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lunedì 13 luglio 2015

14 LUGLIO 1789 : LA PRESA DELLA BASTIGLIA


Liberté, Égalité, Fraternité rappresentano un valore così grande da travalicare i confini della Francia, sono simboli che hanno portata e rilevanza universali. Questo motto, nato dalla fucina d'idee della rivoluzione francese, è un caposaldo irrinunciabile della moderna cultura dell'Occidente.

La convocazione degli Stati Generali a Versailles il martedì 5 maggio 1789 per cercare di sanare la difficile crisi politica, sociale ed economica in cui versava la Francia, animò nei mesi seguenti il dibattito politico che si estese fino ai salotti e alle piazze della capitale, a tal punto da indurre il re Luigi XVI a schierare i suoi soldati attorno a Versailles, Parigi, Sèvres e Saint-Denis. Il sabato 11 luglio il Ministro delle Finanze Jacques Necker venne destituito dal re, essendosi guadagnato l'inimicizia di parte della corte per aver manifestato in parecchie occasioni delle idee filo-popolari. Venne inoltre eseguita una riorganizzazione a livello generale mediante diverse sostituzioni: Victor-François de Broglie, Roland-Michel Barrin de La Galissonière, Paul François de Quelen de la Vauguyon, Louis Auguste Le Tonnelier de Breteuil e Joseph Foullon de Doué furono nominati per sostituire Louis Pierre de Chastenet de Puysegur, Armand Marc de Montmorin-Saint-Hérem, César-Guillaume de La Luzerne, François-Emmanuel Guignard de Saint-Priest e Necker.

La domenica 12 luglio la popolazione di Parigi, che da mesi viveva in uno stato di miseria e con la paura che una grave carestia colpisse da un momento all'altro il Paese, venne a conoscenza della destituzione di Necker e organizzò una grande manifestazione di protesta, durante la quale furono portate delle statue raffiguranti i busti di Necker e del Duca d'Orléans. Camille Desmoulins, secondo François-Auguste Mignet, aizzò la folla salendo su un tavolo con la pistola in mano ed esclamando: «Cittadini, non c'è tempo da perdere; la dimissione di Necker è l'avvisaglia di un San Bartolomeo (massacro in cui Carlo IX aveva ordinato di sterminare gli Ugonotti) per i patrioti! Proprio questa notte i battaglioni svizzeri e tedeschi lasceranno il Campo di Marte per massacrarci tutti; una sola cosa ci rimane, prendere le armi!». Alcuni soldati tedeschi (l'esercito di Luigi XVI comprendeva anche reggimenti stranieri, più obbedienti al re rispetto alle truppe francesi) ricevettero l'ordine di caricare la folla, provocando diversi feriti e distruggendo le statue. Il dissenso dei cittadini aumentò a dismisura e l'Assemblea Nazionale avvertì il re del pericolo che avrebbe corso la Francia se le truppe non fossero state allontanate, ma Luigi XVI rispose che non avrebbe cambiato le sue disposizioni.

La mattina del lunedì 13 luglio quaranta dei cinquanta ingressi che permettevano di entrare a Parigi vennero dati alle fiamme dalla popolazione in rivolta. I reggimenti della Guardia francese formarono un presidio permanente attorno alla capitale, sebbene molti di questi soldati fossero vicini alla causa popolare. I cittadini cominciarono a protestare violentemente contro il governo affinché riducesse il prezzo del pane e dei cerali e saccheggiarono molti luoghi sospettati di essere magazzini per provviste di cibo; uno di questi fu il convento di Saint-Lazare (che fungeva da ospedale, scuola, magazzino e prigione), dal quale vennero prelevati 52 carri di grano.

In seguito a questi disordini e saccheggi, che continuavano ad aumentare, gli elettori della capitale (gli stessi che votarono durante le elezioni degli Stati Generali) si riunirono al Municipio di Parigi e decisero di organizzare una milizia cittadina composta da borghesi, che garantisse il mantenimento dell'ordine e la difesa dei diritti costituzionali (due giorni dopo, con Gilbert du Motier de La Fayette, venne denominata Guardia Nazionale). Ogni uomo inquadrato in questo gruppo avrebbe portato, come segno distintivo, una coccarda con i colori della città di Parigi (blu e rosso). Per armare la milizia si cominciò a saccheggiare i luoghi dove si riteneva fossero custodite le armi.

La mattina del martedì 14 luglio gli insorti attaccarono l'Hôtel des Invalides con l'obiettivo di procurarsi delle armi; si impossessarono di circa ventottomila fucili e qualche cannone ma non trovarono la polvere da sparo. Per impadronirsi della polvere decisero di assalire la prigione-fortezza della Bastiglia (vista dal popolo come un simbolo del potere monarchico), nella quale erano tenuti in custodia solamente sette detenuti. Gli elevati costi di mantenimento di una fortezza medievale così imponente, adibita all'epoca a una funzione limitata come quella di carcere, portò alla decisione di chiudere i battenti e probabilmente fu per questo motivo che il 14 luglio gli alloggi della prigione erano praticamente vuoti. La guarnigione della fortezza era composta da 82 invalidi (soldati veterani non più idonei a servire in combattimento), ai quali il 7 luglio si aggiunsero 32 Guardie svizzere; il governatore della prigione (figlio del precedente governatore) era Bernard-René Jordan de Launay.

Pierre-Augustin Hulin prese la guida degli insorti gridando: «Amici, siete buoni cittadini? Sì lo siete! Allora marciamo verso la Bastiglia». Una folla sempre più numerosa raggiunse la fortezza chiedendo la consegna della prigione. Launay trovandosi circondato, pur avendo la forza per respingere l'attacco, cercò di trovare una soluzione pacifica ricevendo alcuni rappresentati degli insorti, con i quali cercò di negoziare. La trattativa si protrasse per lungo tempo mentre all'esterno la folla continuava ad aumentare fino a quando, verso le 13:30, le catene del ponte levatoio vennero tagliate e gli insorti riuscirono a penetrare nel cortile interno, scontrandosi con la Guardia svizzera. Ci fu un violento combattimento che causò diversi morti (gli uomini del regio esercito, accampati nel vicino Campo di Marte, non intervennero).

Gli insorti riuscirono così a occupare la prigione-fortezza; le guardie trovate morte vennero decapitate e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e portate attraverso tutta la città. Il resto della guarnigione fu fatta prigioniera e condotta al Municipio ma lungo la strada, in piazza de Grève, Launay fu preso dalla folla e linciato. Uno degli insorti lo decapitò e infilzò la testa su una picca.

I prigionieri trovati all'interno della fortezza e rilasciati furono sette: quattro falsari, due malati mentali e un libertino. Dopo la liberazione i quattro falsari fecero perdere le proprie tracce mentre gli altri prigionieri liberati furono portati in trionfo per la città, ma i due malati mentali, il giorno dopo, furono rinchiusi nell'ospizio di Charenton. Fino a pochi giorni prima nella Bastiglia vi era stato rinchiuso anche il marchese Donatien Alphonse François de Sade, che infiammò gli animi dei suoi concittadini descrivendo, con particolari raccapriccianti e fantasiosi, le torture che lì si eseguivano; venne trasferito al manicomio di Saint-Maurice il 4 luglio.

Il 15 luglio venne creata la Guardia Nazionale, affidata al comando di La Fayette, con il compito di reprimere ogni eventuale tentativo anti-rivoluzionario. Molti aristocratici furono costretti a fuggire da Parigi e parecchie città crearono nuove municipalità borghesi, rimuovendo i rappresentanti del vecchio regime con l'intento di eliminare il centralismo monarchico.

Inizialmente la Presa della Bastiglia non ebbe affatto il risvolto simbolico che oggi le si attribuisce (l'inizio della Rivoluzione francese), ma fu considerata alla stregua di uno dei tanti tumulti allora frequenti a Parigi. Lo stesso Luigi XVI scrisse nel suo diario quel giorno rien (niente), a significare che non era accaduto nulla di rilevante o che meritasse di essere ricordato. Il 16 luglio però, spaventato dalle notizie di rivolta, il re riprese Necker come Ministro delle Finanze. Ma era troppo tardi, in quanto la Rivoluzione francese era ormai in atto.


La Bastiglia venne lentamente smantellata in seguito al 14 luglio 1789 (alcune macerie furono vendute come reliquie), ma la piazza dove sorgeva (Place de la Bastille) è oggi una delle più grandi e famose di Parigi.





La prima parola del motto repubblicano, Liberté fu all'inizio concepita secondo l'idea liberale. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) la definiva così: «La libertà consiste nel potere di fare ciò che non nuoce ai diritti altrui». «Vivere liberi o morire» fu un grande motto repubblicano. Sotto il governo di Maximilien de Robespierre, detto del Terrore (Terreur), divenne famoso il motto: «Nessuna libertà per i nemici di essa».

«Libertè, egalitè, fraternitè» recita il più noto motto dell’illuminismo francese, come si ripete da sempre e come ancor di più accade in seguito alla strage nella redazione del giornalaccio Charlie Hebdo (espressione diretta di quell’illuminismo antireligioso e ideologico che in questa sede si tenterà di smascherare).
La suddetta strage al cuore della Francia ha smosso le acque stagnanti del neo-illuminismo odierno, tanto da offrire lo spunto per riflettere a partire da alcuni quesiti che s’impongono da se stessi.
È proprio così? È proprio vero che si tratta di principi illuministi? Si può mettere in dubbio l’illuminismo con gli stessi metodi del dubbio illuminista?
Per come viene formulata, propagata ed insegnata, la suddetta tricotomia, lascerebbe intendere che prima dell’illuminismo non vi fosse libertà, non vi fosse eguaglianza e non vi fosse fraternità, o meglio, che la libertà, l’eguaglianza e la fraternità siano invenzioni tipicamente illuministiche.
Del resto, lo stesso illuminismo si è proposto ed imposto come momento di svolta della cultura umana in genere ed europea in particolare in netta e frontale contrapposizione con le epoche ad esso precedenti ritenute oscure, buie, “medioevali”.
È tuttavia legittimo chiedersi se i tre concetti di base dell’illuminismo siano effettivamente illuministi dato il retrogusto trascendente che lasciano in bocca dopo averli assimilati.
A ben guardare, fuori da ogni prospettiva meramente ideologica, cioè fuori da ogni prospettiva illuministica, sembra proprio che le idee di libertà, di eguaglianza e di fraternità siano ben più antiche e nobili dell’illuminismo stesso.
Sebbene gli illuministi, anche quelli attuali, e non sono pochi, ritengano di aver illuminato per primi con la luce della ragione il mondo e l’uomo, la luce della ragione splendeva già ben prima che essi ne scoprissero il bagliore.
Nikolaj Berdjaev ebbe a scrivere, non a caso, che «il Rinascimento esisteva già nelle profondità del Medioevo»; analogamente, i principi, le idee, i valori dell’illuminismo esistevano già nella profondità della cultura e dell’epoca storica precedente l’illuminismo medesimo.
Sul punto Tzvetan Todorov fa chiarezza sull’illuminismo: «Le sue idee portanti non nascono nel XVIII secolo; quando non derivano dall’età classica, portano i segni dell’alto medioevo, del rinascimento e del classicismo».
Già Giuseppe Mazzini, nella sua opera “Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa” del 1835, ebbe a riconoscere che l’originalità dell’illuminismo rivoluzionario tale non era, ancorandosi esso sui traguardi concettuali e morali di una tradizione ben più risalente, cioè della tradizione classica e cristiana, tanto da scrivere, per l’appunto, che «la Francia seppe compire colla rivoluzione del 1789, riducendo a formula nella Dichiarazione dei Diritti, i risultati dell’epoca cristiana, ponendo fuor d’ogni dubbio e innalzando a dogma politico la libertà conquistata nella sfera dell’idea dal mondo-greco-romano, l’eguaglianza conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, ch’è la conseguenza immediata di quei due termini».

L’idea di libertà, nel suo aspetto più radicale e profondo, cioè la libertà di coscienza, fu affermata fin da subito da quelle comunità protocristiane che si rifiutarono di incensare l’imperatore romano come divinità.
Il libero arbitrio, del resto, irrompe nella storia del pensiero umano solo dopo l’avvento del cristianesimo, sottraendo l’esistenza umana ai capricci delle divinità pagane o al determinismo del fato beffardo ed insondabile.
Lo stesso Giustino scrive, infatti, che «se il genere umano non può decidere liberamente di fuggire ciò che è biasimevole, né ha la possibilità di scegliere ciò che è buono, è irresponsabile in ogni modo di ciò che viene compiuto».
Il cristianesimo ha insegnato la libertà e la responsabilità; ecco in che senso Hegel scrive che «la religione è sapere della verità assoluta, e questa verità è lo spirito libero».
Per quanto riguarda il principio di eguaglianza il cristianesimo, ben prima e sicuramente meglio di ogni successiva istanza illuministica settecentesca, ha svolto un ruolo determinante e fondamentale per il delinearsi del suddetto principio così come oggi si conosce e reclama da ogni parte.
Nota in merito Tzvetan Todorov che «l’eguaglianza è un incrollabile principio della tradizione cristiana». Del resto, come principio è quasi onnipresente nei testi dei padri e dei dottori della Chiesa, degli apologeti, dei canonisti e dei giuristi e teologi di ogni epoca.
Con estrema chiarezza, per esempio tra i tanti citabili, Papa Gregorio Magno ben undici secoli prima degli enciclopedisti francesi ebbe a scrivere che «noi uomini per natura siamo tutti eguali».
Infine, per quanto riguarda la fraternità, non si può fare a meno di notare quanto essa altro non sia che la trasposizione sul piano secolare della fratellanza teologica degli uomini a seguito della loro comune filiazione rispetto a Dio Padre Creatore.
Non a caso molti sono stati nei due millenni di storia cristiana gli interventi contro la schiavitù; si pensi per l’appunto, oltre al chiaro testo biblico per cui «se hai uno schiavo, trattalo come fratello» (Sir. 33,32), a quanto scrive nel IX secolo, cioè diversi secoli prima dei redattori della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, Agobardo di Lione: «Tutti gli uomini sono fratelli, tutti invocano un unico padre, Dio: gli schiavi e i padroni, i poveri e i ricchi, gli ignoranti e gli istruiti, i deboli e forti, nessuno è superiore agli altri; non esiste schiavo o uomo libero, ma c’è sempre in tutte le cose un solo Cristo».
I principi illuministi, oggi e sempre più invocati, sono dunque precedenti allo stesso illuminismo, tanto che la loro violazione, come insegna la storia, è stata molto più frequente nei periodi più accanitamente antireligiosi in genere ed anticristiani in particolare che in quelli in cui il fattore religioso e cristiano è stato più culturalmente e socialmente dominante.
Appare quindi contrario alla loro essenza ed origine, oltre che alla verità, ritenere di poterli invocare in contrapposizione allo spirito religioso in genere e a quello cristiano in particolare, specialmente, come in questi giorni accade, a causa di morte e devastazione causate dal fondamentalismo islamico.
In conclusione, per illuminare le vie dell’oscurantismo di matrice illuministica, riechieggiano le parole proprio di un “illuminato” illuminista, grande studioso del problema della democrazia, del calibro di Alexis de Tocqueville che così ebbe sapientemente a precisare: «Grave errore è il pensare che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione: nulla nel Cristianesimo, e neppure nel Cattolicesimo, è radicalmente contrario allo spirito di tali società, anzi molti elementi essi contengono per queste favorevoli».




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sabato 21 marzo 2015

L' ABBAZIA DI PIONA

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L'abbazia sorge sull'estremità della penisola detta Olgiasca che, protendendosi nel Lago di Como, forma una caratteristica insenatura.

Le prime notizie storiche risalgono al VII secolo, a un cippo coevo, ora sistemato sotto i portici dell'abbazia, che testimonia la costruzione di un oratorio voluto da Agrippino, tredicesimo vescovo di Como:

« AGRIPPINUs
FAMULUS Xpi
COM CIVITATis
EPS HUNC HORAto
RIUM SCTAE Ius
TINAE MARTYRis
ANNO X ORDINa
TIONIS SUAE A Fon
DAMENTIS FABri
CAVIT ET SEPOLtu
RA SIBI ORDENA
BIT ET IN OMNI
EXPLEBIT ADQue
DEDICABIT »
(ex Marcora C. – Il priorato di Piona)

Gli storici si sono esercitati sulle reali intenzioni di Agrippino e sulla destinazione di quello che potrebbe essere stato un asceterio, ma tutte le ipotesi rimangono senza risposta affondando le loro radici nella nebbia dell'alto medioevo, in un periodo, peraltro, scosso dai dibattiti tricapitolini.

Forse Agrippino voleva solamente erigere una chiesa in onore di Santa Giustina o creare un plesso monastico magari femminile o forse un posto dove ritirarsi in preghiera e meditazione in attesa dell'ultimo passaggio: noi non abbiamo la risposta, né aiuta il lemma Oratorium inciso nel cippo, dati i suoi molteplici significati.

Nell'attuale Piona esistono, dunque, due edifici: l'odierna chiesa di San Nicola, costituente il vero e proprio nucleo edilizio del Priorato di Piona, e in posizione retrostante resti di un primitivo edificio ossia un rudere di una porzione di abside che può ragionevolmente essere attribuita all'oratorium voluto da Agrippino.

Sono resti che, per le loro dimensioni, fanno pensare a un edificio piccolo e raccolto, degradato col tempo e quindi distrutto, che così ha fatto posto al successivo edificio dedicato a San Nicola.

Della costruzione di quest'ultimo non si ha una datazione certa né una documentazione storica che ne testimoni attori ed intenzioni.
Agli inizi del XX secolo è stata casualmente scoperta un'iscrizione all'interno della chiesa che affermava che la stessa era stata consacrata nel 1138 alla Vergine, dal che si deduce che a quella data l'edificio, ora dedicato a San Nicola, esisteva già. Oscuro rimane il passaggio dedicatorio dalla Vergine a San Nicola; è un enigma che rimane tale, oggetto di studi e speculazioni per gli specialisti.

Altre date certe sono quelle del 1252 e 1257 nelle quali, è certificato da due lapidi, fu costruito, per iniziativa del priore Bonacorso da Canova di Gravedona, l'attuale chiostro forse in sostituzione di uno precedente degradato o più piccolo.

Si è pensato che il priorato potesse essere il risultato della traslazione di un più vetusto monastero, quello di San Pietro di Vallate, ma studi recenti hanno respinto tale ipotesi. Rimane più credibile la successione dall'asceterio di Santa Giustina, ormai diruto, con una nuova dedica conseguente alla diffusione del culto di San Nicola.

L'architettura del complesso abbaziale rientra nel cosiddetto romanico lombardo con influenze transalpine. In alcuni particolari ci sono degli spunti che fanno pensare al gotico francese di ispirazione cluniacense, cosa verosimile tenuto conto dei rapporti con la casa madre, Cluny.

La chiesa, a navata unica terminante in un'abside con copertura a botte affrescata, è lunga circa 20 metri e larga circa 8, il che ne fa una costruzione non grande e raccolta, comunque idonea ad una piccola comunità monastica.

L'edificio attuale è il risultato di un ampliamento, per allungamento, di una precedente chiesa la cui consacrazione, come si è visto, risale al 1138; l'esame delle caratteristiche architettoniche della nuova addizione ne suggerisce per la costruzione il XII secolo.

La geometria della navata è rettangolare lievemente irregolare con la parte aggiunta non perfettamente in linea con l'asse dei primitivi muri perimetrali. La chiesa ha oggi un campanile quadrato che è stato ricostruito alla fine del XVIII secolo in seguito al crollo del campanile precedente che era di forma ottagonale, su base quadrata, come quello che si trova a Gravedona; anche la collocazione del campanile era diversa, si trovava sul lato opposto della chiesa e il crollo avvenne a causa della forte pendenza del terreno, così come si può notare nel Cenacolo della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano dipinto da Leonardo da Vinci.

Il campanile del Cenacolo, con alle spalle un paesaggio tipicamente lariano presenta infatti una forte pendenza, è ottagonale e non è addossato alla facciata come a Gravedona ma sulla parete laterale esterna della chiesa.

Questa presenza nel Cenacolo è dovuta al legame esistente fra Leonardo e alcuni componenti della famiglia Birago che deteneva la commenda del Priorato di Piona.

L'abside presenta delle finestrelle a doppio sguincio ed è affrescata nella volta con una mandorla, quasi illeggibile, racchiudente un Cristo in maestà con simboli evangelici.
Nella parete sottostante sono affrescati gli Apostoli in postura ieratica bizantineggiante. Vi è incertezza sugli autori degli affreschi e sulla loro datazione che potrebbe essere del XII-XIII secolo .
All'esterno presenta un'ornatura con leggeri ed eleganti archetti. Poco dietro rimane il rudere dell'abside di un precedente edificio ecclesiale, la probabile chiesa di Santa Giustina del vescovo Agrippino.

Addossato alla parete sud della chiesa si trova un bel chiostro costruito successivamente, probabilmente in sostituzione di uno precedente di cui non si ha notizia, notevole per la bellezza degli archi e dei capitelli finemente scolpiti con figure ed allegorie care a Cluny.

Il chiostro ha una forma quadrangolare irregolare che gli fa assumere un aspetto leggermente romboidale. È racchiuso da archi a sesto pieno poggianti su colonnine e capitelli estremamente eleganti e interessanti per i loro particolari architettonici, diversi uno dall'altro. Il complesso assume l'aspetto particolarmente armonioso e quieto dell'architettura romanica anche se nei capitelli si sente l'influenza del gotico francese o secondo alcuni del gotico cluniacense puro.

La parete nord del portico è ornata da un affresco particolare, una sorta di calendario simbolico con scene che fanno riferimento a singoli mesi o stagioni dell'anno e rappresentanti i lavori agricoli tipici del periodo. Questo disegno è una striscia, quasi un fumetto che percorre la parete, di non eccelsa fattura artistica ma gentile e ingenuo, molto interessante per la testimonianza che dà della vita quotidiana e dei lavori che venivano eseguiti.

Residui di affreschi più o meno leggibili si trovano anche nelle altre pareti del chiostro.

Il priorato di Piona era inserito in quella grande rete monastica che da Cluny si era irradiata in tutta la cristianità sulla spinta di una nuova evangelizzazione e del bisogno di una riforma della Chiesa ormai sentita come corrotta e temporale. Da questo movimento derivò alla Chiesa nuova linfa religiosa, vitale per la sua missione, ma anche una maggiore crescita politica in un momento che presto sarà teatro della contesa fra istituzioni universali, Papato ed Impero.

Cluny e il suo movimento ebbero un enorme successo religioso e un grandioso sviluppo economico e politico all'ombra di potenti patroni politico-militari, successo strettamente correlato al loro favore. Ma con l'affievolirsi di questo e con la comparsa di altri concorrenti religiosi, i cistercensi che meglio interpretavano le mutate esigenze spirituali, iniziò il declino di Cluny e quello della sua rete tanto miracolosamente costruita e tanto capillarmente diffusa.

La comparsa, infine, del suo più grande nemico dichiarato, Bernardo di Chiaravalle, accelererà la sua fine.

« …Mi meraviglia, da dove ha potuto svilupparsi fra i monaci tanta intemperanza nel mangiare e nel bere, nei vestiti e negli arredi dei letti, nelle cavalcature e nella costruzione degli edifici, al punto che lì dove più studiosamente, più voluttuosamente, più sfrenatamente queste cose accadono, lì si dica che l'osservanza si tiene meglio, lì si reputi maggiore la vita religiosa. Ed ecco che la parsimonia si tiene per avarizia, la sobrietà si crede austerità, il silenzio è riputato tristezza…… »
(Bernardo di Chiaravalle, ex Cantarella G. M. - I monaci di Cluny)
Lo sfarzo delle cerimonie, la grandiosità degli edifici maggiori, il mutato interesse dei potenti perderanno Cluny e con essa molti dei priorati affiliati.

« …Ti è concesso, se servi bene, che tu viva dell'altare ... ma non perché tu tragga lussi dell'altare e di lì ti compri freni d'oro, selle dipinte, speroni d'argento, pellicce varie e grigie con ornamenti di porpora al collo e alle mani. Infine, ciò che oltre al vitto necessario e al semplice vestito tu ritieni dall'altare, non è tuo diritto: è rapina, è sacrilegio... »
(Bernardo di Chiaravalle, ex Cantarella G. M. - I monaci di Cluny.

Anche Piona seguirà la sorte di Cluny e di altri priorati: lentamente ed inesorabilmente decadrà, diminuiranno i monaci sempre di più e il suo priorato si ridurrà a prebenda. Prebenda da scambiarsi tra i potenti del momento, come occasione di gratificazione per i propri sodali fedeli, per i benefici economici che se ne potevano estorcere senza, peraltro obbligo di quegli interventi di ordine materiale e morale che avrebbero potuto salvare Piona.

È l'istituto della commenda, del patronato che si riduce a sfruttamento delle risorse commendate quasi sempre senza interventi restitutori.

Attraverso una temperie di avvenimenti storici quel monastero che nel medioevo era stato una delle punte di diamante dell'evangelizzazione cluniacense, in questa parte del lago di Como, cadrà in proprietà privata.
Solo la munificenza della famiglia Rocca, ultima proprietaria del complesso, fece rinascere il monastero con la sua donazione alla congregazione cistercense di Casamari, in memoria di un membro della famiglia, Cesare Rocca, e della moglie, Lidia, uccisi nell'Eccidio del cantiere Gondrand durante la Guerra d'Etiopia. I monaci cisternensi presero possesso del priorato il 13 febbraio 1938.

All’interno vi è presente un quadro degli inizio del 1900 di Girolamo Pergola, è molto curioso perchè vi sono in rilievo alcuni oggetti, come l’elsa della spada o il mantello. Rappresenta una Madonna che offre il proprio bambino al mondo accompagnando il gesto alla scritta “Amate i vostri nemici”. Dato che fu dipinto in periodo di guerra è stato inteso come un chiaro messaggio di pace… fu donato a Piona dal pittore in segno di riconoscenza per l’ospitalità dei monaci (e forse dei loro liquori!!!).







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martedì 27 gennaio 2015

IL MONTAGNA DEI PIRENEI -UNA MONTAGNA DI DOLCEZZA-



Il cane da montagna dei Pirenei, conosciuto anche con il nome tradizionale di patou è una razza canina di origine francese riconosciuta dalla FCI (Standard N. 34, Gruppo 2, Sezione 2, Sottosezione 2).

È la razza canina appartenente al gruppo dei cani da montagna che svolge tradizionalmente il compito di guardiano del gregge sul versante francese dei Pirenei. Sul versante spagnolo della catena montuosa, nella regione di Aragona, da antenati comuni si è sviluppata la razza del mastino dei Pirenei. Il cane da montagna dei Pirenei non è da confondere con il pastore dei Pirenei, il suo "collega" di lavoro, incaricato di condurre il gregge (pastore-conduttore), mentre il compito del cane da montagna dei Pirenei è quello di difenderlo.

La coda è lunga, a pelo lungo, termina a uncino. Nei momenti di "attenzione", viene portata arrotolata sulla schiena, a formare la caratteristica "arrundera". Il colore bianco è sempre predominante, sono accettate macchie di colore sabbia e/o grigio. Il pelo è molto lungo e gli occhi son ben livrettati, a mandorla, con iride ben scura. Le orecchie sono attaccate all'altezza degli occhi, ben inserite e poco visibili. La testa è a tartufo nero, calotta cranica tanto lunga quanto larga. I piedi hanno doppi speroni negli arti posteriori, ricercati quelli negli arti anteriori.

In famiglia è molto dolce e legato al padrone: nei suoi confronti può diventare geloso, ma si affeziona agli altri membri del suo branco umano. Con l'uomo cerca spesso un rapporto paritario, basato sul rispetto e la fiducia reciproca. Non ama la sudditanza, per cui va bandita ogni forma di coercizione violenta. È un cane solo in parte addestrabile all'obbedienza ed è preferibile non spingerlo ad un addestramento svolto all'attacco. Si deve infatti tenere presente che, per via dell'innata indipendenza e della notevole mole, si rischierebbe di avere tra le mani un soggetto non facilmente gestibile. Ha la caratteristica comportamentale di difendere il territorio, tenendo sempre a bada gli estranei. Riesce a comprendere chi sono le persone che non sono gradite al padrone con una intelligenza acutissima. Perlustra il territorio abbaiando profondamente al minimo passaggio di estranei, e tende a essere fortemente dominante con tutti i cani. Inoltre tende ad esplorare gli spazi aperti e a farli diventare il proprio territorio. È pertanto opportuno che abbia a sua disposizione un grande spazio, ma non troppo in modo da stimolare la sua propensione alla guardia. Di notte subisce un mutamento e diventa molto più attento. Osservandolo vedrete che spesso "abbaia ai quattro venti", girando su se stesso e abbaiando nelle varie direzioni, allo scopo di segnalare la sua presenza agli altri cani e agli estranei (tenetene conto per il vicinato).



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