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martedì 30 agosto 2016

IL RISPETTO DELLE REGOLE



Vorremmo fare quel che ci piace o ci fa comodo. Ma perché dobbiamo osservare le regole, fastidio o non fastidio? Innanzitutto perché ci sono. E poi perché non osservarle può comportare dei castighi.

Rispettare le regole è necessario per qualsiasi società civile perché è importante tracciare dei confini da non superare uguali per tutti, per far si che ognuno di noi sia libero senza però ledere mai la libertà di tutti gli altri.

Rispettare le regole consente di mantenere l’equilibrio nella convivenza di molte persone la dove, in assenza di leggi da rispettare, ci sarebbe soltanto caos e molto probabilmente violenza.

Nello stesso modo  rispettare le regole, in questo caso morali, è necessario per la nostra libertà ed il nostro equilibrio interiore; dentro di noi, infatti, albergano molte emozioni, pensieri e sentimenti che necessitano di ordine per evitare di creare caos e disequilibrio.

L’atteggiamento più diffuso al giorno d’oggi è invece l’implicita accettazione di qualunque cattivo comportamento, a partire dalla volgarità del linguaggio e dell’atteggiamento.

Eppure, se non rispettare le regole ci fa credere di avere maggiore libertà e ci permette magari di divertirci di più sul momento, compromette irrimediabilmente il nostro benessere ed il nostro equilibrio interiore.

Imparare a rispettare le regole morali non implica una vita fatta di privazioni ma al contrario, permette di assaporare nuovamente il gusto dei buoni principi e della propria forza morale, regalandoci una maggiore libertà ed un maggiore benessere nei confronti di quello che ci circonda e di noi stessi; perché chi è capace di rispettare le regole morali rispetta maggiormente se stesso, in barba a quello che vogliono farci credere.



Per avere il diritto, bisogna avere una regola che lo predisponga, se non altro una regola che vieti la lesione del diritto stesso. Il buon funzionamento della società si basa sulle regole che gli uomini si sono dati per organizzare e far funzionare al meglio la loro vita comune e per garantire i diritti di tutti. È importante capire che dietro ad una norma vissuta come un’imposizione fastidiosa, si nasconde in realtà la possibilità di stare bene con se stessi e con gli altri e soprattutto di esercitare senza limiti la propria libertà. Kant sosteneva che la libertà non consistesse nel fare tutto senza regole ma al contrario avere la determinazione di agire nel rispetto delle condizioni morali riconosciute. È libero chi non distrugge le regole di convivenza che permettono a tutti di vivere e realizzarsi. È libero chi persegue i propri obiettivi e coltiva le proprie passioni senza cedere ai compromessi immorali che lo rinchiuderebbero in una gabbia di vizi e malcostume. È libero chi conosce i propri limiti e valorizza le sue virtù, chi sa che essere liberi è faticoso ma impagabile. Il problema è che la maggior parte delle persone è incline a barare e che l’ambiente può scoraggiare o favorire i comportamenti disonesti. In particolare, saremmo più propensi a mentire o imbrogliare se lo fanno anche gli altri intorno a noi. Se fin da piccoli s’impara a imbrogliare, a non rispettare le regole, da grandi si sarà inclini a evadere le tasse, passare con il rosso, cercare raccomandazioni, saltare la fila agli sportelli, non allacciare la cintura di sicurezza in automobile. Se domina la legge del furbetto chi è onesto paga due volte: la prima perché è danneggiato da chi imbroglia e la seconda perché viene anche deriso per averlo fatto..



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sabato 19 marzo 2016

GLI ZINGARI

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La parola italiana zingaro deriva dal greco medievale tsínganoi, tribù dell'Anatolia. Non è escluso che l'etimo originario sia indo-ario, atzigan. Un'opinione diffusa all'inizio del XX secolo ne faceva risalire l'origine allo stanziamento in Mesopotamia di popolazioni sire, etiopi e nubiane, in seguito alle vittorie dell'imperatore Costantino V, che si sarebbero chiamate Athingan, in seguito disperse dalle invasioni turche.

Zingaro e zingano sono da alcuni autori fatti risalire a Athínganoi, "intoccabili", nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia; essa avrebbe avuto connotazione, secondo molti, negativa (dato che trattasi dello stesso nome dell'infima "casta-non casta" indiana, i paria, da cui proverrebbero, per esempio, i necrofori).

Altri ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini. Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell'Europa.
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione - negativa - che troviamo ancora oggi.

Spesso, per indicare le etnie romaní, vengono usati anche altri nomi meno precisi: ad esempio, in italiano zingari e gitani.

La parola gitano alimentava la leggenda di una loro provenienza dall'Antico Egitto e il mito degli zingari discendenti dal figlio di Abramo e della sua schiava Agar, sulla scorta del fatto che Ismaele, nella Bibbia, viene considerato "colui che camminava con Dio" (Gen. 21,20).

Piero Colacicchi sostiene che nomade, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano "uomini inferiori" poiché pigri, vagabondi, caratterialmente instabili, in contrapposizione a quello dell'uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale.

Rom sta ad indicare una precisa etnia di popolazione romaní, ed è il termine con il quale il non-zingaro, oggi, intende indicare, erroneamente, tutti i gruppi di popolazioni romaní; questi, Kalé, Sinti e Rom ritengono, da parte loro, che il termine "zingaro" sia offensivo.

La popolazione romaní è suddivisa nei seguenti gruppi etnici:

Rom (principalmente presenti in Europa centro e sud-orientale ed in Italia meridionale)
Sinti (presenti in Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Danimarca ed Italia settentrionale), i Manouches in Francia
Kalé (presenti principalmente in Spagna ed in Portogallo)
Romanichals (principalmente presenti nel Regno Unito)
Romanisæl (principalmente presenti in Svezia ed in Norvegia)
Ciascuno di questi gruppi contiene al proprio interno ulteriori suddivisioni.

Pare ormai approvata la teoria che vede il popolo zingaro provenire dal sub-continente indiano per via delle similitudini linguistiche, le caratteristiche somatiche e grazie anche a documenti antichissimi che ne testimoniano la presenza. Ad esempio, la parola "rom" deriva dal termine in sanscrito (un'antica lingua indiana) "domba" che significa "uomo libero"; oppure il termine "sinto" deriva da "Sindh", il nome del fiume Indro, il più lungo del Pakistan.

Bisogna però specificare che, essendo un popolo storicamente portato all'emigrazione, non possiamo parlare di una vera e propria patria d'origine, ma più che altro di luoghi in cui hanno soggiornato per un periodo storico più o meno lungo. Dalla regione indo-pakistana, nell'XI secolo gli zingari si sono spostati seguendo l'Indro, il Tigri, l'Eufrate, il Danubio, l'Elba, il Reno e il Rodano. Le cause di questi spostamenti di massa rimangono sconosciute, anche perché, altro fattore di non poco conto, le testimonianze su questo popolo si trasmettono per via orale ed è dunque molto facile che la realtà dei fatti diventi leggenda, o peggio, pura finzione. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'attribuire la causa di questa emigrazione alle devastanti invasioni del re afghano Mahmud di Ghazna. Giunti prima in Iran e poi in Persia, gli zingari raggiunsero l'Armenia e il Caucaso meridionale, zone di influenza bizantina. Da lì a poco arrivarono in Turchia per giungere nei Balcani, dove si stabilirono definitivamente. È probabilmente da attribuirsi a questa lunga permanenza la credenza popolare che vede gli zingari provenire dai Paesi balcanici. Nei Balcani, gli zingari cominciarono a praticare mestieri che ancora oggi fanno: fabbri, maniscalchi, ferrai, esperti nella lavorazione del metallo, costruttori di armi, ma divennero anche ricercatori d'oro in Transilvania, o importanti musicisti in Ungheria, dove entrarono letteralmente a far parte del folklore locale, soprattutto per i brani eseguiti con il violino.

Tra il XIV e il XV secolo, gli zingari giunsero in Europa occidentale e, in seguito alla battaglia del Kosovo del 1392, dove l'impero ottomano sconfisse l'esercito serbo-cristiano sancendo l'influenza islamica nel territorio, i gitani raggiunsero anche l'Italia seguendo i profughi croati, kosovari, albanesi e greci. Viaggiavano in gruppo, spesso spacciandosi per gente facoltosa proveniente dall'Egitto. Una falsità che però è entrata talmente tanto nell'immaginario collettivo che ancora oggi gli zingari vengono chiamati in Spagna "gitanos" (dal latino "aegyptanus", derivazione di "Aegyptus", cioè "Egitto"), o nel Regno Unito "gypsies".

La convivenza con gli europei fu drammatica. A causa del loro abbigliamento bizzarro, della lingua incomprensibile, del loro vivere di elemosina e per le pratiche di chiaroveggenza, spesso scambiata per stregoneria, le autorità locali emanarono una serie di decreti che penalizzavano e discriminavano la popolazione. In Germania, per esempio, la pena di morte, normalmente riservata agli uomini, venne estesa anche alle donne zingare, oppure, nel 1500, ci fu un provvedimento imperiale che garantiva l'impunità a chiunque avesse ucciso uno di loro. Non andò meglio in Moldavia o in Valacchia, dove divennero servi della gleba. In Spagna, nel 1492 furono condannati all'esilio assieme ai mori e agli ebrei. In Ungheria furono accusati di cannibalismo. In Italia, il primo decreto di espulsione fu emanato a Milano nel 1512 perché accusati di portare la peste.  Insomma, il ripudio e l'odio nei confronti di questa popolazione hanno origini antiche.

Le persecuzioni ebbero fine intorno al XVIII secolo, quando i sovrani illuminati piuttosto che condannarli a morte o all'esilio, cercarono di integrarli con la popolazione del luogo. Questo però significava spogliarli delle loro tradizioni e delle loro usanze. Ad esempio, in Ungheria e Transilvania, dove ormai vivevano da secoli in base alla loro cultura, furono obbligati ad abbandonare la loro lingua per esprimersi esclusivamente nella lingua nazionale. Inoltre, dovevano rinunciare alla loro vita nomade per stabilirsi in appartamenti, esercitare mestieri comuni, non mendicare, andare in chiesa e vestirsi come la popolazione locale. In cambio, il governo distribuiva case, mezzi agricoli e bestiame. L'iniziativa ovviamente fallì.

Abbandonata questa finta filantropia, i diversi Paesi divennero via via più liberali nei loro confronti, tant'è che in Romania, tra il 1855 e il 1856, vennero liberati dalla schiavitù. Da lì in poi, cominciò un'altra ondata migratoria che coinvolse non solo l'Europa, ma anche l'America, Brasile e Argentina in primis.

Tuttavia, dato lo storico odio nei loro confronti, era inevitabile che finissero nel mirino dei nazisti. Circa 500mila morirono in quello che gli zingari chiamano "barò porrajmos", che in lingua romanì significa "il grande genocidio". Considerati non solo come una razza inferiore, ma anche come degli "asociali", i gitani erano talmente discriminati tra i discriminati che ad Auschwitz vivevano in baracche a loro riservate.

Il regime nazista attuò il genocidio della popolazione romaní, uccidendo 250.000 zingari nei campi di sterminio. Altri 250.000 morirono appena catturati oppure durante il trasferimento verso i lager. I Rom ricordano questa tragedia con il termine romaní Porajmos ("devastazione"), analogo a quello con cui si ricorda il più noto sterminio nazista del popolo ebraico, la Shoah ("sterminio") . Dal 2015, il 2 agosto è nell'Unione europea la giornata internazionale per il ricordo del genocidio delle popolazioni romanì.

Oggi gli zingari in Europa si aggirano intorno ai 10-12 milioni. In Paesi come Romania, Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Serbia raggiungono il 5 per cento della popolazione. Tuttavia, è Bucarest ad ospitare il maggior numero di gitani in Europa. I dati sugli zingari in Italia sono piuttosto confusi, tra chi parla persino di 200mila e chi di appena 80mila. Circa l'80 per cento di loro ha la cittadinanza italiana e appena il 20 per cento sarebbe straniero e proveniente per lo più dai Balcani. I due più grandi ceppi si dividono in rom e sinti. I primi si sono insediati soprattutto nell'Italia centro-meridionale, mentre i secondi nel Nord. I sinti storicamente esercitano il mestiere di giostrai (per esempio, Moira Orfei e la sua famiglia sono di origine sinti), ma dato che si tratta di un lavoro "in via di estinzione" si stanno reinventando rottamatori o venditori. Entrambi, sia sinti che rom, sono per lo più cattolici. Difatti, le popolazioni zingare tendono ad adottare la religione del luogo in cui vivono. Questo fa sì che in Italia, ben il 75 per cento di loro è cattolico, il 20 per cento musulmano e il 5 per cento raggruppa ortodossi, pentecostali e testimoni di Geova.

Si tratta di un popolo piuttosto giovane: circa la metà di loro non supera i 18 anni e appena il 3 per cento arriva a oltre i 60. Il tasso di natalità è alto (5-6 bambini a famiglia), così come lo è quello di mortalità. Il matrimonio, in genere, avviene in giovane età ed è regolato da usanze e tradizioni che variano in base all'etnia di appartenenza. Difatti, per i sinti avviene tramite la fuga, cioè i due ragazzi vivono per qualche giorno da alcuni parenti; mentre per i rom la famiglia dello sposo "compra" la sposa, cioè corrisponde una cifra in denaro alla famiglia della giovane come una sorta di risarcimento. Ad ogni modo i matrimoni non sono regolati da rigide norme sociali, tant'è che possono sposarsi anche persone appartenenti ad etnie diverse.

La lingua delle popolazioni gitane, al giorno d'oggi parlata unicamente dai Rom e dai Sinti, è il romaní, un idioma indoeuropeo facente parte del gruppo delle lingue indoarie.

Sebbene non esista uno schema generale della struttura sociale valido per tutte le etnie, si può affermare che fra gli zingari non esistano le classi sociali come si intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quella tra i sessi (maschi - femmine) e quella basata sull'età (giovane - anziano).

Inoltre in primo luogo per lo zingaro conta la famiglia, e precisamente marito, moglie e figli. Al di là del nucleo famigliare vi è la famiglia estesa, che comprende i parenti, con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. Poi esiste la kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie estese non necessariamente unite da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo ed anche allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini.



La nascita e la morte sono considerati eventi impuri. Nella popolazione romaní l'ospedale, il medico, il prete ricordano la morte e pertanto i contatti con loro devono essere ridotti al minimo. La donna mestruata e la puerpera sono fonte di impurità e non possono fare vita pubblica o lavare i propri panni insieme a quelli degli altri. Nei rom "vla" (originari della Valacchia), presso i quali il concetto di impurità è più radicato, durante la gravidanza e per quaranta giorni successivi al parto alla neo-mamma non è consentito di svolgere alcuna attività (ad esempio cucinare). Al termine del periodo di purificazione, i vestiti indossati, il letto, i piatti, i bicchieri e gli altri oggetti adoperati dalla puerpera sono distrutti o bruciati.

Il culto dei morti è molto sentito ed è diffusa la convinzione che il morto, se non debitamente onorato, possa riapparire in forma di animale o di uomo per vendicarsi.

In Italia la popolazione romaní si divide in:
Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui:
Rom harvati: 7.000 giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo.
Rom lovari: 1.000, che si occupano principalmente dell'allevamento di cavalli (la parola viene dall'ungherese ló, che significa appunto cavallo).
Rom balcanici: 70.000
Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche, bassissimo è il tasso d'impiego degli adulti.
Khorakhanè ("lettori del Corano"): caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all'estate del 1993, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia
Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria.
Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Pescara, Genova, ma si stanno espandendo nel resto d'Italia.
30.000 nel Sud Italia, distinguibili in:
Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia al seguito dei profughi arbëreshë dall'Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanì mescolato ai dialetti locali e praticano l'allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnìa). Diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal Novecento
Rom napoletani (napulengre), ben integrati, fino agli anni settanta si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti.
Rom cilentani: 800 residenti ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione
Rom pugliesi, si dedicano in maggioranza all'agricoltura ed all'allevamento di cavalli (alcuni di loro gestiscono macellerie equine)
Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna
Camminanti siciliani
Sinti: 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e un tempo occupati principalmente come giostrai, mestiere che però sta scomparendo e che li costringe a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai.

A differenza di quanto si pensi, non tutti sono nomadi, anzi. Molti vivono in appartamenti e perfettamente integrati con la comunità locale, soprattutto da quando le loro storiche professioni, che li portavano a girovagare continuamente, stanno venendo meno. Ma il pregiudizio rimane, tant'è che nel rapporto sull'Italia della Commissione europea contro il Razzismo e l'Intolleranza (Ecri), Bruxelles ha invitato Roma ad abbandonare "il falso presupposto che rom e sinti siano nomadi" dato che, in base a tale idea, viene attuata "una politica di segregazione dal resto della società" con l'installazione dei "campi nomadi" nati per ospitare solo temporaneamente queste popolazioni e spesso sforniti dei servizi più basilari.

Ma non è solo l'Italia a guardare con disprezzo gli zingari. Anche negli altri Paesi i pregiudizi e la discriminazione persistono, sintomo che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure a morire.

Nel 2005 e nel 2006 il razzismo nei confronti delle popolazioni gitane è diventato oggetto di attenzione a livello europeo, con l'adozione di una risoluzione del Parlamento europeo, il primo testo ufficiale che parla di antiziganismo. Le conferenze internazionali OSCE/EU/CoE di Varsavia (ottobre 2005) e Bucarest (maggio 2006), hanno confermato il termine «anti-Gypsyism» a livello internazionale.  Dal 2008 l'Unione europea ha inaugurato una Strategia europea per i rom.


LEGGI ANCHE :  http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/rom-popolo-dai-mille-colori.html



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lunedì 28 settembre 2015

MATRIMONI MISTI



Nel panorama di un’Italia che cambia rapidamente e che sta diventando giorno dopo giorno sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa, un aspetto che sta assumendo un carattere sempre più significativo è quello dei matrimoni misti.
Nel 2013 ne sono stati celebrati o, comunque, si sono formate 18.273 famiglie con due partner di religione diversa. In Europa nello stesso anno una unione su 12 è stata mista, con Svizzera e Lettonia a guidare la classifica e la Romania a chiuderla in coda, tenendo conto che, tuttavia, i rumeni contraggono matrimoni con partner di altra religione o denominazione cristiana fuori della loro patria.
Quando si tratta questo argomento, sono necessarie precisazioni di termini, in quanto la parola “misti” comprende una notevole varietà di possibilità. A fronte di matrimoni fra partner di etnie e culture diverse, sta crescendo sempre più il numero di unioni fra persone di credo diversi. La questione è di quelle che, nonostante i freni e i deterrenti spesso suggeriti o anche imposti, sono continuate a crescere e a interrogare la società italiana per le sue implicazioni sociali e giuridiche, oltre che i diversi ambiti religiosi. Si tratta, in effetti, di trovare adattamenti funzionali ed efficaci sia a livello sociale e amministrativo, ma anche nell’ambito religioso.
Infatti, il matrimonio misto è da sempre una delle chiavi di integrazione sociale, etnica e culturale. È, con tutta probabilità, la conseguenza immediata più normale di incontri di popoli e persone di etnie, culture e religioni diverse. Ma è anche un efficace deterrente contro la xenofobia. Negli anni Cinquanta, il matrimonio misto che faceva guardare con sospetto certe coppie era quello fra gli italiani del Nord e quelli del Sud.
Come, tuttavia, fanno notare molti, i rischi aumentano quando le unioni avvengono fra culture e religioni diverse. Il vecchio adagio – moglie e buoi dei Paesi tuoi – diventa un cavallo di battaglia di coloro che, per esperienza vissuta, ritrosia alla novità e radicamento nella propria cultura e fede, guardano con sospetto alla possibilità dell’incontro di due fedi religiose sotto lo stesso tetto.



Riccardo di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, ha sottolineato senza mezzi termini come la famiglia resti il punto di trasmissione della tradizione, culturale e religiosa dell’ebraismo, e ammettere la possibilità di un matrimonio con un partner di altra fede, soprattutto se questo è la madre, significhi instaurare un meccanismo che può portare, nel giro di alcune generazioni, all’annacquarsi, prima, e, in tempi più lunghi, alla sparizione della tradizione ebraica.
Dello stesso parere è anche Maria Angela Falà, rappresentante dell'Unione Buddista Italiana, e, sebbene in maniera diversa, pure Swamini Hansananda Ghiri, in rappresentanza dell’induismo, ha insistito sulla complessità del fenomeno dei matrimoni misti che, in India, presenta una varietà di esempi e di declinazioni.
Mons. Serrano evidenzia come in merito a queste unioni sussistono aspetti giuridici, canonici e pastorali che andrebbero maggiormente armonizzati nel rispetto della confessione religiosa dell’altro coniuge.
L’aspetto che emerge dai è l'importanza di una maggiore apertura da parte di tutte le realtà religiose ad affrontare un aspetto destinato a diventare sempre più comune e per il quale è necessario, anche all’interno delle diverse strutture religiose, avere persone preparate ad affrontare positivamente le questioni che possono emergere.

L’espressione “matrimonio misto” si applica soltanto ai matrimoni tra cristiani di confessione diversa – cattolici con ortodossi o protestanti -, cioè, tra battezzati; il matrimonio tra persone di diversa fede si chiama “matrimonio con disparità di culto”. Per i matrimoni misti, serve una dispensa dell’autorità ecclesiastica. Sono molto diffusi, in molti Paesi. In Germania le famiglie composte da cattolici e luterani sono la metà della popolazione. Queste unioni non presentano particolari difficoltà, perché gli sposi fanno entrambi riferimento a Cristo. Tuttavia, non è banale amare qualcuno che non condivide la stessa confessione religiosa, può avere conseguenze sulla partecipazione attiva alla vita della fede, e dunque, il cristiano che voglia partecipare attivamente deve porsi il problema se il coniuge non possa ostacolare la pratica religiosa. La fede cattolica collega il matrimonio ad un mistero più grande, di unione tra Cristo sposo e la Chiesa sposa. Per i cattolici, il matrimonio è un sacramento, il settimo, e dunque, non è solo un segno della volontà di unione tra i due coniugi, ma è il segno efficace dell’unione di Cristo con la Chiesa e del battezzato con Cristo. Il matrimonio, per la Chiesa cattolica, è non soltanto l’unione tra un uomo e una donna, ma un mistero ecclesiale. Quando si sposa una persona di fede diversa, bisogna considerare preventivamente determinate questioni: per la pratica del culto, quali saranno i modi familiari di vivere la fede cristiana, per esempio, attraverso la preghiera comune; la confessione nella quale i bambini saranno battezzati ed educati, tema, questo, di vita matrimoniale molto importante, che non può essere lasciato nell’indeciso, da rinviare alla vita familiare dopo le nozze. Per avere l’autorizzazione al matrimonio dell’autorità ecclesiastica, occorre l’impegno dei coniugi a battezzare i figli ed educarli nella fede cattolica. C’è, poi, un altro problema, legato alla concezione del matrimonio come sacramento soltanto per i cattolici, non per i protestanti. Quest’ultimi, dunque, non credono nell’indissolubilità del matrimonio, proprio perché non credono che esso sia anche un mistero di unione degli sposi con Cristo, pertanto, ammettono il divorzio e le seconde nozze. Per i cattolici, invece, nel matrimonio, Cristo stringe un’alleanza con gli sposi per sua natura irrevocabile, che dura, quindi, fino alla morte di uno dei due coniugi. Sono questioni rilevanti, che richiedono una pastorale dedicata.



Gli sposi con disparità di culto sono le unioni tra un coniuge cristiano con un non cristiano. È impossibile analizzare in dettaglio i problemi specifici relativi alle unioni, per esempio, con un induista, un buddista, uno scintoista. Sono, però, tantissimi e, spesso, insuperabili, indagati e compresi in studi e ricerche a cura delle Conferenze episcopali dei Paesi in cui si riscontra maggiormente il fenomeno oppure delle istituzioni accademiche (come l’Istituto pontificio di studi su Matrimonio e Famiglia “Giovanni Paolo II”). Più diffusi sono, invece, in Europa, in Africa, in Medio Oriente e in alcuni Paesi dell’Asia, come Indonesia, Malesia e India, i matrimoni tra credenti delle religioni monoteiste, soprattutto tra cattolici e musulmani. È richiesta una dispensa espressa di impedimento affinché il matrimonio sia valido. Per essere concessa, questa autorizzazione presuppone un accordo tra le parti sui fini e sulle proprietà essenziali del matrimonio. La parte cattolica porta a conoscenza dell’altra il proprio impegno a mantenere e vivere la propria fede, battezzare i figli ed educarli nella Chiesa cattolica. Dunque, si vede fin dall’inizio la difficoltà specifica delle unioni islamo-cristiane. La tradizione islamica esige che i figli dei musulmani siano educati nella religione del padre musulmano. In certi paesi, in cui vige la legge islamica, il matrimonio tra cristiani e musulmani è addirittura vietato. Ci sono esperienze positive di matrimoni islamo-cristiani in certi Paesi in cui c’è stata una lunga coabitazione delle due religioni, come in Libano. Tuttavia, perlopiù i problemi sorgono nel tempo, dopo anni di vita coniugale, come conflitto che riguarda l’educazione dei figli, la concezione della donna o semplicemente la differenza di fervore religioso dei due coniugi verso la propria fede.Il rischio, per i cattolici, può essere allora il prevalere dell’indifferentismo religioso, per il il coniuge cristiano si accontenta di rispettare il coniuge musulmano, rinunciando a dare testimonianza visibile della propria fede in Gesù Cristo.

La presenza in Italia di persone appartenenti ad altri popoli, ad altre etnie e ad altre religioni comporta un problema di convivenza e di condivisione di un territorio, oltre che di interazione di usi, di costumi e di culture differenti. Una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, n. 14960, secondo cui non si può accettare il principio di “relativismo culturale” quando viene usato per giustificare condotte violente e contrarie ai principi basilari del rispetto e della collaborazione morale e materiale nell’interesse della famiglia. In particolare, è stato respinto il ricorso di un cittadino marocchino condannato per aver imposto rapporti sessuali alla moglie, già incinta, oltre a far mancare mezzi di sussistenza giornaliera al figlio. L’uomo si è difeso sostenendo che tali condotte costituiscono, nel suo Stato di provenienza, una facoltà, a suo dire, cioè, la sua legge gli consentirebbe un tale comportamento. Secondo i Giudici di legittimità non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in tanti istituti e leggi per quante sono le etnie, è pertanto doveroso condannare comportamenti contrari al nostro ordinamento. Anche il Tribunale di Roma si è pronunciato in merito ad un procedimento di separazione e ha richiamato la sentenza penale di condanna, secondo cui nella famiglia vigeva “un sistema di vita familiare improntato dal coniuge, secondo mentalità e costume, a una metodica di violenza e sopraffazione e all’autoritarismo più assoluto, sia nei confronti della moglie, trattata alla stregua di una proprietà (anche sessualmente), in spregio alla sua personalità ed autonomia, che nei riguardi del figlio, chiamato a rispondere alle pressanti aspettative (anche religiose) del padre e trattato con estrema durezza o noncuranza”. Si tratta di comportamenti che vanno censurati e puniti, che non trovano alcuna giustificazione in appartenenze religiose e che oggi più che mai vanno denunciati e condannati. La presenza di forti flussi di persone provenienti da paesi e culture diversi ci porta ad un’ ulteriore riflessione sulla celebrazione dei matrimoni misti, che talora comportano situazioni di rischio per donne e bambini, costretti nelle maglie di un agire ispirato a culture assai diverse che non possono trovare ingresso nel nostro sistema familiare.



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