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sabato 19 marzo 2016

GLI ZINGARI

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La parola italiana zingaro deriva dal greco medievale tsínganoi, tribù dell'Anatolia. Non è escluso che l'etimo originario sia indo-ario, atzigan. Un'opinione diffusa all'inizio del XX secolo ne faceva risalire l'origine allo stanziamento in Mesopotamia di popolazioni sire, etiopi e nubiane, in seguito alle vittorie dell'imperatore Costantino V, che si sarebbero chiamate Athingan, in seguito disperse dalle invasioni turche.

Zingaro e zingano sono da alcuni autori fatti risalire a Athínganoi, "intoccabili", nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia; essa avrebbe avuto connotazione, secondo molti, negativa (dato che trattasi dello stesso nome dell'infima "casta-non casta" indiana, i paria, da cui proverrebbero, per esempio, i necrofori).

Altri ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini. Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell'Europa.
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione - negativa - che troviamo ancora oggi.

Spesso, per indicare le etnie romaní, vengono usati anche altri nomi meno precisi: ad esempio, in italiano zingari e gitani.

La parola gitano alimentava la leggenda di una loro provenienza dall'Antico Egitto e il mito degli zingari discendenti dal figlio di Abramo e della sua schiava Agar, sulla scorta del fatto che Ismaele, nella Bibbia, viene considerato "colui che camminava con Dio" (Gen. 21,20).

Piero Colacicchi sostiene che nomade, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano "uomini inferiori" poiché pigri, vagabondi, caratterialmente instabili, in contrapposizione a quello dell'uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale.

Rom sta ad indicare una precisa etnia di popolazione romaní, ed è il termine con il quale il non-zingaro, oggi, intende indicare, erroneamente, tutti i gruppi di popolazioni romaní; questi, Kalé, Sinti e Rom ritengono, da parte loro, che il termine "zingaro" sia offensivo.

La popolazione romaní è suddivisa nei seguenti gruppi etnici:

Rom (principalmente presenti in Europa centro e sud-orientale ed in Italia meridionale)
Sinti (presenti in Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Danimarca ed Italia settentrionale), i Manouches in Francia
Kalé (presenti principalmente in Spagna ed in Portogallo)
Romanichals (principalmente presenti nel Regno Unito)
Romanisæl (principalmente presenti in Svezia ed in Norvegia)
Ciascuno di questi gruppi contiene al proprio interno ulteriori suddivisioni.

Pare ormai approvata la teoria che vede il popolo zingaro provenire dal sub-continente indiano per via delle similitudini linguistiche, le caratteristiche somatiche e grazie anche a documenti antichissimi che ne testimoniano la presenza. Ad esempio, la parola "rom" deriva dal termine in sanscrito (un'antica lingua indiana) "domba" che significa "uomo libero"; oppure il termine "sinto" deriva da "Sindh", il nome del fiume Indro, il più lungo del Pakistan.

Bisogna però specificare che, essendo un popolo storicamente portato all'emigrazione, non possiamo parlare di una vera e propria patria d'origine, ma più che altro di luoghi in cui hanno soggiornato per un periodo storico più o meno lungo. Dalla regione indo-pakistana, nell'XI secolo gli zingari si sono spostati seguendo l'Indro, il Tigri, l'Eufrate, il Danubio, l'Elba, il Reno e il Rodano. Le cause di questi spostamenti di massa rimangono sconosciute, anche perché, altro fattore di non poco conto, le testimonianze su questo popolo si trasmettono per via orale ed è dunque molto facile che la realtà dei fatti diventi leggenda, o peggio, pura finzione. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'attribuire la causa di questa emigrazione alle devastanti invasioni del re afghano Mahmud di Ghazna. Giunti prima in Iran e poi in Persia, gli zingari raggiunsero l'Armenia e il Caucaso meridionale, zone di influenza bizantina. Da lì a poco arrivarono in Turchia per giungere nei Balcani, dove si stabilirono definitivamente. È probabilmente da attribuirsi a questa lunga permanenza la credenza popolare che vede gli zingari provenire dai Paesi balcanici. Nei Balcani, gli zingari cominciarono a praticare mestieri che ancora oggi fanno: fabbri, maniscalchi, ferrai, esperti nella lavorazione del metallo, costruttori di armi, ma divennero anche ricercatori d'oro in Transilvania, o importanti musicisti in Ungheria, dove entrarono letteralmente a far parte del folklore locale, soprattutto per i brani eseguiti con il violino.

Tra il XIV e il XV secolo, gli zingari giunsero in Europa occidentale e, in seguito alla battaglia del Kosovo del 1392, dove l'impero ottomano sconfisse l'esercito serbo-cristiano sancendo l'influenza islamica nel territorio, i gitani raggiunsero anche l'Italia seguendo i profughi croati, kosovari, albanesi e greci. Viaggiavano in gruppo, spesso spacciandosi per gente facoltosa proveniente dall'Egitto. Una falsità che però è entrata talmente tanto nell'immaginario collettivo che ancora oggi gli zingari vengono chiamati in Spagna "gitanos" (dal latino "aegyptanus", derivazione di "Aegyptus", cioè "Egitto"), o nel Regno Unito "gypsies".

La convivenza con gli europei fu drammatica. A causa del loro abbigliamento bizzarro, della lingua incomprensibile, del loro vivere di elemosina e per le pratiche di chiaroveggenza, spesso scambiata per stregoneria, le autorità locali emanarono una serie di decreti che penalizzavano e discriminavano la popolazione. In Germania, per esempio, la pena di morte, normalmente riservata agli uomini, venne estesa anche alle donne zingare, oppure, nel 1500, ci fu un provvedimento imperiale che garantiva l'impunità a chiunque avesse ucciso uno di loro. Non andò meglio in Moldavia o in Valacchia, dove divennero servi della gleba. In Spagna, nel 1492 furono condannati all'esilio assieme ai mori e agli ebrei. In Ungheria furono accusati di cannibalismo. In Italia, il primo decreto di espulsione fu emanato a Milano nel 1512 perché accusati di portare la peste.  Insomma, il ripudio e l'odio nei confronti di questa popolazione hanno origini antiche.

Le persecuzioni ebbero fine intorno al XVIII secolo, quando i sovrani illuminati piuttosto che condannarli a morte o all'esilio, cercarono di integrarli con la popolazione del luogo. Questo però significava spogliarli delle loro tradizioni e delle loro usanze. Ad esempio, in Ungheria e Transilvania, dove ormai vivevano da secoli in base alla loro cultura, furono obbligati ad abbandonare la loro lingua per esprimersi esclusivamente nella lingua nazionale. Inoltre, dovevano rinunciare alla loro vita nomade per stabilirsi in appartamenti, esercitare mestieri comuni, non mendicare, andare in chiesa e vestirsi come la popolazione locale. In cambio, il governo distribuiva case, mezzi agricoli e bestiame. L'iniziativa ovviamente fallì.

Abbandonata questa finta filantropia, i diversi Paesi divennero via via più liberali nei loro confronti, tant'è che in Romania, tra il 1855 e il 1856, vennero liberati dalla schiavitù. Da lì in poi, cominciò un'altra ondata migratoria che coinvolse non solo l'Europa, ma anche l'America, Brasile e Argentina in primis.

Tuttavia, dato lo storico odio nei loro confronti, era inevitabile che finissero nel mirino dei nazisti. Circa 500mila morirono in quello che gli zingari chiamano "barò porrajmos", che in lingua romanì significa "il grande genocidio". Considerati non solo come una razza inferiore, ma anche come degli "asociali", i gitani erano talmente discriminati tra i discriminati che ad Auschwitz vivevano in baracche a loro riservate.

Il regime nazista attuò il genocidio della popolazione romaní, uccidendo 250.000 zingari nei campi di sterminio. Altri 250.000 morirono appena catturati oppure durante il trasferimento verso i lager. I Rom ricordano questa tragedia con il termine romaní Porajmos ("devastazione"), analogo a quello con cui si ricorda il più noto sterminio nazista del popolo ebraico, la Shoah ("sterminio") . Dal 2015, il 2 agosto è nell'Unione europea la giornata internazionale per il ricordo del genocidio delle popolazioni romanì.

Oggi gli zingari in Europa si aggirano intorno ai 10-12 milioni. In Paesi come Romania, Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Serbia raggiungono il 5 per cento della popolazione. Tuttavia, è Bucarest ad ospitare il maggior numero di gitani in Europa. I dati sugli zingari in Italia sono piuttosto confusi, tra chi parla persino di 200mila e chi di appena 80mila. Circa l'80 per cento di loro ha la cittadinanza italiana e appena il 20 per cento sarebbe straniero e proveniente per lo più dai Balcani. I due più grandi ceppi si dividono in rom e sinti. I primi si sono insediati soprattutto nell'Italia centro-meridionale, mentre i secondi nel Nord. I sinti storicamente esercitano il mestiere di giostrai (per esempio, Moira Orfei e la sua famiglia sono di origine sinti), ma dato che si tratta di un lavoro "in via di estinzione" si stanno reinventando rottamatori o venditori. Entrambi, sia sinti che rom, sono per lo più cattolici. Difatti, le popolazioni zingare tendono ad adottare la religione del luogo in cui vivono. Questo fa sì che in Italia, ben il 75 per cento di loro è cattolico, il 20 per cento musulmano e il 5 per cento raggruppa ortodossi, pentecostali e testimoni di Geova.

Si tratta di un popolo piuttosto giovane: circa la metà di loro non supera i 18 anni e appena il 3 per cento arriva a oltre i 60. Il tasso di natalità è alto (5-6 bambini a famiglia), così come lo è quello di mortalità. Il matrimonio, in genere, avviene in giovane età ed è regolato da usanze e tradizioni che variano in base all'etnia di appartenenza. Difatti, per i sinti avviene tramite la fuga, cioè i due ragazzi vivono per qualche giorno da alcuni parenti; mentre per i rom la famiglia dello sposo "compra" la sposa, cioè corrisponde una cifra in denaro alla famiglia della giovane come una sorta di risarcimento. Ad ogni modo i matrimoni non sono regolati da rigide norme sociali, tant'è che possono sposarsi anche persone appartenenti ad etnie diverse.

La lingua delle popolazioni gitane, al giorno d'oggi parlata unicamente dai Rom e dai Sinti, è il romaní, un idioma indoeuropeo facente parte del gruppo delle lingue indoarie.

Sebbene non esista uno schema generale della struttura sociale valido per tutte le etnie, si può affermare che fra gli zingari non esistano le classi sociali come si intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quella tra i sessi (maschi - femmine) e quella basata sull'età (giovane - anziano).

Inoltre in primo luogo per lo zingaro conta la famiglia, e precisamente marito, moglie e figli. Al di là del nucleo famigliare vi è la famiglia estesa, che comprende i parenti, con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. Poi esiste la kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie estese non necessariamente unite da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo ed anche allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini.



La nascita e la morte sono considerati eventi impuri. Nella popolazione romaní l'ospedale, il medico, il prete ricordano la morte e pertanto i contatti con loro devono essere ridotti al minimo. La donna mestruata e la puerpera sono fonte di impurità e non possono fare vita pubblica o lavare i propri panni insieme a quelli degli altri. Nei rom "vla" (originari della Valacchia), presso i quali il concetto di impurità è più radicato, durante la gravidanza e per quaranta giorni successivi al parto alla neo-mamma non è consentito di svolgere alcuna attività (ad esempio cucinare). Al termine del periodo di purificazione, i vestiti indossati, il letto, i piatti, i bicchieri e gli altri oggetti adoperati dalla puerpera sono distrutti o bruciati.

Il culto dei morti è molto sentito ed è diffusa la convinzione che il morto, se non debitamente onorato, possa riapparire in forma di animale o di uomo per vendicarsi.

In Italia la popolazione romaní si divide in:
Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui:
Rom harvati: 7.000 giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo.
Rom lovari: 1.000, che si occupano principalmente dell'allevamento di cavalli (la parola viene dall'ungherese ló, che significa appunto cavallo).
Rom balcanici: 70.000
Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche, bassissimo è il tasso d'impiego degli adulti.
Khorakhanè ("lettori del Corano"): caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all'estate del 1993, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia
Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria.
Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Pescara, Genova, ma si stanno espandendo nel resto d'Italia.
30.000 nel Sud Italia, distinguibili in:
Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia al seguito dei profughi arbëreshë dall'Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanì mescolato ai dialetti locali e praticano l'allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnìa). Diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal Novecento
Rom napoletani (napulengre), ben integrati, fino agli anni settanta si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti.
Rom cilentani: 800 residenti ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione
Rom pugliesi, si dedicano in maggioranza all'agricoltura ed all'allevamento di cavalli (alcuni di loro gestiscono macellerie equine)
Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna
Camminanti siciliani
Sinti: 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e un tempo occupati principalmente come giostrai, mestiere che però sta scomparendo e che li costringe a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai.

A differenza di quanto si pensi, non tutti sono nomadi, anzi. Molti vivono in appartamenti e perfettamente integrati con la comunità locale, soprattutto da quando le loro storiche professioni, che li portavano a girovagare continuamente, stanno venendo meno. Ma il pregiudizio rimane, tant'è che nel rapporto sull'Italia della Commissione europea contro il Razzismo e l'Intolleranza (Ecri), Bruxelles ha invitato Roma ad abbandonare "il falso presupposto che rom e sinti siano nomadi" dato che, in base a tale idea, viene attuata "una politica di segregazione dal resto della società" con l'installazione dei "campi nomadi" nati per ospitare solo temporaneamente queste popolazioni e spesso sforniti dei servizi più basilari.

Ma non è solo l'Italia a guardare con disprezzo gli zingari. Anche negli altri Paesi i pregiudizi e la discriminazione persistono, sintomo che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure a morire.

Nel 2005 e nel 2006 il razzismo nei confronti delle popolazioni gitane è diventato oggetto di attenzione a livello europeo, con l'adozione di una risoluzione del Parlamento europeo, il primo testo ufficiale che parla di antiziganismo. Le conferenze internazionali OSCE/EU/CoE di Varsavia (ottobre 2005) e Bucarest (maggio 2006), hanno confermato il termine «anti-Gypsyism» a livello internazionale.  Dal 2008 l'Unione europea ha inaugurato una Strategia europea per i rom.


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venerdì 27 febbraio 2015

BINARIO 21 :PER NON DIMENTICARE

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Il Memoriale della Shoah, situato sotto la stazione di Milano Centrale, a piano strada, di fronte al palazzo delle ex Regie Poste, è un'area museale nata con lo scopo di «realizzare un luogo di memoria e un luogo di dialogo e incontro tra religioni, etnie e culture diverse» che si estende su una superficie di 7.060 m2, per la maggior parte al piano terreno. Dal cosiddetto binario 21 dove erano caricati e scaricati i treni postali, centinaia di ebrei e deportati politici venivano caricati su vagoni bestiame diretti ai campi di Auschwitz–Birkenau, Mauthausen, Bergen Belsen, Fossoli e Bolzano. Il memoriale, promosso dalla Fondazione Memoriale delle Shoah, presieduta da Ferruccio De Bortoli,è stato inaugurato il 27 gennaio 2013.

« Il ricordo è protezione dalle suggestioni ideologiche, dalle ondate di odio e sospetti. La memoria è il vaccino culturale che ci rende immuni dai batteri dell’antisemitismo e del razzismo. »
(Ferruccio De Bortoli, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah)

« Ricordare significa rompere l’indifferenza: la memoria è necessaria perché gli orrori del passato non debbano più riaffacciarsi in una società civile - Ciò che i nazisti vollero nascondere, noi lo apriamo a tutti »
(Giuliano Pisapia, sindaco di Milano)
Nelle intenzioni della Fondazione «il Memoriale non è pensato per essere un Museo, ma rappresenta un laboratorio del presente e vuole configurarsi come un luogo dell'intera comunità civile, della costrizione di memoria collettiva e di consapevolezza individuale»

Oltre a rappresentare un luogo fisico che ricordi i deportati e i loro viaggi verso i campi di smistamento, concentramento e sterminio del nazismo, il Memoriale è «un luogo di studio, ricerca e confronto» per questa e per le prossime generazioni.

Il Memoriale ad avviso degli ideatori deve essere «un laboratorio» che prevede studi, mostre temporanee e approfondimenti sulla Shoah, un centro che educhi alla convivenza e allo stesso tempo alla condanna di quella che Antonio Gramsci ha definito come «il peso morto della storia»: l'indifferenza.

Lo scopo del progetto secondo il sito ufficiale della Fondazione del memoriale della Shoah è il seguente: «il progetto nasce con l’obiettivo di realizzare – nello stesso luogo in cui ebbe inizio a Milano l’orrore della Shoah – uno spazio che non solo ci "ricordi di ricordare", rendendo omaggio alle vittime dello sterminio, ma che rappresenti anche un contesto vivo e dialettico in cui rielaborare attivamente la tragedia della Shoah. Un luogo di commemorazione, quindi, ma anche uno spazio per costruire il futuro e favorire la convivenza civile.»

Il Memoriale è posto su due piani, uno terreno e l'altro interrato, e occupa un totale di 7.060 m2. Il luogo è sotto il piano dei binari della stazione ferroviaria di Milano.

L'accesso è a livello della strada in via Ferrante Aporti, rinominata in quel tratto piazza Edmond J. Safra in onore del filantropo di origine ebraica. La fondazione omonima intestata a Safra è stata tra i principali finanziatori della costruzione del memoriale. Paragonabile ai pochi luoghi "reali" delle atrocità naziste ancora esistenti in Europa, il luogo del memoriale e l'adiacente binario conosciuto come 21, sono stati definiti "un grande reperto", una sorta di "scavo archeologico".

Il progetto per la realizzazione del Memoriale della Shoah nasce nel 2002, ideato dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), dall’Associazione Figli della Shoah e dalla Comunità Ebraica di Milano, dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e dalla Comunità di Sant'Egidio.

L’idea iniziale si trasforma presto in un progetto più ampio che affianca ad una struttura commemorativa un "laboratorio" in cui rielaborare la tragedia della violenza nazista. Dai 5.000 m2 del progetto iniziale si arriva a prevedere nel 2008 uno spazio di 7.060 m2. La scelta della stazione Centrale deriva dall’obiettivo di riportare alle memoria, l’unico luogo in Europa che è rimasto intatto tra quelli che sono stati teatro delle deportazioni.

Nel 2004 viene elaborato il progetto preliminare degli architetti Guido Morpurgo e Eugenio Gentili Tedeschi. Esso viene presentato nel novembre dello stesso anno a Grandi Stazioni, società che ha in concessione la Stazione Centrale di Milano, e nel luglio 2005 alla Presidenza della Repubblica.

Nel 2007 nasce la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Onlus, presieduta da Ferruccio de Bortoli e dai soci fondatori, che secondo l'articolo 8 dello statuto sono: l’Associazione Figli della Shoah, il CDEC, la Comunità Ebraica di Milano, l'UCEI, la Regione Lombardia, la Provincia di Milano, il Comune di Milano, le Ferrovie dello Stato Italiane e la Comunità di Sant'Egidio. Il progetto viene interamente rielaborato ed ampliato da Morpurgo e da Annalisa de Curtis e nel settembre 2008 viene presentata pubblicamente una nuova versione in occasione dell’accordo siglato tra Ferrovie dello Stato e Fondazione Memoriale della Shoah per la cessione delle aree.

Il 26 gennaio 2010 ha avuto luogo la cerimonia di posa della prima pietra.

A fine dicembre 2010, ultimata la realizzazione degli uffici, delle opere strutturali della biblioteca e il restauro delle superfici originarie, i lavori vengono interrotti per mancanza di fondi e la Fondazione avvia una campagna di sensibilizzazione e raccolta di donazioni per proseguire il progetto, a cui prestano i loro volti Ferruccio de Bortoli ed Enrico Mentana.

Il 26 gennaio 2012 la cittadinanza milanese partecipa ad una maratona pubblica di letture relative ai drammi della discriminazione, della deportazione e del genocidio, a cui partecipano diversi personaggi noti della cultura e dello spettacolo.

A fine 2012 il comune meneghino approva la riqualificazione del tratto di via Ferrante Aporti antistante il memoriale, che prende il nome di piazza Edmond J. Safra, in seguito al consistente finanziamento del memoriale da parte dell'omonima fondazione, che contribuisce alla riqualificazione dell’area, alla sicurezza e fruibilità del Memoriale.

Il 27 gennaio 2012 il “cuore” del memoriale, ovvero l’area dedicata alla testimonianza degli eventi, si apre alle visite di scolaresche milanesi e nazionali.

La cerimonia è stata condotta da Ferruccio de Bortoli e Roberto Jarach, presidente e vicepresidente della Fondazione, con la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti e gli interventi del cardinale Angelo Scola, dei rabbini Alfonso Arbib e Giuseppe Laras, del Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, del Ministro Andrea Riccardi, del presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, del presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni e dell’Amministratore Delegato del Gruppo Ferrovie Italiane Mauro Moretti. L'intervento finale è stato quello di Liliana Segre, una sopravvissuta che partì proprio da quel luogo, che raccontò la sua storia: aveva 13 anni e partì con il convoglio del 30 gennaio 1944 assieme ad altri 605 ebrei. Di quel gran numero di deportati, fecero ritorno solo 22 persone.

Il sito è stato riportato al suo aspetto originario, demolendo tutti gli elementi aggiunti nel dopoguerra e rendendo le superfici delle strutture portanti in cemento a vista come una volta, senza colorazioni o interventi di revisione estetica degli originari difetti di esecuzione e dei segni del tempo.

La struttura si articola su due aree principali: "il Memoriale", zona dedicata alla testimonianza degli eventi, e "il Laboratorio della Memoria", sistema di spazi dedicati allo studio, alla ricerca e alla documentazione, all’incontro e al dialogo. Il percorso ha inizio con la "Sala delle testimonianze", riempita dalle voci dei sopravvissuti, prosegue con lo spazio di manovra dei vagoni, chiamato "Binario della Destinazione ignota" e si conclude con il "Muro dei Nomi", emblema del ricorso del dramma della Shoah.

L’area del Memoriale rappresenta il cuore del progetto e inizia con l’atrio del Memoriale, ingresso originario alle aree di manovra in cui nel 1944 entravano i camion che trasportavano i deportati.

Sull’atrio si nota un lungo muro, lacerato al centro, sul quale vi è incisa la scritta "INDIFFERENZA", che secondo Liliana Segre, ha consentito la Shoah. Una lunga rampa compensa il dislivello dell’area offrendo una continuità tra le sezioni della struttura.

Proseguendo verso l’interno, si incontra uno spazio dedicato alle mostre temporanee e all’accoglienza dei visitatori, che comprende un’area guardaroba e un punto informazioni.

"L’Osservatorio" è un elemento di forma tronco-conica che si affaccia all’interno dell’area dei binari, consentendo l’osservazione attraverso un sistema di vetri e lenti di una parte dell’area. È attualmente dotato di sei postazioni di ricerca individuale, da cui poter consultare un monitor con sistema acustico in cuffia.

Il "Monolite", una sorta di prisma sospeso lungo circa 14 metri, è un primo richiamo storico alla tragedia della Shoah, nel quale vengono proiettati video interattivi tramite funzioni touch screen.

Segue la "Sala delle Testimonianze", sette ambienti nei quali è possibile assistere alle testimonianze video-registrate dei sopravvissuti: si tratta di una serie di superfici di proiezione e sette spazi virtualmente cubici da cui si può vedere la banchina in cui avvenivano le deportazioni.

Lo spazio della quarta campata ospita il "Binario della Destinazione ignota", banchina originariamente utilizzata per il carico e scarico dei vagoni postali: attraverso un carrello traslatore e uno montavagoni avveniva il sollevamento dei carri al livello del piano dei binari.

Sulla banchina vi sono venti targhe con le date e le destinazioni dei convogli partiti da Milano verso i campi di sterminio e quelli di transito italiani di Fossoli e Bolzano.

Da qui i visitatori possono attraversare due dei quattro vagoni bestiame originali dell’epoca recuperati da varie località e restaurati dalla sezione di Milano del Collegio degli Ingegneri Ferroviari Italiani e accedere così alla successiva banchina, raggiungibile anche grazie a due passerelle situate alle estremità del convoglio.

Lungo la seconda banchina è posizionato il "Muro dei Nomi", sul quale si leggono i nomi di tutti coloro che furono deportati dalla Stazione Centrale di Milano verso i campi di sterminio, con l’indicazione dei sopravvissuti.

Dalla prima banchina si accede con una scala al "Luogo di Riflessione", una sala a forma tronco-conica con diametro di circa 10 metri con una panca circolare sul perimetro, che consente il raccoglimento dei visitatori. Non vi sono simboli religiosi, ma vi è una luce diretta verso Gerusalemme.

Questo luogo rappresenta il collegamento tra le due aree del "Memoriale" e del "Laboratorio della Memoria". Da qui il visitatore accede alla biblioteca e agli altri spazi del Laboratorio, per rielaborare la memoria dopo averla percepita.

Il cosiddetto binario 21 è un'installazione della memoria di Milano collegato alla Shoah e alle persecuzioni di cittadini italiani, di origine ebraica, perpetrate durante la seconda guerra mondiale per mano nazifascista in esecuzione delle leggi razziali fasciste del 1938. Dal "binario 21" partirono anche diverse centinaia prigionieri politici antifascisti reclusi nel carcere di San Vittore di Milano.

Fu da tale binario ferroviario, parte dell'insieme di binari merci della stazione di Milano Centrale - che il 30 gennaio 1944 circa 650 ebrei tenuti in prigionia nel carcere di San Vittore vennero avviati ai campi di Auschwitz-Birkenau, solo ventidue riusciranno a tornare vivi dal lager. Altri 14 convogli partirono anche per i campi di Mauthausen, Bergen Belsen, Fossoli e Bolzano. Secondo i siti ufficiali della Fondazione del Memoriale della Shoah e delle Ferrovie dello Stato Italiane il cosiddetto binario 21 sarebbe l'unico luogo rimasto intatto nell'Europa teatro delle deportazioni, sebbene centinaia di scali analoghi furono usati in tutta Europa e non esista una statistica sul loro effettivo stato di conservazione.

I deportati vennero trasferiti su camion telati fino ai sotterranei della centrale, con accesso da via Ferrante Aporti. Tra di loro vi erano più di 40 bambini, tra cui Sissel Vogelman di 8 anni, Liliana Segre di 13 anni e Goti Herskovits Bauer di 14 anni, sopravvissute. La più anziana era Esmeralda Dina, di 88 anni.

Un precedente trasferimento di circa 250 ebrei verso il campo di concentramento si era avuto il 6 dicembre 1943; un ulteriore invio si sarebbe poi avuto nel maggio del 1944.

L' elevatore del binario 21 a piano strada del Memoriale. Con questo elevatore venivano scaricati dai binari di superficie i vagoni merci vuoti. Una volta che i deportati venivano "caricati" a bordo, l'elevatore provvedeva a ristabilire sui binari di superficie i vagoni carichi per iniziare i viaggi verso i campi di concentramento
La base per la scelta logistica del binario 21 era il fascio merci posto al piano stradale della stazione di Milano Centrale, che i tedeschi utilizzarono per la deportazione di massa per il fatto che i cittadini milanesi ed i passeggeri, non potevano vedere nulla.

I binari della stazione utilizzati in servizio passeggeri sono posti a quota più alta rispetto al piano stradale, mentre all'interno della struttura sottostante era presente un fascio di binari accessorio posto al piano stradale, posto in comunicazione con i binari di superficie attraverso un caratteristico sistema di montacarri, uno per ciascun binario del fascio sotterraneo.

Su tali binari sotterranei venivano pre-stivati i vagoni, una volta riempito di persone (da 60 a 100 persone) a comporre i tristemente famosi treni di deportati.

Per l'installazione chiamata binario 21 è stato utilizzato uno dei citati binari a piano strada ed è stato mantenuto il relativo elevatore, mentre gli altri analoghi impianti furono eliminati nei primi anni duemila.

Negli anni 1940 nella centralissima via Silvio Pellico a Milano, nelle strette vicinanze del duomo, c'era un albergo molto elegante che fu requisito dai nazisti per stabilirne il loro quartier generale, era l'albergo "Regina & Metropoli", oggi non più esistente.Il "Regina" fu la sede delle SS e della Gestapo e «fu trasformato in centro di sequestri, interrogatori e tortura per antifascisti e per semplici cittadini non appartenenti a nessuna organizzazione resistenziale». Da questo luogo furono organizzati tutti i viaggi di deportazione dal binario 21 sotto il comando del capitano Theodor Saevecke (soprannominato in seguito il boia di Piazzale Loreto). Saevecke fu repressore dei partigiani e cacciatore di ebrei.

Lo scrittore Elio Vittorini, nel suo romanzo sulla resistenza Uomini e no, racconta che l'albergo Regina venne trasformato esternamente in una fortezza. Fu circondato da filo spinato e illuminato di notte con potenti cellule fotoelettriche e furono costruite diverse casematte in cemento armato. L'albergo durante gli anni dell'insediamento nazista venne preso più volte di mira da veri e propri commandos partigiani.

I molti prigionieri politici che furono arrestati e poi interrogati e torturati nella sede dell'albergo Regina, venivano poi o rinchiusi nel carcere di San Vittore in attesa di essere trasferiti al binario 21 della Stazione di Milano Centrale o avviati direttamente al triste binario per essere deportati. Il saggista G. Marco Cavallarin in una sua opera rileva infatti che «dal mattatoio dell'albergo Regina i catturati (ebrei, partigiani, antifascisti, sospettati, ecc.) venivano avviati al carcere di San Vittore, in alcuni casi direttamente ai trasporti dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano per essere deportati. Una struttura quindi molto simile a quella di Via Tasso, a quella torinese dell'albergo Nazionale, a quella parigina dell'Hotel Lutetia»

L'epigrafe di una targa commemorativa posta nel Giorno della Memoria del 2010 nel luogo dove sorgeva l'albergo Regina, ora sede di uffici finanziari, recita:

« Qui, dove era l'albergo Regina, si insediò il 13 settembre 1943 il quartier generale nazista delle SS a Milano. Qui furono reclusi, torturati, assassinati, avviati ai campi di concentramento e di sterminio, antifascisti, resistenti, esseri umani di cui il fascismo e il nazismo avevano deciso il sistematico annientamento. Una petizione popolare ha voluto questa lapide per la memoria del passato, la comprensione del presente, la difesa della democrazia e il rispetto dell'umanità. »
(27 gennaio 2010 - Giorno della Memoria, 65 anni dopo la liberazione dell'albergo Regina)

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venerdì 6 febbraio 2015

LE FOIBE - Per non dimenticare -




Il giorno del ricordo.
Con la Legge 92 del 30 marzo 2004 in Italia è stato istituito nella giornata del 10 febbraio di ogni anno il "Giorno del ricordo", in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata.


Con l'espressione massacri delle foibe, o spesso solo foibe, si intendono gli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, occorsi durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici dove furono gettati molti dei corpi delle vittime, che nella Venezia Giulia sono chiamati, appunto, "foibe".

Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi.

Il fenomeno dei massacri delle foibe è da inquadrare storicamente nell'ambito della secolare disputa fra italiani e popoli slavi per il possesso delle terre dell'Adriatico orientale, nelle lotte intestine fra i diversi popoli che vivevano in quell'area e nelle grandi ondate epurative jugoslave del dopoguerra, che colpirono centinaia di migliaia di persone in un paese nel quale, con il crollo della dittatura fascista, andava imponendosi quella di stampo filo-sovietico, con mire sui territori di diversi paesi confinanti.
Gli eccidi delle foibe ed il successivo esodo costituiscono l'epilogo di una secolare lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (prevalentemente croate e slovene, ma anche serbe) e italiane. Tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio e che fu legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori etnicamente misti.

Nonostante la ricerca scientifica abbia, fin dagli anni novanta del XX secolo, sufficientemente chiarito gli avvenimenti, la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione permane distorta ed oggetto di confuse polemiche politiche, che ingigantiscono o sminuiscono i fatti a seconda della convenienza ideologica.

L'8 settembre 1943 con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verifica il collasso del Regio Esercito. Fin dal 9 settembre le truppe tedesche assunsero il controllo di Trieste e successivamente di Pola e di Fiume, lasciando momentaneamente sguarnito il resto della Venezia Giulia. I partigiani occuparono quindi buona parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria. Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita. Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 400-600 persone. Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste sono Norma Cossetto, don Angelo Tarticchio, le tre sorelle Radecchi. Norma Cossetto ha ricevuto il riconoscimento della medaglia d'oro al valor civile.
Le prime ispezioni delle foibe istriane, che furono disposte immediatamente dopo il ripiegamento dei partigiani conseguente alla successiva invasione nazista, consentirono il rinvenimento di centinaia di corpi.

Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria.

La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall'altro lato la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.

Il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato ed in altri centri dalmati entravano i partigiani jugoslavi. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie ed alcuni civili.

La Dalmazia fu occupata militarmente dai tedeschi, dalla 7. SS-Gebirgsdivision "Prinz Eugen". La 77ª divisione fanteria italiana Bergamo, di stanza a Spalato e precedentemente impegnata per anni proprio nella lotta antipartigiana, in quel frangente appoggiò in massima parte i partigiani e combatté in condizioni psicologiche e materiali difficilissime contro le truppe germaniche, fra le quali la sopra citata divisione Prinz Eugen, nonostante l'atteggiamento aggressivo e poco collaborativo dei partigiani titini. Dopo la capitolazione ordinata dal comandante, generale Becuzzi, molti ufficiali italiani furono passati per le armi ad opera di elementi delle truppe germaniche, in quello che è noto come il massacro di Treglia. La Dalmazia fu annessa allo Stato Indipendente di Croazia. Tuttavia Zara, restò - seppur sotto il controllo tedesco - sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava dell'ottobre 1944

A seguito dell'armistizio di Cassibile i tedeschi lanciarono l'Operazione Nubifragio, con l'obbiettivo di assumere il controllo della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e dell'Istria.

L'offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943 e portò all'annientamento della resistenza opposta da parte di nuclei partigiani, che furono decimati, catturati, costretti alla fuga o dispersi. I partigiani cercarono di ostacolare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati: questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi.

Uno dei momenti più significativi sul territorio italiano fu la battaglia di Gorizia combattuta fra i giorni 11 e 26 settembre 1943 tra l'esercito tedesco e la Brigata Proletaria, un raggruppamento partigiano forte di circa 1500 uomini, costituito in massima parte da operai dei Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone rafforzato da un consistente gruppo di partigiani sloveni.

L'Operazione Nubifragio si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno.

Gli occupatori germanici costituirono nell'area occupata la Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland). Questa, pur essendo ufficialmente parte della R.S.I. era sottoposta all'amministrazione militare tedesca e di fatto, annessa al Terzo Reich.
Ludwig Kübler era il comandante militare della regione (il suo quartier generale si trovava a Spessa, presso Cormons), che si avvalse della collaborazione di reparti quali la Milizia Difesa Territoriale (il nuovo nome per la Guardia Nazionale Repubblicana nell'OZAK), la polizia di Pubblica Sicurezza (di cui fece parte la Banda Collotti), la Guardia Civica, due reparti regolari dell'esercito della RSI (Battaglione bersaglieri Mussolini e Reggimento Alpini Tagliamento), la Xª Flottiglia MAS (dal novembre '44 al febbraio '45), le Brigate nere, i battaglioni italiani volontari di polizia, la polizia tedesca e vari reparti sloveni, croati, serbi e cosacco caucasici.

Dal settembre 1943 all'aprile 1945 si susseguirono le repressioni nazifasciste che portarono la provincia di Gorizia ad essere la prima in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti.
Terribile fu la sorte di Zara, ridotta in rovine dai bombardamenti aerei anglo-americani, che causarono la morte di alcune migliaia di civili (da 2 a 4.000) e contribuirono alla fuga di quasi il 75% dei suoi abitanti. Alla fine di ottobre 1944 anche l'esercito tedesco e la maggior parte dell'amministrazione civile italiana abbandonarono la città.

La città fu occupata dagli Jugoslavi il 1º novembre 1944: si stima che il totale delle persone soppresse dai partigiani in pochi mesi sia di circa 180. Fra gli altri furono uccisi i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo (industriali, produttori del celebre liquore maraschino): secondo alcune testimonianze Nicolò fu annegato in mare. Quella dell'annegamento in mare legati a macigni è una pratica di cui sono state date varie testimonianze, tanto da divenire nell'immaginario popolare la "tipica" modalità di esecuzione delle vittime zaratine, similmente alle foibe in Venezia Giulia.

Nella primavera del 1945 gli jugoslavi crearono una nuova Armata – la IV, al comando del giovane generale Petar Drapšin – col compito di puntare verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'ordine era di occupare la Venezia Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni in quella che venne in seguito chiamata corsa per Trieste. Tale obiettivo divenne primario per l'Armata popolare di liberazione della Jugoslavia: il 20 aprile 1945 la IV armata jugoslava entrò nella Venezia Giulia e assieme alle unità del IX Korpus sloveno, ivi già operanti dal dicembre 1943, tra il 30 aprile ed il 1º maggio dilagò nel Carso e nell'Istria, occupando Trieste e Gorizia (1º maggio), Fiume (3 maggio) e Pola (5 maggio), all'incirca una settimana prima della stessa liberazione di Lubiana e Zagabria. Ciò corrispondeva alla volontà di Tito di creare il "fatto compiuto" sul terreno, determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia, invadendo l'Italia nord-orientale fino al fiume Tagliamento, mentre la sovranità sulle capitali di Slovenia e Croazia non era in discussione. Allo stesso modo, gli jugoslavi entrarono in forze nella Carinzia austriaca, già oggetto di rivendicazioni al termine della Prima guerra mondiale.

Il nuovo regime si mosse nella Venezia Giulia in due direzioni. Le autorità militari avevano il mandato di ristabilire la legittimità della nuova situazione creatasi con operazioni militari di occupazione. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava, invece, operava nella più totale autonomia. Il compito della stessa era quello di arrestare i componenti del CLN e delle altre organizzazioni antifasciste italiane nonché tutti coloro che avrebbero potuto opporsi alla futura annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, rivendicando l'appartenenza della stessa all'Italia.

Dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume il potere venne assunto dalle forze partigiane jugoslave; tale periodo fu funestato da arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive. A Gorizia, Trieste e Pola le violenze cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, ed il 20 giugno a Pola; invece a Fiume, semplicemente, gli alleati non giunsero mai, e le persecuzioni continuarono imperterrite.
I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista Jugoslavo di Tito.

Di nuovo si verificarono uccisioni efferate, come quella dei democristiani Carlo Dell'Antonio e Romano Meneghello e di don Francesco Bonifacio, torturato e quindi assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato); ritenuto martire in odium fidei dalla Chiesa, è stato beatificato nel 2008.

Tra altri politici di riferimento del CLN, si segnalano i casi di Augusto Bergera e Luigi Podestà - che restano due anni in campo di concentramento jugoslavo - e quelli del socialista Carlo Schiffrer e dell'azionista Michele Miani, che miracolosamente riescono ad aver salva la vita.

Gli scritti dell'allora sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, nonché alcuni documenti inglesi riportano che molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali riferendosi alla sola città di Trieste e alle zone limitrofe, non includendo dunque il resto della Giulia, dell'Istria (dove si è registrata la maggioranza dei casi) e della Dalmazia. In possesso di queste informazioni il Governo De Gasperi nel maggio 1945 chiese ragione a Tito di 2.500 morti e 7.500 scomparsi nella Venezia Giulia. Tito confermò l'esistenza delle foibe come occultamento di cadaveri e i governi jugoslavi successivi mai smentirono.

Un controverso studio svolto dalla giornalista Claudia Cernigoi, stima 517 vittime triestine, di cui 412 apparterrebbero a formazioni militari, paramilitari o di polizia, poste al servizio delle autorità germaniche dell'OZAK (tra cui la Milizia Difesa Territoriale, l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, formazioni della X^ MAS, Brigate Nere, formazioni squadriste), e che una consistente parte di esse (almeno 79), non erano state infoibate ma decedute a Borovnica o in altri campi di prigionia militari jugoslavi
Con l'arrivo dell'Armata Popolare Jugoslava anche a Gorizia iniziarono le repressioni che toccarono l'apice fra il 2 e il 20 maggio. Migliaia furono gli arresti e gli scomparsi non solo tra gli italiani, ma anche tra gli sloveni che si opponevano al regime comunista di Tito.

Fra le vittime si ricordano alcuni esponenti politici locali di riferimento del CLN: Licurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione, che non si sa ancora quando fu ucciso e se il suo cadavere fu infoibato.

Le autorità slovene a marzo del 2006 hanno consegnato al sindaco di Gorizia un elenco di 1.048 deportati dalla provincia di Gorizia, dei quali circa 900 non hanno fatto più ritorno; di questi circa 470 appartenevano a forze di ordine pubblico e formazioni militari italiane postesi al servizio degli occupatori tedeschi, circa 250 erano civili giuliani, 70 civili originari di altre province italiane e circa 110 sloveni collaborazionisti o presunti tali. Secondo il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, questa lista sarebbe ancora grandemente incompleta.

Fiume fu occupata il 3 maggio dagli jugoslavi che avviarono immediatamente un'intensa campagna di epurazione, formalmente giustificata con la scusante retorica della "persecuzione degli occupatori nazifascisti e dei loro sostenitori": tuttavia nel calderone degli "occupatori nazifascisti" oltre ai militari tedeschi e ai militari e funzionari italiani della RSI, vennero inseriti anche i reali o potenziali oppositori all'annessionismo jugoslavo e al costituendo regime comunista.

Gli agenti dell'OZNA deportarono 65 guardie di pubblica sicurezza e agenti della questura, 34 guardie di finanza e una decina di carabinieri; alcuni esponenti compromessi con il regime fascista furono invece uccisi sul posto. Tra gli esponenti più in vista del PNF furono uccisi i senatori fiumani Icilio Bacci e Riccardo Gigante (podestà di Fiume dal 1930 al 1934), che non si erano macchiati di crimini. Nell'ambito della caccia agli esponenti politici italiani vennero uccisi - fra gli altri - gli ex podestà Carlo Colussi (in carica dal 1934 al 1938, venne eliminato con la moglie Nerina Copetti) e Gino Sirola (podestà dal 1943 al 1945). In anni recenti vicino alla località di Castua è stata individuata la fossa dove riposano i resti di Gigante, ma risulta difficile il loro recupero.

Particolarmente violenta fu anche la caccia ai superstiti del Partito Autonomista Fiumano, particolarmente forte in città, che era visto come un potenziale ostacolo all'annessione della città alla Jugoslavia. Il quotidiano comunista La Voce del Popolo scatenò una violentissima campagna di denuncia contro gli autonomisti, che vennero equiparati ai fascisti. I partigiani uccisero nelle prime ore di occupazione della città i vecchi capi del partito, dei quali una buona parte era schiettamente antifascista. Fra questi Mario Blasich (infermo da anni, venne strangolato nel suo letto), Giuseppe Sincich (prelevato dalla sua casa e abbattuto a raffiche di mitra), Mario Skull (ucciso a colpi di pistola), Giovanni Baucer, Mario De Hajnal e Giovanni Rubinich che fu fondatore del Movimento Autonomista Liburnico. Toccante fu la storia dell'ebreo Angelo Adam. Già deportato a Dachau e miracolosamente salvatosi, al ritorno in città venne eletto nei comitati sindacali aziendali, che fra i mesi di luglio e dicembre 1945 videro impegnate le intere maestranze cittadine, su impulso del Partito Comunista Croato. Inaspettatamente, queste elezioni videro il trionfo delle componenti autonomiste, che ottennero oltre il 70% dei seggi. In procinto di partire per Milano per incontrare i componenti del CLNAI, Angelo Adam venne arrestato, così come in immediata successione la moglie Ernesta Stefancich e il giorno dopo la figlia minorenne Zulema Adam, recatasi presso le autorità per chiedere informazioni sulla sorte dei genitori. Di nessuno dei tre si ebbero più notizie.

La persecuzione colpì anche gli esponenti dei CLN, secondo una linea ampiamente usata anche a Trieste e Gorizia. Numerosi furono nelle tre città gli arresti e le deportazioni di antifascisti, dei quali solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione. Ancora nel 1946 - assai dopo le esplosioni di "jacquerie" - risulteranno comminate condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN.

Il numero di italiani sicuramente uccisi dall'entrata nella città di Fiume delle truppe jugoslave (3 maggio 1945) fino al 31 dicembre 1947 è di 652, a cui va aggiunto un altro numero di vittime non esattamente identificabile per mancanza di riscontri certi.

Contemporaneamente agli omicidi, le autorità comuniste jugoslave misero in campo una serie di provvedimenti per la soppressione di tutti gli enti pubblici ed assistenziali italiani, nonché circa duemila ordinanze di sequestro e confisca di beni privati. Il tutto abbinato ad una serie di violente azioni antireligiose, quali la soppressione delle festività scolastiche in occasione del Natale: l'astensione volontaria di massa dalle lezioni che ebbe luogo il 25 dicembre 1945 venne considerata quindi "attività sovversiva e antipopolare" e sottoposta a dura repressione.

Assieme a queste misure, fin dai primi mesi di occupazione jugoslava vennero contestualmente disattese le promesse di mantenimento del bilinguismo italiano-croato, essendo pure tradizionalmente considerata la componente italiana fiumana in massima parte come "croati di lingua italiana", e quindi da indirizzare forzatamente verso la propria originaria lingua nazionale.

Cause
« ....già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono "giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento" della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica". »
(Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della celebrazione del "Giorno del ricordo". Roma, 10 febbraio 2007)
La qualificazione delle concause e dei fattori che possono essere alla base dei massacri delle foibe è un'operazione senza dubbio complessa. Dall'esame dei fatti storici emergono una serie di elementi antecedenti non trascurabili, quali:

la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall'altra, causata dall'imporsi del concetto di nazionalità e stato nazionale nell'area;
gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all'uno o all'altro ambito nazionale, e quindi all'uno o all'altro stato;
le conseguenze della prima guerra mondiale, con un'intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra il Regno d'Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;
il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia durante il ventennio fascista;
l'occupazione militare italiana, durante la seconda guerra mondiale, di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile;
la guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, che fu uno dei fronti più complessi e violenti (ad esempio l'operato degli ustascia croati);
la convinzione dei partigiani jugoslavi che erano legittimati ad annettere al futuro stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno ed Istria), abitata prevalentemente o quasi esclusivamente da croati e sloveni;
la convinzione, diffusa fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere "nazionale", ma anche "sociale", con la popolazione italiana percepita anche come "classe dominante" contro cui lottare;
la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista jugoslavo
La spirale di violenza si innescò immediatamente dopo la caduta del regime nazifascista, favorita dalle tensioni politiche e sociali presenti sul territorio, che contribuirono al compimento di azioni di natura giustizialista nei confronti dei sostenitori del precedente regime e che furono successivamente indirizzate da alcuni nuclei di potere, formatisi in seno al movimento di resistenza, all'eliminazione di potenziali avversari politici, additati come nemici del popolo. In questa analisi non vanno trascurate anche le azioni criminali di semplici delinquenti, che approfittarono della confusione e della temporanea assenza di forze di polizia, preposte al mantenimento dell'ordine pubblico, per compiere azioni criminali e azioni di violenza gratuita.

« Una delle argomentazioni più diffuse al riguardo (chiaramente giustificazionista, va notato subito, ma non certo infondata) è che le foibe sarebbero - a parte errori ed eccessi - ritorsione ai crimini di guerra commessi da militari e fascisti italiani nel corso della loro occupazione. Ad essi vengono connessi i crimini della politica fascista e nazionalista. La tesi è stata sostenuta fino ad anni recenti, e oggi viene ancora menzionata, anche se è sempre più pacifica la constatazione del movente politico dei fatti. Ciò però vale soprattutto per i fatti del 1945 e poco per quelli del 1943, tuttora spesso oscuri e non documentati, specie in Croazia. I fatti del maggio 1945 sono certo caratterizzati da 'furor popolare' come più volte si è detto. Ma esso è lo scenario, e il dramma che vi si svolse aveva sostanza politica. La presenza di volontà organizzata non è dubbia. Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere.
Ciò premesso, il fenomeno delle foibe può essere considerato come un evento derivante da un disegno politico annessionista, il cui duplice obiettivo era::

l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia: si volevano pertanto neutralizzare quelli (essenzialmente italiani) che si opponevano all'annessione di queste terre alla Jugoslavia.
l'avvento di un governo comunista jugoslavo in quelle terre: si volevano pertanto neutralizzare reali o potenziali oppositori del costituendo regime comunista.
Pertanto gli eccidi "si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto" di una "violenza di stato", attuata con la repressione politica e l'intimidazione, in vista dell'annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluse Trieste e Gorizia) e per eliminare gli oppositori (reali o presunti) del costituendo regime comunista. In vista di questi due obiettivi era infatti necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti), per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era particolarmente importante a Gorizia e Trieste, della cui annessione gli Jugoslavi non erano (a ragione) certi. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Durante l'occupazione di Gorizia e di Trieste diverse migliaia di italiani furono arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi (soprattutto nel campo di lavoro e detenzione di Borovnica e nel carcere dell'OZNA di Lubiana). Neutralizzando i vertici dirigenziali, ed eliminando o intimorendo i cittadini italiani tentò di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione: la composizione etnica sarebbe stata, infatti, un fattore decisivo nelle conferenze del dopoguerra e per questo motivo la riduzione della popolazione italiana risultava essenziale.

Lo sfruttamento del clima giustizialista per eliminare, oltre ai sostenitori del regime fascista, anche potenziali oppositori politici, accomuna, secondo lo storico Boris Gombač, i massacri delle foibe alle violenze perpetrate nello stesso periodo da gruppi radicali comunisti nel così detto triangolo della morte in Emilia, dove tra le migliaia di vittime della violenza insurrezionale vi furono anche circa 400 tra proprietari terrieri, industriali, professionisti, preti ed altri appartenenti alla borghesia, solo perché dichiaratisi anticomunisti.

Su questo dibattuto problema, gli storici italiani e sloveni hanno raggiunto conclusioni concordi, espresse nella Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena:

« Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani. »
(Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Periodo 1941-1945", Paragrafo 11, Capodistria, 2000)
Le autorità italiane, pur avendo sostenuto l'operato della commissione, non hanno adottato la relazione, ritenendo inopportuno conferire ad essa uno status di ufficialità che non è compatibile con il principio della libera ricerca. Il Governo italiano nel 2007, rispondendo ad una interrogazione parlamentare del deputato Cardano, ha precisato che, godendo già la Relazione della Commissione bilaterale dello status di ufficialità ed essendo passati ormai ben 7 anni dalla sua prima pubblicazione sulla stampa e dal riconoscimento ufficiale del governo sloveno, non riteneva necessario pubblicarla in quanto essa godeva già dello status di ufficialità, e confermando la sua veridicità ne ha auspicato la diffusione nel mondo della cultura e della scuola.

Per quanto riguarda il supposto aspetto "vendicativo", essendo i fascisti e i loro fiancheggiatori in gran parte italiani (sia pure non in numero superiore rispetto ad altre regioni italiane), ed opponendosi essenzialmente gli italiani all'annessione alla Jugoslavia, soprattutto a livello locale fu frequentemente utilizzata l'equazione italiano = fascista. Questo aspetto provocò, localmente, episodi di "jacquerie" (insurrezioni spontanee dei ceti popolari), in cui molti colsero anche l'opportunità di portare avanti vendette personali o compiere rapine eliminando i testimoni. Gli episodi di jacquerie si verificarono prevalentemente nel corso degli eccidi del settembre-ottobre del 1943, avvenuti in un contesto in cui vennero a mancare i poteri costituiti. Tale jacquerie si rivolse non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali.
Tra i caduti figurano non solo personalità legate al Partito nazionale fascista, ma anche ufficiali, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti, parte dell'alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo, tra cui compaiono esponenti di organizzazioni partigiane o anti-fasciste, autonomisti fiumani seguaci di Riccardo Zanella, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini.
In paralleli eccidi furono coinvolti anche cittadini italiani o ex italiani di nazionalità slovena e croata. Tali uccisioni ebbero una matrice esclusivamente politica, rimanendo esclusa quella etnica, intendendo il costituendo regime comunista «, oltre a fare i conti con il fascismo, eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali... » Questi eccidi, quindi, nel dibattito italiano non sono di solito considerati parte degli eccidi delle foibe, termine che si riferisce alle sole vittime di nazionalità italiana.

Una quantificazione precisa delle vittime è impossibile a causa di una generale mancanza di documenti. Il governo jugoslavo (e successivamente quello croato) non ha inoltre mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi. Negli ultimi anni ha invece dimostrato la sua buona volontà, di far luce sulla vicenda, il Governo della Repubblica di Slovenia, consegnando nel 2005 al sindaco di Gorizia l'elenco dei goriziani arrestati da parte delle autorità jugoslave, redatto in base alle informazioni in suo possesso. Alcuni commentatori ritengono inoltre che una parte della documentazione sia tuttora secretata negli archivi, in particolare dell'ex Partito comunista italiano. Gli studi effettuati recentemente valutano il numero totale delle vittime (comprensive quindi di quelle morte durante la prigionia o la deportazione) come compreso tra poco meno di 5.000 e 11.000.
Nel dopoguerra e nei decenni immediatamente successivi le vittime venivano usualmente indicate in 15.000, anche se all'epoca tali valutazioni non erano basate su stime scientifiche, (e talvolta aumentate fino a 20.000[91] o 30.000. Calcoli volumetrici eseguiti tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage della Foiba di Basovizza hanno ipotizzato la presenza di oltre duemila vittime in quella sola foiba.
Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni novanta. Le salme effettivamente rinvenute di "infoibati" veri e propri finora sono circa un migliaio. Nell'uso comune, comunque, anche gli uccisi in altre circostanze legate all'avanzata delle forze jugoslave lungo il confine orientale italiano vengono considerati vittime "delle foibe".

Nelle foibe sono stati gettati cadaveri sia di militari che di civili. In alcuni casi, com'è stato possibile documentare, furono infoibate persone non colpite o solo ferite.

Sebbene quest'ultima modalità di esecuzione fosse, come già detto, solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito, nella cultura popolare divenne il metodo di esecuzione per eccellenza ed un simbolo del massacro.

In realtà la maggior parte delle vittime, considerate come "infoibate", vennero uccise o morirono di stenti o malattia nei campi di concentramento jugoslavi.

Furono poche le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe, tra questi Graziano Udovisi, Giovanni Radeticchio e Vittorio Corsi hanno raccontato la loro tragica esperienza a storici e/o emittenti televisive.

« Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell'alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri "facciamo presto, perché si parte subito". Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 k. Fummo sospinti verso l'orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c'impose di seguirne l'esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 m. e una profondità di 15 sino la superficie dell'acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai fondo e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole "un'altra volta li butteremo di qua, è più comodo", pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott'acqua schiacciandomi con la pressione dell'aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo. »
(dichiarazione di Radeticchio)
Questa testimonianza della primavera del 1945 fu pubblicata il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana triestina La Prora, e poi riportata integralmente e anonimamente nell'opuscolo Foibe, la tragedia dell'Istria, edito dal CLN dell'Istria. A partire dall'inserimento della testimonianza in un libro di Giuseppe Bedeschi nel 1987, questa è stata poi varie volte ripresa dalla pubblicistica.

Anche le testimonianze degli scampati dalle foibe hanno causato delle polemiche politico-storiografiche: Pol Vice (pseudonimo di Paolo Consolaro) - un saggista di ispirazione marxista ed esponente di Rifondazione Comunista - ha sottoposto i testi ad una serrata critica, giungendo ad affermare che siamo in presenza di falsi testimoni. Il libro di Pol Vice è stato presentato dall'editore - Alessandra Kersevan - come parte di un progetto più ampio comprendente anche dei similari testi di forte critica di Claudia Cernigoi, e Daniela Antoni. La Kersevan - varie volte presentata dalla stampa come "negazionista" - ritiene che sulle foibe stia «funzionando una propaganda forsennata che ha come scopo preciso quello della rivalutazione del fascismo»: «un vero e proprio progetto mediatico di falsificazione della storia costruito ed imposto all'opinione pubblica  dall'immediato dopoguerra ad oggi da forze politiche sociali ed economiche tuttora dominanti nel nostro Paese», anche grazie a «storici compiacenti» come Pupo e Spazzali, con la Democrazia Cristiana in testa nell'appoggio politico ai «neo irredentisti ex fascisti».

Elenco di foibe.
In questo elenco sono segnalate foibe e cave nelle quali son stati trovati resti umani o che secondo le testimonianze conterrebbero dei resti umani, dei quali solo una minima parte è stata recuperata.

Foiba di Basovizza (Trieste) monumento nazionale (testimonianze di centinaia di infoibamenti)
Foiba di Monrupino (Trieste) monumento nazionale (testimonianze di centinaia di infoibamenti)

Mappa delle principali foibe
Foiba di Barbana
Foiba di Beca
Foiba Bertarelli (Pinguente)
Foiba di Brestovizza
Foiba di Campagna (Trieste) (assieme alle foibe di Opicina e Corgnale, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)
Foibe di Capodistria (una commissione slovena fece ispezionare le ottantuno cavità con entrata verticale che circondano la città: in diciannove di esse sono stati trovati resti umani. Recuperati cinquantacinque corpi, secondo le testimonianze nella zona furono eliminati centoventi italiani e sloveni di San Dorligo della Valle)
Foiba di Casserova (vicino a Fiume: tedeschi, sloveni e italiani gettati dentro. Estremamente difficile il recupero)
Foibe di Castelnuovo d'Istria
Foiba di Cernizza (due salme recuperate nel 1943)
Foiba di Cernovizza (Pisino) (testimonianze di circa cento uccisioni)
Foiba di Cocevie
Foiba di Corgnale (assieme alle foibe di Campagna e Opicina, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)
Foiba di Cregli (otto corpi recuperati nel 1943)
Foiba di Drenchia (presenza di cadaveri della divisione partigiana Osoppo, secondo Diego De Castro)
Cava di bauxite di Gallignana (ventitré corpi recuperati nel mese di ottobre del 1943)
Foiba di Gargaro o Podgomila (Gorizia) (circa ottanta morti, secondo le testimonianze)
Foiba di Gimino
Foiba di Gropada (trentaquattro persone eliminate con colpo alla nuca il 12 maggio 1945. Corpi non recuperati)
Foiba di Iadruichi
Foiba di Jurani
Cava di bauxite di Lindaro
Foiba di Obrovo (Fiume)
Foiba di Odolina
Foiba di Opicina (assieme alle foibe di Campagna e Corgnale, circa duecento infoibati, i cui corpi non sono stati recuperati)
Foiba di Orle (un numero imprecisato di corpi recuperati nel 1946)
Foiba di Podubbo (cinque corpi individuati e non recuperati)
Foiba di Pucicchi (undici corpi recuperati nel 1943)
Foiba di Raspo
Foiba di Rozzo
Foiba di San Lorenzo di Basovizza
Foiba di San Salvaro
Foiba di Scadaicina
Abisso di Semez (individuati i resti di ottanta/cento persone. Corpi non recuperati)
Foiba di Semi (Istria)
Abisso di Semich (un centinaio di corpi individuati ma non recuperati)
Foiba di Sepec (Rozzo)
Foiba di Sesana (un numero imprecisato di corpi recuperati nel 1946)
Foiba di Terli (ventisei corpi recuperati nel 1943)
Foiba di Treghelizza (due corpi recuperati nel 1943)
Foiba di Vescovado (sei corpi recuperati)
Foiba di Vifia Orizi (testimonianze di circa duecento persone eliminate)
Foiba di Villa Surani (ventisei corpi recuperati nel 1943)
Foiba di Vines (cinquantaquattro corpi recuperati nel mese di ottobre 1943)
Foiba di Zavni (Selva di Tarnova) (secondo le testimonianze, vi sono stati gettati i corpi dei Carabinieri di Gorizia, oltre che di centinaia di sloveni oppositori di Tito)

Con la fine della guerra fredda nei primi anni '90, il tema delle foibe tornò a riscuotere anche l'interesse dei mass media. Anche su iniziativa degli ex comunisti, si è posta l'attenzione su questi episodi, che hanno cominciato ad essere ufficialmente ricordati.

Dal 2005 la giornata del 10 febbraio è dedicata alla commemorazione delle stragi e del successivo esodo. La data ricorda il trattato di Parigi siglato nel 1947, che assegnò alla Jugoslavia la grande maggioranza della Venezia Giulia e la città di Zara.

Al di là dei differenti punti di vista che ancora animano l'analisi storica degli avvenimenti, resta la realtà di fondo che negli ultimi anni la storiografia e tutta la classe politica italiana hanno finalmente preso coscienza ed ammesso la drammaticità e l'estensione degli avvenimenti che marcarono la fine della presenza italiana in Istria e Dalmazia..


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