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martedì 5 maggio 2015

PERSONE DI VALSOLDA : ANTONIO FOGAZZARO

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Antonio Fogazzaro (Vicenza, 25 marzo 1842 – Vicenza, 7 marzo 1911) è stato uno scrittore e poeta italiano.

Fu nominato senatore del Regno d'Italia nel 1896. Dal 1901 al 1911 fu più volte tra i candidati al Premio Nobel per la letteratura, che tuttavia non vinse.

Nasce a Vicenza, nella casa al numero civico 111 dell'attuale corso Fogazzaro, da Mariano, industriale tessile, e da Teresa Barrera, in un'agiata famiglia di tradizioni cattoliche: lo zio paterno Giuseppe era sacerdote e una sorella del padre, Maria Innocente, era suora nel convento di Alzano, presso Bergamo.

Antonio scriverà di sé stesso: «Dicono che sapessi leggere prima dei tre anni, che fossi un enfant prodige, antipatico genere. Infatti ero poco vivace, molto riflessivo, avido di libri. Mio padre e mia madre mi istruivano con grande amore. Avevo un carattere sensibile, ma chiuso».

Nel maggio 1848, nelle giornate della prima guerra di indipendenza, la madre lo porta con la sorella minore Ina a Rovigo: Vicenza è insorta e prepara la sua difesa contro la reazione dell'Imperial regio Esercito austro-ungarico. Il padre Mariano e lo zio don Giuseppe partecipano ai preparativi della città, ma sarà tutto vano e il 10 giugno l'esercito di Radetzky entra in Vicenza.

Concluse gli studi elementari nel 1850: scriverà poi di non avere «mai studiato con gran zelo quello che dovevo studiare, anche da ragazzetto leggevo con avidità ogni sorta di libri dilettevoli; per il vero studio non avevo nessun entusiasmo. Leggevo poi malissimo, in fretta e furia, disordinatamente. Il mio libro prediletto erano le Mémoires d'Outre-tombe del Chateaubriand. Andavo pazzo dell'autore; m'innamoravo fantasticamente di Lucile del Chateaubriand, come più tardi mi innamorai di Diana Vernon, un'eroina di Walter Scott».

Nel 1856 inizia a frequentare il liceo; tra i suoi professori è il poeta Giacomo Zanella: «Fu lui che mi fece innamorare di Heinrich Heine. Io non vedevo, non sognavo più che Heine». Non si crea amici fra i suoi compagni di scuola: «Passavo per aristocratico, reputazione che ho poi avuto più o meno dappertutto per il mio esteriore freddo, riservato e soprattutto per il mio odio della trivialità» ed è un adolescente timido e romantico: «Le mie fantasie amorose erano sempre tanto fervide quanto aeree: mi figuravo di avere un'amante ideale, un essere sovrumano come Chateaubriand descrive la sua Silfide. Con le signore ero di un imbarazzo, d'una timidezza, di una goffaggine straordinarie».

Scrive modeste poesie d'occasione, conservate in un suo quaderno e in lettere familiari, come una Campana a stormo, del 1855, o La Rassegnazione, del 1856.

Terminato il liceo nel 1858, i suoi interessi lo spingerebbero verso studi di letteratura ma trova l'opposizione del padre, che non trova in lui capacità letterarie e intende farne un avvocato. Iscritto all'Università di Padova, tra alcune lunghe malattie e la stessa chiusura d'autorità dell'Università nel 1859 a causa delle proteste studentesche contro il regime austriaco, Antonio perde due anni di studi. Nel novembre del 1860 la famiglia Fogazzaro si trasferisce a Torino e Antonio è iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università sabauda. Studia poco e malvolentieri, frequenta più spesso i caffè, giocando al biliardo, che le aule dell'Università e perde anche la fede cattolica; scrisse poi di aver provato allora «una certa soddisfazione come per aver rotto una catena pesante; sentivo però anche un lontano dubbio di errare. Lo provai specialmente la prima Pasqua che passai senza Sacramenti. So di avere passato delle ore di grande agitazione interna, passeggiando per il giardino deserto del Valentino».

Continua a scrivere poesie e il giornale Universo ne pubblica alcune nel 1863: si ricordano Campana del Mezzogiorno, Nuvola, Ricordanza del Lago di Como; si laurea nel 1864 con voti modesti. Nel novembre dell'anno successivo la famiglia si trasferisce a Milano e Antonio svolge il proprio praticantato presso uno studio legale.

Fogazzaro conosceva fin dall'infanzia la famiglia vicentina dei conti Valmarana; rivide in particolare la giovane Margherita già a Torino nel 1862 e poi durante le vacanze degli anni successivi, finché i Valmarana resero visita a Milano alla famiglia Fogazzaro nel 1866, in quella che doveva essere la preparazione a una richiesta di fidanzamento, avvenuta qualche mese dopo. I due giovani si sposarono a Vicenza il 31 luglio 1866, poche settimane dopo che il Veneto, a seguito della terza guerra di indipendenza, era entrato a far parte del Regno d'Italia.

Il suo lavoro di collaboratore svogliato di uno studio legale non gli permette di mantenere se stesso e la moglie senza il soccorso economico della sua famiglia di origine. A Milano conosce Abbondio Chialiva, un vecchio carbonaro che lo introduce nell'ambiente letterario degli scapigliati, scrittori che, come Emilio Praga, i fratelli Arrigo e Camillo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, cercavano, consapevoli del provincialismo letterario italiano, nuove strade nell'arte, rifacendosi alle tradizioni romantiche tedesche e francesi. Si lega in particolare con Arrigo Boito ma non farà mai parte di quella corrente che, per quanto confusa e velleitaria, appariva troppo ribelle ai suoi occhi di borghese conservatore e intimamente conformista.

Nel 1868 supera gli esami di abilitazione alla professione di avvocato; scrive allo zio Giuseppe il 21 maggio: «Eccomi avvocato; bell'affare per i miei futuri clienti! Intanto metto il Codice Civile in disponibilità, mando la Procedura in licenza e condanno il Codice Penale alla reclusione». Pensa infatti di dedicarsi ancora alla poesia; nel 1869 nasce Gina, la prima figlia, e intanto comincia a lavorare a un romanzo e a un poemetto in versi.

Nel 1876 esce la raccolta di versi Valsolda legata alla omonima località sul lago di Lugano, presso una piccola casa editrice milanese, giacché il maggior editore dell'epoca, il Treves, rifiuta di pubblicarla. Questa volta, all'insuccesso critico si somma la delusione del pubblico, che in quei versi non trova il tono sentimentale di Miranda, che tanto era piaciuto agli spiriti romantici del tempo; in Valsolda Fogazzaro privilegia la nota paesistica ma il suo verseggiare, pur immaginoso e musicale, è privo di note personali, ha un che di accatto dilettantesco: vi si trova del Prati e dello Zanella, dell'Aleardi, dell'Hugo e del Heine, ma la poesia è assente.

Era intanto ritornato alla fede cattolica; scriverà anni dopo che a questo passo un influsso decisivo aveva avuto un libro di Joseph Gratry, la Philosophie du Credo: «Volevo aver fede, riposarmi, ristorarmi in Dio, sola pace sicura, e tante volte non potevo. Incominciai a leggere con desiderio e speranza; ero molto commosso quando chiusi il libro».

I temi della poetica di Antonio Fogazzaro, senza dubbio una delle figure più interessanti del secondo Ottocento italiano, evidenziano il contrasto, particolarmente sentito all'interno della cultura cattolica predominante allora in Italia, tra le passioni e il senso del dovere. Già nel poemetto in versi sciolti Miranda (1874) e nella successiva raccolta di liriche Valsolda (1876) è possibile notare alcune peculiarità dello stile di Fogazzaro: sensualità nelle immagini alternata a slanci mistici e inquietudini interiori.

I romanzi Malombra (1881), Daniele Cortis (1885), Il mistero del poeta (1888) insieme alla raccolta di racconti Fedele (1887), preludono a quello che è il suo testo più noto, Piccolo mondo antico (1895), in cui la storia dei protagonisti si intreccia con le vicende dell'Italia risorgimentale. In questi anni Fogazzaro si accostò alle correnti moderniste e alle teorie positiviste ed evoluzioniste, contribuendo alla loro diffusione tramite un'intensa attività di pubblicista e conferenziere, ben presto contestata dalla Chiesa; nel 1905 le sue opere furono messe all'indice.

Nel resto della produzione dell'autore ricordiamo per la saggistica: Scienza e dolore (1898), Discorsi (1898), Il dolore nell'arte (1901); per la narrativa: Piccolo mondo moderno (1901), Il santo (1905), Leila (1910).

La Villa di Fogazzaro a Valsolda è stata la dimora privilegiata per le villeggiature estive del letterato, la casa divenne luogo del suo divertimento e del suo riposo.
Le stanze della Villa, intime e raccolte, sono colme di fotografie di famiglia e di cimeli, testimonianze dello stile di vita di una famiglia borghese sul finire dell’Ottocento: il vero e proprio Piccolo mondo antico di Fogazzaro, immerso nei paesaggi mozzafiato del Ceresio, tra lago e montagna.

Villa Fogazzaro Roi conserva al suo interno le memorie dello scrittore che qui scelse di ambientare gran parte dei suoi romanzi, tra cui il più noto “Piccolo mondo antico”, che riproduce fedelmente il paesaggio e lo spirito di questo luogo ai tempi di Fogazzaro. La Villa è di stampo ottocentesco, sia per lo stile, che per i suoi spazi raccolti, ed è costituita da un insieme di fabbricati costruiti sul primo nucleo originale del XVI secolo e da numerose stanza, di cui molte dedicate all’accoglienza degli ospiti. L’aspetto attuale degli interni si deve al meticoloso lavoro di Roi, che agli oggetti originali appartenenti alla famiglia Fogazzaro, ha affiancato mobili e manufatti provenienti da altre dimore fogazzariane e di famiglia per valorizzare l’opera e la storia del suo antenato. La camera da letto e lo studio dello scrittore, ad esempio, sono state ricostruite fedelmente grazie ai lavori di restauro portati avanti da Roi negli anni ’50 e ’60 del Novecento.

C'è il giardino con le stesse piante, conservate in modo maniacale. I cipressi, il glicine, l'olea fragrans, la vite del Canadà. C'è l'orto di Franco. Il vecchio viottolo che costeggia il lago. La terrazza. Lo sciabordio delle acque. La darsena dove nel romanzo perse la vita, annegata, la piccola Maria, la "Ombretta sdegnosa del Missisipì". I saloni, i salottini, lo studio, le camere da letto, la cucina, come se i padroni di casa fossero ancora presenti, solo usciti un attimo a fare due passi.

La proprietà di questo luogo straordinario, nel quale venne in parte ambientato nel '41 il celebre film di Mario Soldati, è stata lasciata in eredità al Fai, il Fondo per l'ambiente italiano, dal marchese Giuseppe Roi pronipote di Antonio Fogazzaro (suo nonno sposò la figlia del grande scrittore).
Nel romanzo di Fogazzaro è il paesaggio a essere uno dei protagonisti principali. Oria è la piccola frazione di Valsolda dove si trova la nuova proprietà del Fai, il lago stretto tra le montagne aspre, ripide, boscosissime, i diversi paesini che si affacciano, a mezza costa, in un angolo dimenticato d'Italia, in provincia di Como, al confine con la Svizzera. Chi vorrà ripercorrere quei sentieri avrà la sorpresa di ritrovarsi facilmente nelle descrizioni precise di Fogazzaro. Negli identici luoghi in cui si muovono i suoi personaggi, a San Mamete, Cressogno, Loggio.

Ma è all'interno della villa che la corrispondenza tra "Piccolo mondo antico" e gli spazi visitabili è totale. La casa abitata dai protagonisti, Franco Maironi e Luisa Rigey e dalla loro figlioletta Maria, di tre anni e mezzo, è descritta nel romanzo nei minimi particolari, proprio come la vediamo oggi: "... Sopra l'arco della darsena una galleria sottile lega il giardinetto pensile di ponente alla terrazza di levante e guarda il lago per tre finestre. La chiamavano loggia, forse perché lo era stato in antico. Dietro alla loggia vi ha una sala spaziosa e dietro alla sala due stanze: a ponente il salottino da pranzo tappezzato di piccoli uomini illustri di carta, ciascuno sotto il proprio vetro e dentro la propria cornice. Dai cassettoni rococò delle camere da letto alla madia della cucina, dal nero pendolo del salottino da pranzo al canapè della loggia con la sua stoffa marrone cosparsa di cavalieri turchi gialli e rossi, dalle seggiole impagliate a certi seggioloni dai braccioli spropositatamente alti...".
Il salone principale, battezzato "Siberia" dalla famiglia perché il più freddo, proprio sopra la darsena, è pieno, come tutta la casa, di oggetti ottocenteschi, soprammobili, uccelli impagliati, stampe e fotografie d'epoca. Particolarmente affascinante lo studio dello scrittore, dove sono conservati i suoi libri. E la sua scrivania da lavoro, con all'interno dei cassetti, sul legno, decine di piccoli brevi scritti originali dell'autore, come le invocazioni al figlio scomparso in giovane età. O un appunto autografo come questo: "11 agosto 1895, finito nel pianto "Piccolo mondo antico"".

Sulla porta della camera da letto di Fogazzaro, al secondo piano, il custode Giorgio Mellone, appassionato conoscitore di questi ambienti, mostra il punto in cui il poeta Giacomo Zanella, amico intimo dello scrittore, ha lasciato come ringraziamento una scritta a matita, nel 1865, che ancora oggi si legge chiaramente: "Tra tanto variar d'ombre e di luce, che sui monti e sul lago il sole induce, una cosa non muta il lieto volto, onde sempre qui vien l'ospite accolto". Versi che un altro amico dello scrittore, il maestro Gaetano Coronaro, sempre sulla medesima porta, a matita, ha messo in musica, disegnando le note e il pentagramma.

Molti i pezzi di arredamento di grande valore. In particolare le ceramiche e i servizi di piatti del Settecento, firmati dalla Manifattura Cozzi. Tappeti, mobili e un piccolo quadro di Fattori con un soldato a cavallo.

In origine la Villa apparteneva alla Parrocchia di San Sebastiano, ma a metà del XIX secolo passò alla famiglia Barrera, di cui faceva parte la madre di Antonio Fogazzaro. Nel 1900 fu acquisita dalla famiglia Fogazzaro, imparentata con gli vicentini Roi.

Il prestigioso Premio Letterario Antonio Fogazzaro, nato per promuovere la narrativa e la poesia in lingua italiana e in dialetto. Tra i più attesi appuntamenti letterari, il Premio intende diffondere la figura e l’opera di Antonio Fogazzaro, uno degli scrittori più significativi della cultura letteraria fra Otto e Novecento e la conoscenza del territorio della Valsolda, terra natale della madre dello scrittore.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/05/le-citta-del-lago-di-lugano-valsolda.html





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lunedì 4 maggio 2015

LE CITTA' DEL LAGO DI LUGANO : PORLEZZA




Sull'estremo golfo orientale del lago di Lugano, il paese è circondato da verdi montagne meta di varie escursioni e passeggiate. Oltre al centro principale compongono il comune di Porlezza le frazioni di Tavordo, Begna, Agria e Cima.

Il paese, importante centro turistico e commerciale, è situato in territorio italiano all'estremità nord-orientale del Lago di Lugano (Ceresio).Vi si può arrivare sia attraverso la Svizzera, costeggiando il Ceresio, sia restando in territorio italiano, percorrendo la statale Regina fino ad Argegno per poi attraversare la Val D'Intelvi, oppure fino a Menaggio da dove parte la deviazione per Porlezza.

La località è molto frequentata soprattutto nel periodo estivo, poiché oltre ad essere un centro balneare ricco di attrezzature turistiche, offre la possibilità di compiere diverse escursioni sui monti circostanti.

Di notevole interesse storico è la frazione Cima, che ha mantenuto una tipica struttura medievale con resti di antiche mura e fortificazioni.
A pochi chilometri dal paese, in direzione di Menaggio si possono visitare il Lago del Piano e l'Orrido di Corrido e in direzione della Val d'Intelvi le grotte di Rescia, ricche di suggestive stalattiti e stalagmiti, e l'Orrido di Osteno.

I primi abitanti queste zone furono i Gauni, i quali battezzarono le rive del lago denominandole Gaune sponde. Porlezza, nell'antichità, è indicata con Porletia, spesso Prolectia e Proletia, in diversi scritti anche col nome di Porlexe e Portolexe; si trova anche Portus Laetitiae, toponimo che indicava l'antico porto.

Nel X secolo Porlezza, fino ad allora feudo dei marchesi Corradidi di Lecco, Attonidi, passò sotto il controllo dell'Arcivescovo di Milano. Durante la guerra tra Milano e Como (1117-1127), Porlezza fu una piazzaforte milanese e, dopo la sconfitta della città lariana, rimase parte del contado di Milano. (Stessa sorte ebbero, dal XIII secolo, anche il Varesotto ed il Lecchese). Tale compartimentazione amministrativa sopravvisse per secoli, fino alle riforme illuministe dell'imperatore Giuseppe II; nel 1786 il comune del Ceresio fu incluso nella provincia di Como. Il fratello dell'imperatore, Leopoldo II, annullò l'atto di trasferimento nel 1791, ma i rivoluzionari giacobini lo riproposeo nel 1798, salvo poi revocarlo nuovamente l'anno dopo.

Fu solo il 13 maggio 1801 che il governo della Repubblica Italiana deliberò la definitiva annessione di Porlezza alla provincia comasca. Dal punto di vista religioso, tuttavia, Porlezza rimase - e così è tuttora - sotto la Diocesi di Milano. Alla caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna sancì nel 1814 la nascita del Regno Lombardo-Veneto, concepito dal Metternich; Porlezza venne designato come capoluogo del distretto VI della provincia di Como, istituita l'anno successivo. Nel 1859, in seguito alla seconda guerra d'indipendenza, la Pace di Zurigo dispose l'annessione della Lombardia (esclusa Mantova e gran parte della sua provincia) al Regno di Sardegna.

Nel 1928, allorché il regime fascista decise di sopprimere numerose entità comunali, furono annesse le due frazioni di Cima e Tavordo. Tavordo costituiva un antico comune del Milanese e, dal 1801, del Comasco, analogamente a quanto accadde a Porlezza; nel 1807 il comune di Tavordo fu una prima volta unito a Porlezza a seguito di un regio decreto napoleonico e, in seguito, venne ripristinato dal ritorno degli Austriaci. Cima venne invece slegata dall'appena soppresso comune di Cressogno, il quale confluì nel neonato comune della Valsolda, istituito con la volontà di restaurare l'antica unità della valle omonima.

Il 1º dicembre 2013 un referendum consultivo sulla fusione tra i comuni di Porlezza, Valsolda, Claino con Osteno, Corrido e Val Rezzo ha ottenuto un esito negativo.

La chiesa prepositurale di San Vittore il Moro: all'interno, nel presbiterio presenta affreschi di Giulio Quaglio di Laino con Episodi della vita del Santo e un altare barocco, stucchi del Settecento, arredi, dipinti e sculture lignee. Il campanile possiede un concerto di cinque campane in tonalità di Si2 fuse nel 1938 dalla Fonderia Carlo Ottolina di Seregno.
La chiesetta romanica di San Michele del secolo XII, conserva l´affresco dell'Ultima Cena del 1347.
Il santuario di Nostra Signora della Caravina, a Cressogno, edificato nel 1663: l'interno è decorato da affreschi del sec. XVII.
Il tempietto di San Carlo Borromeo fu eretto su progetto di Pellegrino Tibaldi da Puria.
L'oratorio di San Maurizio martire è esempio di architettura romanica comacina dei secoli XI e XII, coperto da una frana nel secolo XIV) fino al 1966, è stato riportato alla luce e restaurato.

Celebri artisti di Porlezza furono alcuni membri della famiglia Della Porta, che tra il XVI e il XVII secolo eccelsero nella scultura, nella pittura e nell'architettura.

Porlezza è inoltre spesso citata nel romanzo Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro; in particolare a Porlezza risiedeva l'Imperial Regio Commissario dell'omonimo distretto.

Persone legate a Porlezza:
Livia Bianchi, partigiana, medaglia d'oro al valor militare
Giovanni da Porlezza (XVI secolo), architetto e scultore presso cui lavorò il giovane Andrea Palladio
Antonio Della Porta detto Tamagnino, scultore
Giacomo Della Porta (Porlezza, 1532 – Roma, 1602), architetto e scultore, autore della cupola di San Pietro per papa Sisto V
Giovanni Giacomo Della Porta, architetto e scultore
Guglielmo Della Porta, scultore
Francesco Muttoni (Cima di Porlezza, 1667 – Vicenza, 1747), architetto
Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio








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giovedì 23 aprile 2015

PERSONE DI LUINO : LUCIANO LILLONI

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Luciano Lilloni (Milano, 25 settembre 1929 – Luino, 28 aprile 2000) è stato uno scacchista italiano.

Ottenne il titolo di Maestro a tavolino FSI nel 1952, conseguendo il 9º posto nel Campionato Italiano.
Per corrispondenza conquistò per due anni consecutivi (1959 e 1960) il titolo di Campione italiano ASIGC.
A livello internazionale conseguì la 1° Norma di Maestro Internazionale ICCF.

Giurista, avvocato e notaio Laveno Mombello molti anni fa a Milano, non era soddisfatto con l'attuale interpretazione della legge e di approfondire l'interazione tra la logica del "ufficiale" e la logica della "dialettica di" comprensione significativa del diritto: è stato la pubblicazione di un libro di filosofia Milano 1988-1989 legge chiamata "l'alba di una nuova logica giuridica ".
Una passione per l'egittologia e la storia ha scritto il romanzo, con il quale ho pensato di prendere le differenze tra i risultati di testi e oggetti sul interpretazione ufficiale degli storici anche ampiamente noti, il cui scopo è quello di spegnere le imprecisioni e gli errori.
Morì dopo una lunga malattia Luino 28 Aprile 2000.


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sabato 14 marzo 2015

CARA LIBERTA'

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« Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera. »
(Estratto dal romanzo Storia di una capinera di Giovanni Verga.)

Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga.

Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedisce il romanzo a Francesco Dall'Ongaro, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall'editore Lampugnani nella sua sede di Milano. Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda La ricamatrice e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il Corriere delle dame (anno LXVIII, dal numero 20 del 16 maggio 1870 al numero 34 del 22 agosto 1870), semplicemente con il titolo La capinera. La prima edizione del volume conteneva come prefazione la lettera con cui Dall'Ongaro aveva accompagnato l'invio dell'opera alla scrittrice Caterina Percoto, anche lei ferma sostenitrice del romanzo.

La protagonista del romanzo è Maria, all'epoca diciannovenne, rimasta orfana di madre da bambina e rinchiusa all'età di sette anni in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura per motivi di indigenza economica (il padre è un «modestissimo impiegato»). A causa dell'epidemia di colera, che nel 1854 colpì la città siciliana, Maria ha l'occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e vivere così con la famiglia dal 3 settembre 1854 al 7 gennaio 1855. Della famiglia fanno parte il padre, con la sua seconda moglie (Maria, in una delle prime lettere, parla della difficoltà che a volte incontra nel chiamarla madre), la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi. A Monte Ilice, Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, anche lei educanda del convento, nonché sua migliore amica e confidente, anche lei tornata a casa dai genitori (a Mascalucia) in occasione del colera.

Il primo periodo viene vissuto da Maria con grande spensieratezza e gaiezza. Monte Ilice rappresenta tutto l'opposto dell'ambiente claustrale da lei conosciuto: al grigiore dei «muri anneriti», di spazi angusti e severe regole di condotta, si oppone «una bella casetta posta sul pendìo della collina» dove «per andare all'abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli». Allo straordinario senso di libertà, fino ad allora sconosciuto, si aggiunge poi la felicità di vivere in mezzo a quell'amore che solo una famiglia può dare (anche se il suo bisogno di essere amata le fa scambiare per sincero affetto l'atteggiamento severo della matrigna, che la tratta non al pari dei suoi figli naturali, ma piuttosto come un'ospite neanche del tutto gradita). In quest'atmosfera solare, la sola ombra che offusca il cuore di Maria è il pensiero di dover tornare alla vita di clausura, ora che sa cosa offre il mondo esterno: «vorrei esser soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere coteste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!». Invidia perciò Marianna per la sua decisione di non fare più rientro in convento.

A poca distanza dalla casa di Maria, in fondo alla valle, abita la famiglia Valentini (anche loro trasferitisi a Monte Ilice per sfuggire al colera), molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa così amica intima di Annetta, figlia dei Valentini e sua coetanea. Conosce anche il figlio maggiore, Antonio, che tutti chiamano Nino. Nei giorni trascorsi insieme, nelle feste famigliari, nei balli e nelle trafelate corse che coinvolgono i figli delle due rispettive famiglie, Maria e Nino hanno l'occasione di avvicinarsi, insinuando via via nel cuore della giovane educanda un sentimento del tutto nuovo per lei: l'amore. Essendone completamente estranea, Maria scambia il sentimento per una strana e pesante malinconia, che non sa spiegarsi e che adduce ad una probabile malattia. Grazie all'esame introspettivo a cui la spinge la corrispondente Marianna, Maria riesce finalmente a svelare la natura del proprio malessere, ma questo la spaventa ancor di più, poiché il suo destino era quello di diventare suora e di amare solo Dio. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti d'amore e la invita a lasciare il convento.

Esaltata e allo stesso tempo stordita dalla rivelazione, Maria cade subito in un nuovo stato depressivo quando la matrigna (che temeva in un suo ripensamento circa il ritorno in convento al termine dell'epidemia), vedendo in lei profondi cambiamenti nel giro di pochi giorni, le parla con franchezza e le ribadisce la necessità di diventare suora. Per renderle le cose più "facili", le proibisce di avere qualsiasi contatto con persone estranee alla famiglia, compresi i signori Valentini, e quindi (o piuttosto soprattutto) Nino. Il profondo stato depressivo in cui cade l'educanda diventa vera e propria malattia delirante che fa temere addirittura per la sua vita.

Cessato l'allarme dell'epidemia la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. La notte prima di partire Nino si presenta alla finestra di Maria per salutarla, ma la giovane, ancora in convalescenza e fortemente a disagio, cade in preda di un pesante attacco di tosse che le fa perdere i sensi. L'indomani mattina troverà sul davanzale una rosa lasciata da Nino durante la fugace visita e che la pioggia notturna aveva infradiciato.

Dopo una settimana dalla partenza dei Valentini, l'8 gennaio 1855 anche la famiglia di Maria fa ritorno a Catania. Maria, non ancora del tutto guarita, acconsente al rientro con la morte nel cuore, sia perché lascia - e per sempre - un luogo a lei molto caro, sia perché tornare a Catania significava tornare alla vita di clausura. Dalle anguste mura del convento, seppur con minor frequenza rispetto a prima, Maria continua a scrivere all'amica Marianna, ora suo unico conforto. Le lettere vengono consegnate a suor Filomena, suora laica molto legata a Maria e per la quale si incaricava di recapitare la corrispondenza.

L'isolamento del luogo conventuale, invece di darle serenità, non fa che acuire la sofferenza interiore e quindi il suo già cagionevole stato di salute, tanto da costringerla a passare buona parte dell'anno in infermeria a causa di ripetuti attacchi di febbre. Il corpo soffre, perché la mente ritorna sempre al breve periodo di gioia vissuto a Monte Ilice e, ancor più, a Nino. Questi pensieri "peccaminosi", del tutto inopportuni per una suora, le straziano l'anima, e allora si confessa, prega intensamente e si punisce digiunando e mortificando la propria carne per giungere ad uno sfinimento del corpo e dello spirito. Questi esercizi spirituali si intensificano ancor più quando riceve la terribile notizia del matrimonio tra Nino e la sorellastra Giuditta.

Il 6 aprile 1856 Maria prende finalmente i voti. Alla cerimonia (che lei paragona ad un funerale) assistono tutti i suoi famigliari, compreso un pallido Nino che la guarda «cogli occhi spalancati». L'essere diventata suora a tutti gli effetti non produce alcun balsamo alle sue sofferenze: anzi, più cerca di reprimere i suoi sentimenti, più questi la tormentano, accrescendo il suo senso di colpa e di dannazione eterna, combattuta tra l'amore per il suo peccato e i suoi doveri di suora. Teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora pazza, suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa nella «cella dei matti». Racconta anche di una macabra tradizione del convento, secondo la quale la cella dei matti non deve mai rimanere vuota. Maria è atterrita al pensiero di poter essere lei la prossima, poiché sente che sta perdendo la ragione, che le sta scivolando piano di dosso il senno e, del resto, i momenti di delirio febbrile vissuti sono oramai molto più frequenti dei momenti di apparente quiete interiore.

Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per scorgere Nino, magari «per vederlo un solo istante passare da una stanza all'altra e nulla più!». Saperlo a pochi passi dal convento esacerba tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte, urla come una belva e lotta con tutta sé stessa, viene trascinata all'interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata quindi in infermeria dove, dopo tre giorni, muore.

Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire (dietro espresso desiderio di Maria) gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso d'argento, alcuni fogli manoscritti (le ultime lettere senza data che Maria scrisse in pieno delirio), una ciocca di capelli e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra di Maria quando morì.


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