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martedì 30 agosto 2016

IL RISPETTO DELLE REGOLE



Vorremmo fare quel che ci piace o ci fa comodo. Ma perché dobbiamo osservare le regole, fastidio o non fastidio? Innanzitutto perché ci sono. E poi perché non osservarle può comportare dei castighi.

Rispettare le regole è necessario per qualsiasi società civile perché è importante tracciare dei confini da non superare uguali per tutti, per far si che ognuno di noi sia libero senza però ledere mai la libertà di tutti gli altri.

Rispettare le regole consente di mantenere l’equilibrio nella convivenza di molte persone la dove, in assenza di leggi da rispettare, ci sarebbe soltanto caos e molto probabilmente violenza.

Nello stesso modo  rispettare le regole, in questo caso morali, è necessario per la nostra libertà ed il nostro equilibrio interiore; dentro di noi, infatti, albergano molte emozioni, pensieri e sentimenti che necessitano di ordine per evitare di creare caos e disequilibrio.

L’atteggiamento più diffuso al giorno d’oggi è invece l’implicita accettazione di qualunque cattivo comportamento, a partire dalla volgarità del linguaggio e dell’atteggiamento.

Eppure, se non rispettare le regole ci fa credere di avere maggiore libertà e ci permette magari di divertirci di più sul momento, compromette irrimediabilmente il nostro benessere ed il nostro equilibrio interiore.

Imparare a rispettare le regole morali non implica una vita fatta di privazioni ma al contrario, permette di assaporare nuovamente il gusto dei buoni principi e della propria forza morale, regalandoci una maggiore libertà ed un maggiore benessere nei confronti di quello che ci circonda e di noi stessi; perché chi è capace di rispettare le regole morali rispetta maggiormente se stesso, in barba a quello che vogliono farci credere.



Per avere il diritto, bisogna avere una regola che lo predisponga, se non altro una regola che vieti la lesione del diritto stesso. Il buon funzionamento della società si basa sulle regole che gli uomini si sono dati per organizzare e far funzionare al meglio la loro vita comune e per garantire i diritti di tutti. È importante capire che dietro ad una norma vissuta come un’imposizione fastidiosa, si nasconde in realtà la possibilità di stare bene con se stessi e con gli altri e soprattutto di esercitare senza limiti la propria libertà. Kant sosteneva che la libertà non consistesse nel fare tutto senza regole ma al contrario avere la determinazione di agire nel rispetto delle condizioni morali riconosciute. È libero chi non distrugge le regole di convivenza che permettono a tutti di vivere e realizzarsi. È libero chi persegue i propri obiettivi e coltiva le proprie passioni senza cedere ai compromessi immorali che lo rinchiuderebbero in una gabbia di vizi e malcostume. È libero chi conosce i propri limiti e valorizza le sue virtù, chi sa che essere liberi è faticoso ma impagabile. Il problema è che la maggior parte delle persone è incline a barare e che l’ambiente può scoraggiare o favorire i comportamenti disonesti. In particolare, saremmo più propensi a mentire o imbrogliare se lo fanno anche gli altri intorno a noi. Se fin da piccoli s’impara a imbrogliare, a non rispettare le regole, da grandi si sarà inclini a evadere le tasse, passare con il rosso, cercare raccomandazioni, saltare la fila agli sportelli, non allacciare la cintura di sicurezza in automobile. Se domina la legge del furbetto chi è onesto paga due volte: la prima perché è danneggiato da chi imbroglia e la seconda perché viene anche deriso per averlo fatto..



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lunedì 18 luglio 2016

ANARCHISMO

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I termini "anarchia" e "anarchismo" derivano dal greco a?a???a, ovvero "senza arché (principio regolatore)". La parola "anarchia", per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici, non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia; rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.

Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.

L'anarchismo è definito come la filosofia politica applicata, il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazione societaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario o dannoso, o, in alternativa, come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane.

I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793 definendo, negativamente, la corrente politica degli enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840, con Proudhon, ed il suo saggio "Qu'est-ce que la propriété ?" i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva.

Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e, sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi, alla fine del quale Errico Malatesta sintetizzò il concetto con la frase:"Per conto mio non vi è differenza sostanziale, differenza di principi", non tutte si escludono vicendevolmente. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie: anarco-socialismo e anarco-individualismo; compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili.

L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo, mentre l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici si oppone a tutte le forme di aggressione, sostenendo invece l'autodifesa o la nonviolenza (anarco-pacifismo), mentre altri hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica.

Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania, (l'unico, verrà tradotto in inglese come The Ego and Its Own nel 1907 e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca.

Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte.

In realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkin ed Errico Malatesta, che non esitano su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario.

Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione.

Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato.

A questa visione è contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo stato non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter informare l'anarchia dentro in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare i propri sogni ma senza mai cercare di imporli agli altri. Il comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), mai un'imposizione in nome di un'anarchia che, a questo punto, non potrebbe più essere considerata tale.

L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile.

In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di tutti.

Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – ha scritto Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".

Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile.

Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione. L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia".

Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della società.

Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività umana.

Il pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato.



Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della società.

Così definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale.

Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice).

Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito.

Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Nel 1872, il congresso internazionale di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (A.I.L.) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.

L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere.

I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori.

Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale.

Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:
cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato;
praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione;
darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro.
Quest'ultimo punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente.

L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune.

Le teorie anarchiche di impronta individualista americane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista, convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici, convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismo intese a giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello stato.
Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro.

« Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto »
(Pierre-Joseph Proudhon)
Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la proprietà individuale ma quella proprietà che, seppur utilizzata da altri individui, è fonte di profitto o rendita per il proprietario, mentre come libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo.

Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.

L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di aderenti.

L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri paesi.

Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.

In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti.

La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo.

All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica (FAI) e la Federazione Iberica delle Gioventù Libertarie (FIJL).

Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre più le correnti anarchiche.

Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo.

Oggi il movimento anarchico è ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà.

I governi, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L'ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell'esistenza dei governi e della polizia, secondo l'analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia.

Per quanto riguarda l'uso della violenza, bisogna innanzitutto osservare che anarchia significa non-violenza, dal momento che significa non-imposizione dell'uomo sull'uomo, come sottolineava l'anarchico Errico Malatesta (1853-1932). La società alla quale tende l'anarchismo è infatti una società pacifica. Le differenze sono emerse nel momento di scegliere (a seconda anche delle circostanze e del momento storico contingente, ad esempio sotto una dittatura, o appunto nel corso di una rivoluzione) quali mezzi adoperare per raggiungere o avvicinarsi alla società desiderata, quindi ci sono stati coloro che hanno adottato l'uso individuale della violenza, altri invece un suo uso di massa, ma sempre come unica scelta possibile all'interno della realtà concreta e determinata in cui si sono trovati a dover agire. E la violenza da usare è sempre soltanto quella necessaria, niente di peggio o di più.

Per quanto riguarda invece l'educazione libertaria, si tratta di un approccio che mette al primo posto un rapporto paritario e non gerarchico tra l'adulto e il bambino e tra ogni educatore e i suoi allievi, e la possibilità offerta al bambino e ad ogni essere umano di realizzare completamente se stesso, di svilupparsi liberamente, senza imposizioni, costrizioni, premi, castighi. Quindi rifiuto dell'autorità, rispetto della libertà e delle propensioni individuali, progettualità autogestionaria, libertà di pensiero e di giudizio, “educazione integrale”, inserendo così l'educazione libertaria in una più ampia visione politica. Uno dei primi sostenitori dell'autonomia e dell'indipendenza del bambino fu proprio William Godwin, respingendo ogni tipo di coercizione nel processo educativo ed evidenziando la necessità di svincolare l'istruzione dal controllo dello stato, affinché l'istruzione non sia uno strumento del controllo sociale e un mezzo per rafforzare la visione e l'impostazione gerarchica e anti-libertaria della società. Temi analoghi li ritroviamo in Charles Fourier (1772-1837), secondo il quale nell'azione educativa occorre ridurre al minimo l'esercizio dell'autorità e permettere lo sviluppo di tutte le potenzialità della persona e in Max Stirner (1806-1865). Il concetto fourieriano di “educazione integrale” (un'educazione che comprenda in egual misura attività manuali ed intellettuali) verrà ripreso da molti pensatori anarchici, tra cui Pëtr Kropotkin (1842-1921) Altri anarchici che si sono interessati all'importanza dell'educazione libertaria sono stati gli italiani Errico Malatesta (1853-1932) e Camillo Berneri (1897-1937), vittima quest'ultimo come tanti altri della persecuzione da parte dello stalinismo nei confronti degli anarchici, in questo caso durante la rivoluzione spagnola del 1936. Gli esempi di scuole libertarie e antiautoritarie sono stati numerosi. La prima esperienza del genere è da attribuirsi a Lev Tolstoj (1828-1910), a Jasnaja Poljana tra il 1859 e il 1862, anno in cui la sua scuola verrà chiusa dalle autorità. Poi l'orfanotrofio francese di Cempuis diretto tra il 1880 e il 1894 da Paul Robin, esempio seguito da Sébastian Faure (1857-1942) con la sua scuola libertaria La Ruche (L'alveare), istituita fuori Parigi nel 1904, attiva fino al 1914, e poi ancora l'esperienza del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909) che fondò nel 1901 la sua Escuela Moderna a Barcellona, scuola laica e mista, con lo scopo di permettere ai ragazzi di diventare persone indipendenti, capaci di creare e vivere in una società libertaria (Ferrer verrà fatto fucilare dal governo spagnolo nel 1909), l'Université Nouvelle di Bruxelles fondata nel 1894 insieme ad altri dal geografo anarchico francese Elisée Reclus (1830-1905), che si terrà  a lungo in contatto con Ferrer, con il quale collaborerà per i suoi programmi educativi in particolare riguardo l'insegnamento della geografia (nel 1896 uscì un Manifesto europeo anarchico per la fondazione di scuole libertarie, tra i primi firmatari troviamo Reclus e Kropotkin), la scuola libera di Summerhill fondata nel 1921 da Alexander S.Neill (1883-1973) nel Suffolk, fino ad arrivare al movimento delle Free Schools negli anni successivi al 1960 negli Stati Uniti e in Europa, che si richiamavano ai principi di Tolstoj, Neill e Paul Goodman (basate su principi libertari quali la cooperazione, l'autogestione del progetto da parte di tutti i soggetti coinvolti, il rifiuto di un'organizzazione burocratica e gerarchica, l'assenza di un'autorità formale), poi alle Freie Schulen in Germania a partire dagli anni Settanta, e ai vari esperimenti di licei autogestiti in particolare in Francia fino al caso più recente di Bonaventure, sorta sempre in Francia nel 1993 nell'Ile d'Oleron, scuola per bambini dai tre ai dieci anni.




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lunedì 13 luglio 2015

14 LUGLIO 1789 : LA PRESA DELLA BASTIGLIA


Liberté, Égalité, Fraternité rappresentano un valore così grande da travalicare i confini della Francia, sono simboli che hanno portata e rilevanza universali. Questo motto, nato dalla fucina d'idee della rivoluzione francese, è un caposaldo irrinunciabile della moderna cultura dell'Occidente.

La convocazione degli Stati Generali a Versailles il martedì 5 maggio 1789 per cercare di sanare la difficile crisi politica, sociale ed economica in cui versava la Francia, animò nei mesi seguenti il dibattito politico che si estese fino ai salotti e alle piazze della capitale, a tal punto da indurre il re Luigi XVI a schierare i suoi soldati attorno a Versailles, Parigi, Sèvres e Saint-Denis. Il sabato 11 luglio il Ministro delle Finanze Jacques Necker venne destituito dal re, essendosi guadagnato l'inimicizia di parte della corte per aver manifestato in parecchie occasioni delle idee filo-popolari. Venne inoltre eseguita una riorganizzazione a livello generale mediante diverse sostituzioni: Victor-François de Broglie, Roland-Michel Barrin de La Galissonière, Paul François de Quelen de la Vauguyon, Louis Auguste Le Tonnelier de Breteuil e Joseph Foullon de Doué furono nominati per sostituire Louis Pierre de Chastenet de Puysegur, Armand Marc de Montmorin-Saint-Hérem, César-Guillaume de La Luzerne, François-Emmanuel Guignard de Saint-Priest e Necker.

La domenica 12 luglio la popolazione di Parigi, che da mesi viveva in uno stato di miseria e con la paura che una grave carestia colpisse da un momento all'altro il Paese, venne a conoscenza della destituzione di Necker e organizzò una grande manifestazione di protesta, durante la quale furono portate delle statue raffiguranti i busti di Necker e del Duca d'Orléans. Camille Desmoulins, secondo François-Auguste Mignet, aizzò la folla salendo su un tavolo con la pistola in mano ed esclamando: «Cittadini, non c'è tempo da perdere; la dimissione di Necker è l'avvisaglia di un San Bartolomeo (massacro in cui Carlo IX aveva ordinato di sterminare gli Ugonotti) per i patrioti! Proprio questa notte i battaglioni svizzeri e tedeschi lasceranno il Campo di Marte per massacrarci tutti; una sola cosa ci rimane, prendere le armi!». Alcuni soldati tedeschi (l'esercito di Luigi XVI comprendeva anche reggimenti stranieri, più obbedienti al re rispetto alle truppe francesi) ricevettero l'ordine di caricare la folla, provocando diversi feriti e distruggendo le statue. Il dissenso dei cittadini aumentò a dismisura e l'Assemblea Nazionale avvertì il re del pericolo che avrebbe corso la Francia se le truppe non fossero state allontanate, ma Luigi XVI rispose che non avrebbe cambiato le sue disposizioni.

La mattina del lunedì 13 luglio quaranta dei cinquanta ingressi che permettevano di entrare a Parigi vennero dati alle fiamme dalla popolazione in rivolta. I reggimenti della Guardia francese formarono un presidio permanente attorno alla capitale, sebbene molti di questi soldati fossero vicini alla causa popolare. I cittadini cominciarono a protestare violentemente contro il governo affinché riducesse il prezzo del pane e dei cerali e saccheggiarono molti luoghi sospettati di essere magazzini per provviste di cibo; uno di questi fu il convento di Saint-Lazare (che fungeva da ospedale, scuola, magazzino e prigione), dal quale vennero prelevati 52 carri di grano.

In seguito a questi disordini e saccheggi, che continuavano ad aumentare, gli elettori della capitale (gli stessi che votarono durante le elezioni degli Stati Generali) si riunirono al Municipio di Parigi e decisero di organizzare una milizia cittadina composta da borghesi, che garantisse il mantenimento dell'ordine e la difesa dei diritti costituzionali (due giorni dopo, con Gilbert du Motier de La Fayette, venne denominata Guardia Nazionale). Ogni uomo inquadrato in questo gruppo avrebbe portato, come segno distintivo, una coccarda con i colori della città di Parigi (blu e rosso). Per armare la milizia si cominciò a saccheggiare i luoghi dove si riteneva fossero custodite le armi.

La mattina del martedì 14 luglio gli insorti attaccarono l'Hôtel des Invalides con l'obiettivo di procurarsi delle armi; si impossessarono di circa ventottomila fucili e qualche cannone ma non trovarono la polvere da sparo. Per impadronirsi della polvere decisero di assalire la prigione-fortezza della Bastiglia (vista dal popolo come un simbolo del potere monarchico), nella quale erano tenuti in custodia solamente sette detenuti. Gli elevati costi di mantenimento di una fortezza medievale così imponente, adibita all'epoca a una funzione limitata come quella di carcere, portò alla decisione di chiudere i battenti e probabilmente fu per questo motivo che il 14 luglio gli alloggi della prigione erano praticamente vuoti. La guarnigione della fortezza era composta da 82 invalidi (soldati veterani non più idonei a servire in combattimento), ai quali il 7 luglio si aggiunsero 32 Guardie svizzere; il governatore della prigione (figlio del precedente governatore) era Bernard-René Jordan de Launay.

Pierre-Augustin Hulin prese la guida degli insorti gridando: «Amici, siete buoni cittadini? Sì lo siete! Allora marciamo verso la Bastiglia». Una folla sempre più numerosa raggiunse la fortezza chiedendo la consegna della prigione. Launay trovandosi circondato, pur avendo la forza per respingere l'attacco, cercò di trovare una soluzione pacifica ricevendo alcuni rappresentati degli insorti, con i quali cercò di negoziare. La trattativa si protrasse per lungo tempo mentre all'esterno la folla continuava ad aumentare fino a quando, verso le 13:30, le catene del ponte levatoio vennero tagliate e gli insorti riuscirono a penetrare nel cortile interno, scontrandosi con la Guardia svizzera. Ci fu un violento combattimento che causò diversi morti (gli uomini del regio esercito, accampati nel vicino Campo di Marte, non intervennero).

Gli insorti riuscirono così a occupare la prigione-fortezza; le guardie trovate morte vennero decapitate e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e portate attraverso tutta la città. Il resto della guarnigione fu fatta prigioniera e condotta al Municipio ma lungo la strada, in piazza de Grève, Launay fu preso dalla folla e linciato. Uno degli insorti lo decapitò e infilzò la testa su una picca.

I prigionieri trovati all'interno della fortezza e rilasciati furono sette: quattro falsari, due malati mentali e un libertino. Dopo la liberazione i quattro falsari fecero perdere le proprie tracce mentre gli altri prigionieri liberati furono portati in trionfo per la città, ma i due malati mentali, il giorno dopo, furono rinchiusi nell'ospizio di Charenton. Fino a pochi giorni prima nella Bastiglia vi era stato rinchiuso anche il marchese Donatien Alphonse François de Sade, che infiammò gli animi dei suoi concittadini descrivendo, con particolari raccapriccianti e fantasiosi, le torture che lì si eseguivano; venne trasferito al manicomio di Saint-Maurice il 4 luglio.

Il 15 luglio venne creata la Guardia Nazionale, affidata al comando di La Fayette, con il compito di reprimere ogni eventuale tentativo anti-rivoluzionario. Molti aristocratici furono costretti a fuggire da Parigi e parecchie città crearono nuove municipalità borghesi, rimuovendo i rappresentanti del vecchio regime con l'intento di eliminare il centralismo monarchico.

Inizialmente la Presa della Bastiglia non ebbe affatto il risvolto simbolico che oggi le si attribuisce (l'inizio della Rivoluzione francese), ma fu considerata alla stregua di uno dei tanti tumulti allora frequenti a Parigi. Lo stesso Luigi XVI scrisse nel suo diario quel giorno rien (niente), a significare che non era accaduto nulla di rilevante o che meritasse di essere ricordato. Il 16 luglio però, spaventato dalle notizie di rivolta, il re riprese Necker come Ministro delle Finanze. Ma era troppo tardi, in quanto la Rivoluzione francese era ormai in atto.


La Bastiglia venne lentamente smantellata in seguito al 14 luglio 1789 (alcune macerie furono vendute come reliquie), ma la piazza dove sorgeva (Place de la Bastille) è oggi una delle più grandi e famose di Parigi.





La prima parola del motto repubblicano, Liberté fu all'inizio concepita secondo l'idea liberale. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) la definiva così: «La libertà consiste nel potere di fare ciò che non nuoce ai diritti altrui». «Vivere liberi o morire» fu un grande motto repubblicano. Sotto il governo di Maximilien de Robespierre, detto del Terrore (Terreur), divenne famoso il motto: «Nessuna libertà per i nemici di essa».

«Libertè, egalitè, fraternitè» recita il più noto motto dell’illuminismo francese, come si ripete da sempre e come ancor di più accade in seguito alla strage nella redazione del giornalaccio Charlie Hebdo (espressione diretta di quell’illuminismo antireligioso e ideologico che in questa sede si tenterà di smascherare).
La suddetta strage al cuore della Francia ha smosso le acque stagnanti del neo-illuminismo odierno, tanto da offrire lo spunto per riflettere a partire da alcuni quesiti che s’impongono da se stessi.
È proprio così? È proprio vero che si tratta di principi illuministi? Si può mettere in dubbio l’illuminismo con gli stessi metodi del dubbio illuminista?
Per come viene formulata, propagata ed insegnata, la suddetta tricotomia, lascerebbe intendere che prima dell’illuminismo non vi fosse libertà, non vi fosse eguaglianza e non vi fosse fraternità, o meglio, che la libertà, l’eguaglianza e la fraternità siano invenzioni tipicamente illuministiche.
Del resto, lo stesso illuminismo si è proposto ed imposto come momento di svolta della cultura umana in genere ed europea in particolare in netta e frontale contrapposizione con le epoche ad esso precedenti ritenute oscure, buie, “medioevali”.
È tuttavia legittimo chiedersi se i tre concetti di base dell’illuminismo siano effettivamente illuministi dato il retrogusto trascendente che lasciano in bocca dopo averli assimilati.
A ben guardare, fuori da ogni prospettiva meramente ideologica, cioè fuori da ogni prospettiva illuministica, sembra proprio che le idee di libertà, di eguaglianza e di fraternità siano ben più antiche e nobili dell’illuminismo stesso.
Sebbene gli illuministi, anche quelli attuali, e non sono pochi, ritengano di aver illuminato per primi con la luce della ragione il mondo e l’uomo, la luce della ragione splendeva già ben prima che essi ne scoprissero il bagliore.
Nikolaj Berdjaev ebbe a scrivere, non a caso, che «il Rinascimento esisteva già nelle profondità del Medioevo»; analogamente, i principi, le idee, i valori dell’illuminismo esistevano già nella profondità della cultura e dell’epoca storica precedente l’illuminismo medesimo.
Sul punto Tzvetan Todorov fa chiarezza sull’illuminismo: «Le sue idee portanti non nascono nel XVIII secolo; quando non derivano dall’età classica, portano i segni dell’alto medioevo, del rinascimento e del classicismo».
Già Giuseppe Mazzini, nella sua opera “Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa” del 1835, ebbe a riconoscere che l’originalità dell’illuminismo rivoluzionario tale non era, ancorandosi esso sui traguardi concettuali e morali di una tradizione ben più risalente, cioè della tradizione classica e cristiana, tanto da scrivere, per l’appunto, che «la Francia seppe compire colla rivoluzione del 1789, riducendo a formula nella Dichiarazione dei Diritti, i risultati dell’epoca cristiana, ponendo fuor d’ogni dubbio e innalzando a dogma politico la libertà conquistata nella sfera dell’idea dal mondo-greco-romano, l’eguaglianza conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, ch’è la conseguenza immediata di quei due termini».

L’idea di libertà, nel suo aspetto più radicale e profondo, cioè la libertà di coscienza, fu affermata fin da subito da quelle comunità protocristiane che si rifiutarono di incensare l’imperatore romano come divinità.
Il libero arbitrio, del resto, irrompe nella storia del pensiero umano solo dopo l’avvento del cristianesimo, sottraendo l’esistenza umana ai capricci delle divinità pagane o al determinismo del fato beffardo ed insondabile.
Lo stesso Giustino scrive, infatti, che «se il genere umano non può decidere liberamente di fuggire ciò che è biasimevole, né ha la possibilità di scegliere ciò che è buono, è irresponsabile in ogni modo di ciò che viene compiuto».
Il cristianesimo ha insegnato la libertà e la responsabilità; ecco in che senso Hegel scrive che «la religione è sapere della verità assoluta, e questa verità è lo spirito libero».
Per quanto riguarda il principio di eguaglianza il cristianesimo, ben prima e sicuramente meglio di ogni successiva istanza illuministica settecentesca, ha svolto un ruolo determinante e fondamentale per il delinearsi del suddetto principio così come oggi si conosce e reclama da ogni parte.
Nota in merito Tzvetan Todorov che «l’eguaglianza è un incrollabile principio della tradizione cristiana». Del resto, come principio è quasi onnipresente nei testi dei padri e dei dottori della Chiesa, degli apologeti, dei canonisti e dei giuristi e teologi di ogni epoca.
Con estrema chiarezza, per esempio tra i tanti citabili, Papa Gregorio Magno ben undici secoli prima degli enciclopedisti francesi ebbe a scrivere che «noi uomini per natura siamo tutti eguali».
Infine, per quanto riguarda la fraternità, non si può fare a meno di notare quanto essa altro non sia che la trasposizione sul piano secolare della fratellanza teologica degli uomini a seguito della loro comune filiazione rispetto a Dio Padre Creatore.
Non a caso molti sono stati nei due millenni di storia cristiana gli interventi contro la schiavitù; si pensi per l’appunto, oltre al chiaro testo biblico per cui «se hai uno schiavo, trattalo come fratello» (Sir. 33,32), a quanto scrive nel IX secolo, cioè diversi secoli prima dei redattori della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, Agobardo di Lione: «Tutti gli uomini sono fratelli, tutti invocano un unico padre, Dio: gli schiavi e i padroni, i poveri e i ricchi, gli ignoranti e gli istruiti, i deboli e forti, nessuno è superiore agli altri; non esiste schiavo o uomo libero, ma c’è sempre in tutte le cose un solo Cristo».
I principi illuministi, oggi e sempre più invocati, sono dunque precedenti allo stesso illuminismo, tanto che la loro violazione, come insegna la storia, è stata molto più frequente nei periodi più accanitamente antireligiosi in genere ed anticristiani in particolare che in quelli in cui il fattore religioso e cristiano è stato più culturalmente e socialmente dominante.
Appare quindi contrario alla loro essenza ed origine, oltre che alla verità, ritenere di poterli invocare in contrapposizione allo spirito religioso in genere e a quello cristiano in particolare, specialmente, come in questi giorni accade, a causa di morte e devastazione causate dal fondamentalismo islamico.
In conclusione, per illuminare le vie dell’oscurantismo di matrice illuministica, riechieggiano le parole proprio di un “illuminato” illuminista, grande studioso del problema della democrazia, del calibro di Alexis de Tocqueville che così ebbe sapientemente a precisare: «Grave errore è il pensare che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione: nulla nel Cristianesimo, e neppure nel Cattolicesimo, è radicalmente contrario allo spirito di tali società, anzi molti elementi essi contengono per queste favorevoli».




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sabato 14 marzo 2015

CARA LIBERTA'

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« Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera. »
(Estratto dal romanzo Storia di una capinera di Giovanni Verga.)

Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga.

Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedisce il romanzo a Francesco Dall'Ongaro, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall'editore Lampugnani nella sua sede di Milano. Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda La ricamatrice e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il Corriere delle dame (anno LXVIII, dal numero 20 del 16 maggio 1870 al numero 34 del 22 agosto 1870), semplicemente con il titolo La capinera. La prima edizione del volume conteneva come prefazione la lettera con cui Dall'Ongaro aveva accompagnato l'invio dell'opera alla scrittrice Caterina Percoto, anche lei ferma sostenitrice del romanzo.

La protagonista del romanzo è Maria, all'epoca diciannovenne, rimasta orfana di madre da bambina e rinchiusa all'età di sette anni in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura per motivi di indigenza economica (il padre è un «modestissimo impiegato»). A causa dell'epidemia di colera, che nel 1854 colpì la città siciliana, Maria ha l'occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e vivere così con la famiglia dal 3 settembre 1854 al 7 gennaio 1855. Della famiglia fanno parte il padre, con la sua seconda moglie (Maria, in una delle prime lettere, parla della difficoltà che a volte incontra nel chiamarla madre), la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi. A Monte Ilice, Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, anche lei educanda del convento, nonché sua migliore amica e confidente, anche lei tornata a casa dai genitori (a Mascalucia) in occasione del colera.

Il primo periodo viene vissuto da Maria con grande spensieratezza e gaiezza. Monte Ilice rappresenta tutto l'opposto dell'ambiente claustrale da lei conosciuto: al grigiore dei «muri anneriti», di spazi angusti e severe regole di condotta, si oppone «una bella casetta posta sul pendìo della collina» dove «per andare all'abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli». Allo straordinario senso di libertà, fino ad allora sconosciuto, si aggiunge poi la felicità di vivere in mezzo a quell'amore che solo una famiglia può dare (anche se il suo bisogno di essere amata le fa scambiare per sincero affetto l'atteggiamento severo della matrigna, che la tratta non al pari dei suoi figli naturali, ma piuttosto come un'ospite neanche del tutto gradita). In quest'atmosfera solare, la sola ombra che offusca il cuore di Maria è il pensiero di dover tornare alla vita di clausura, ora che sa cosa offre il mondo esterno: «vorrei esser soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere coteste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!». Invidia perciò Marianna per la sua decisione di non fare più rientro in convento.

A poca distanza dalla casa di Maria, in fondo alla valle, abita la famiglia Valentini (anche loro trasferitisi a Monte Ilice per sfuggire al colera), molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa così amica intima di Annetta, figlia dei Valentini e sua coetanea. Conosce anche il figlio maggiore, Antonio, che tutti chiamano Nino. Nei giorni trascorsi insieme, nelle feste famigliari, nei balli e nelle trafelate corse che coinvolgono i figli delle due rispettive famiglie, Maria e Nino hanno l'occasione di avvicinarsi, insinuando via via nel cuore della giovane educanda un sentimento del tutto nuovo per lei: l'amore. Essendone completamente estranea, Maria scambia il sentimento per una strana e pesante malinconia, che non sa spiegarsi e che adduce ad una probabile malattia. Grazie all'esame introspettivo a cui la spinge la corrispondente Marianna, Maria riesce finalmente a svelare la natura del proprio malessere, ma questo la spaventa ancor di più, poiché il suo destino era quello di diventare suora e di amare solo Dio. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti d'amore e la invita a lasciare il convento.

Esaltata e allo stesso tempo stordita dalla rivelazione, Maria cade subito in un nuovo stato depressivo quando la matrigna (che temeva in un suo ripensamento circa il ritorno in convento al termine dell'epidemia), vedendo in lei profondi cambiamenti nel giro di pochi giorni, le parla con franchezza e le ribadisce la necessità di diventare suora. Per renderle le cose più "facili", le proibisce di avere qualsiasi contatto con persone estranee alla famiglia, compresi i signori Valentini, e quindi (o piuttosto soprattutto) Nino. Il profondo stato depressivo in cui cade l'educanda diventa vera e propria malattia delirante che fa temere addirittura per la sua vita.

Cessato l'allarme dell'epidemia la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. La notte prima di partire Nino si presenta alla finestra di Maria per salutarla, ma la giovane, ancora in convalescenza e fortemente a disagio, cade in preda di un pesante attacco di tosse che le fa perdere i sensi. L'indomani mattina troverà sul davanzale una rosa lasciata da Nino durante la fugace visita e che la pioggia notturna aveva infradiciato.

Dopo una settimana dalla partenza dei Valentini, l'8 gennaio 1855 anche la famiglia di Maria fa ritorno a Catania. Maria, non ancora del tutto guarita, acconsente al rientro con la morte nel cuore, sia perché lascia - e per sempre - un luogo a lei molto caro, sia perché tornare a Catania significava tornare alla vita di clausura. Dalle anguste mura del convento, seppur con minor frequenza rispetto a prima, Maria continua a scrivere all'amica Marianna, ora suo unico conforto. Le lettere vengono consegnate a suor Filomena, suora laica molto legata a Maria e per la quale si incaricava di recapitare la corrispondenza.

L'isolamento del luogo conventuale, invece di darle serenità, non fa che acuire la sofferenza interiore e quindi il suo già cagionevole stato di salute, tanto da costringerla a passare buona parte dell'anno in infermeria a causa di ripetuti attacchi di febbre. Il corpo soffre, perché la mente ritorna sempre al breve periodo di gioia vissuto a Monte Ilice e, ancor più, a Nino. Questi pensieri "peccaminosi", del tutto inopportuni per una suora, le straziano l'anima, e allora si confessa, prega intensamente e si punisce digiunando e mortificando la propria carne per giungere ad uno sfinimento del corpo e dello spirito. Questi esercizi spirituali si intensificano ancor più quando riceve la terribile notizia del matrimonio tra Nino e la sorellastra Giuditta.

Il 6 aprile 1856 Maria prende finalmente i voti. Alla cerimonia (che lei paragona ad un funerale) assistono tutti i suoi famigliari, compreso un pallido Nino che la guarda «cogli occhi spalancati». L'essere diventata suora a tutti gli effetti non produce alcun balsamo alle sue sofferenze: anzi, più cerca di reprimere i suoi sentimenti, più questi la tormentano, accrescendo il suo senso di colpa e di dannazione eterna, combattuta tra l'amore per il suo peccato e i suoi doveri di suora. Teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora pazza, suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa nella «cella dei matti». Racconta anche di una macabra tradizione del convento, secondo la quale la cella dei matti non deve mai rimanere vuota. Maria è atterrita al pensiero di poter essere lei la prossima, poiché sente che sta perdendo la ragione, che le sta scivolando piano di dosso il senno e, del resto, i momenti di delirio febbrile vissuti sono oramai molto più frequenti dei momenti di apparente quiete interiore.

Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per scorgere Nino, magari «per vederlo un solo istante passare da una stanza all'altra e nulla più!». Saperlo a pochi passi dal convento esacerba tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte, urla come una belva e lotta con tutta sé stessa, viene trascinata all'interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata quindi in infermeria dove, dopo tre giorni, muore.

Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire (dietro espresso desiderio di Maria) gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso d'argento, alcuni fogli manoscritti (le ultime lettere senza data che Maria scrisse in pieno delirio), una ciocca di capelli e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra di Maria quando morì.


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