrei. Questo gesto fu considerato un primo passo verso il riavvicinamento tra le due religioni monoteiste e indusse Jules Isaac, direttore dell'Associazione “Amicizia ebraico-cristiana” a chiedere un'udienza al Papa, che venne accordata il 13 giugno 1960.

Il 2 dicembre 1960 Giovanni XXIII incontrò in Vaticano, per circa un'ora, Geoffrey Francis Fisher, arcivescovo di Canterbury. Fu la prima volta in oltre 400 anni che un capo della Chiesa Anglicana visitava il Papa.

Il 17 ottobre 1961, in occasione dell'anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, papa Giovanni XXIII ricevette in Vaticano un gruppo di centotrenta ebrei provenienti dagli Stati Uniti per ringraziarlo per la sua opera a favore del popolo ebraico, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, e li accolse con le parole bibliche: “Io sono Giuseppe, vostro fratello”, in riferimento (oltre che al proprio nome di battesimo) all'incontro in Egitto e alla riconciliazione tra il patriarca Giuseppe e i suoi undici fratelli che, in gioventù, lo avevano perseguitato.

Il 3 gennaio 1962 si diffuse la notizia che papa Giovanni XXIII avesse scomunicato Fidel Castro dando seguito al decreto del 1949 di papa Pio XII che vietava ai cattolici di appoggiare i governi comunisti. A parlare di scomunica fu l'arcivescovo Dino Staffa, in quel momento segretario della Congregazione per i seminari, che in base ai suoi studi di diritto canonico la considerava già operata de facto se non di diritto; inoltre altri importanti esponenti della curia volevano con questa mossa lanciare un segnale ostile al centrosinistra nascente in Italia. L'autorevolezza di tali voci fece in modo che la leggenda della scomunica non venisse smentita dal Papa (che però ci rimase molto male) e che fosse creduta da tutti, anche dallo stesso Castro, che aveva precedentemente abbandonato la fede cattolica e che dunque lo considerò un evento di scarse conseguenze poiché per sua stessa ammissione non è mai stato credente.

In realtà tale atto non è stato mai effettuato dal Pontefice, come ha rivelato il 28 marzo 2012 l'allora segretario di Angelo Giuseppe Roncalli, monsignor Loris Capovilla, secondo cui la parola "scomunica" non faceva parte del vocabolario del Papa buono. A testimonianza di quanto dichiarato, basti leggere il diario di Giovanni XXIII in cui egli non accenna al provvedimento né il 3 gennaio 1962 (data in cui parla solamente delle sue udienze) né in altre date.

Nello stesso 1962, il Sant'Uffizio nella figura del cardinale Alfredo Ottaviani redasse il Crimen sollicitationis, con l'avallo di papa Giovanni: un documento diretto a tutti i vescovi del globo, che stabilisce le pene da comminare secondo il diritto canonico nelle cause di sollicitatio ad turpia (latino, «provocazione a cose turpi»), cioè quando un chierico (presbitero o vescovo) veniva accusato di usare il sacramento della confessione per fare avances sessuali ai penitenti. In esso fu prevista, per gli episodi più gravi, la scomunica per coloro che non vi si fossero attenuti.

Il 4 ottobre 1962, ad una settimana dall'inizio del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII si recò in pellegrinaggio a Loreto e Assisi per affidare le sorti dell'imminente Concilio alla Madonna e a San Francesco (Roncalli era dall'età di 14 anni terziario francescano). Per la prima volta dall'unità d'Italia un papa uscì dai confini di Roma e dintorni. Il breve tragitto costituì l'esempio di papa pellegrino che fu poi seguito dai suoi successori (Paolo VI, Giovanni Paolo II, ecc.). La gente accolse l'iniziativa affollando a dismisura le varie stazioni dove sostò il treno papale e i due santuari meta del tragitto (ad Assisi persino i frati salirono sui tetti antistanti la basilica).

Uno dei più celebri discorsi di papa Giovanni - forse una delle allocuzioni in assoluto più celebri della storia della Chiesa - è quello che ormai si conosce come «Il discorso della luna». L'11 ottobre 1962, in occasione della serata di apertura del Concilio, piazza San Pietro era gremita di fedeli. Chiamato a gran voce, Roncalli decise di affacciarsi, per limitarsi a benedire i presenti. Poi si convinse a pronunciare, a braccio, un discorso semplice, dolce e poetico, con un richiamo straordinario alla luna, pur tuttavia contenente elementi del tutto innovativi:

« Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare a questo spettacolo. »
Poi il Papa salutò i fedeli della diocesi di Roma (essendone anche il vescovo), e si produsse in un atto di umiltà forse senza precedenti, asserendo tra le altre cose:

« La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato padre per volontà di Nostro Signore, ma tutti insieme paternità e fraternità è grazia di Dio (..)
(...) Facciamo onore alle impressioni di questa sera, che siano sempre i nostri sentimenti, come ora li esprimiamo davanti al cielo, e davanti alla terra: fede, speranza, carità, amore di Dio, amore dei fratelli. E poi tutti insieme, aiutati così, nella santa pace del Signore, alle opere del bene. »
E, sulla linea dell'umiltà, impartì un ordine da pontefice con il parlare di un curato:

« Tornando a casa, troverete i bambini. Date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare, dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza. »

Pochi giorni dopo l'apertura del Concilio ecumenico, il mondo sembra precipitare nel baratro di un conflitto nucleare. Il 22 ottobre 1962, il presidente degli Stati Uniti d'America, John F. Kennedy, infatti, annuncia alla nazione la presenza di installazioni missilistiche a Cuba e l'avvicinamento all'isola di alcune navi sovietiche con a bordo le testate nucleari per l'armamento dei missili. Il Presidente statunitense impone un blocco navale militare a 800 miglia dall'isola, ordinando agli equipaggi di essere pronti ad ogni eventualità, ma le navi sovietiche sembrano intenzionate a forzare il blocco.

Di fronte alla drammaticità della situazione, il Papa sente la necessità di agire per la pace. Il 25 ottobre successivo, alla Radio Vaticana, rivolge "a tutti gli uomini di buona volontà" un messaggio in lingua francese, già consegnato - in precedenza - all'ambasciatore degli Stati Uniti presso la santa Sede e ai rappresentanti dell'Unione Sovietica: “Alla Chiesa sta a cuore più d'ogni altra cosa la pace e la fraternità tra gli uomini; ed essa opera senza stancarsi mai, a consolidare questi beni. A questo proposito, abbiamo ricordato i gravi doveri di coloro che portano la responsabilità del potere. Oggi noi rinnoviamo questo appello accorato e supplichiamo i Capi di Stato di non restare insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventevoli conseguenze. Continuino a trattare. Sì, questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia. Promuovere, favorire, accettare trattative, ad ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e prudenza, che attira le benedizioni del Cielo e della terra”.

Il messaggio suscita consenso in entrambe le parti in causa e, alla fine, la crisi rientra.

Non sono stati ancora pubblicati documenti sull'attività per la pace esercitata in quei giorni della diplomazia vaticana nei confronti del cattolico Kennedy e sull'Unione Sovietica, per tramite del governo italiano, presieduto dal democristiano Amintore Fanfani. È certo, peraltro che, il 27 ottobre alle ore 11.03, dopo nemmeno quarantotto ore dal radiomessaggio del Papa, giunge a Washington una proposta di Nikita Chrušcv, concernente il ritorno in Patria delle navi sovietiche e lo smantellamento delle postazioni cubane in cambio del ritiro delle testate atomiche americane dalla Turchia e dall'Italia (base di San Vito dei Normanni). Poiché in quella stessa mattinata, nella Capitale degli Stati Uniti, era presente Ettore Bernabei, uomo di fiducia di Fanfani, già con l'incarico di consegnare al presidente Kennedy una nota del governo italiano con la quale si accettava il ritiro dei missili dalla base italiana, non è improbabile che la mediazione diplomatica sia stata abilmente concertata tra il Vaticano e Palazzo Chigi.

Il 28 ottobre gli Stati Uniti accettano la proposta sovietica.

L'importanza del passo compiuto dal Papa è testimioniata dal russo Anatoly Krasikov, nella biografia di Giovanni XXIII scritta da Marco Roncalli: “Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il Papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell'abisso”. In data 15 dicembre 1962, infatti, perveniva al Papa un biglietto di ringraziamento del leader sovietico del seguente tenore: "In occasione delle sante feste di Natale La prego di accettare gli auguri e le congratulazioni... per la sua costante lotta per la pace e la felicità e il benessere". La drammatica esperienza convince ancor più Giovanni XXIII a un rinnovato impegno per la pace. Da questa consapevolezza, nasce, nell'aprile del 1963, la stesura dell'enciclica Pacem in Terris.

La Pacem in Terris resta tuttora un brano fondamentale della teologia cattolica sul versante della socialità e della vita civile. Ed è per altro verso comunque un brano importante anche per la cultura sociale occidentale (anche laica) del Novecento, un testo la cui lettura (peraltro discretamente agevole) è necessaria per la comprensione di alcune tracce della politica vaticana e di quella occidentale.

Giovanni XXIII rivelò che aveva affidato la composizione delle sue encicliche più famose, quelle di carattere sociale, a suoi collaboratori: nel caso della Mater et Magistra fu lui stesso a confermarlo alla finestra di piazza san Pietro, precisando che il gruppo degli esperti incaricati di stendere questo testo si era rifugiato in Svizzera e lui ne aveva perduto ogni traccia. Per l'enciclica Pacem in Terris accadde lo stesso: ricevendo il primo ministro del Belgio, Théo Lefévre, che si complimentava per la pubblicazione del documento, gli confidò: «Guardi, a parte alcune righe che sono mie, tutto il resto è il frutto del lavoro di altri... Sono problemi che il Papa non può conoscere a fondo». Anche il giornale umoristico belga Pan riportò l'episodio. È la prima enciclica che oltre al clero e ai fedeli cattolici si rivolge "a tutti gli uomini di buona volontà".

Letta nelle titolazioni dei suoi capoversi parrebbe un documento pressoché statutario, costituzionale, di organica classificazione di diritti e doveri. Letta storicamente, invece, contiene in sé elementi che valsero di force de frappe per superare l'immobilismo nei rapporti idealistici fra Chiesa e Stati, allora praticamente stagnante. Il richiamo alle necessità dello stato sociale, mentre nel mondo occidentale cominciavano ad essere proposti schemi di capitalismo oltranzista sullo stile statunitense, giungeva in piena guerra fredda, con nazioni europee intente a pagare anche politicamente ed amministrativamente i tributi della disfatta e per questo più inclini a considerare (ciò che sarebbe stato anche strumento di facilitazione gestionale per i governi) riduzioni delle spese pubbliche per assistenza.

Per contro, l'enciclica non andava certo verso proposte di stato che da sociale potesse divenire socialista, e ristorava il ruolo di centralità dell'uomo, di libero pensiero e intendimento, ragione e motore delle scelte ideali ed obiettivo della socialità. Vale la pena di riportare il punto 5:
« In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili »
La pace, oggetto fondamentale e dichiarato dell'enciclica, può sorgere solo dalla riconsiderazione, in senso forse «particulare» o forse meglio umanistico, del valore dell'uomo "singolo individuo" che non può annientarsi al cospetto dei sistemi, siano essi capitalistici o socialisti. È la poco ricordata «terza via», anche detta «via del buon senso», oggi riscoperta da sempre più persone e gruppi, ma già al tempo ben definita.

Sin dal settembre 1962, prima ancora dunque dell'apertura del Concilio, si erano manifestate le avvisaglie della malattia fatale: un tumore dello stomaco, patologia che aveva già colpito altri fratelli Roncalli. Il 7 marzo 1963, tra lo stupore generale, concesse udienza a Rada Chrušcva, figlia del segretario generale del PCUS Nikita Chrušcv e a suo marito Alexei Adžubej. Quest'ultimo rappresentò l'apprezzamento del suocero per le iniziative del Papa in favore della pace, lasciando intendere la disponibilità per lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra il Vaticano e l'Unione Sovietica. Il Papa espresse la necessità di procedere per tappe in tale direzione, perché altrimenti tale passo non sarebbe stato compreso dall'opinione pubblica.

Pur visibilmente provato dal progredire del cancro, papa Giovanni firmò l'11 aprile 1963 l'enciclica Pacem in Terris e, un mese più tardi, l'11 maggio 1963, ricevette dal presidente della Repubblica italiana Antonio Segni il premio Balzan per il suo impegno in favore della pace. Fu il suo ultimo impegno pubblico: il 23 maggio 1963, solennità dell'Ascensione, si affacciò per l'ultima volta dalla finestra per recitare il Regina Coeli. Il 31 maggio 1963 iniziò l'agonia. Nel primo pomeriggio del 3 giugno 1963, papa Giovanni patì di una febbre altissima, circa 42 gradi, in conseguenza alla malattia che lo affliggeva da tempo.

Nell’aria c’era già l’odore dell’estate, ma il giorno era triste. Quel 3 giugno 1963 una luce si spegneva nel mondo: il “Papa buono” era morto. Calde lacrime solcavano il viso delle tante persone che appresero in quei momenti la notizia della sua scomparsa. Nel suo breve ma intenso pontificato, durato poco meno di cinque anni, Papa Giovanni era riuscito a farsi amare dal mondo intero, che adesso ne piangeva la perdita.
Ma già subito dopo la sua morte incominciava il fervore della devozione popolare, che doveva avvolgere la sua figura di una precoce quanto indiscussa aureola di santità, e prendeva avvio il processo di beatificazione: un lavoro ciclopico, durato ben 34 anni, con l’avvicendarsi di diversi Postulatori e montagne di documenti da vagliare prima di pronunciarsi sulla sua eroicità.

Giovanni XXIII morì alle 19:49 del 3 giugno 1963. «Perché piangere? È un momento di gioia questo, un momento di gloria» furono le sue ultime parole rivolte al suo segretario, Loris Francesco Capovilla. Dal Concilio Vaticano II, che Giovanni XXIII non vide dunque terminare, si sarebbero prodotti negli anni successivi fondamentali cambiamenti che avrebbero dato una nuova connotazione al cattolicesimo moderno; gli effetti più immediatamente visibili consistettero nella riforma liturgica, in un nuovo ecumenismo e infine in un nuovo approccio al mondo e alla modernità.

Giovanni XXIII venne inizialmente sepolto nelle Grotte Vaticane e all'atto della beatificazione il suo corpo fu riesumato. La salma fu trovata in un perfetto stato di conservazione (salvo annerimenti vari e lievi colliquazioni nelle parti declivi), grazie al particolare processo d'imbalsamazione eseguito dal professor Gennaro Goglia subito dopo il decesso, consistente tra l'altro nell'iniettare molti litri di liquido conservativo nelle arterie principali, sostituendo il sangue. Praticati alcuni interventi conservativi, sul volto e sulle mani fu applicato uno strato conservativo di cera. Indi, dopo la cerimonia di beatificazione e l'ostensione ai fedeli, la salma fu tumulata in un'urna di vetro in un altare della navata destra della basilica di San Pietro.

Giovanni XXIII fu dichiarato beato da papa Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000. Il Martirologio Romano indica come data di culto il 3 giugno, mentre le diocesi di Roma e di Bergamo e l'arcidiocesi di Milano ne celebrano la memoria locale l'11 ottobre, anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962). A seguito della canonizzazione, è stata stabilita come unica data a livello universale l'11 ottobre.

In generale, ai fini della beatificazione, la Chiesa cattolica ritiene necessario un miracolo: nel caso di Giovanni XXIII, ha ritenuto miracolosa la guarigione improvvisa, avvenuta a Napoli il 25 maggio 1966, di suor Caterina Capitani, delle Figlie della Carità, affetta da una gastrite ulcerosa emorragica gravissima che l'aveva ridotta in fin di vita. La suora, dopo aver pregato papa Giovanni XXIII insieme alle consorelle, avrebbe avuto una sua visione, seguita dalla subitanea guarigione, dichiarata in seguito scientificamente inspiegabile dalla Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi. Dal 2000 numerose sono state le segnalazioni e i presunti miracoli.

Il 5 luglio 2013 papa Francesco ha firmato il decreto per la canonizzazione di Giovanni XXIII che è avvenuta il 27 aprile 2014, contestualmente a quella di Giovanni Paolo II, prescindendo dai risultati del processo indetto dalla congregazione competente per la veridicità di un secondo miracolo.

Alla cerimonia in piazza San Pietro, celebrata da papa Francesco alla presenza del papa emerito Benedetto XVI, di ventiquattro capi di Stato, otto vicecapi, dieci capi di governo e 122 delegazioni straniere, hanno partecipato circa un milione di fedeli, mentre sono state stimate in 2 miliardi le persone che hanno seguito l'evento in mondovisione. Oltre ai maxischermi posti in chiese e piazze di tutto il mondo, per la prima volta nella storia un evento è stato trasmesso in diretta 3D anche in più di 500 cinema di venti paesi (in Italia è altresì andato in onda in tale formato sul canale a pagamento Sky 3D). L'evento è anche stato registrato in Ultra HD 4K grazie alla collaborazione tra il Centro Televisivo Vaticano, Sony e Sky Italia.

Il piccolo paese del bergamasco, che diede i natali ad Angelo Roncalli, è oggi meta di numerosi pellegrinaggi. Oltre la casa natale, particolarmente significativo è il museo che monsignor Loris Francesco Capovilla, segretario particolare di Giovanni XXIII, ha allestito dal 1988 nella residenza di Ca' Maitino (sempre presso Sotto il Monte), dove Roncalli era solito recarsi per le sue ferie estive prima di essere eletto papa. Questo museo conserva innumerevoli cimeli appartenuti a Giovanni XXIII lì raccolti da monsignor Capovilla, fra i quali il letto su cui il Pontefice spirò il 3 giugno 1963 e l'altare della cappella privata.

Durante il suo pontificato fu pubblicato su “L’Osservatore Romano” un suo “Piccolo saggio di devoti pensieri distribuiti per ogni decina del Rosario, con riferimento alla triplice accentuazione: mistero, riflessione ed intenzione”: in una scrittura limpida e chiara c’è il succo delle riflessioni che egli veniva maturando nella personale preghiera del S. Rosario. “Nell’atto che ripetiamo le Avemarie, quanto è bello contemplare il campo che germina, la messe che s’innalza…”, diceva con efficace metafora presa da quel mondo contadino a lui così familiare. “Ciascuno avverte nei singoli misteri l’opportuno e buon insegnamento per sé, in ordine alla propria santificazione e alle condizioni in cui vive”.
Papa Giovanni auspicava che il Rosario venisse recitato ogni sera in casa, nelle famiglie riunite, in ogni luogo della terra.


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martedì 14 giugno 2016

BUONANNO : INCIDENTE O OMICIDIO?

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Non ferma di far parlare di sé la morte dell’europarlamentare Buonanno.  In un video, circolato in rete,  si cerca di ricostruire la dinamica esatta dell’incidente. Non si sa se catalogare il filmato nel filone complottista, fatto sta che i dubbi palesati nelle immagini sono interessanti e di rilevante entità. Secondo gli autori, nell’incidente sarebbe coinvolta una terza auto.

Secondo gli autori, ad essere coinvolta - secondo quanto si evince dalle prime immagini pubblicate - sarebbe tre e non solo due. "Perché non si cerca la terza auto coinvolta? - dicono - Perché si è cambiata la versione dicendo che Buonanno sarebbe morto nell'abitacolo a seguito del tamponamento? E' una versione credibile? Oppure è lecito sospettare che chi può gestire i media, i servizi e le indagini abbia lavorato alla costruzione e ricostruzione dell'accaduto".

Poi portano delle "prove" complottiste alle loro tesi complottiste. "Poniamo il caso che Buonanno non abbia allacciato le cinture di sicurezza, allora di chi è il corpo a fianco dell'auto ricoperto e fotografato vicino al maggiolino? Nel report fotografico ci sono due auto, di cui una quella di Buonanno. ma dalle immagini notiamo che i danni del Maggiolino corrispondono, secondo i crash test, ad una velocità di impatto appena 65 km/h e a conseguenze che non sono compatibili con una morte sul colpo". Nel video mostrano allora i crash test del Maggiolino che, secondo loro, non porterebbe alla morte del conducente.

La cella di sicurezza dell'abitacolo è rimasta intatta - dicono - tanto che i pompieri hanno potuto aprire manualmente lo sportello. Se la versione è quella della morte all'istante nella sua auto, questa versione non regge. A quella velocità non si muore. Un impatto a tale velocità non giustifica la posizione dell'altra auto, tamponata e scaraventata a circa 50 metri di distanza. La Mercedes pesa molto più del maggiolino. Nella sua traiettoria, infine, si trova un paletto di ferro oltrepassato ma rimasto miracolosamente intatto".

Poi continuano. "Le due auto accasciate a lato della carreggiata sembrano sistemate successivamente. Sull'asfalto, accanto al maggiolino, si nota una traccia curvilinea lasciata da una terza vettura che pare entrare intenzionalmente sulla corsia di emergenza."

L'autostrada Pedemontana comunque è "un'autostrada fantasma" pochissimo frequentata sopratutto per i costi elevati.



Gianluca Buonanno (Borgosesia, 15 maggio 1966 – Gorla Maggiore, 5 giugno 2016) è stato un politico italiano.

Padre artigiano, nonno pugliese attore girovago e spalla di Ettore Petrolini, a sedici anni Buonanno si è iscritto al Movimento Sociale Italiano, affascinato da Giorgio Almirante.

Diplomatosi in ragioneria presso l'ITC di Romagnano Sesia nel 1987, ha lavorato per qualche anno come addetto vendite presso aziende della provincia.

Nel 1990 è stato eletto consigliere comunale di Serravalle Sesia per il MSI-DN, quindi sindaco nel 1993 in una lista civica, riconfermato nel 1997.

È stato consigliere provinciale per Alleanza Nazionale a Vercelli dal 1995 al 2009, vicepresidente della provincia dal 2007.

Divenuto ineleggibile a sindaco di Serravalle Sesia dopo due mandati consecutivi, si candida come indipendente (Lista Buonanno) alle elezioni politiche italiane del 2001 nel collegio maggioritario di Cossato, ottenendo il 22,7% dei voti e sottraendone al candidato della Casa delle Libertà, che ha raccolto il 39,2% dei voti contro il 38,1% del candidato del centrosinistra.

Nel 2002 è stato eletto sindaco di Varallo per la Lega Nord, riconfermato nel 2007.

Nel 2009 ha lasciato l’incarico di vicepresidente della Provincia di Vercelli ed è stato nominato assessore al Comune di Borgosesia.

Nel 2010 è stato eletto per la prima volta in Consiglio regionale (quota proporzionale) nella circoscrizione di Vercelli, con 8.261 voti di preferenza nella lista della Lega Nord.

Nel 2014 si è candidato di nuovo a sindaco di Borgosesia, risultando eletto.

Deputato nella XVI Legislatura per la circoscrizione Piemonte 2, è risultato il deputato con il più alto numero di presenze alla Camera, circa il 98%.

Nell'ottobre 2011 ha espresso all'Amministrazione della Camera dei Deputati la formale rinuncia a un eventuale futuro vitalizio parlamentare (che ha maturato nel 2012 e che avrebbe percepito al raggiungimento dell'età pensionabile).

Il 25 febbraio 2013 è rieletto alla Camera dei Deputati nel collegio Piemonte 2 ed è entrato a far parte del Consiglio direttivo del gruppo parlamentare della Lega Nord.

Candidato alle Elezioni europee del 2014 per la Circoscrizione Italia nord-occidentale, con 26.661 preferenze è stato il secondo candidato più votato della Lega Nord nella Circoscrizione Nord-Ovest, dietro al segretario nazionale Matteo Salvini (223.288 voti). Eletto parlamentare europeo, ha lasciato la Camera dei Deputati.

Nel marzo 2015 compie un viaggio in Libia affermando di voler verificare di persona le condizioni del paese colpito da violenti scontri.

Buonanno è morto il 5 giugno 2016 in un incidente stradale lungo l'autostrada A36 all'altezza di Gorla Maggiore, in provincia di Varese.

Gianluca Buonanno ha più volte espresso opinioni contrarie all'omosessualità e agli omosessuali. Nel 2011, nel pieno della discussione sulla legge contro l'omofobia, ha dichiarato:

« Si fa sempre finta di nulla, le vittime sono sempre gli omosessuali. Invece no, esistono delle situazioni imperdonabili anche in altri ambiti, si pensi alle denunce nel mondo della Chiesa. Ai gay sembra sempre tutto dovuto, invece ognuno deve stare al proprio posto, tutti hanno i diritti, però loro su ogni cosa si sentono discriminati. Quando succede che un omosessuale viene malmenato viene fuori un grande clamore, ma nessuno dice niente quando chi è malmenato non è gay».
Il 6 giugno 2013, in vista della partecipazione del ministro Josefa Idem e del presidente della Camera Laura Boldrini al Gay Pride nazionale di Palermo, ha dichiarato alla trasmissione La Zanzara:

« Al Gay Pride si vedono delle scene che fanno schifo, scene orripilanti. Il Pride fa schifo. Un bambino se lo vede si chiede: cosa fanno quei pagliacci che sfilano lì? Si svolge in posti pubblici e un bambino potrebbe pensare che qualcosa non quadra se vede certe porcherie. La Idem e la Boldrini non dovrebbero rappresentare le istituzioni a una carnevalata con gay e lesbiche che fanno vedere di tutto, fanno vedere il culo, si baciano in strada, fanno strani versi e hanno i seni rifatti. Se un gay si avvicina e ci prova se viene a rompermi le palle gli do un calcio nei coglioni.»
La reazione delle principali associazioni gay è stata immediata: l'associazione dei gay di destra Gaylib ha chiesto l'intervento dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Il 3 luglio seguente, durante una discussione alla Camera, è stato espulso dall'aula per aver invaso i banchi del Governo esponendo un cartello con la scritta "Il governo libera i pedofili". In precedenza in polemica con Sinistra Ecologia Libertà Buonanno aveva dichiarato:
« Per loro è più importante se c'è il matrimonio tra persone dello stesso sesso di altri provvedimenti, per cui invece di chiamarsi Sinistra e libertà si chiamassero Sodomia e libertà.»
Per questa dichiarazione era stato richiamato dal Presidente della Camera. Un episodio simile è accaduto il 30 luglio seguente, quando Buonanno ha affermato:
« In quest'aula siamo invasi dalle lobby, c'è la lobby di chi vuole una cosa, c'è la lobby che ne vuole un'altra, c'è la lobby dei sodomiti rappresentata da Sinistra e Libertà.»
Il 26 settembre, durante l'intervento in aula del deputato di Sinistra Ecologia Libertà Alessandro Zan, ha esposto un finocchio, scontrandosi poi con il collega Toni Matarrelli, intervenuto per dare manforte al compagno di partito Zan. Uscendo dall'aula Buonanno ha dichiarato:

« Barilla ha ragione. D'ora in poi mangerò solo la sua pasta».
Il 19 settembre 2014, nel corso del programma radiofonico La Zanzara, interpellato sulle unioni omosessuali, ha proposto di "schedare le coppie omosessuali" e regalare loro una banana:

« A Borgosesia ci saranno una decina di gay, ma può darsi che siano aumentati. Fosse per me li schederei. Visto che vogliono pubblicizzare il loro amore, segniamoli su un registro. Se mi chiedessero di celebrare nozze gay nel comune dove sono sindaco, direi che è meglio che si facciano un TSO. Al massimo offro ai gay una banana. O un’insalata di finocchio.»
Il 2 marzo 2015, nel corso della trasmissione televisiva Piazzapulita, Buonanno ha affermato per quattro volte che "i rom sono la feccia della società". Il 16 aprile 2016, il Tribunale di Milano ha accolto un ricorso presentato dalle assocazioni ASGI (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) e NAGA (Associazione volontaria di assistenza socio-sanitario e per diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti) e ha condannato Buonanno al pagamento di 6.000 euro a favore di ciascuna delle associazioni ricorrenti a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, ordinando inoltre la pubblicazione dell'intestazione e del dispositivo dell'ordinanza sul quotidiano Corriere della Sera in caratteri doppi del normale e a spese di Buonanno.


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giovedì 2 giugno 2016

MORIRE BRUCIATI

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È verosimile che questa forma di condanna a morte fosse presente nelle culture più antiche, ma le prime testimonianze di condanne al rogo sono di epoca romana e ci vengono fornite dai Martirologi e dalle Vite dei Santi, in cui vengono descritti i supplizi dei martiri del cristianesimo.

Secondo leggende cristiane, la condanna al rogo di questi da parte del Senato e degli imperatori romani non era molto frequente e si concludeva sempre con la salvezza del Santo a cui, poiché le fiamme non riuscivano a lambirlo, veniva staccata la testa. Nei primi anni dell'impero bizantino il rogo fu utilizzato come punizione per gli zoroastriani, come pena di contrappasso alla loro adorazione del fuoco sacro.

Nei territori conquistati dai Vandali nell'Africa settentrionale, durante il Regno di Unerico la morte sul rogo fu dispensata a molti vescovi cattolici che si erano rifiutati di convertirsi all'arianesimo. Nella Bibbia la punizione del fuoco (Serefa) non era invece riferita al rogo come oggi lo intendiamo: ai condannati veniva fatto ingerire piombo fuso provocando la morte istantanea del reo dovuta alla distruzione delle vene e delle arterie del collo. La Serifa fu una delle quattro pene di morte prescritte dal libro sacro e, come le rimanenti (lapidazione, decapitazione e impiccagione) raramente fu praticata dagli ebrei.

Al di fuori dell'area mediterranea il rogo è stato praticato da alcune civiltà precolombiane per cerimonie sacrificali e in India, dove nel passato, ma in alcune regioni la tradizione persiste ancor oggi, le donne sposate venivano sacrificate sulla pira ove ardevano i corpi dei mariti morti. Il rogo era usato anche da alcune tribù di Indiani d'America, in alternativa alla trafittura con frecce, per uccidere i nemici catturati.

Nel mondo cristiano, il rogo venne utilizzato per punire l'eresia. Tra le personalità di spicco giustiziate tramite questo supplizio possiamo ricordare Jacques de Molay (1314), Jan Hus (1415), Giovanna D'Arco (1431) e Giordano Bruno (1600). Dopo l'affermarsi della riforma luterana e di quella calvinista la condanna a morte per rogo venne applicata da tutte le correnti religiose.

Gli ultimi roghi per stregoneria in Europa avvennero tra il 1782 e il 1793 in Svizzera e in Polonia.

Fin dal Medioevo, in Gran Bretagna, il rogo fu la pena capitale decretata per le donne condannate per tradimento: questo poteva essere high treason quando si trattava di crimini commessi contro i sovrani o petty treason per l'uccisione di coloro che erano superiori per legge a chi commetteva il reato, come nel caso della moglie che uccideva il marito. Nel 1790, Sir Benjamin Hammett, riuscì a far approvare una legge al Parlamento inglese che pose fine sull'isola all'esecuzione capitale sul rogo.

Seppure nella nostra società questa forma di condanna a morte sia cessata da alcuni secoli, nel mondo sono ancora frequenti le condanne a morte e i linciaggi che hanno come mezzo di esecuzione il rogo. Nel 1916 in Texas, Jesse Washington, un diciassettenne afroamericano, poco dopo aver subito una condanna a morte per aver stuprato e ucciso una donna, fu trascinato da una folla su un rogo, e fu torturato e ucciso. Nel corso del XX secolo, in tutto il Sud degli Stati Uniti, furono numerosissimi i casi di persone di colore o cattoliche bruciate su roghi improvvisati o bruciate nelle proprie case dai membri del Ku Klux Klan.



Durante la seconda guerra mondiale il fuoco era poi spesso utilizzato dalle truppe nazifasciste sia per far scomparire i corpi delle vittime delle rappresaglie contro la popolazione civile, fossero queste già morte o agonizzanti, come è avvenuto, ad esempio, a Sant'Anna di Stazzema, sia come vero e proprio mezzo di esecuzione capitale, come verificatosi a Lipa. Nell'Africa animista coinvolgono le persone accusate di stregoneria ma, seppur per fini differenti, sono praticate anche in India.

Chiudere gli occhi e provare a immaginare quel dolore replicato all'infinito. Quel dolore che parte dai piedi, si arrampica veloce su per i vestiti imbevuti di un accelerante qualsiasi, che avvolge le gambe. Iniziando dalle caviglie si insinua fino alle cosce e poi su agli organi genitali. Brucia i peli, uno dopo l'altro ma senza distinguere la sequenza temporale. Sentire quel male infame e la puzza che lo accompagna. Se la fortuna viene in soccorso i neurorecettori del dolore mandano tutto a quel paese e regalano il sollievo dello stato di shock. Se invece la soglia di sopportazione del dolore è drammaticamente alta, si avrà modo di sentire il fuoco che trapassa la carne, la strappa via un lembo dopo l'altro e continua a salire arrivando alla pancia, alla schiena, al petto, al collo. Le mani le ha già prese:le ha prese quasi subito perché quel poco di istinto di sopravvivenza che rimane, dopo essersi piegati sulle ginocchia, spinge a cercare di fermare il dolore delle fiamme premendo le mani sulle parti del corpo che bruciano. L'istinto di sopravvivenza si arrende all'evidenza: le mani sono infuocate. Provare a rotolarsi a terra, meglio se sabbiosa, ma quella terra sarà imbevuta di quello stesso liquido accelerante che si ha addosso e così anche l'ultimo tentativo di sopravvivere al fuoco si spegnerà.

Che riposino in pace quelle donne bruciate per pareggiare una contabilità diabolica.



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lunedì 16 maggio 2016

MARTIN LUTHER KING

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Pacifista convinto e grande uomo del Novecento, Martin Luther King Jr. nasce il 15 gennaio 1929 ad Atlanta (Georgia), nel Profondo sud degli States. Suo padre era un predicatore della chiesa battista e sua madre una maestra. I King inizialmente vivono nella Auburn Avenue, soprannominata il Paradiso Nero, dove risiedono i borghesi del ghetto, gli "eletti della razza inferiore", per dirla con un'espressione paradossale in voga al tempo. Nel 1948 Martin si trasferisce a Chester (Pennsylvania) dove studia teologia e vince una borsa di studio che gli consente di conseguire il dottorato di filosofia a Boston.

Qui conosce Coretta Scott, che sposa nel '53. A partire da quell'anno, é pastore della Chiesa battista a Montgomery (Alabama). Nel periodo '55-'60, invece, è l' ispiratore e l' organizzatore delle iniziative per il diritto di voto ai neri e per la parità nei diritti civili e sociali, oltre che per l'abolizione, su un piano più generale, delle forme legali di discriminazione ancora attive negli Stati Uniti.

Nel 1957 fonda la "Southern Christian Leadership Conference" (Sclc), un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva. Per citare una frase di un suo discorso: "...siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione... Se protesterete con coraggio, ma anche con dignità e con amore cristiano, nel futuro gli storici dovranno dire: laggiù viveva un grande popolo, un popolo nero, che iniettò nuovo significato e dignità nelle vene della civiltà.". Il culmine del movimento si ha il 28 agosto 1963 durante la marcia su Washington quando King pronunci a il suo discorso più famoso "I have a dream...." ("Ho un sogno"). Nel 1964 riceve ad Oslo il premio Nobel per la pace.

Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finiscono con violenze e arresti di massa; egli continua a predicare la non violenza pur subendo minacce e attentati.

Nel 1966 si trasferisce a Chicago e modifica parte della sua impostazione politica: si dichiara contrario alla guerra del Vietnam e si astiene dal condannare le violenze delle organizzazioni estremiste, denunciando le condizioni di miseria e degrado dei ghetti delle metropoli, entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca.

Nel mese di aprile dell'anno 1968 Luther King si recò a Memphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero.

Martin Luther King giunse a Memphis il 3 aprile 1968, dopo che il suo volo era stato ritardato per un allarme bomba. Dopo la marcia finita con la morte del ragazzo rientra al Lorraine Motel sito a Mulberry Street, di proprietà di Walter Bailey, sempre a Memphis. Nella sua stanza, la 306, situata al secondo piano (come affermò poi lo stesso Walter Bailey King, frequentatore abituale del motel, occupava sempre la stessa stanza, nei giorni dell'omicidio era stata assegnata una stanza diversa,la 202,in quanto la 306 era già stata occupata, appena libera traslocarono), assieme ai suoi collaboratori (tra cui il reverendo Ralph Abernathy e Jesse Jackson) cerca di organizzare un nuovo corteo per uno dei giorni successivi. Doveva cenare a casa del reverendo Samuel B. Kyles, alle 17:30 giunse al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l'autista di King gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto. Parlò al musicista Ben Branch, che avrebbe dovuto suonare quella sera ad un incontro locale in una chiesa dove era programmato un culto.

King gli chiese di intonare il suo inno preferito Take my hand, my precious Lord (prendimi per mano, mio prezioso Signore), poi intonato davvero dalla celebre Mahalia Jackson, cara amica di King, nel corso dei suoi funerali. Alle 18:01 King uscì sul balcone del secondo piano del motel, dove venne colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; subito dopo fu ritratto in una foto di Joseph Louw: unico giornalista rimasto dopo che il giorno precedente avevano tutti abbandonato la città, stava preparando un documentario sul pastore. Venne soccorso fra gli altri anche da Marrell McCullough, agente di polizia, che cercò inutilmente di tamponare la ferita. Fu utilizzato un proiettile calibro 30-06. Trasportato al St. Joseph's Hospital, i medici constatarono un irreparabile danno cerebrale, la sua morte venne annunciata alle 19:05 del 4 aprile 1968. La salma oggi riposa nel Southview Cemetery, in Jonesboro Road, Atlanta.




Il presidente Johnson chiese al popolo di non cedere alla violenza, la stessa che aveva ucciso King, ma in più di 120 città si registrarono atti violenti quali incendi e saccheggi. Dichiarò il 7 aprile come giorno di lutto nazionale in onore del leader per i diritti civili, al funerale in sua vece era presente il vicepresidente Hubert Humphrey. Il candidato democratico per la Casa Bianca Robert Kennedy fu informato dell'omicidio mentre si stava dirigendo a Indianapolis, per fare campagna elettorale. Nel suo breve ma concitato discorso a coloro che gli stavano intorno, Kennedy espresse il desiderio che gli attivisti legati a King continuassero sulla strada della non-violenza. Stokely Carmichael affermò che si trattava di una dichiarazione di guerra al popolo afroamericano e che intendevano vendicarlo e non piangerlo. In seguito ai fatti che seguirono queste parole i contrasti avvenuti portarono a 46 morti, 2.600 feriti e 21.000 arresti.

Su richiesta della vedova Coretta King al funerale del marito, tenutosi il 9 aprile, fu letto l'ultimo sermone che il defunto aveva pronunciato il 4 febbraio di quell'anno. Nel sermone King chiese che il funerale si svolgesse con grande semplicità: la sua bara fu trascinata da un carro con due asinelli della Georgia, così come espressamente richiesto da lui quando era ancora in vita. King non volle che fossero menzionati i suoi premi o altri onori che aveva ricevuto; chiese solamente di esser ricordato come chi aveva cercato di dare da mangiare agli affamati, coprire coloro che non avevano i vestiti, essere chiaro e duro sulla questione della guerra in Vietnam e infine "amare e servire l'umanità". Poco tempo dopo la morte di King la città di Memphis, che vide un corteo di 42.000 persone sfilare l'8 aprile, provvide ad accettare le richieste degli spazzini neri, che interruppero così lo sciopero.

Il giorno seguente l'omicidio, Ramsey Clark, procuratore generale, affermò che era vicino all'arresto del colpevole, più di 3500 agenti dell'FBI seguirono il caso. Venne accertato che lo sparo proveniva dalla stanza 5b della pensione Bessie Brower, che si trovava di fronte a quella dove si riposava il pastore. La stanza era registrata a nome di John Willard che si rivelerà essere, insieme a Eric Galt uno pseudonimo utilizzato da James Earl Ray. Si ritrovò l'arma del delitto, un Remington con mirino telescopico, abbandonato nel marciapiede di fronte ad un negozio, vicino al luogo del delitto, con le impronte digitali di Ray sopra di essa. Venne arrestato l'8 giugno all'aeroporto Heathrow di Londra, mentre cercava di lasciare il Regno Unito con un falso passaporto canadese con il nome di Ramon George Sneyd, voleva recarsi a Bruxelles.

Come rappresentante legale scelse Arthur J. Hanes, grazie anche ai soldi ricevuti dal giornalista William Bradford Huie in seguito ebbe Percy Foreman mentre il suo ultimo avvocato fu William F. Pepper. Ray fu velocemente estradato in Tennessee e accusato dell'omicidio di King; egli dapprima confessò di essere l'assassino, ma tre giorni dopo ritrattò dopo aver licenziato Percy Foreman, suo legale. Secondo il legale di Ray, il suo assistito si sarebbe professato innocente per evitare la pena di morte. Il 10 marzo 1969 venne condannato a 99 anni di reclusione. Il 10 giugno 1977, Ray e altri 6 carcerati evasero dal penitenziario di stato Brushy Mountain (a Petros, in Tennessee). I sette furono ritrovati tre giorni dopo e ricondotti in prigione.

Nel 1997 Dexter visitò in prigione Ray e gli chiese se fosse stato veramente lui ad uccidere il padre, la sua risposta fu che era innocente. Nel dicembre del 1999 una giuria decretò che King fu vittima di una cospirazione che includeva Loyd Jowers, proprietario del Jim Grill, ristorante situato nei pressi del motel dove è stato ucciso. Egli durante il processo ritirò le affermazioni fatte nel 1983 alla televisione ABC e fu condannato al pagamento della somma di 100 dollari alla famiglia King. Ray sostenne di aver incontrato un uomo che si faceva chiamare "Raoul" e che sarebbe stato coinvolto nella cospirazione per uccidere M. L. King.

Nel 2002 Ronald Denton Wilson affermò che suo padre Henry Clay Wilson era coinvolto nell'assassino di King, insieme ad altre due persone già all'epoca decedute. Gli atti dell'indagine sull'assassinio di Martin Luther King jr sono stati secretati fino al 2002 dall'amministrazione americana. Alcuni testimoni confermarono come il colpo provenisse da un luogo diverso da quello in cui si trovava Ray.

Tra i diritti civili per i quali il movimento si batteva grande importanza era data al diritto di voto: King si adoperò soprattutto per effettuare tra la popolazione nera la cosiddetta "campagna del voto". In una situazione politica in cui mediamente meno di un nero su 5 esercitava il suo diritto di voto, la SCLC pose l'accento sull'influenza che poteva esercitare l'elettorato afroamericano votando un candidato piuttosto che un altro candidato razzista. Questo efficace modo di pensare fu adottato anche da Nelson Mandela che lottò per i diritti del popolo sudafricano.

King era convinto che l'applicazione delle tecniche gandhiane di non-violenza all'organizzazione (da parte della SCLC) di campagne per i diritti avrebbe consentito, attraverso la copertura mediatica che ne derivava, la denuncia della situazione in cui versava la comunità nera. Di fatto questa strategia si rivelò vincente: i giornali e la televisione riportavano giornalmente sia le manifestazioni di protesta (marce, boicottaggi, episodi di resistenza civile come i sit-in.) sia la violenza e lo stato di segregazione a cui erano sottoposti i neri. Tutto ciò riuscì a convincere gran parte dell'opinione pubblica americana dell'importanza e della priorità che il problema dei Diritti Civili della comunità afroamericana aveva. King, in America, come Gandhi in India, organizzò una protesta pacifica, senza armi, soprattutto basandosi sul dialogo, ottenendo anch'egli grandi risultati. Le campagne di disobbedienza civile portarono lo stesso King ad essere più volte imprigionato.



King applicò i principi della nonviolenza riscuotendo grandi successi, grazie anche ad una meticolosa e strategica preparazione dei metodi, dei luoghi e dei momenti di protesta, in modo da massimizzare la loro visibilità e il loro impatto mediatico e sulla popolazione, sia bianca sia nera. King e la SCLC organizzarono così decine e decine di marce e manifestazioni di protesta per assicurare alla comunità nera d'America il diritto di voto, la fine della segregazione, pari diritti sul lavoro e altri basilari diritti civili. Quando nell'ottobre del 1963 vi fu la Riforma agraria lui intervenne come difensore dei diritti della popolazione nera, sfruttata dai latifondisti americani nelle piantagioni. Molte delle richieste del movimenti furono in seguito accolte, e si tradussero in leggi degli Stati Uniti, grazie all'approvazione di documenti come il Civil Rights Act (1964) ed il Voting Rights Act (1965).

L'FBI si interessò a King inizialmente con il tracciamento degli spostamenti aerei del pastore protestante e con le ricerche sui suoi collaboratori. Il capo dell'FBI dell'epoca J. Edgar Hoover, sospettando che il pastore collaborasse con i comunisti, ordinò ai suoi uomini di indagare su Martin Luther King, presentò il 9 marzo 1956 al presidente Eisenhower, come da sua richiesta, un fascicolo che dimostrava il presunto pericolo costituito dal movimento (ai tempi del boicottaggio), appoggiato da Sherman Adams in quella relazione vi era il nome di Stanley Levison, avvocato di King e membro del Partito Comunista, ma vi fu anche il commento di King in riferimento a Du Bois che il 1º ottobre entrò nel Partito Comunista, definendo il momento come «la diserzione di uno dei più brillanti intellettuali neri degli Stati Uniti».

Quando Kennedy divenne presidente, Hoover continuò ad affermare che King fosse circondato dai comunisti come nel caso di Ben Davis (consigliere comunale) che gli aveva donato il sangue dopo la pugnalata ricevuta, ma questo non convinse il presidente circa il pericolo che potesse costituire il pastore. Il 15 marzo 1962 furono installati dei microfoni nella casa di Levison, venendo a conoscenza dei suoi incontri con Jack O'Dell. Kennedy stesso consigliò, nel giugno del 1963 a King di non continuare a frequentare Levison che poteva gettare ombre sulla sua carriera. Deceduto Kennedy il controllo continuò e ne venne informato il nuovo presidente Johnson, il pastore decise di incontrare Hoover che negò ogni sorta di controllo. Nel luglio del 1963 lo stesso Hoover richiese all'allora Procuratore generale Robert Kennedy di poter piazzare cimici e tenere sotto controllo il telefono di Martin Luther King e di molti suoi collaboratori.

L'interesse dell'FBI per King si intensificò dopo la marcia su Washington e il celebre discorso I have a dream, tanto che un memorandum dell'epoca descriveva King come "il più pericoloso ed efficace leader nero nella nazione". Nel settembre di quello stesso anno Robert Kennedy acconsentì alla sorveglianza tecnica, raccomandando agli agenti particolare attenzione data la delicatezza della faccenda e richiedendo di essere informato personalmente di ogni sviluppo. A Selma il 2 gennaio 1965 venne ritrovato un pacchetto con dei nastri e una lettera minatoria che lo invitava ad abbandonare la causa. Intanto John Edgar Hoover aveva definito Martin Luther King «the most notorious liar» (il bugiardo più celebre).

Dal 1965 King iniziò a esprimere un'opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, il 12 agosto 1965 chiese una moratoria dei bombardamenti sul Vietnam del nord, incontrò,seguendo il consiglio del presidente, Johnson Arthur Goldberg nel settembre del 1965, in quel periodo si dedicò ai diritti civili lasciando alla moglie i discorsi pubblici, mentre veniva criticato per i dubbi espressi sull'opportunità della guerra. Il 10 gennaio 1966 sostenne Julian Bond che si manifestò contrario alla guerra, mantenne tale condotta in un'intervista sostenuta per Face the Nation dove chiese che cessassero i bombardamenti. Nel gennaio del 1967 in un articolo sul giornale Ramparts seppe di circa un milione di bambini uccisi dalle bombe al napalm.

Il 4 aprile 1967 (un anno esatto prima della sua morte), alla chiesa di New York City Riverside, nel suo discorso "Beyond Vietnam", affermò che la guerra distoglieva lo sguardo dai poveri risucchiando ogni risorsa che poteva essere utilizzata per loro, che l'America doveva finire di distruggere le speranze di altri popoli, tali azioni erano solo superficie del male profondo degli USA e che occorreva operare una rivoluzione dei valori che dimostrasse la «lealtà verso l'umanità». Quel discorso era spinto non dalla domanda se fosse politicamente opportuno o se avesse il favore della gente, era dettato dalla coscienza, se fosse stato giusto o meno pronunciarlo, Attaccò il ruolo degli USA nella regione e affermò che la loro presenza in Vietnam era finalizzata ad una occupazione di tipo coloniale dello stesso.

Sempre nel discorso "Beyond Vietnam" Martin Luther King sostenne che la vera compassione non sta tanto nell'elemosina ad un mendicante, quanto in un cambiamento della società che eviti che si creino mendicanti. Era contrario all'adesione dei giovani alla guerra, chiedeva a loro di non partire se la ritenevano ingiusta dispiacendosi di non potervi partecipare perché avrebbe rifiutato finendo volentieri in prigione. Gli effetti furono negativi per King, venne criticato dai propri compagni e si attirò le antipatie tra molti mass-media (come il Washington Post e la rivista Life). In un sermone del 5 novembre 1967 affermò che nella vita ogni persona può essere chiamata a schierarsi rischiando la propria vita e i propri beni, e se si rifiuta di farlo per paura, per vivere a lungo, si sarà già morti.



Estremamente celebre è rimasto il discorso che Martin Luther King tenne il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington e nel quale pronunciò più volte la fatidica frase "I have a dream" (Io ho un sogno) che sottintendeva la (spasmodica) attesa che egli coltivava, assieme a molte altre persone, perché ogni uomo venisse riconosciuto uguale ad ogni altro, con gli stessi diritti e le stesse prerogative, proprio negli anni in cui - per dirla con le parole di Bob Dylan - i tempi stavano cambiando e solo il vento poteva portare una risposta. Martin, molte volte fu soggetto ad aggressioni e ad offese molto gravi. Secondo alcune analisi il discorso I have a dream sarebbe in parte molto simile alla discussione di Archibald Carey, Sr. tenuta alla Republican National Convention nel 1952.

Pochi giorni dopo la morte di Martin Luther King, John Conyers (rappresentante democratico del Michigan della Camera dei Deputati) propose un giorno in suo onore, ma la proposta non venne accolta. Conyers e Shirley Chisholm proposero ad ogni seduta del congresso tale idea, per 15 anni consecutivi, a partire dal 1978 si organizzarono delle marce in favore del festeggiamento del leader dei diritti civili. Alla fine, nel 1983 con 338 voti contro 90 alla camera, e 78 contro 22 al senato, la proposta divenne legge. Il Presidente Ronald Reagan firmò l'istituzione della festa nazionale per commemorare Martin Luther King, da celebrarsi il terzo lunedì di gennaio, un giorno vicino cioè al 15 gennaio, giorno della sua nascita.

Fu osservato per la prima volta il 20 gennaio 1986. Non tutti i 50 Stati però riconobbero subito questa festività, mentre alcuni la celebravano con nomi diversi. Alla fine del 1992 erano due gli stati che ancora non celebravano tale ricorrenza, l'Arizona e il New Hampshire: quest'ultimo festeggiava la ricorrenza con un altro nome, il Civil Right Days, che nel 1999 cambierà nome uniformandosi agli altri stati; diversa la situazione in Arizona, dove non vi era alcuna ricorrenza similare. Il 18 gennaio 1993 il Martin Luther King Day è stato celebrato per la prima volta in tutti i cinquanta stati degli USA.

Il 14 ottobre 1964 il parlamento norvegese (Storting) dichiarò Martin Luther King vincitore del Premio Nobel per la pace. Il reverendo affermò che non si trattava di una premiazione alla singola persona, ma che ad ottenere il premio «Nobel» erano state tutte le «nobili» persone che avevano lottato nel movimento per i diritti civili. Quando il 10 dicembre 1964 a Oslo ottenne il premio, King, all'epoca trentacinquenne, era il più giovane nella storia del Nobel; non essendovi a quel tempo la consuetudine di dare la motivazione per l'assegnazione del premio, si fa riferimento all'incarico che aveva:

« Capo della Southern Christian Leadership Conference, attivista per i diritti civili. »
Alla ricezione del premio, Martin Luther King nel suo discorso comunica la speranza di vedere tutte le genti ottenere, oltre ai pasti per il corpo, «istruzione e cultura per la loro mente e dignità uguaglianza e libertà per il loro spirito». I 54.000 dollari del premio vennero divisi nei vari movimenti, CORE, Southern Christian Leadership Conference, NAACP, SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee), National Council of Negro Women (consiglio nazionale delle donne nere) e l'American Foundation on Nonviolence (fondazione americana sulla nonviolenza).

Vedeva l'egoismo come un qualcosa di distruttivo per l'essere umano, affermava che chiunque potesse essere grande anche senza istruzione o competenze bastava un animo gentile vedeva nel continuo progresso l'assenza dell'animo umano che diventava piccolo di fronte alle sue opere gigantesche, la ricchezza la si poteva ottenere soltanto se la povertà cessasse di esistere. Affermava che chi non fosse pronto a morire per un qualcosa in cui crede non possa essere «pronto a vivere» e che le qualità di un uomo si mostrano solo quando deve affrontare una situazione difficile, solo il coraggio poteva vincere la paura.

Il pensiero di King si espresse criticamente, sia verso il capitalismo selvaggio sia verso il socialismo reale, realizzato in Urss ed in altri paesi. King sostiene nei suoi sermoni, in particolare un sermone dedicato alla giustizia e riportato integralmente nel libro La forza di amare (casa editrice SEI), la necessità di riconoscere il bene e il male in entrambi i sistemi economici che si fronteggiavano durante la guerra fredda. Partendo dalla convinzione che Dio desidera liberare dal peccato la stessa struttura sociale ed economica, descrisse come il capitalismo è fonte di libertà e ricchezza per l'uomo ma al tempo stesso fonte d'impoverimento spirituale perché produce materialismo e consumismo sfrenato, così come il comunismo sovietico è nato da giuste esigenze di eguaglianza ma distrugge la libertà individuale e annienta l'uomo con i suoi mezzi crudeli e aberranti.

King credeva nel sogno della fratellanza umana tra i popoli della Terra, nella cosiddetta "beloved community" (comunità d'amore) che era ai suoi occhi la "sintesi creativa" della tesi (capitalismo) e dell'antitesi (comunismo), motivata da una profonda fede in Gesù Cristo. Un'altra polemica nacque dalla sua introduzione al libro Negroes With Guns (Neri Armati) di Robert Williams, un residente a Cuba, che trasmetteva regolarmente tre volte a settimana una trasmissione ad alta frequenza con messaggi ritenuti rivoluzionari ed insurrezionalistici. Ma King ribadì sempre la sua scelta di rifiuto totale di ogni forma di strumento violento.

Le prime accuse di plagio riguardarono il suo scritto Stride Toward Freedom, Il 3 dicembre 1989 uscì un articolo di Frank Johnson apparso sul London Sunday Telegraph dove si affermò per la prima volta che buona parte della tesi con cui si era laureato all'Università di Boston era copiata da quella presentata da Jack Boozer, altro studente. Clayborne Carson, minimizzò la portata del presunto plagio, affermando che si trattava della tradizionale retorica dei predicatori afroamericani che amavano riprendere e riadattare nuovamente discorsi e sermoni di predicatori precedenti.

Nel 1990, nel tentativo di porre una pietra tombale sulla vicenda, il Rettore dell'Università di Boston sentenziò che la tesi di King è stata esaminata scrupolosamente da specialisti e che non è stato trovato un singolo esempio di plagio su 343 pagine. Ma la dichiarazione ebbe l'effetto di riaprire il caso. Soltanto un mese dopo un giornalista del Wall Street Journal dimostrò di essere in possesso della tesi da cui King aveva copiato diffusamente. Un anno dopo, nel 1991, l'Università di Boston pubblicò i risultati di un altro comitato, incaricato di quantificare le dimensioni del presunto "plagio" della tesi del Premio Nobel: il 45% della prima metà e il 21% della seconda metà risultarono copiati. L'ateneo argomentò che comunque il lavoro di King costituiva un "contributo originale alla disciplina" e rifiutò la proposta di revocargli il titolo di dottore. Oggi nella biblioteca universitaria, sulla tesi di Martin Luther King è affisso un foglio che spiega dove e da quali libri il lavoro ha preso spunto.

Durante la campagna presidenziale del 2008 alcune associazioni repubblicane come la Nation Black Republican Association (NBRA) hanno iniziato ad aprire un dibattito sull'appartenenza politica di Martin Luther King, affermazioni smentite da alcuni collaboratori di King, come il reverendo Joseph Lowery, discussione presente in un articolo del Washington Post, nel quale si sottolinea che King non fu eminentemente un politico legato ai partiti, ma piuttosto un uomo di chiesa. King non si espresse mai a favore del comunismo, pur affermando che vi fosse qualcosa di sbagliato nel capitalismo tradizionale e avendo comunque letto al collegio Morehouse autori come Karl Marx, King rifiutava il comunismo per la sua "interpretazione materialistica della storia" che negava la religione, il suo "relativismo etico" e il suo "totalitarismo politico".



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domenica 3 gennaio 2016

IL LUTTO IN BACHECA

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Tradizionalmente, l'idea di affrontare la morte era legata al mondo reale. Si programmavano i funerali, si dava l’addio al defunto e si era pronti a volare in cielo. Al giorno d’oggi molti di noi hanno un alter ego digitale che sopravviverà alla fisicità terrena. Al momento ci sono più di trenta milioni di deceduti i cui account sono tuttora su Facebook. I loro profili sono la fotografia del lutto del ventunesimo secolo.

La cultura del cordoglio online è uno degli effetti collaterali più interessanti dei social media, poiché permette (anche se limitatamente) di interagire con una persona anche quando questa smette di esistere fisicamente. Oltre a spostare l’attenzione su quello che vogliamo far vedere delle nostre vite e su ciò che si potrebbe definire una sorta di eredità online, la mania della vita digitale ha generato una nuova industria che ruota intorno al discorso della morte su Internet.
Il modo in cui affrontiamo il lutto è influenzato dalle nostre vite, e non c'è dubbio che Internet e i social media abbiano il loro peso. Il modo in cui piangiamo la morte di qualcuno sia molto influenzato da questi nuovi mezzi; d'altra parte, si tratta di un evento che ha sempre avuto una dimensione spazio-temporale specifica. Oggi i social network ci consentono di condividere le memorie di chiunque; ogni pagina può diventare un luogo in cui parenti e amici pubblicano i loro ricordi. È un'interessante variante del tipico forum pubblico, slegato dal tempo e dallo spazio. Chiunque, senza restrizioni di luogo, potrà ricordare questa persona e avere uno spazio virtuale dove farlo. È affascinante che il deceduto possa continuare a fare da ponte tra altre persone anche dopo la morte, continuando ad avere un impatto sul mondo reale.

Con strumenti come il profilo Facebook assistiamo alla nascita di un nuovo spazio per vivere il lutto. I commenti diventano un nuovo modo di ricordare e, in un certo senso, costituiscono una nuova tradizione.

In paesi come il Giappone o la Cina, è che non c’è più spazio per le sepolture. Hanno costruito cimiteri online dove si possono creare tombe virtuali. Hanno creato un servizio gratuito che offre una barca virtuale per spargere le ceneri in mare, usando il memoriale digitale come mezzo alternativo per onorare la tradizione e prendersi cura degli avi defunti. È un modo interessante di affrontare il problema dello spazio, nel momento in cui le masse sono sempre più numerose e c’è sempre meno spazio per seppellire i morti.

Saremo ricordati diversamente già solo per il fatto che l’avvento dei social media ha portato con sé l’idea che sia giusto condividere tutto. Vent’anni fa non avremmo mai messo un annuncio sul giornale per raccontare la serata. Ma con Facebook e Twitter si può dire a tutti ciò che si ha fatto e queste informazioni vivranno più a lungo di noi. È un cambiamento drastico. In tutto questo c'è una buona parte di effimero, certo, ma se al posto di un profilo dovessimo gestire gli oggetti di un morto probabilmente butteremmo via molte delle sue cose, mentre sui social ciò che è stato condiviso resterà comunque.

Ciò rappresenta un’enorme opportunità per tutti, tanto di essere ricordati quanto di avere una storia molto più ricca. Tra centinaia di anni potrebbe esistere un'intera branca dell’archeologia dedicata all’indagine sui resti digitali della nostra generazione. La Library of Congress, negli Stati Uniti, sta già tenendo un archivio Twitter. Si avrebbe una visione molto più completa della vita quotidiana delle persone.
Ed è importantissimo assicurarsi di proteggere le nostre informazioni digitali, perché anche se attualmente potrebbero sembrare insignificanti e senza futuro, ci sono buone possibilità che un giorno tutti i nostri tweet su iniziative politiche o azioni militari possano essere rilevanti tanto quanto le lettere dal fronte di quattrocento o cinquecento anni fa.

Non ci si rende conto di creare un’eredità a lungo termine quando è sui social. Gli utenti sanno che ciò che condividono può arrivare molto lontano. Però questo non significa che abbiano capito che questa diffusione potrà costituire la storia della loro vita. Tutto ciò ci riporta al problema di fondo dell’essere umano, cioè il rifiuto della mortalità. Pensare a ciò che si lascia equivale ad accettare la propria morte.



I becchini di facebook sono quelli che scrivono post in cui si annuncia la morte di una persona vicino a loro. Si dividono in tante categorie spesso differenziate da meri criteri cronologici.

Ci sono i becchini-lampo: si gettano a capofitto su facebook per essere i primi a dare la novella. In breve tempo i becchini-lampo vengono sopraffatti dai becchini-sul-pezzo. I becchini-sul-pezzo sono l'evoluzione dei precedenti. Non vanno subito su facebook a dare la notizia perché prima vogliono approfondire la questione. Desiderano, come i primi, far rimbalzare la notizia, ma l'arricchiscono con un minimo di informazione in più. Esempio:
"E' morto XXXXX YYYYYYYY" (becchino lampo)
"E' morto XXXXX YYYYYYYY , è andato fuoristrada mentre tornava a casa" (becchino sul pezzo)

A questo punto la notizia è già diffusa e viene a galla la necessità di far vedere di essere scioccati. Il problema è che su facebook è ancora troppo presto per piangere perché non è ancora matura l'onda emotiva. Si affacciano timidamente i becchini-sentenziosi. Quelli che pubblicano una foto del personaggio scomparso accompagnata da una frase concisa ma emotivamente pregna.
"Ciao XXXXX, riposa in pace"
"Addio XXXXX, ci mancherai"
"E' morto XXXXX, nessuno come lui"

In brevissimo tempo facebook si riempie di emotività ed anche i più timidi, ossia quelli che aspettavano che si commuovessero tutti prima di addolorarsi in prima persona, scendono in campo per dire la loro. Ne consegue un'epica lotta all'ultimo sangue in cui si abusa di sentimenti in offerta 3x2, frasi fatte e citazioni terrificanti. Il terreno è pronto per i becchini-addolorati. Ovvero, coloro che scrivono cose agghiaccianti tirando in ballo angeli, fiori e paradisi.
"Gli angeli in cielo..."
"è stato strappato il fiore più bello..."
"dal Paradiso ci starai guardando e starai dicendo... "
Il culmine si raggiunge quando i produttori di link professionali, sfruttando l'ondata emotiva, sono costretti a pensare per la prima volta una frase con la loro testa senza poterla scopiazzare da qualche autore classico. Ne derivano sgrammaticature urticanti che però tutti i sottoscrittori compulsivi condividono istantaneamente:
"Oggi moriva XXXXX, i suoi performans ci anno insegnato a vivere la vita con pienutidine"

Ultimi in ordine cronologico, ma possibilmente tra i peggiori in assoluto, arrivano i becchini-citazionisti, ovvero coloro che non avendo partecipato pienamente al rimbalzo della notizia desiderano evidenziarsi incollando una frase epica attribuita allo scomparso. Appaiono così frasi che nessuno conosceva ma che tutti, appena lette, sono pronti a diffondere senza minimamente preoccuparsi di verificarle. "fate questo in memoria di me" (il morto del giorno)

Nei commenti appaiono puntuali:
"sarai nella memoria di tutti"
"era un grande, ci mancherà"
"ha vissuto la vita fino all'ultimo secondo"
"sarai sempre nei nostri cuori"

Ecco... "sarai sempre nei nostri cuori"... un must.
Nessuno scrive "sarai sempre nel MIO cuore". No! Casomai nei NOSTRI cuori. Il becchino addolorato di facebook non si emoziona se non in condivisione. Non può scrivere che lui è addolorato, deve sentirsi parte di un gruppo di addolorati ed in tal caso lotta fino allo stremo per dimostrare che è il più addolorato di tutti.

Tempo 24 ore ed il dolore si placa fino scomparire del tutto. I becchini di ogni specie tornano a pubblicare video di gatti, canzoni di Jovanotti e citazioni di Camorra&Love.

È più coerente con un punto di vista psicologico chiedersi per esempio quanto le manifestazioni di cordoglio siano il corrispettivo di un proprio vissuto emotivo o quanto sia un contagio virale a cui sembra brutto sottrarsi nella piazza virtuale dei social network (così come sembra male in una piazza reale ignorare la presenza di un funerale comportandosi in modo “irrispettoso”).

Quel che da un punto di vista psicologico è interessante notare è che il tam tam mediatico e la gara alla manifestazione luttuosa più sentita o originale ha come effetto paradossale una sorta di allontanamento dall’emozione dolorosa che un lutto comporta: è una sorta di difesa mediatica, un modo con cui si esorcizza la notizia postandola in bacheca come si fa con i selfie con gli amici, le foto delle vacanze e altri file di varia natura.

Sembra che Facebook (e altri social network) diano l’illusione di  poter elaborare un lutto in modo diverso, una sorta di auto mutuo aiuto condiviso con gli altri utenti e rendendo “immortale” la persona scomparsa.



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