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lunedì 18 luglio 2016

ANARCHISMO

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I termini "anarchia" e "anarchismo" derivano dal greco a?a???a, ovvero "senza arché (principio regolatore)". La parola "anarchia", per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici, non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia; rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.

Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.

L'anarchismo è definito come la filosofia politica applicata, il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazione societaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario o dannoso, o, in alternativa, come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane.

I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793 definendo, negativamente, la corrente politica degli enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840, con Proudhon, ed il suo saggio "Qu'est-ce que la propriété ?" i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva.

Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e, sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi, alla fine del quale Errico Malatesta sintetizzò il concetto con la frase:"Per conto mio non vi è differenza sostanziale, differenza di principi", non tutte si escludono vicendevolmente. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie: anarco-socialismo e anarco-individualismo; compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili.

L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo, mentre l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici si oppone a tutte le forme di aggressione, sostenendo invece l'autodifesa o la nonviolenza (anarco-pacifismo), mentre altri hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica.

Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania, (l'unico, verrà tradotto in inglese come The Ego and Its Own nel 1907 e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca.

Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte.

In realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkin ed Errico Malatesta, che non esitano su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario.

Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione.

Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato.

A questa visione è contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo stato non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter informare l'anarchia dentro in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare i propri sogni ma senza mai cercare di imporli agli altri. Il comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), mai un'imposizione in nome di un'anarchia che, a questo punto, non potrebbe più essere considerata tale.

L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile.

In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di tutti.

Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – ha scritto Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".

Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile.

Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione. L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia".

Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della società.

Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività umana.

Il pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato.



Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della società.

Così definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale.

Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice).

Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito.

Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Nel 1872, il congresso internazionale di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (A.I.L.) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.

L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere.

I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori.

Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale.

Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:
cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato;
praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione;
darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro.
Quest'ultimo punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente.

L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune.

Le teorie anarchiche di impronta individualista americane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista, convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici, convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismo intese a giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello stato.
Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro.

« Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto »
(Pierre-Joseph Proudhon)
Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la proprietà individuale ma quella proprietà che, seppur utilizzata da altri individui, è fonte di profitto o rendita per il proprietario, mentre come libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo.

Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.

L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di aderenti.

L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri paesi.

Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.

In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti.

La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo.

All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica (FAI) e la Federazione Iberica delle Gioventù Libertarie (FIJL).

Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre più le correnti anarchiche.

Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo.

Oggi il movimento anarchico è ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà.

I governi, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L'ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell'esistenza dei governi e della polizia, secondo l'analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia.

Per quanto riguarda l'uso della violenza, bisogna innanzitutto osservare che anarchia significa non-violenza, dal momento che significa non-imposizione dell'uomo sull'uomo, come sottolineava l'anarchico Errico Malatesta (1853-1932). La società alla quale tende l'anarchismo è infatti una società pacifica. Le differenze sono emerse nel momento di scegliere (a seconda anche delle circostanze e del momento storico contingente, ad esempio sotto una dittatura, o appunto nel corso di una rivoluzione) quali mezzi adoperare per raggiungere o avvicinarsi alla società desiderata, quindi ci sono stati coloro che hanno adottato l'uso individuale della violenza, altri invece un suo uso di massa, ma sempre come unica scelta possibile all'interno della realtà concreta e determinata in cui si sono trovati a dover agire. E la violenza da usare è sempre soltanto quella necessaria, niente di peggio o di più.

Per quanto riguarda invece l'educazione libertaria, si tratta di un approccio che mette al primo posto un rapporto paritario e non gerarchico tra l'adulto e il bambino e tra ogni educatore e i suoi allievi, e la possibilità offerta al bambino e ad ogni essere umano di realizzare completamente se stesso, di svilupparsi liberamente, senza imposizioni, costrizioni, premi, castighi. Quindi rifiuto dell'autorità, rispetto della libertà e delle propensioni individuali, progettualità autogestionaria, libertà di pensiero e di giudizio, “educazione integrale”, inserendo così l'educazione libertaria in una più ampia visione politica. Uno dei primi sostenitori dell'autonomia e dell'indipendenza del bambino fu proprio William Godwin, respingendo ogni tipo di coercizione nel processo educativo ed evidenziando la necessità di svincolare l'istruzione dal controllo dello stato, affinché l'istruzione non sia uno strumento del controllo sociale e un mezzo per rafforzare la visione e l'impostazione gerarchica e anti-libertaria della società. Temi analoghi li ritroviamo in Charles Fourier (1772-1837), secondo il quale nell'azione educativa occorre ridurre al minimo l'esercizio dell'autorità e permettere lo sviluppo di tutte le potenzialità della persona e in Max Stirner (1806-1865). Il concetto fourieriano di “educazione integrale” (un'educazione che comprenda in egual misura attività manuali ed intellettuali) verrà ripreso da molti pensatori anarchici, tra cui Pëtr Kropotkin (1842-1921) Altri anarchici che si sono interessati all'importanza dell'educazione libertaria sono stati gli italiani Errico Malatesta (1853-1932) e Camillo Berneri (1897-1937), vittima quest'ultimo come tanti altri della persecuzione da parte dello stalinismo nei confronti degli anarchici, in questo caso durante la rivoluzione spagnola del 1936. Gli esempi di scuole libertarie e antiautoritarie sono stati numerosi. La prima esperienza del genere è da attribuirsi a Lev Tolstoj (1828-1910), a Jasnaja Poljana tra il 1859 e il 1862, anno in cui la sua scuola verrà chiusa dalle autorità. Poi l'orfanotrofio francese di Cempuis diretto tra il 1880 e il 1894 da Paul Robin, esempio seguito da Sébastian Faure (1857-1942) con la sua scuola libertaria La Ruche (L'alveare), istituita fuori Parigi nel 1904, attiva fino al 1914, e poi ancora l'esperienza del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909) che fondò nel 1901 la sua Escuela Moderna a Barcellona, scuola laica e mista, con lo scopo di permettere ai ragazzi di diventare persone indipendenti, capaci di creare e vivere in una società libertaria (Ferrer verrà fatto fucilare dal governo spagnolo nel 1909), l'Université Nouvelle di Bruxelles fondata nel 1894 insieme ad altri dal geografo anarchico francese Elisée Reclus (1830-1905), che si terrà  a lungo in contatto con Ferrer, con il quale collaborerà per i suoi programmi educativi in particolare riguardo l'insegnamento della geografia (nel 1896 uscì un Manifesto europeo anarchico per la fondazione di scuole libertarie, tra i primi firmatari troviamo Reclus e Kropotkin), la scuola libera di Summerhill fondata nel 1921 da Alexander S.Neill (1883-1973) nel Suffolk, fino ad arrivare al movimento delle Free Schools negli anni successivi al 1960 negli Stati Uniti e in Europa, che si richiamavano ai principi di Tolstoj, Neill e Paul Goodman (basate su principi libertari quali la cooperazione, l'autogestione del progetto da parte di tutti i soggetti coinvolti, il rifiuto di un'organizzazione burocratica e gerarchica, l'assenza di un'autorità formale), poi alle Freie Schulen in Germania a partire dagli anni Settanta, e ai vari esperimenti di licei autogestiti in particolare in Francia fino al caso più recente di Bonaventure, sorta sempre in Francia nel 1993 nell'Ile d'Oleron, scuola per bambini dai tre ai dieci anni.




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domenica 26 giugno 2016

IL CAPORALATO

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Il caporalato, nell'accezione originaria del termine, è un antichissimo sistema di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro (squadre) di dimensione variabile (da pochi individui a diverse centinaia). Esso si basa sulla capacità del "caporale" (che può essere un dipendente del proprietario del fondo agricolo oppure un operatore indipendente) di reperire la manodopera adatta, per le prestazioni della quale competono tutti gli imprenditori agricoli di una determinata zona, di condurla sul fondo e di dirigerla durante l'attività lavorativa.

Il caporale agisce, di fatto, come un vero e proprio mediatore di manodopera, che si fa anche carico di governarne l'attività secondo le richieste dell'imprenditore agricolo. Il caporale ingaggia per conto del proprietario i braccianti, stabilisce il loro compenso del quale tiene per sé una parte (che gli viene corrisposta o dal proprietario o dai braccianti reclutati).

Tuttavia in epoca contemporanea, a seguito del crollo dei prezzi agricoli (dovuto alla concorrenza internazionale ed al contestuale aumento del costo della manodopera), la pratica del caporalato è progressivamente degenerata, trasformandosi da lecito sistema di organizzazione del lavoro agricolo in un'attività volta all'elusione della disciplina sul lavoro, mirando allo sfruttamento a basso costo di manodopera che viene fatta lavorare abusivamente ed illegalmente a prezzi di solito assai inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e senza il versamento dei contributi previdenziali.

Il fenomeno è molto diffuso in Italia soprattutto nel mezzogiorno. Il caporalato è spesso collegato ad organizzazioni malavitose. Esso generalmente trova grande riscontro nelle fasce più deboli e disagiate della popolazione, ad esempio tra i lavoratori immigrati (come gli extracomunitari). Anche il Nord non è da meno, ogni anno infatti a Milano con l'avvicinarsi del Salone del Mobile, Rho diventa la maggior piazza del caporalato in città. Lo sfruttamento della manodopera a basso costo in agricoltura è prassi diffusa non solo nelle regioni del Sud, ma anche in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e provincia di Bolzano.

Questa pratica è documentata nelle cronache: nel maggio del 1980 tre ragazze di Ceglie Messapica in Puglia perdono la vita in un autobus dei caporali. Il 17 luglio alcuni caporali tentano di investire dei lavoratori e dei sindacalisti di Villa Castelli durante una manifestazione contro il fenomeno, dopo aver rivolto nei loro confronti ripetute minacce di morte. Il 21 luglio sempre a Villa Castelli otto caporali armati di pistola aggredirono i sindacalisti della CGIL e assaltarono la sede locale del sindacato.

Il fenomeno del caporalato si è ancor più diffuso con i recenti movimenti migratori provenienti dall'Africa, dalla Penisola Balcanica, dall'Europa orientale e dall'Asia: infatti chi emigra clandestinamente nella speranza di migliorare la propria condizione finisce facilmente nelle mani di queste persone, che li riducono in condizioni di schiavitù e dipendenza. Nel gennaio 2010 i lavoratori extracomunitari di Rosarno in Calabria organizzano una serie di manifestazioni contro i caporali, la tensione sfocia in una escalation di violenza tra braccianti e abitanti del piccolo centro calabrese. Il 26 aprile 2010 sono arrestati a Rosarno 30 caporali, sfruttavano lavoratori extracomunitari che erano costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi, raccogliendo agrumi coltivati nel rosarnese, con turni di lavoro pari a 15 ore al giorno, l'inchiesta ha consentito inoltre di fare luce su un sistema di truffe perpetrate ai danni degli enti previdenziali. Sul piano patrimoniale, sono stati sequestrati duecento terreni e venti aziende agricole per un valore complessivo di 10 milioni di euro. Il 5 giugno 2011 a Villa Castelli nell'ambito dell'operazione Little Castle dalla Guardia di Finanza sono sequestrati beni per un totale di un milione e mezzo di euro.

L'art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 ha introdotto nel codice penale italiano il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Le pene previste per i cosiddetti "caporali" sono la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 1.000 a 2.000 € per ogni lavoratore coinvolto.

Inchieste giornalistiche del 2015 mostrano che il fenomeno continua ad aver diffusione anche nei confronti di donne italiane durante le campagne di raccolta dell'uva e delle fragole. I media hanno riportato, in un caso tragico che ha fatto scalpore che l'azienda pagava regolarmente l'agenzia di lavoro interinale, mentre alla lavoratrice arrivava una retribuzione enormemente inferiore.

Il governo ha annunciato il ricorso a strumenti normativi per punire gravemente, fino alla confisca dei beni, le aziende che utilizzano manodopera tramite il caporalato, mentre sui media si è sottolineato che il problema risiede principalmente nell'intermediazione, mascherata da forme solo in apparenza con una rispettabilità legale (false cooperative, filiali inquinate di agenzie di lavoro interinale).

Sono oltre 400 mila le vittime del caporalato in Italia. I nuovi schiavi passano intere giornate sotto il sole, curvi nei nostri campi per paghe da fame, minacciati e taglieggiati, costretti a vivere in condizioni disumane.

Un giro vite contro aziende e caporali dovrebbe arrivare con una nuova legge attualmente in discussione in Senato.



Dopo lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri (Nardò – Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto sicuramente positivo ma che rischia di avere le altre conseguenze quella di ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto intercorrente caporalato e sfruttamento lavorativo. Una tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali non indifferenti.

Dal 2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento lavorativo in agricoltura. E questo non solo in ambito giornalistico, ma anche in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è limitato a discutere di interventi – tra l’altro ancora lontani dall’essere approvati – volti al solo contrasto del caporalato.

Per avere idea di quanto la questione del “caporalato” abbia fagocitato il dibattito sullo sfruttamento nel lavoro agricolo valga come esempio, per quanto grossolano, il seguente: cercando con Google i termini “caporalato agricoltura” il motore di ricerca trova 3.380 risultati, con le parole “sfruttamento agricoltura” le ricorrenze trovate sono solo 595. Stando al dibattito pubblico, sembrerebbe che le condizioni di grave sfruttamento che si riscontrano nell’ambito del lavoro agricolo, e in particolare dell’attività di raccolta stagionale, siano principalmente, se non esclusivamente, conseguenza dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro. Sono pochi gli interventi, soprattutto tra quelli divulgati, rivolti quindi alla maggioranza degli interessati al tema, a sottolineare che il fenomeno dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro prende forma all’interno di una specifica configurazione economica dove il sistema di reclutamento dei lavoratori garantito dal caporalato è semplicemente funzionale agli interessi delle imprese perché permette di avere accesso, in breve tempo e in maniera altamente flessibile, ad una massa di lavoratori che possono essere in questo modo reclutati esclusivamente sulla base delle esigenze datoriali. Il caporalato si configura quindi come un ‘servizio’ che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare i segmenti dotati di minore capacità e forza contrattuale. Non bisogna dimenticare che la vera forza del sistema del sistema del caporalato è, in primo luogo, l’assenza istituzionale. I cosiddetti caporali non fanno altro che colmare vuoti istituzionali mantenendo i contatti tra azienda e lavoratori – cosa che dovrebbe essere garantita da uffici pubblici attraverso le liste di prenotazione – e garantendo il trasporto dai luoghi di residenza e i luoghi di lavoro, favoriti in questo dall’abbandono e dall’isolamento spaziale e sociale determinato dalla condizione alloggiativa dei lavoratori costretti nei vari ghetti che, in linea teorica, non avrebbero ragione di esistere visto che le spese per l’alloggio per i lavoratori stagionali dovrebbero essere garantite per legge dai datori di lavoro.

Inoltre, nonostante il caporalato tenda ad essere rappresentato come un sistema omogeneo, il modo in cui prende forma a livello territoriale cambia, esistono diversi modelli che vanno dal “semplice” taglieggiamento delle paghe in cambio del servizio di trasporto e dell’ingaggio a forme di maggiore prepotenza e violenza, fino a quelle – in realtà non così diffuse come si penserebbe – riferibili alla riduzione in schiavitù.

Il caporalato è dunque solo uno degli elementi, importante ma solo accessorio, che concorre al mantenimento del sistema di sfruttamento e sospensione dei diritti che conosce l’attuale configurazione del lavoro agricolo nelle campagne dell’Europa mediterranea. In tutti i paesi dell’Europa mediterranea aumentano i ghetti, le tendopoli e i campi temporanei. Si tratta non solo di luoghi che nascono, nel disinteresse istituzionale, ai margini delle società e dei diritti, ma anche di luoghi creati proprio dalle stesse istituzioni, tappe obbligate delle traiettorie del lavoro stagionale agricolo, che costringono la vita dei soggetti ad un’eterna provvisorietà e ad un’indefinita transitorietà. Siamo di fronte ad una vera e propria ‘lagherizzazione’di un numero sempre crescente di cittadini ridotti ad ‘umanità eccedente’ costretta ad uno stato di eccezione permanente all’interno di spazi abietti.

Parlare di lavoro agricolo quindi equivale a parlare di un microcosmo sociale in cui si intersecano e si condizionano vicendevolmente dinamiche strettamente lavorative e più generali dinamiche politiche, economiche e sociali che sono esplicitate e amplificate perché il settore agricolo si situa al centro delle molteplici contraddizioni che caratterizzano la contemporaneità in quanto somma ed estremizza molte delle dinamiche che investono i mercati del lavoro e, più in generale, i sistemi produttivi dei paesi capitalisticamente avanzati. Tra le principali: quelle relative ai processi di precarizzazione della condizione lavorativa e il conseguente depauperamento del potere contrattuale dei lavoratori in generale e della forza lavoro migrante in particolare; quelle relative alle ricadute sul piano economico delle politiche migratorie; quelle relative ai processi di esclusione sociale; quelle innescate dalle filiere produttive e dai processi distributivi dei prodotti agricoli.

Se lo scenario qui tratteggiato ha ragion d’essere, non appare quindi casuale la grande enfasi data al tema del caporalato rispetto ai processi di sfruttamento in agricoltura. Non sorprende per esempio che sul piano politico il ministro dell’agricoltura dell’attuale governo, così come pure il viceministro allo sviluppo economico, siano impegnati in un’azione politica volta ad estendere (giustamente) il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole che se ne avvalgono, mentre poco, o meglio nulla, si dice e si fa, rispetto alle condizioni politiche, istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono forma, tanto il caporalato (declinato nelle sue diverse forme), quanto, più in generale, i processi di sfruttamento in agricoltura. Non è casuale questa scelta per il governo che più di altri si sta contraddistinguendo per l’introduzione di politiche che precarizzano in maniera ancora più accentuata la condizione lavorativa, e il vergognoso jobs act non è che la punta dell’iceberg.

Oggi, sul piano dei rapporti lavorativi, la vera partita, in agricoltura ma non solo, va giocata sul terreno della lotta allo sfruttamento e su quello della lotta per i diritti. Un terreno su cui in Italia, in tanti, sono decisamente in ritardo. Insomma, fin quando la sacrosanta lotta contro il caporalato non sarà riportata all’interno di una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti del lavoro, poco si otterrà. Gli interventi sul piano penale sono insufficienti e la lotta al caporalato sarà destinata ad essere del tutto vana se non si interviene normativamente potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza in atto da quasi un trentennio che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali in materia di lavoro. Questa cosa, al momento, purtroppo, sembra non essere la prima preoccupazione di molti, sicuramente non è la prima preoccupazione dei ministri, né dei vari sottosegretari, né tantomeno del presidente del consiglio in carica e, cosa forse ancora più grave, non sembra essere la priorità delle organizzazioni che dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori.



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lunedì 5 ottobre 2015

MINORI E SOCIAL NETWORK

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Non passa giorno senza che i nostri bimbi facciano qualcosa che meriti di essere immortalato con il vostro smartphone: la prima parola, il primo disegno comprensibile, la faccia imbrattata di omogeneizzato. Nell’ansia di cristallizzare ogni momento si scattano foto, si registrano video che poi, senza pensarci troppo, condividiamo su Facebook e su altri social network.

Un numero crescente di genitori americani negli ultimi mesi, ha cominciato a togliere immagini, filmati e informazioni sui propri figli dal social network più famoso del mondo. Secondo questi genitori archiviare l’esperienza di genitore su Facebook può risultare controproducente per una serie di motivi.

Le immagini, i video e le informazioni (compleanno, feste scolastiche etc.) espongono la prole a qualsiasi genere di malintenzionato, che con un paio di click può essere in grado di sapere che faccia  ha il bimbo e dove va a scuola.

Non è dato sapere con esattezza come il social network utilizzerà l’immagine e le informazioni dei bambini.
Non è detto che il bambino sarà entusiasta, una volta raggiunta l’età per iscriversi a Facebook, di sapere che frammenti della sua imbarazzante infanzia sono stati dispersi ai quattro venti della rete.

Ma se da un lato il numero di genitori accorti sta crescendo, dall’altro la fetta di chi condivide materiale sui propri figli a tutto spiano rimane grande. Stando a una ricerca condotta nel 2011 dal University of Michigan's Institute for Social Research, il 66% dei genitori americani nati tra gli anni ’60 e ’70 condivide senza remore la vita dei propri bambini online.



Naturalmente, Facebook mette a disposizione una serie di strumenti che dovrebbero consentire di mantenere un controllo effettivo sui contenuti condivisi, ma alcuni genitori non si fidano.

Volendo guardare come lo scandalo NSA ha influito sui sistemi di messaggistica, è ragionevole immaginare che, se questa tendenza continua ad aumentare, presto spunteranno nuovi social network che promettono una privacy blindata, studiati su misura per i genitori più premurosi.

PUBBLICARE le foto dei propri bambini su Facebook o comunque su Internet è pericoloso e sconsigliabile, almeno secondo Valentina Sellaroli, Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Torino con competenza su Piemonte e Valle d'Aosta. Anche se la nuova funzione Scrapbook del noto social network sembra migliorare l'attuale situazione sarebbe bene essere a conoscenza di quali sono i rischi.

Scrapbook (trad. "album") sarà disponibile a breve negli Stati Uniti e più avanti probabilmente negli altri paesi. Si tratta di un gestore di foto che organizza in maniera più efficiente tutti i propri scatti sfruttando specifici TAG. "Se scegli di taggare tuo figlio in una foto questa sarà aggiunta in un album personalizzabile", "E le foto che decidi di taggare potranno essere condivise con i tuoi amici o gli amici della tua compagna/o".

In pratica la condivisione è più restrittiva a garanzia della propria privacy, come d'altronde consente anche la pagina Facebook principale  -  se non costringesse a perdere la testa dietro alle opzioni di personalizzazione. Dopodiché il TAG può essere effettuato solo dai genitori e non da amici o estranei. Il rischio di esporsi a situazioni rischiose però non cambia.

"Il primo invito alla prudenza viene banalmente dalla diffusività del mezzo. Pubblicare su internet la foto dei propri bambini è di per sé atto che potenzialmente può raggiungere un numero di persone, conosciute e non, indiscutibilmente più ampio che non il semplice gesto di mettere la foto dei propri figli più o meno in mostra sulla propria scrivania", sottolinea il PM Sellaroli.



"Significa, cioè, esporli realisticamente ad un numero esponenzialmente maggiore di persone che possono anche non avere buone intenzioni e magari interessarsi a loro in maniera poco ortodossa. Non è così frequente ma neppure irrealistico il rischio che persone di questo genere (genericamente pedofili o persone comunque interessate in modi non del tutto lecite ai bambini) possano avvicinarsi ai nostri bambini dopo averli magari visti più volte in foto online".

Esiste anche una seconda preoccupazione che nasce da condotte criminose anche più frequenti. "Quelle di soggetti che taggano le foto di bambini online e, con procedimenti di fotomontaggio più o meno avanzati, ne traggono materiale pedopornografico di vario genere, da smerciare e far circolare tra gli appassionati", prosegue il sostituto procuratore della Repubblica, Valentina Sellaroli.

"Questo genere di condotta non è affatto così infrequente nella realtà, specie se parliamo non di singoli 'appassionatì del genere ma di circoli e giri di pedopornografici che producono immagini di questo tipo per uno scopo di lucro o comunque per un interesse personale di scambio su larga scala. Si pensi infatti al valore aggiunto che hanno immagini moltiplicate più e più volte a partire dagli stessi bambini reali (e dunque senza troppi rischi materiali) ma giungendo ad ottenere un numero assai significativo di immagini pedopornografiche che sembrano 'nuove' e dunque più appetibili". Da sottolineare che anche la pratica del fotomontaggio è punita come quella di coloro che producono queste foto con bambini reali e "non sempre serve che le pose siano sessualmente lascive o esplicite, come veniva richiesto un tempo".

"Infatti la legge di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (cd. Convenzione di Lanzarote), nel 2012, ha modificato la norma del nostro codice penale che punisce la pedopornografia minorile introducendone una nozione esplicita". "Per la prima volta: si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore degli anni diciotto per scopi sessuali".

Come spiega in dettaglio il Pubblico Ministero la decisione quadro del Consiglio Europeo n. 2004/68/GAI del 22.12.03, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, esplicitamente intendeva per pornografia infantile anche, all'art. 1 n. 3 "immagini realistiche di un bambino inesistente implicato o coinvolto nella suddetta condotta". "È punita dunque anche la realizzazione virtuale di una immagine che veda bambini o comunque minorenni coinvolti in immagini esplicite (ove per esplicito potrebbe bastare anche la nudità degli organi sessuali) utilizzate per scopi sessuali da chi le produce, le cede, le riceve o le detiene".

Infine da rilevare un altro rischio che riguarda i casi di adozione o di affidamento di bambini allontanati da famiglie pericolose, maltrattanti o abusanti. "Se il bambino era già abbastanza grande quando è stato allontanato, rischiano di avere un canale di ricerca in più per raggiungere i bambini e le loro nuove famiglie che così non possono più essere tutelati nella loro riservatezza ed anche nella incolumità personale", conclude il pubblico ministero Sellaroli.


Questi genitori non hanno idea del funzionamento del social network. Forse non sanno che, se non cambiano le loro opzioni sulla privacy, chiunque, compresi pedofili, potranno vedere le foto dei loro figli. Inoltre molti di loro condividono altre informazioni che potrebbero mettere in pericolo i propri figli. Indirizzi, targhe di auto, nome della scuola. Sapranno inoltre che le immagini, una volta inserite su Facebook, appartengono al social network? Che potrebbe usarle come meglio crede?

Esempio pratico: Sono un pedofilo, e siccome adescare bambini per strada non è molto sicuro, li cerco online. Facebook è pieno di account di bambini, molti di loro hanno il profilo pubblico. In più mi aiutano i loro genitori. Oggi è il primo giorno di scuola, quindi su Facebook è la “fiera del bambino”, uso le tre parole chiave e mi appaiono centinaia di foto, collegate ad altrettanti profili pubblici. Individuo un bambino della mia città (poniamo Paperopoli), Filippo. In una delle foto è indicato il nome della scuola e classe del bambino. Vado su google, cerco l’indirizzo, so dove il bimbo va a scuola, (Scuola Primaria Mario Rossi – Via Don C. Bianchi 18, Telefono: 080 537****). Ma ho anche riconosciuto la via dove abita. So dove va a calcio (tra le foto pubbliche ce n’è una dell’attestato della scuola calcio). So i nomi di papà, mamma, zio Mario. So che abita a un piano terra, e con un po’ di fatica posso sapere in quale palestra va la mamma, gli orari di lavoro del papà, e così via. (Tutti i nomi di persone e luoghi sono inventati.)» Marta Marchesini, A scuola col pedofilo. (o dare in pasto i propri figli su Facebook)



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domenica 30 agosto 2015

TU GIOCHI....IO LAVORO

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Io sono un bimbo come te...però tu con la palla ci giochi mentre io la palla la costruisco per mangiare e dare da mangiare alla mia famiglia.
Sono almeno 168  milioni i bambini e gli adolescenti nel mondo costretti a lavorare, di cui 85 milioni in lavori altamente rischiosi. L'agricoltura il settore con la più alta presenza di minori - 98 milioni - ma bambine, bambini e adolescenti sono coinvolti anche in attività domestiche, nel lavoro in miniera o nelle fabbriche, spesso in condizioni di estremo pericolo e sfruttamento. L'Africa sub sahariana l'area del mondo con massima incidenza di minori al lavoro. Il lavoro minorile è presente anche in Italia e riguarda  almeno 340.000 minori sotto i 16 anni, di cui 28.000 coinvolti in attività molto pericolose per la loro sicurezza, salute e ai limiti dello sfruttamento. Per questo è urgente l'adozione di un piano nazionale sul lavoro minorile e di contrasto e prevenzione dello sfruttamento lavorativo di bambini e adolescenti nel nostro paese.

Lo chiedono Save the Children e ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), nella Giornata Mondiale contro il Lavoro Minorile del 12 giugno. "Alla vigilia di un anniversario ufficiale - dice Raffaela Milano, direttore programmi Italia-Europa di Save the Children - ci ritroviamo a constatare una mancanza di attenzione al lavoro minorile nel nostro Paese,  sia in termini di monitoraggio del fenomeno, che di azioni specifiche per prevenire e contrastare il fenomeno, anche nelle sue forme peggiori, nonostante si tratti di un problema presente e che rischia di peggiorare,  anche a causa della crisi economica",

Il rischio di compromettere il futuro. "Come emerge dal Rapporto mondiale sul lavoro minorile 2015 dell'Ilo, diffuso ieri, un bambino costretto a lavorare prima del tempo, avrà il doppio delle difficoltà dei suoi coetanei ad accedere ad un lavoro dignitoso in età più adulta - commenta Furio Rosati, dell'ILO e direttore del programma di ricerca ILO-UNICEF-Banca Mondiale Understanding Children's Work (UCW) - correrà molti più rischi di rimanere ai margini della società, in condizioni di sfruttamento. E' cruciale assicurare ai minori - ha aggiunto - una istruzione di qualità almeno fino all'età minima di accesso al mercato del lavoro per garantire l'acquisizione delle conoscenze base e delle competenze adeguate alle necessità del mercato del lavoro. Dobbiamo impedire che il lavoro minorile comprometta il presente e il futuro dei bambini e agire perché ciò non accada, sia nei paesi in via di sviluppo che nei paesi più benestanti,  Italia inclusa".


Secondo la ricerca Game Over di Save the Children, il 7% dei minori nella fascia di età 7-15 anni in Italia è coinvolta nel lavoro minorile. Più di 2 minori su 3 (fra 14 e 15 anni) sono maschi e circa il 7% è un minore straniero. L'11% degli adolescenti che lavorano - pari a circa 28.000 - sono coinvolti nelle forme peggiori di lavoro minorile, con orari notturni o con un impegno continuativo, con il rischio reale di compromettere gli studi, di non avere neanche un spazio minimo per il gioco e  il divertimento o per il necessario riposo. Lavorano  per lo più in attività di famiglia (44,9%) mentre per ciò che riguarda i minori impiegati all'esterno del circuito familiare, i settori principali sono quello della ristorazione (43%), dell'artigianato (20%) e del lavoro in campagna (20%).

E sono stati coinvolti in sfruttamento lavorativo anche molto pesante la gran parte di minori nel circuito della giustizia minorile, come emerge da un'ulteriore indagine di Save the Children. "Il picco di lavoro minorile si registra  fra gli adolescenti, in quell'età di passaggio dalla scuola media alla superiore, che vede in Italia uno dei tassi di dispersione scolastica più elevati d'Europa e pari al 18,2%", spiega Raffaela Milano. "Bisogna intervenire per spezzare il circuito perverso fra dissafezione scolastica e lavoro minorile, rafforzando i progetti contro la dispersione scolastica, gli interventi di sostegno formativo per i ragazzi che hanno prematuramente abbandonato gli studi e favorendo una maggiore continuità fra scuola e lavoro attraverso percorsi  protetti di inserimento lavorativo. Un lavoro dignitoso, a differenza di quello illegale e sfruttato, può essere uno strumento virtuoso per favorire lo sviluppo della personalità del minore, la sua responsabilizzazione e le capacità relazionali ed è quindi cruciale finanziare e potenziare questi percorsi", precisa Raffaela Milano.

In Africa, Asia, America Meridionale, Italia, Ungheria, Svizzera, Mongolia, Cina e Tibet all'inizio degli anni ottanta i piccoli lavoratori erano stimati a oltre 5 milioni. In questo momento sono oltre 150 milioni e secondo alcune stime anche 250 milioni. Il fenomeno del lavoro minorile riguarda non solo i paesi in via di sviluppo ma anche l'occidente industrializzato.

I lavori imposti ai bambini si possono dividere in due categorie: settore produttivo: agricoltura, industria, pesca, e settore urbano. In agricoltura i bambini vengono impiegati nei piccoli orti familiari, oppure dalle multinazionali nelle agricolture di piantagione come braccianti. Nell'industria invece i ragazzi, generalmente fra i 7 e i 15 anni, vengono impiegati per produrre oggetti tessili, ad esempio tappeti; oppure per fare palloni o scarpe.

La responsabilità del lavoro minorile va attribuita in primo luogo alla povertà: nella maggior parte dei casi i bambini devono lavorare per costruire palloni, scarpe o per cucire abiti. Il lavoro infantile o minorile può essere causa, e non solo conseguenza, di povertà sociale e individuale. In alcuni casi svolgendo attività lavorative, un bambino non avrà la possibilità di frequentare in modo completo neppure la scuola elementare, rimanendo in una condizione di analfabetismo, a causa della quale non potrà difendere i propri diritti anche da lavoratore adulto. Infatti molto spesso i lavoratori venivano imbrogliati dai padroni perché erano analfabeti e non potevano sapere che cosa il proprio padrone stava facendo loro firmare, e doveva stare ai suoi ordini magari per anni o addirittura fino alla loro morte.

Sono più di 1 su 20 i minori sotto i 16 anni coinvolti nel lavoro minorile in Italia: il 5,2% della fascia 7-15 anni per un totale di circa 260.000 giovani.

Una prima mappatura del lavoro minorile in Italia ci consegna un Paese fortemente spaccato: al centro e al nord il rischio spazia da "molto basso" a "medio" (a Roma e Milano), mentre al sud e nelle isole diventa "alto" e "molto alto" con i picchi più alti in Sicilia e nelle province di Foggia e Vibo Valentia.

In Italia, lo sfruttamento del lavoro minorile è vietato dalla legge 977 del 17 ottobre 1967.



Nel 1924 la Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni adotta la Convenzione di Ginevra (o Dichiarazione dei diritti del bambino). Il 20 novembre 1989, con l'approvazione da parte dell'ONU della Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia, vi è un tentativo di arginare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile. Viene infatti stabilito che i bambini hanno il diritto "di essere tutelati da tutte le forme di sfruttamento e di abuso".

Per fermare lo sfruttamento minorile sono state promosse iniziative come la promozione di marchi commerciali (Fair Trade) che garantiscano che un determinato prodotto non sia stato fabbricato utilizzando manodopera infantile. Questi programmi, pur essendo mossi da buone intenzioni, non creano alternative ai bambini attualmente occupati, che si ritrovano così costretti a indirizzarsi verso altre attività produttive, nella maggior parte dei casi più pericolose. Nonostante i numerosi provvedimenti attuati, i bambini vittime di schiavitù e privati di una buona infanzia sono ancora molti.

I bambini costretti a lavorare invece di andare a scuola e di giocare sono una realtà ancora largamente diffusa in questo terzo millennio, come se i progressi fatti nel campo dei diritti non fossero ancora riusciti a strappare i più piccoli dalla schiavitù e dallo sfruttamento. E non soltanto nei paesi in via di sviluppo.


LEGGI ANCHE : http://popovina.blogspot.it/2015/08/un-diamante-e-per-sempre-e-la-vita.html






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CELLULARI INSANGUINATI

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Il termine "coltan" è usato colloquialmente in Africa per riferirsi ad una columbite-tantalite a relativamente alto tenore di tantalio. La miscela estratta in diversi paesi africani è spesso scambiata con armi e altri beni da organizzazioni paramilitari e guerriglieri africani, in particolare nella regione del fiume Congo.

Columbite e tantalite costituiscono una serie isomorfa a causa della mutua vicarianza fra tantalio e niobio nel reticolo cristallino. I termini della serie non sono equamente diffusi in natura, ma vedono prevalente un tenore medio-elevato di niobio (o ossido di niobio) a causa della maggior rarità del tantalio.

I minerali della serie cristallizzano nel sistema rombico, classe di simmetria bipiramidale. Formano cristalli ad habitus prismatico e tabulare, tozzi, opachi, di colore nero o grigio molto scuro, ma si rinvengono più generalmente in aggregati compatti microcristallini dello stesso colore o in concrezioni con samarskite con cui la columbite-tantalite forma delle associazioni regolari.

La columbo-tantalite pur essendo un minerale duro, è molto fragile e tende facilmente a sfaldarsi e disgregarsi formando una polvere nera-rosso bruna. I minerali della serie cristallizzano in ambiente magmatico ipoabissale per lento raffreddamento da un fuso molto ricco in silice e si ritrovano quindi in pegmatiti granitiche, ma tendono ad accumularsi - essendo minerali ferrosi e a causa della loro durezza - in sedimenti alluvionali (con una granulometria sabbiosa data la facile sfaldabilità) formatisi per degradazione delle rocce che li contengono.

La columbite-tantalite è il minerale di estrazione primario del tantalio di cui fornisce la quasi totalità della produzione mondiale e il minerale di estrazione secondario del niobio (dal 10 al 15% della produzione mondiale).

Il niobio si usa nell'industria metallurgica per la preparazione di leghe metalliche con elevato punto di fusione, per aumentare la resistenza alla corrosione in alcuni tipi di acciai inossidabili e, infine, nella preparazione di superconduttori elettromagnetici.



Il coltan è un minerale molto duro, denso, resistentissimo al calore e alla corrosione, essenziale per la produzione dei condensatori di computer portatili, telefoni cellulari, dispositivi video, dispositivi audio digitali, console giochi e sistemi di localizzazione satellitare. Solo per citare alcune delle sue applicazioni più comuni che coinvolgono l’industria leggera, ma è utilizzato anche nel settore aerospaziale e nella tecnologia militare.

Con l'aumento della richiesta mondiale di tantalio, si è fatta particolarmente accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione. Un'area particolarmente interessata è la regione congolese del Kivu (sul confine centro-orientale della Repubblica Democratica del Congo) e i due stati confinanti, Ruanda e Uganda; gli intermediari che trattano la vendita del coltan in questi due paesi si approvvigionerebbero, infatti, dai giacimenti minerari congolesi.

I proventi del commercio semilegale di coltan (così come di altre risorse naturali pregiate) attuato dai movimenti di guerriglia che controllano le province orientali del Congo, alimentano la guerra civile in questi territori. Tuttavia, il fatto che gruppi armati o comunque non rappresentanti società statali e industrie, si impossessino del minerale e lo vendano con grossi introiti ad acquirenti principalmente occidentali od asiatici non costituisce di per sé un reato in nessuno dei tre stati interessati, rendendo più controversa la situazione. All'acquisto di columbo-tantalite congolese si sarebbero interessate, come intermediarie, anche organizzazioni criminali europee ed asiatiche dedite al traffico illegale di armi, che verrebbero scambiate con il minerale.

La questione dello sfruttamento incontrollato delle risorse congolesi ha raggiunto un livello di gravità tale da interessare l'ONU che ha pubblicato, nell'ottobre 2002, un rapporto che accusava le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del paese africano - tra cui il coltan - di favorire indirettamente il prosieguo della guerra civile. Nell'inchiesta in merito all'acquisto di columbite-tantalite venne coinvolta anche la H.C Starck, una sussidiaria della Bayer che si occupa della raffinazione di metalli di transizione quali il molibdeno, niobio, tantalio, tungsteno e renio e della produzione per il mercato dell'elettronica, dei semiconduttori e dei superconduttori, di parti di precisione in leghe speciali e componenti ceramici.



L’aspetto più inquietante della questione è insito nel fatto che il coltan si estrae dalle miniere del nord-est della Repubblica democratica del Congo, dove si sono combattute diverse guerre per il controllo delle risorse minerarie, che negli ultimi quindici anni sono costate circa cinque milioni di morti.

Per porre fine a queste stragi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 29 novembre 2010, ha adottato la risoluzione 1952 che richiama gli Stati membri a mettere in atto misure di diligenza ragionevole per conoscere l’origine dei minerali e assicurarsi che il ricavato di quelli importati non vada a beneficio di uomini armati, compresi i militari dell’esercito congolese.

Secondo quanto riporta un rapporto di Global Witness del luglio 2009, i locali percepiscono appena 200 Franchi congolesi (0,18 euro) per ogni chilogrammo di coltan estratto. Sul mercato il prezzo attuale del coltan varia tra i 400 e i 600 dollari al Kg. In alcuni casi, specialmente in quelli in cui vengono impiegati bambini, la paga è giornaliera e comprende un pasto e 100 franchi congolesi (0,09 euro) al giorno.

Uno dei problemi maggiori dello sfruttamento di questo minerale è che contiene una parte di uranio, quindi è radioattivo e spesso viene estratto a mani nude dai minatori congolesi, tra i quali si sono registrati numerosi casi di tumore e impotenza sessuale.

Senza contare che per nutrire questa massa di improvvisati minatori, i cacciatori stanno sterminando la fauna selvatica dei parchi nazionali della zona. In particolare, secondo una denuncia del Wwf, la fauna del Parco nazionale di Kahuzi-Biega e della riserva naturale di Okapi sarebbe a rischio di estinzione a causa dell’estrazione del coltan.

Blood in the Mobile documenta in maniera drammatica come le vittime più numerose del coltan siano proprio i bambini che, grazie alle loro piccole dimensioni, si calano nelle strettissime buche scavate nel terreno ed estraggono le grosse pietre che una volta frantumate daranno il prezioso minerale.

Spesso vengono rapiti dai gestori delle miniere e trasformati in schiavi, in altri casi vengono venduti dalle loro stesse famiglie per pochi dollari, con il medesimo risultato finale.

E’ dunque evidente che quando si parla di coltan insanguinato non si parla solo dei microconflitti regionali per il controllo delle aree minerarie, si parla anche delle migliaia di morti che costa l’estrazione e il trasporto del minerale dalle miniere alle aree di carico.

Infatti anche i portatori, costretti a fare lunghissimi viaggi a piedi in mezzo alla foresta per portare il minerale fino agli aerei cargo, sono spesso vittime di incidenti o semplicemente della stanchezza. Il tutto per la modica cifra di 250 franchi congolesi (0,22 euro) al chilogrammo.

La protesta internazionale ha spinto i principali produttori di telefonini a rassicurare i consumatori che i loro condensatori non contenevano coltan importato dal Congo.

Tuttavia, il rapporto della ong Global Witness testimonia come le multinazionali dell’elettronica non si facciano scrupoli nel comprare il coltan insanguinato per risparmiare qualche dollaro al chilo. Infatti se il mercato ufficiale del prezioso minerale ha prezzi più o meno definiti, quello che si compra sul mercato nero costa circa il 50% in meno.



Senza un serio programma di certificazione delle dichiarazioni dei produttori non c’è modo per i consumatori di sapere da dove arrivi il coltan dei loro telefonini, soprattutto alla luce del fatto che stime attendibili indicano che nel Congo Kinshasa vi siano l’80% delle riserve mondiali.

L’approvazione di un protocollo di controllo della provenienza del coltan, congeniato sulla falsariga di quello di Kimberley per i diamanti, potrebbe contribuire sensibilmente a interrompere la spirale di violenza nella Repubblica democratica del Congo, legata al controllo delle miniere di coltan. Forse, però, anche a causa dell’ostracismo delle potenti lobby dell’elettronica, l’approvazione della proposta continua a slittare di anno in anno.

Si stima che ogni chilo di Coltan che viene estratto costi la vita di due bambini, molti dei quali muoiono a causa di frane. Altre gravi conseguenze sono migliaia di spostamenti forzati, migliaia di civili fuggiti dalle loro case, milioni di rifugiati, violazione dei diritti fondamentali di anziani, donne e ragazze. I lavoratori del Coltan smettono di coltivare la loro terra, lavorano dall’alba al tramonto, e dormono e mangiano nella zona selvagge di montagna. Non sono solo gli uomini a subire le conseguenze dell’estrazione del Coltan. Per estrarre il Coltan del Congo si sono invasi i parchi nazionali. La popolazione degli elefanti è scesa dell’80%. La popolazione di gorilla è diminuita del 90%.

A questo punto dobbiamo chiederci se abbiamo davvero bisogno di un telefono nuovo ogni anno. Abbiamo davvero bisogno di consumare così tanto? Vale la pena finanziare con i nostri consumi la politica dell’usa e getta? Potremmo condividere i telefoni che non usiamo magari lasciandolo nei punti di riciclaggio, o se non esistono nella nostra comunità, creandoli.





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