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sabato 19 marzo 2016

GLI ZINGARI

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La parola italiana zingaro deriva dal greco medievale tsínganoi, tribù dell'Anatolia. Non è escluso che l'etimo originario sia indo-ario, atzigan. Un'opinione diffusa all'inizio del XX secolo ne faceva risalire l'origine allo stanziamento in Mesopotamia di popolazioni sire, etiopi e nubiane, in seguito alle vittorie dell'imperatore Costantino V, che si sarebbero chiamate Athingan, in seguito disperse dalle invasioni turche.

Zingaro e zingano sono da alcuni autori fatti risalire a Athínganoi, "intoccabili", nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia; essa avrebbe avuto connotazione, secondo molti, negativa (dato che trattasi dello stesso nome dell'infima "casta-non casta" indiana, i paria, da cui proverrebbero, per esempio, i necrofori).

Altri ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini. Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell'Europa.
Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione - negativa - che troviamo ancora oggi.

Spesso, per indicare le etnie romaní, vengono usati anche altri nomi meno precisi: ad esempio, in italiano zingari e gitani.

La parola gitano alimentava la leggenda di una loro provenienza dall'Antico Egitto e il mito degli zingari discendenti dal figlio di Abramo e della sua schiava Agar, sulla scorta del fatto che Ismaele, nella Bibbia, viene considerato "colui che camminava con Dio" (Gen. 21,20).

Piero Colacicchi sostiene che nomade, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano "uomini inferiori" poiché pigri, vagabondi, caratterialmente instabili, in contrapposizione a quello dell'uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale.

Rom sta ad indicare una precisa etnia di popolazione romaní, ed è il termine con il quale il non-zingaro, oggi, intende indicare, erroneamente, tutti i gruppi di popolazioni romaní; questi, Kalé, Sinti e Rom ritengono, da parte loro, che il termine "zingaro" sia offensivo.

La popolazione romaní è suddivisa nei seguenti gruppi etnici:

Rom (principalmente presenti in Europa centro e sud-orientale ed in Italia meridionale)
Sinti (presenti in Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Danimarca ed Italia settentrionale), i Manouches in Francia
Kalé (presenti principalmente in Spagna ed in Portogallo)
Romanichals (principalmente presenti nel Regno Unito)
Romanisæl (principalmente presenti in Svezia ed in Norvegia)
Ciascuno di questi gruppi contiene al proprio interno ulteriori suddivisioni.

Pare ormai approvata la teoria che vede il popolo zingaro provenire dal sub-continente indiano per via delle similitudini linguistiche, le caratteristiche somatiche e grazie anche a documenti antichissimi che ne testimoniano la presenza. Ad esempio, la parola "rom" deriva dal termine in sanscrito (un'antica lingua indiana) "domba" che significa "uomo libero"; oppure il termine "sinto" deriva da "Sindh", il nome del fiume Indro, il più lungo del Pakistan.

Bisogna però specificare che, essendo un popolo storicamente portato all'emigrazione, non possiamo parlare di una vera e propria patria d'origine, ma più che altro di luoghi in cui hanno soggiornato per un periodo storico più o meno lungo. Dalla regione indo-pakistana, nell'XI secolo gli zingari si sono spostati seguendo l'Indro, il Tigri, l'Eufrate, il Danubio, l'Elba, il Reno e il Rodano. Le cause di questi spostamenti di massa rimangono sconosciute, anche perché, altro fattore di non poco conto, le testimonianze su questo popolo si trasmettono per via orale ed è dunque molto facile che la realtà dei fatti diventi leggenda, o peggio, pura finzione. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'attribuire la causa di questa emigrazione alle devastanti invasioni del re afghano Mahmud di Ghazna. Giunti prima in Iran e poi in Persia, gli zingari raggiunsero l'Armenia e il Caucaso meridionale, zone di influenza bizantina. Da lì a poco arrivarono in Turchia per giungere nei Balcani, dove si stabilirono definitivamente. È probabilmente da attribuirsi a questa lunga permanenza la credenza popolare che vede gli zingari provenire dai Paesi balcanici. Nei Balcani, gli zingari cominciarono a praticare mestieri che ancora oggi fanno: fabbri, maniscalchi, ferrai, esperti nella lavorazione del metallo, costruttori di armi, ma divennero anche ricercatori d'oro in Transilvania, o importanti musicisti in Ungheria, dove entrarono letteralmente a far parte del folklore locale, soprattutto per i brani eseguiti con il violino.

Tra il XIV e il XV secolo, gli zingari giunsero in Europa occidentale e, in seguito alla battaglia del Kosovo del 1392, dove l'impero ottomano sconfisse l'esercito serbo-cristiano sancendo l'influenza islamica nel territorio, i gitani raggiunsero anche l'Italia seguendo i profughi croati, kosovari, albanesi e greci. Viaggiavano in gruppo, spesso spacciandosi per gente facoltosa proveniente dall'Egitto. Una falsità che però è entrata talmente tanto nell'immaginario collettivo che ancora oggi gli zingari vengono chiamati in Spagna "gitanos" (dal latino "aegyptanus", derivazione di "Aegyptus", cioè "Egitto"), o nel Regno Unito "gypsies".

La convivenza con gli europei fu drammatica. A causa del loro abbigliamento bizzarro, della lingua incomprensibile, del loro vivere di elemosina e per le pratiche di chiaroveggenza, spesso scambiata per stregoneria, le autorità locali emanarono una serie di decreti che penalizzavano e discriminavano la popolazione. In Germania, per esempio, la pena di morte, normalmente riservata agli uomini, venne estesa anche alle donne zingare, oppure, nel 1500, ci fu un provvedimento imperiale che garantiva l'impunità a chiunque avesse ucciso uno di loro. Non andò meglio in Moldavia o in Valacchia, dove divennero servi della gleba. In Spagna, nel 1492 furono condannati all'esilio assieme ai mori e agli ebrei. In Ungheria furono accusati di cannibalismo. In Italia, il primo decreto di espulsione fu emanato a Milano nel 1512 perché accusati di portare la peste.  Insomma, il ripudio e l'odio nei confronti di questa popolazione hanno origini antiche.

Le persecuzioni ebbero fine intorno al XVIII secolo, quando i sovrani illuminati piuttosto che condannarli a morte o all'esilio, cercarono di integrarli con la popolazione del luogo. Questo però significava spogliarli delle loro tradizioni e delle loro usanze. Ad esempio, in Ungheria e Transilvania, dove ormai vivevano da secoli in base alla loro cultura, furono obbligati ad abbandonare la loro lingua per esprimersi esclusivamente nella lingua nazionale. Inoltre, dovevano rinunciare alla loro vita nomade per stabilirsi in appartamenti, esercitare mestieri comuni, non mendicare, andare in chiesa e vestirsi come la popolazione locale. In cambio, il governo distribuiva case, mezzi agricoli e bestiame. L'iniziativa ovviamente fallì.

Abbandonata questa finta filantropia, i diversi Paesi divennero via via più liberali nei loro confronti, tant'è che in Romania, tra il 1855 e il 1856, vennero liberati dalla schiavitù. Da lì in poi, cominciò un'altra ondata migratoria che coinvolse non solo l'Europa, ma anche l'America, Brasile e Argentina in primis.

Tuttavia, dato lo storico odio nei loro confronti, era inevitabile che finissero nel mirino dei nazisti. Circa 500mila morirono in quello che gli zingari chiamano "barò porrajmos", che in lingua romanì significa "il grande genocidio". Considerati non solo come una razza inferiore, ma anche come degli "asociali", i gitani erano talmente discriminati tra i discriminati che ad Auschwitz vivevano in baracche a loro riservate.

Il regime nazista attuò il genocidio della popolazione romaní, uccidendo 250.000 zingari nei campi di sterminio. Altri 250.000 morirono appena catturati oppure durante il trasferimento verso i lager. I Rom ricordano questa tragedia con il termine romaní Porajmos ("devastazione"), analogo a quello con cui si ricorda il più noto sterminio nazista del popolo ebraico, la Shoah ("sterminio") . Dal 2015, il 2 agosto è nell'Unione europea la giornata internazionale per il ricordo del genocidio delle popolazioni romanì.

Oggi gli zingari in Europa si aggirano intorno ai 10-12 milioni. In Paesi come Romania, Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Serbia raggiungono il 5 per cento della popolazione. Tuttavia, è Bucarest ad ospitare il maggior numero di gitani in Europa. I dati sugli zingari in Italia sono piuttosto confusi, tra chi parla persino di 200mila e chi di appena 80mila. Circa l'80 per cento di loro ha la cittadinanza italiana e appena il 20 per cento sarebbe straniero e proveniente per lo più dai Balcani. I due più grandi ceppi si dividono in rom e sinti. I primi si sono insediati soprattutto nell'Italia centro-meridionale, mentre i secondi nel Nord. I sinti storicamente esercitano il mestiere di giostrai (per esempio, Moira Orfei e la sua famiglia sono di origine sinti), ma dato che si tratta di un lavoro "in via di estinzione" si stanno reinventando rottamatori o venditori. Entrambi, sia sinti che rom, sono per lo più cattolici. Difatti, le popolazioni zingare tendono ad adottare la religione del luogo in cui vivono. Questo fa sì che in Italia, ben il 75 per cento di loro è cattolico, il 20 per cento musulmano e il 5 per cento raggruppa ortodossi, pentecostali e testimoni di Geova.

Si tratta di un popolo piuttosto giovane: circa la metà di loro non supera i 18 anni e appena il 3 per cento arriva a oltre i 60. Il tasso di natalità è alto (5-6 bambini a famiglia), così come lo è quello di mortalità. Il matrimonio, in genere, avviene in giovane età ed è regolato da usanze e tradizioni che variano in base all'etnia di appartenenza. Difatti, per i sinti avviene tramite la fuga, cioè i due ragazzi vivono per qualche giorno da alcuni parenti; mentre per i rom la famiglia dello sposo "compra" la sposa, cioè corrisponde una cifra in denaro alla famiglia della giovane come una sorta di risarcimento. Ad ogni modo i matrimoni non sono regolati da rigide norme sociali, tant'è che possono sposarsi anche persone appartenenti ad etnie diverse.

La lingua delle popolazioni gitane, al giorno d'oggi parlata unicamente dai Rom e dai Sinti, è il romaní, un idioma indoeuropeo facente parte del gruppo delle lingue indoarie.

Sebbene non esista uno schema generale della struttura sociale valido per tutte le etnie, si può affermare che fra gli zingari non esistano le classi sociali come si intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quella tra i sessi (maschi - femmine) e quella basata sull'età (giovane - anziano).

Inoltre in primo luogo per lo zingaro conta la famiglia, e precisamente marito, moglie e figli. Al di là del nucleo famigliare vi è la famiglia estesa, che comprende i parenti, con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. Poi esiste la kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie estese non necessariamente unite da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo ed anche allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini.



La nascita e la morte sono considerati eventi impuri. Nella popolazione romaní l'ospedale, il medico, il prete ricordano la morte e pertanto i contatti con loro devono essere ridotti al minimo. La donna mestruata e la puerpera sono fonte di impurità e non possono fare vita pubblica o lavare i propri panni insieme a quelli degli altri. Nei rom "vla" (originari della Valacchia), presso i quali il concetto di impurità è più radicato, durante la gravidanza e per quaranta giorni successivi al parto alla neo-mamma non è consentito di svolgere alcuna attività (ad esempio cucinare). Al termine del periodo di purificazione, i vestiti indossati, il letto, i piatti, i bicchieri e gli altri oggetti adoperati dalla puerpera sono distrutti o bruciati.

Il culto dei morti è molto sentito ed è diffusa la convinzione che il morto, se non debitamente onorato, possa riapparire in forma di animale o di uomo per vendicarsi.

In Italia la popolazione romaní si divide in:
Rom italiani (con cittadinanza): circa 90.000, di cui:
Rom harvati: 7.000 giunti dalla Jugoslavia settentrionale dopo la seconda guerra mondiale. I khalderasha ne costituiscono un sottogruppo.
Rom lovari: 1.000, che si occupano principalmente dell'allevamento di cavalli (la parola viene dall'ungherese ló, che significa appunto cavallo).
Rom balcanici: 70.000
Rom jugoslavi: presenti principalmente in campi del Nord Italia. Meno del 10% dei minori frequenta le scuole pubbliche, bassissimo è il tasso d'impiego degli adulti.
Khorakhanè ("lettori del Corano"): caratterizzati dalla religione musulmana e provenienti da Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, sono il gruppo più numeroso di rom stranieri presente nel Bresciano. La migrazione è avvenuta dalla seconda metà del 1991 fino all'estate del 1993, in concomitanza con l'aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia
Dasikhané: caratterizzati dalla religione ortodossa, provenienti da Romania o Bulgaria.
Rom romeni: sono il gruppo in maggior crescita; hanno comunità a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Pescara, Genova, ma si stanno espandendo nel resto d'Italia.
30.000 nel Sud Italia, distinguibili in:
Rom abruzzesi e molisani, giunti in Italia al seguito dei profughi arbëreshë dall'Albania dopo la battaglia di Kosovo Polje nel 1392, parlano romanì mescolato ai dialetti locali e praticano l'allevamento e il commercio di cavalli, oltre che, nel caso delle donne, la chiromanzia (romnìa). Diversi nuclei sono emigrati in vari centri del Lazio a partire dal Novecento
Rom napoletani (napulengre), ben integrati, fino agli anni settanta si occupavano principalmente della fabbricazione di attrezzi da pesca e di spettacoli ambulanti.
Rom cilentani: 800 residenti ad Eboli, con punte di elevata alfabetizzazione
Rom pugliesi, si dedicano in maggioranza all'agricoltura ed all'allevamento di cavalli (alcuni di loro gestiscono macellerie equine)
Rom calabresi: uno dei gruppi più poveri, con 1550 ancora residenti in abitazioni di fortuna
Camminanti siciliani
Sinti: 30.000, residenti principalmente in Nord e Centro Italia e un tempo occupati principalmente come giostrai, mestiere che però sta scomparendo e che li costringe a reinventarsi in nuovi mestieri, da rottamatori a venditori di bonsai.

A differenza di quanto si pensi, non tutti sono nomadi, anzi. Molti vivono in appartamenti e perfettamente integrati con la comunità locale, soprattutto da quando le loro storiche professioni, che li portavano a girovagare continuamente, stanno venendo meno. Ma il pregiudizio rimane, tant'è che nel rapporto sull'Italia della Commissione europea contro il Razzismo e l'Intolleranza (Ecri), Bruxelles ha invitato Roma ad abbandonare "il falso presupposto che rom e sinti siano nomadi" dato che, in base a tale idea, viene attuata "una politica di segregazione dal resto della società" con l'installazione dei "campi nomadi" nati per ospitare solo temporaneamente queste popolazioni e spesso sforniti dei servizi più basilari.

Ma non è solo l'Italia a guardare con disprezzo gli zingari. Anche negli altri Paesi i pregiudizi e la discriminazione persistono, sintomo che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure a morire.

Nel 2005 e nel 2006 il razzismo nei confronti delle popolazioni gitane è diventato oggetto di attenzione a livello europeo, con l'adozione di una risoluzione del Parlamento europeo, il primo testo ufficiale che parla di antiziganismo. Le conferenze internazionali OSCE/EU/CoE di Varsavia (ottobre 2005) e Bucarest (maggio 2006), hanno confermato il termine «anti-Gypsyism» a livello internazionale.  Dal 2008 l'Unione europea ha inaugurato una Strategia europea per i rom.


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mercoledì 15 luglio 2015

VALSECCA

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Valsecca è un ex comune italiano della provincia di Bergamo; dal 21 gennaio 2014 è confluito nel comune di Sant'Omobono Terme.

Valsecca è sempre stato un paese di emigrazione fin dal suo nascere. L'estimo del 1476 ricorda che emigravano per vendere quel poco che producevano: oggetti di legno, panno di lana detto appunto "Valdemagnum", utensili per il lavoro dei campi e dei boschi, che venivano prodotti nei "torni a pedale" o nelle otto officine, sorte  lungo il corso del "Petola". Il 1920 e il 1946 sono date memorabili e dolorose per  Valsecca; segnano il tempo di una massiccia emigrazione.
Nel 1920 si emigra verso la Francia. Longwi ed Herserange si popola di gente di Valsecca  o della Valle Imagna, tanto da far diventare lingua locale, il dialetto Valdimagnino. Ancor oggi, dopo tanti anni, le persone che ritornano da quei paesi, non sanno una parola d'italiano, ma parlano correttamente il vecchio dialetto valdimagnino. Il 1946 segna invece l'esodo verso la Svizzera, soprattutto nel cantone francese. Sono famiglie intere che partono,  giovani coppie e per alcuni è il viaggio di nozze. Molte sono ormai le famiglie di Valsecca  residenti a La Chaux de Fondes, a Le Lode o nei dintorni pur conservando legami con il  paese d'origine, ritornando con più o meno frequenza.  Non mancano per circostanze particolari, la più importante delle quali è festa quinquennale del Santo Crocifisso, che registra un rientro, anche solo per alcuni giorni, molto forte.
Degli emigranti del 1946, alcuni sono rientrati negli anni '60 - '70, chi non è rientrato ha  conservato l'abitazione, che facilita l'occasionale ritorno. Fino agli anni novanta, massiccio era anche il fenomeno dei " frontalieri" , attualmente è quasi scomparso.

Il toponimo trova forse una giustificazione risalendo nei tempi, non tanto ai latini ma a popolazioni più antiche. La radice Sek—Seik, attestata specialmente in lingue germaniche, significa gocciolamento, stillare, defluire e questa indicazione etimologica, spiega un po' di più il toponimo Valsecca. Valsecca è una conca verde, ricca di acqua!
Il  toponimo Valsecca appare, per la prima volta, in un documento per un atto di vendita del 1169. Il monastero di Astino compra da Paolo di Pedelingo le terre che egli possedeva in località "Quada" di Valsecca in Valle Imagna. Il  toponimo ricorre ancora in un documento nel 1355, per dire che è frazione di Sant‘Omobono (atti no1. del not. Simone de Pilis, faldone 75, Archivio di Stato BG).
Gradualmente la conca di Valsecca, anche se e sempre descritta come zona di estrema povertà, si popola di molte persone, ed è ormai divenuto un paese e figura tra quelli della  Valle Imagna, che promettono fedeltà a Filippo Maria Visconti (6 agosto 1420).
Nel 1428 anche Valsecca, con tutta la valle, meno il paese di Brumano, che anche oggi fa  parte della diocesi di Milano, è ceduto dai Visconti alla Repubblica di Venezia e lo sarà per  quattro secoli. Ad essa, con tutta la valle, rimarrà fedele, anche per i benefici che dalla  Repubblica riceve.
Per questo si opporrà nel 1799 alle armate napoleoniche, non accogliendo con simpatia "il vento della libertà" tanto che, durante la dominazione napoleonica, nella caserma di Valsecca, dimora una "guarnigione di soldati francesi". Ne fa le spese anche il cappellano della chiesetta dei Carevi, che annota:" per tutto questo tempo non ho ricevuto un  quattrino per tutte le Sante Messe celebrate".
Cresciuta la popolazione, anche Valsecca, che certamente aveva già una piccola chiesa  disposta est—ovest e che é incorporata nell'attuale, diventa parrocchia.
Nel 1460 per decreto del Vescovo di Bergamo Mons. Pietro Barozio, viene staccata da  Sant'Omobono ed è eletta parrocchia con il titolo di San Marco Evangelista. Con Venezia, Valsecca vive in quegli anni i suoi momenti migliori. Nel 1476 complessivamente sono censiti 80 fuochi per un totale di 136 uomini adulti.

Nell'estimo del 1476 è ancora nominata come "contrada de Valdimania ", Alla fine del secolo XVI, Giovanni da Lezze,  scrive che é ente autonomo, comprendente anche Falghera. Da allora é sempre citato  come ente autonomo fino al 1809. Nell'epoca napoleonica, con la "concentrazione" dei  2 comuni, perde la sua autonomia diventando unico comune con Mazzoleni , Cepino, Falghera e Costa lmagna.
La riacquista nel 1816 ( compartimento territoriale della libertà) e,  da allora, è sempre stato comune autonomo.
In tutti i documenti Valsecca è sempre nominato come paese povero: “ A Valsecca- Falghera non si raccoglie grani ne vini, solamente castagne per 6 mesi l’ anno, e carboni  intorno ai cento sacchi“.
Ci sono un po' di animali, ma l'economia della famiglia è sempre povera. Per venire  incontro alla povertà della gente, nei secoli passati, nasce una "Pia Istituzione" che  giornalmente distribuisce pane ai poveri.
Un quadro, che si trova in sacrestia, raffigura "il curato Sibella che distribuisce il pane ai  poveri. La prima strada rotabile arriva a Valsecca solo nel 1872. L‘emigrazione è stata sempre, per tutti i tempi, la fonte più ricca di sostentamento.

Le origini del paese dovrebbero comunque risalire al periodo medievale quando il territorio, fino ad allora scarsamente antropizzato, vide un incremento abitativo dovuto alle lotte tra guelfi e ghibellini.

Queste infatti costringevano alcuni esponenti dell'una o dell'altra fazione (nonostante la valle fosse considerata una sorta di feudo guelfo) ad abbandonare i propri luoghi d'origine e di trasferirsi in posti al riparo dalle persecuzioni avverse, tra cui appunto la zona di Valsecca, in cui si costituirono numerose piccole contrade, tra cui Feniletto, Butella, Roccolo, Fraccio, Cornello, Carevi, Capagnone e Costa.

Gli abitanti stessi infatti, cercarono di mantenersi estranei alle dispute di potere, cosa che garantì loro tranquillità al riparo da scontri e ritorsioni sia durante le suddette lotte, sia dopo l'avvento della Repubblica di Venezia, che fece coincidere i propri confini territoriali con quelli del comune, dotandolo di alcune fortificazioni e di una caserma della gendarmeria, volte a controllare anche gli scambi commerciali con la vicina città di Lecco.
Soltanto negli ultimi decenni il turismo e la conseguente rivalorizzazione del territorio hanno arginato questo fenomeno, dando nuova linfa al paese.

L'edificio di maggior richiamo è indubbiamente la chiesa parrocchiale di San Marco evangelista. Edificata nel corso del XV secolo, ma soggetta a successivi ampliamenti (XVIII secolo) e ristrutturazioni (XX secolo), presenta al proprio interno dipinti di buon pregio, ma soprattutto un crocefisso in legno opera di frà Giovanni da Reggio.

La chiesa di San Marco Evangelista fu costruita verso la fine del 1400, rimaneggiata più volte nel corso dei secoli. Al suo interno vi sono pregevoli opere tra le quali una "Madonna con Bambino e Angeli" del 1400, scolpita in bassorilievo su marmo con uno stile che richiama quello dell'Amodeo; una "Adorazione dei Magi" del '600 di Carlo Ceresa; un "San Marco in adorazione"  del 1729 di Francesco Quarenghi; la Via Crucis del '700 di Gaetano Peverada e altre tele del XVII e XVIII secolo.
Accanto alla parrocchiale sorge l'oratorio del Santissimo Crocefisso dove, oltre la bella cupola affrescata con un Concerto d'Angeli, si conserva un miracoloso crocefisso, opera probabilmente di Frà Giovanni da Reggio (1654), a cui si attribuisce il merito di aver salvato il paese dalle numerose epidemie di colera che infestavano la valle nel corso dell' '800. Ancora oggi, ogni cinque anni, nel mese di luglio, la statua viene tolta dalla cappelletta ed esposta all'adorazione dei fedeli per una intera settimana.

Accanto alla quattrocentesca chiesa parrocchiale di Valsecca, sulla sinistra, tra la chiesa e  il cimitero, uno dei pochi o forse l'unico rimasto dopo l'editto Napoleonico, c'è una piccola  chiesetta, sull'architrave del portale c'è una data 1902, ma non è l'anno della sua costruzione, ma della sua ristrutturazione.
In essa è conservata l'immagine di Cristo morente in croce. A quando risalga la piccola cappella non si sa. Occupava la navata attuale ma era "indecente e pericolosa" (cronicon parrocchiale) .
L'ampliamento del 1902 e opera dell'ing. Don Antonio Piccinelli. "Demolita la vecchia sacrestia" vi aggiunge la cupola, l'abside, ritocca il piccolo campanile e, sul davanti, un portico che avrà poi ritocchi nel 1964.
Gli affreschi della volta e della cupola, che richiamano i segni della passione del Signore sono dei pittori bergamaschi Gaetano Oberti e Giovanni Cavalleri. Nel 1970 è stata  restaurata con ritocchi, secondo le mode del tempo. l buoni fedeli di Valsecca nel 1894 però, avevano progettato di costruire al loro Crocifisso, una dimora più ampia e degna, ma "per una catena di avvenimenti, una peggiore dell'altra" non fu possibile e la costruzione,  iniziata per la custodia del Crocifisso divenne, non so per quali strade, prima scuola elementare e poi sede del comune di Valsecca »
Sia dell'immagine del Crocifisso che della chiesetta,  le notizie si perdono nel tempo e ci si  affida ad una "pia tradizione". L'autore dell'immagine è ignoto anche se oggi la si attribuisce a Fra Giovanni da Reggio Emilia. Per l'epoca lo si fa risalire alla metà del  settecento ma, sia l'immagine che la chiesetta potrebbero essere anteriori.  Infatti, dalla visita pastorale del Vescovo Mons. Pietro Milani, tenutasi a Valsecca il 15 X 2 settembre del 1604, tra le prescrizioni c'è anche questa: "allargare il buco del santuario acciocchè sia capace a ricevere ciò che si getta nel santuario". E' il santuario del Santo Crocifisso?
Un altro particolare che mette in dubbio questa Pia tradizione potrebbe essere il quadro di San Marco Evangelista, collocato al centro dell'abside della chiesa parrocchiale, dipinto da Francesco Quarenghi nel 1729.
La pergamena che San Marco sta scrivendo è un' ode alla croce. Come mai? Era già molto viva la devozione al Santo Crocifisso? Nell’abside della chiesa si può ammirare una tela del '600, di scuola veneta, raffigurante l'invenzione della S. Croce. Perché questa scelta? Non c‘e difatti documentazione scritta, per ora, il primo ed unico documento scritto, è un piccolo opuscoletto stampato nel 1884 dalla tipografia Daniele Legrenzi. L'autore è probabilmente un prete oppure lo stesso parroco. Scrive perché: "non seppi rifiutarmi alle istanze di alcuni devoti che mi pregarono di scrivere un breve cenno per far conoscere la benedetta effige di Gesù Crocifisso, che si venera a Valsecca".
Il piccolo libretto narra come il santo Crocifisso sia giunto a Valsecca. Rifacendosi ad una "pia tradizione" lo dice portato a Valsecca, alla metà del settecento, da Bortolo Belli. Questo Bortolo Belli, era uno dei tanti ambulanti dl Valsecca di quel tempo che "viaggiava in quelle parti per ragioni di traffico", vendendo oggetti di uso casalingo, costruiti nelle fucine del paese o ai torni a pedale durante le giornate invernali. Lo aveva trovato o comprato ad Intra, sul lago Maggiore, e l'aveva portato a spalle fino al suo paese.
Le due "B" presenti sulla vecchia croce, come attesta una vecchia fotografia, confermerebbero questa tradizione, lasciando però  l'incertezza del tempo.  Il Santo Crocifisso è descritto così: "Il devoto Simulacro di grandezza più che naturale è  scolpito in legno, (da restauro del 1996 il legno e il tiglio), con finissimo lavoro ed é  racchiuso in bella nicchia dorata, che si innalza sopra il gradino dell’altare e forma con esso un solo disegno.
Attorno alla croce vi sono tre graziosi angioletti in atto di raccogliere con un calice il  Preziosissimo Sangue; questi sono per nulla sgradevoli, sia per la naturalezza delle forme,  come per il devoto espressivo atteggiamento".
Continuando nella narrazione, l'autore descrive poi la cappella, che era molto più piccola dell'attuale, ma in discrete condizioni con due affreschi di Antonio Sibella, pittore valdimagnino, raffiguranti uno la deposizione di Cristo dalla croce, l'altro I'Addolorata dipinti non molto tempo prima, essendo ancora vivente l'autore. Toccante è la descrizione che fa del santo Crocifisso "Essa rappresenta  Gesù spirante,  ed è artisticamente bella; massime la testa viene giudicata classica, non potendo si immaginare espressione più viva ne più eloquente.
L'autore è ignoto; ma i pregi dell'opera sua rilevano un genio illuminato e scorto dalla fede e dall'amore, poiché non avrebbe potuto scolpire a si nobili tratti l'agonia divina di Gesù, chi non fosse avvezzo a contemplare il Crocifisso con lo sguardo di un'anima profondamente cristiana.  Nei lineamenti di quella faccia adorabile si legge lo spasimo dell’atroce supplizio, santificato da una pazienza divina, addolcito da quell’ineffabile misericordia, che pose sulle labbra del morente Gesù la preghiera del perdono per gli stessi crocifissori. Non si può fissare lo sguardo in si pietosissima immagine senza sentirsi toccare il cuore di tenerezza e di compunzione; e ricordare all’anima l'intera storia dell'amore di un Dio, che per la salvezza delle sue misere creature, volle vivere e morire sazio di obbrobri e sitibondo ancora di pene".
La devozione al Santo Crocifisso, inizialmente fu solo della popolazione di Valsecca, ma per alcuni avvenimenti eccezionali, si è diffuso in tutta la valle. L'autore ricorda il colera del 1836, un’ epidemia del 1849, ancora il colera del 1855 e del 1867, "e tutti quelli che sollevarono Io sguardo, il cuore e la prece a Gesù Crocifisso furono liberati dal morbo fatale".
Queste circostanze contribuirono a divulgare la devozione al Santo Crocifisso oltre i confini di Valsecca e della valle, per cui " grazie continue spirituali e corporali ricevono coloro che con umiltà e fiducia, ricorrono a Gesù Crocifisso lo attestano i numerosi voti di cui si vedono coperte le pareti di questa di vota cappella.  In ogni bisogno privato e pubblico, tutti ricorrono a lui.

La chiesa dedicata a S. Giovanni Battista in località Cornello è sorta nel 1774 per esigenze di un prete residente, Don Giovanni Rota, che ritenendo difficoltoso raggiungere ogni giorno la chiesa parrocchiale, trasforma in chiesetta una stanza della sua casa.

Il turista che cammina per la strada o meglio lungo le mulattiere di Valsecca, non può non sorprendersi e meravigliarsi degli affreschi delle tante cappellette. Ce ne sono infatti 27, senza contare gli affreschi sulle pareti delle case o, in piccole nicchie, sulle pareti delle stalle. Alcune sono veramente belle! Sono quasi tutte dell'800, molte portano anche l'autore dell'affresco: sono il Riva, il Tagliaferri e  A. Sibella.
L'immagine ricorrente é la Madonna, vista nelle varie devozioni. Anche queste hanno  sperimentato l'incuria dl questi ultimi anni; l‘affresco è rovinato o totalmente scomparso.  Se questo turista non si è stancato e mantiene viva la sua curiosità, girando per le varie  frazioni di Valsecca, sparse su colli e vallette, può sempre imbattersi in qualcosa di interessante: una stalla del 1456, una casa del 1490, qualche nucleo abitativo, che ha conservato la caratteristica del tempo, come il Gromo e Campagnone.
Sosterà davanti alla caserma, sforzandosi di leggere il suo cartiglio quasi illeggibile: " ` A CASERMA DE l (iure) L (legis) TER (territoriale) GENDARMERIA.

Divisa dal resto della valle dallo sperone di Rota Fuori, con il campanile che potrebbe fare da faro alle due valli", ha a destra la Coma Rossa, a sinistra la Camozzera ed è chiusa dal monte Serada. Valsecca è una conca "riccamente coperta di boschi, di prati e di colli; e su quel manto di lieta verzura, rotto da severe e bizzarre rupi, spiccano gli sparsi casolari ": il Gromo, il Cornello, i Carevi, Cafrago ed ha al centro la bella chiesa di San Marco Evangelista.
In tutto questo verde, senti il rumore dei suoi ruscelli che, dopo tante piccole cascate e dopo aver formato tanti piccoli laghi, spumeggiando tra rocce nere e bianche giungono  impazienti al "Petola" per poi confluire nell’Imagna.

Valsecca offre un clima salubre, un'aria pulita, una grande tranquillità, il verde di tutti i suoi boschi ed il chiaccherio dei suoi numerosi ruscelli.
Anche se paese povero e piccolo, Valsecca si è fatto conoscere dando i natali a persone che hanno fatto conoscere in Italia e nel mondo, questo sperduto paese della Valle lmagna
Carlo Maria Baracchi nato il 2 ottobre 1688 e morto a Parma nel 1762. Provinciale dei "Servi di Maria", solo per la sua volontà non volle accettare incarichi più alti, fu profondo teologo, poeta, oratore sommo. Ha lasciato parecchie opere, in parte stampate.
Don Antonio Sibella più noto come" curato di Valsecca", ma parroco di essa per 36  anni e vicario foraneo della Valle Imagna. Nato il 27 aprile 1728 e morto, in concetto di  santità, il 16 gennaio 1801. Venerato in vita, la devozione è continuata anche dopo la sua morte ed è giunta fino a noi. E' sepolto al centro della chiesa di Valsecca e la sua tomba è sempre meta di devoti.

Di questo secolo noto e anche il Dott. Alessandro Moscheni, grande chirurgo e, a  quel tempo, famoso ostetrico.

Arch. Alessandro Moscheni: patriota delle guerre dell'indipendenza, e nato il 28 aprile 1798 . Arrestato e condannato a morte per cospirazione contro il governo del tempo,  per decreto aulico dell’11 aprile 1835, la pena le fu commutata in carcere duro a vita, da scontarsi allo Spilber, dove ebbe come compagno di cella, Silvio Pellico.

Prof Dott. Don Francesco Bugada, nato il 17 gennaio 1858 e morto il 17 maggio  1930 e alunno di Giosuè Carducci e, se i tempi fossero stati migliori, possibile successore  alla cattedra di letteratura Italiana all‘Università di Bologna, latinista di fama. Fu insegnante  indimenticabile di latino e greco nel collegio di Celana per molti anni.

Ing. Marco Todeschini: nato il 25 aprile 1899 e morto il 13 ottobre 1988. Scienziato di  fama mondiale per la sua ricerca sui fenomeni dell'universo, illustrati nelle sue due opere fondamentali: " Teoria delle apparenze - Psicobiofisica ", membro d'onore di 25 Accademie italiane ed estere, è stato candidato al premio Nobel nel 1969.



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