Visualizzazione post con etichetta dati. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta dati. Mostra tutti i post

mercoledì 1 giugno 2016

LA PSICOLOGIA DELLO STUPRATORE

.


Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere e dalla letteratura femminista, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne.

La prima definizione del concetto viene attribuita al documentario dal titolo Rape culture del 1975 in cui la regista Margaret Lazarus descrive come lo stupro sia rappresentato nel cinema, nella musica ed in altre forme di "intrattenimento". Patricia Donat e John D'Emilio, in uno scritto del 1992 apparso sul Journal of Social Issues, suggeriscono invece che il termine ha origine nel libro del 1975 di Susan Brownmiller come "cultura solidale con lo stupro". Le autrici di "Transforming a Rape Culture", testo pubblicato nel 1993, definiscono la cultura dello stupro come:

«un complesso di credenze che incoraggiano l'aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come "normale" il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia "un fatto della vita", inevitabile come la morte o le tasse. »
(Emilie Buchwald, Pamela Fletcher, Martha Roth; Transforming a Rape Culture, Minneapolis (1993), MN: Milkweed Editions.)

Si è parlato di "cultura dello stupro" nella mentalità occidentale perché si possono trovare diversi pensatori che hanno in qualche misura legittimato l'uso della forza nel corteggiamento. In queste testimonianze, si presume che la donna rifiuti qualunque approccio sessuale, anche se gradito, per difendere il proprio "onore".

Fra i Greci, Erodoto sostiene che il matrimonio forzato per rapimento è desiderato dalle donne e quindi è saggio non preoccuparsi del loro destino:

«Ora, il rapire donne è considerato azione da malfattori, ma il preoccuparsi di donne rapite è azione da dissennati, mentre da saggi è il non darsi delle rapite alcun pensiero, perché è chiaro che se non avessero voluto non sarebbero state rapite»
Fra i Latini Ovidio, nel suo trattato Ars amatoria, che ebbe enorme successo anche nei secoli successivi, afferma che la donna ama subire violenza: la frase "Grata est vis ista puellis" è all'origine dell'espressione latina Vis grata puellae, utilizzata ancora recentemente nella giurisprudenza sulla violenza sessuale.

Nel Medioevo, il genere letterario della "pastorella", diffuso nella letteratura provenzale e in quella italiana del "dolce stil novo", ritrae una pastora avvicinata da un cavaliere che la corteggia. Nel componimento, la pastora può accettare o rifiutare le offerte amorose del cavaliere; quest'ultimo può aver ragione dell'ingenuità della ragazza con l'inganno, come una falsa proposta di matrimonio, o con l'aggressione sessuale.

Anche in India, Mallanaga Vatsyayana scrivendo il Kama Sutra contempla fra le modalità di conquista di una donna (seppure fra le peggiori e relegate in fondo alla lista) quella di drogarla o rapirla e quindi violentarla. Tuttavia, Vatsyayana mette in guardia sul fatto che:

« una fanciulla goduta a forza da uno che non conosce il cuore delle giovani, diviene nervosa, irrequieta, malinconica, e d'un subito prende a odiare l'uomo che ha abusato di lei: e allora, visto che il suo amore non è compreso né ricambiato, eccola sprofondare nella mestizia o divenire misantropa, o poiché detesta il proprio uomo, cercarne altri. »
In altre culture, come in Kirghizistan, la donna non può esprimere il proprio assenso nemmeno ad una proposta di matrimonio, che infatti nella sua forma tradizionale avviene per rapimento. Ernest Abdyjaparov, regista kirghiso autore del film "Boz Salkyn" (2007), spiega:

« Oggigiorno, quando un ragazzo fa una proposta di matrimonio, la maggior parte delle volte la risposta della ragazza è no. Anche se vogliono dire sì. È la nostra mentalità. La risposta "no" significa che sei innocente, che sei pura. Con un "sì" tutti penseranno che sei alla disperata ricerca di un matrimonio »

All'interno di questo paradigma, gli atti di "blando" sessismo vengono comunemente usati per validare e razionalizzare pratiche normative misogine; ad esempio, si può dire che le barzellette sessiste promuovano la mancanza di rispetto per le donne e una contestuale mancanza di rispetto per il loro benessere, che in ultima analisi fanno sembrare accettabile il loro stupro e abuso. Esempi di comportamenti che tipizzano la cultura dello stupro comprendono la colpevolizzazione della vittima, la banalizzazione dello stupro carcerario, lo slut-shaming e l'oggettificazione sessuale.

La cultura dello stupro è stata descritta come dannosa per gli uomini oltre che per le donne. Alcuni scrittori come Jackson Katz e Don McPherson, hanno detto che è intrinsecamente collegata al ruolo di genere che limita l'auto-espressione degli uomini e causa loro danni psicologici. È stata collegata anche all'omofobia. Ad esempio, Andrea Dworkin, nel 1983 scrisse: «Se volete fare qualcosa contro l'omofobia, dovete fare qualcosa contro il fatto che gli uomini stuprano e che il sesso forzato non è incidentale alla sessualità maschile, ma è in pratica paradigmatico».

I Centri antiviolenza, i Telefoni donna, le Case delle donne, oltre ad aiutare e assistere le donne che hanno subito violenza, hanno organizzato sia in Italia che in tutto il mondo, molte manifestazioni e iniziative a partire dagli anni '70 per porre fine alla cultura dello stupro basato sul potere dell'uomo sulla donna.


La concettualizzazione della cultura dello stupro è stata criticata da diversi autori per diverse ragioni. Alcuni, come Christina Hoff Sommers, hanno tentato di confutare l'esistenza di tale cultura, sostenendo che lo stupro è sovrariportato e sovraenfatizzato. Altri, come Bell Hooks, hanno criticato il paradigma della cultura dello stupro sulla base del fatto che esso ignora la posizione dello stupro in una sovrastante "cultura della violenza". Questi critici dicono che isolare lo stupro e i suoi sostegni sociali da altre forme di violenza, rende meno efficaci gli sforzi per combatterlo e ignora o banalizza altre forme di violenza.

Una ricerca ISTAT attesta che ogni giorno in Italia sette donne in media subiscono una violenza sessuale. I dati si riferiscono ovviamente ai casi che vengono denunciati alle autorità; alcuni studi stabiliscono che questi rappresentano soltanto l’8% degli episodi effettivi di violenza sessuale. Il restante 92% delle vittime, dunque, decide per motivi diversi (vergogna o “copertura” del molestatore, soprattutto se all’interno del contesto familiare) di non denunciare la violenza subita alla polizia o ai carabinieri.
 Dalla lettura dei dati riportati nella citata ricerca dell’ISTAT si scopre che solo nell’8,6% dei casi la violenza sessuale viene praticata in un luogo pubblico. Più spesso gli stupri avvengono nella propria abitazione (31,2%), in automobile (25,4%) o nella casa dell’aggressore (10%). Da tali dati si evince che nella stragrande maggioranza dei casi l’aggressore è una persona ben conosciuta dalla vittima, che può essere il marito o convivente (20,2% dei casi), un amico (23,8%), il fidanzato (17,4%), un conoscente (12,3%); solo il 3,5% dei violentatori non ha mai visto la sua vittima prima dello stupro.

Le motivazioni psicologiche che sono alla base delle azioni degli stupratori possono essere diverse, pur conducendo tutte a manifestazioni di violenza che possono avere esiti drammatici.

Nell’atto dello stupro, l’agente manifesta e scarica impulsivamente sensazioni di rabbia e frustrazione che possono avere origine da rapporti problematici con donne diverse da quelle della vittima effettiva (la madre, la moglie, la compagna). In questi casi, difficilmente lo stupratore prova un vero e proprio piacere sessuale compiendo lo stupro, ma riesce a liberare la rabbia repressa attraverso un atto di violenza la cui intensità può essere persino superiore al necessario.
I sentimenti di vulnerabilità e di impotenza dello stupratore vengono compensati da un atto di sottomissione della vittima, che viene messa in condizione di essere totalmente alla sua mercé, senza alcuna possibilità di ribellarsi. Al contrario di quanto accade nello stupro motivato da sentimenti di rabbia, in questi casi gli stupri sono perlopiù premeditati dall’aggressore.
Sia la rabbia che la dominazione vengono ”liberati” attraverso il piacere sessuale che prova l’aggressore nel brutalizzare, quasi sempre premeditatamente, la sua vittima.
L’aggressore, che in ogni caso cova uno dei sentimenti sopradescritti, agisce in conseguenza delle opportunità che gli vengono profilate, ad esempio durante una rapina o un furto.

Sia che egli abbia scelto la sua vittima e quindi premeditato l’atto di violenza, o che si trovi a compiere l’atto in una circostanza occasionale, lo stupratore farà sempre in modo che la vittima sia isolata e incapace di reagire o di attirare l’attenzione di altri su di sé.
Dopo aver individuato la sua vittima, egli cercherà di entrare in contatto con lei, conquistare la sua fiducia per poi agire “a sorpresa”, in situazioni di isolamento e di vulnerabilità che consenta di sopraffarla fisicamente.


FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



martedì 15 settembre 2015

IMMIGRATI e COSTO Sociale



C’è chi parla di “esodo biblico”, chi di “invasione”, chi dice che l’unico modo per fermarli è chiudere gli accessi via mare. Ma qual è la reale entità del fenomeno? Siamo di fronte a un’emergenza? E qual è la situazione a livello europeo?

Sono 23 mila le persone sbarcate in Italia nel primo quadrimestre del 2015 (dato aggiornato al 15 aprile) un dato sostanzialmente in linea con quello dello scorso anno. Anzi in calo: nello stesso periodo del 2014 erano arrivati 26.735 migranti. A differenza dello scorso anno, però, gli arrivi massicci si sono concentrati in un’unica settimana: dal 7 al 15 aprile, infatti, sono arrivate circa diecimila persone. Negli stessi giorni si sono verificati i due naufragi, che hanno portato la cifra delle vittime del mare a 1.700 dall’inizio dell’anno: un numero mai registrato prima. Se guardiamo ai numeri, dunque, ad aumentare davvero non sono gli arrivi ma i migranti morti nel tentativo di raggiungere le nostre coste: passati dai 17 dei primi mesi del 2014 ai 1.700 dei primi mesi del 2015.

Delle oltre 170 mila persone sbarcate sulle coste italiane nel 2014, solo un terzo ha ricevuto accoglienza nel nostro paese. Secondo i dati del ministero dell’Interno nel 2014 sono in tutto 66.066 le persone ospitate nelle strutture temporanee, nei Cara e nei centri Sprar. Nei primi mesi del 2015 il loro numero è salito a 68mila. Un numero in linea anche con il dato sulle domande d’asilo e protezione internazionale presentate nel nostro paese: 64.886 in tutto nel 2014.
A fare domanda sono soprattutto afghani, maliani e persone provenienti dall’Africa sub sahariana. Tra le nazionalità maggiormente rappresentate non compaiono né la Siria, né l’Eritrea, che sono, invece, i primi due Paesi di origine dei 170.757 migranti arrivati in Italia lo scorso anno (rispettivamente 39.651 e 33.559 persone). Questo perché, come sostiene anche l’ultimo rapporto del Centro Astalli, l’Italia è sempre più considerata dai migranti un paese di “transito”. Stando ai numeri per ora non c’è “un’emergenza accoglienza”, tanto che il ministero dell’Interno non parla di un piano straordinario, quanto piuttosto di una redistribuzione del numero di migranti tra le regioni (tra quelle del Sud che da sole accolgono quasi il 50 per cento di coloro che arrivano e quelle del nord). Ad essere aumentati saranno piuttosto i posti per la primissima accoglienza (tra le ipotesi c’è anche quella di creare tendopoli e tensostrutture) ma anche i progetti Sprar, da cui oggi sono interessati solo 500 comuni su ottomila e i posti per i minori non accompagnati.

Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. Un importo non definito per decreto, ma da una valutazione sui costi di gestione dei centri di accoglienza. Soldi, però, che non finiscono in tasca ai migranti ma che vengono erogati alle cooperative, di cui i comuni si avvalgono per la gestione dell’accoglienza. E che servono a coprire le spese di gestione e manutenzione, ma anche a pagare lo stipendio degli operatori che ci lavorano. Della somma complessiva solo 2,5 euro in media, il cosiddetto pocket money, è la cifra che viene data ai migranti per le piccole spese quotidiane (dalle ricariche telefoniche per chiamare i parenti lontani, alle sigarette, alle piccole necessità come comprarsi una bottiglia d’acqua o un caffè). Una volta sbarcati, i migranti vengono accolti nei centri per la prima accoglienza, che di solito si trovano nelle vicinanze dei porti dove arrivano. Da qui vengono poi smistati nei centri per migranti o richiedenti asilo, presenti sul territorio nazionale. In assenza di posti sul territorio i prefetti si rivolgono anche a strutture alberghiere che, soprattutto in bassa stagione, danno la loro disponibilità ad ospitare persone (sono i cosiddetti Cas, centri per l’accoglienza straordinaria). Questo tipo di gestione straordinaria ed emergenziale, è stata molto spesso criticata da chi si occupa dei diritti dei richiedenti asilo perché improvvisata e, dunque, in molti casi non in grado di rispettare gli standard minimi di accoglienza.



Sono state 626 mila le persone che hanno fatto richiesta d’asilo in Europa nel 2014, 191 mila in più rispetto al 2013 (+44 per cento) secondo le cifre fornite da Eurostat a marzo 2015. L’Italia è il terzo paese in termini di domande ricevute, dopo Germania e Svezia. A registrare il numero più alto di migranti accolti sono i tedeschi, con una cifra che è pari a un terzo del totale (202.700), seguiti dagli svedesi con 81.200 (il 13 percento) e per l’appunto da noi italiani, insieme ai francesi. L’Ungheria, che ha ricevuto 42.800 richieste d’asilo (il 7 percento di tutta l’Ue) si colloca al quinto posto. Se si prende in esame, però, il rapporto tra richiedenti asilo e popolazione totale: la media Ue è di 1,2 richiedenti asilo ogni mille abitanti. L’Italia si colloca leggermente al di sotto con 1 rifugiato ogni mille abitanti. In Svezia il numero sale a 8,4 ogni mille abitanti, in Ungheria a 4,3, in Austria a 3,3 e in Germania a 2,5.
A livello mondiale, poi, il numero più alto di richiedenti asilo è accolto nei paesi in via di sviluppo. Alla fine del 2013, in questi paesi hanno trovato accoglienza 10,1 milioni di persone, equivalenti all’86 per cento dei rifugiati del mondo, il valore più alto degli ultimi 22 anni. I paesi in assoluto meno sviluppati (come Pakistan, Etiopia, Sud Sudan e Kenya) hanno da soli provveduto a dare asilo a 2,8 milioni di rifugiati, corrispondenti al 24 per cento del totale mondiale, come sottolinea l’ultimo Rapporto sulla protezione internazionale del 2014.

Quella via mare è solo una delle rotte utilizzate dai migranti per raggiungere l’Europa. Senza contare che il grosso dell’immigrazione, in Italia e in Europa, è costituito da migranti comunitari che arrivano via terra, semplicemente prendendo un autobus o un aereo, anche l’immigrazione extra Ue è un fenomeno che si snoda secondo diverse direttrici. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, ad aprile sono 23mila le persone arrivate via mare, a fronte delle 34mila che hanno scelto la terraferma, attraverso la rotta dei Balcani occidentali, per raggiungere la Slovenia e l’Ungheria e poi giungere in Germania o in un altro paese del Nord dell’Europa. Cresce anche la rotta del Mediterraneo orientale, dove al 15 aprile i passaggi sono stati 17.628, il 241 per cento in più del 2013.

Non sempre gli scafisti sono anche trafficanti di uomini. In molti casi sono reclutati tra le file dei profughi, tra quelli che hanno un minimo di esperienza di navigazione. In cambio di un viaggio gratis, accettano di mettersi alla guida dei barconi, senza sapere se arriveranno a destinazione, accettando il rischio di un’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Su di loro non si può generalizzare - spiega don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habescia - I veri scafisti e trafficanti non vogliono rischiare più e mandano avanti  dei disperati. Spesso nigeriani, eritrei, etiopi o somali”. (ec)

Dalle Primavere arabe ad oggi i confini geopolitici nell’area del Vicino e Medio Oriente hanno subito una alterazione in termini di transitabilità territoriale. Si guardi al fenomeno dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), e alla sua facilità nel muoversi da uno Stato nazione all’altro superando i confini internazionali.

La permeabilità delle frontiere internazionali nell’area mediorientale ha trovato un elemento di accensione nei movimenti sociali, culturali, ideologici, che nati dall’esigenza di una dignità sociale hanno generato la crisi di governi nazionali, fino a quel momento preservati da uno status quo avallato dalle potenze esterne all’area come garanzia di equilibro regionale. Dalla fine del 2010 sullo scacchiere mediorientale si gioca la partita che modificherà gli assetti geopolitici regionali, definita da alcuni analisti  “nuova guerra fredda regionale araba”, con inevitabili ripercussioni sul panorama internazionale.

La Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia e l’effetto a cascata in Egitto, Libia e Yemen, anticipato dalle elezioni iraniane del 2009, ha evidenziato il coinvolgimento anche di Stati non arabi nelle manifestazioni di piazza, il cui orizzonte era dar voce alla propria coscienza sociale senza strumentalizzare la confessione. Le motivazioni portate nelle piazze avevano un’identità sociale non religiosa.

L’immigrazione sulle nostre coste ha lasciato emergere contraddizioni e debolezze della politica europea, da un lato volta a controllare le frontiere esterne, dall’altro a consentire la libera circolazione all’interno degli Stati dell’Unione.


Le frontiere esterne regolate dall’Accordo UE/Dublino III, che demanda allo Stato di primo asilo il ruolo di destinatario a cui rivolgere la richiesta di protezione internazionale, conferisce all’Italia l’esclusività nella gestione dell’accoglienza, e la Direttiva/51/CE per il controllo delle frontiere interne all’area Schengen, che potrebbe costituire un valido strumento di contrasto alle organizzazioni criminali fautrici dell’immigrazione via mare, non è applicabile alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato.

L’Italia è il paese più esposto ad affrontare una situazione di emergenza generata dalla recrudescenza del fenomeno dell’immigrazione clandestina. E l’assenza di un quadro comunitario volto a collaborare, amplifica le difficoltà.

Dal 2013 il Resettlement Program/UE ha l’obbiettivo di “reinsediare” i rifugiati in aree cuscinetto intorno alle aree di crisi (Vicino e Medio Oriente) con un finanziamento da parte della Commissione Europea a supporto del FER (Fondo europeo per rifugiati) fino ad un massimo di 10.000 euro per rifugiato. Il Programma non ha riscontrato efficacia sul contenimento dell’immigrazione clandestina sia per la mancata partecipazione di tutti gli Stati membri dell’Unione, sia per la sua natura di programma volontario che richiede la cooperazione degli Stati di destinazione.

La fine di Mare Nostrum – missione militare e umanitaria con lo scopo di soccorrere i migranti fino al confine delle acque territoriali libiche – e l’introduzione dell’operazione Triton con l’obbiettivo di controllare le frontiere esterne nel Mediterraneo entro un raggio di 30 miglia, ha sottoposto l’Italia a dura prova  di fronte all’emergenza immigrazione.

E il piano elaborato dal Consiglio Europeo, potenziando in termini economici l’operazione Triton da 3 a 9 mln di euro al mese, anche agli occhi delle Nazioni Unite è risultato mancante per aver difeso l’identità militare senza assurgere ad un carattere umanitario, lasciando inalterati i confini territoriali entro i quali si svolge il monitoraggio delle acque europee.

L’assenza di un interlocutore istituzionale aumenta le difficoltà di convogliare verso la soluzione al problema dell’immigrazione clandestina.  La Libia rappresenta il punto da cui partire ma attualmente coesistono due governi, uno a Tripoli non riconosciuto dalla comunità internazionale e l’altro legittimo a Tobruk.

Un Paese ponte tra il Sahara e le coste mediterranee, dove il transito di esseri umani avviene in totale assenza di un controllo governativo, se non da parte di gruppi che si contendono il dominio sui territori interni di passaggio.

La geopolitica delle frontiere non è l’unico quadrante di una scacchiera destinata a mutare ulteriormente. Entra in gioco la geopolitica degli idrocarburi, l’Italia importa dalla Libia il 24% di gas e 27 % di petrolio.  E la geopolitica delle comunicazioni, con il transito di dati che dalla Sicilia passa per Tripoli e arriva oltreoceano. Mazara del Vallo è il cable landing point più importante d’Italia. Da qui transitano le comunicazioni globali, dati –  internet – telefonia,  di 9 importanti cavi sottomarini di fibre ottiche.

Lo scenario futuro dipenderà in maniera significativa dalle azioni del presente, dal ruolo che svolgerà l’Unione Europea e l’Italia in primis, nel nuovo ordine che si delineerà entro i confini del Vicino e Medio Oriente.
A oggi il fenomeno-immigrazione, affrontato spesso anche in Italia con pregiudizi ideologici o moralistici. Due i rischi che si corrono e tra loro opposti: da un lato il “buonismo” di chi vorrebbe far passare tutti, dall’altro la chiusura pregiudiziale di chi sostiene che non ci sono risorse sufficienti per gli italiani. Ci sarebbe una terza prospettiva, poco praticata: quella di valutare cosa rappresenti oggi l’immigrazione per l’Italia, quale peso economico e sociale abbiano gli immigrati regolari, quanto spazio ci sia nel mondo del lavoro per eventuali nuovi arrivi o l’accoglienza di coloro che fuggono dalle guerre e persecuzioni (Siria, paesi sub-sahariani, Eritrea ecc.).

Andando alla ricerca di dati e riscontri, si scopre anzitutto che gli italiani posseggono una percezione alquanto distorta sul peso e ruolo degli immigrati. Il Cisf (Centro internazionale studi famiglia) diretto da Francesco Belletti, ha sviluppato una ricerca dal titolo “Le famiglie di fronte alle sfide dell’immigrazione”, intervistando 4mila persone. Emerge che il 52% è d’accordo sul fatto che gli immigrati sono necessari per fare il lavoro che gli italiani non vogliono più fare, l’80% ritiene che se c’è poco lavoro gli italiani dovrebbero avere la precedenza, il 47% pensa che i figli di immigrati (più prolifici di noi) sono essenziali per compensare le nostre nascite sempre più scarse. E ancora il 78% dice che le case popolari andrebbero date per primi agli italiani; il 58% ritiene che i matrimoni misti producano maggiori conflitti e problemi; il 73% pensa però che le unioni miste favoriscano l’integrazione culturale e il 71% che il ricongiungimento culturale crei integrazione sociale. Il campione analizzato dal Cisf vede un 35,5% di “ostili” agli immigrati, un 35,3% di “problematici” e solo un 29,2% di “aperti”. Se oltre il 70% degli italiani hanno forti dubbi sull’immigrazione, il recente progetto “Integra. Famiglie in azione per una società interculturale”, condotto dal Forum famiglie in 7 regioni, ha mostrato che laddove si attuano concrete azioni di sensibilizzazione e dialogo, cambiano gli atteggiamenti sia degli italiani sia degli immigrati. Ma il percorso è lungo e difficile.

Dalla ricerca della Fondazione Leone Moressa, diretta dal prof. Stefano Solari, economista dell’università di Padova, emerge che sul totale di circa 5 milioni di stranieri presenti sul suolo italiano i contribuenti sono ben 3,5 milioni e hanno dichiarato 44,7 miliardi di euro, pari al 5,6% del totale dei redditi. In media ciascuno di loro ha dichiarato 12.930 euro, quasi 7.500 in meno della media italiana. Gli imprenditori stranieri sono oltre 600mila, l’8,2% del totale delle imprese italiane (per lo più piccole imprese commerciali e di servizio con pochissimi addetti) che producono il 6,1% del valore aggiunto nazionale (pari a 85,6 miliardi). Gli stranieri hanno intestate 2,8 milioni di auto e danno allo Stato un gettito pro-capite di 300 euro di sole imposte sui trasporti (840 milioni l’anno). I contributi Inps sono il 4,2% del totale per oltre 9 miliardi di euro, che sommati al gettito fiscale rappresenta un totale di 16,5 miliardi che entrano nelle casse pubbliche. Il calcolo della Fondazione Leone Moressa è che a fronte di questi 16,5 miliardi in entrata, lo Stato spenda per loro 12,6 miliardi (sanità 3,7; scuola 3,5; giustizia 1,8; trasferimenti economici, 1,6; servizi sociali, 0,6; casa 0,4) con uno sbilancio a favore dello Stato di 3,9 miliardi.

Visti questi dati, ci si chiede quale sia il reale grado di “pericolosità” degli immigrati rispetto ai conti pubblici e alla tenuta sociale del paese. Per le pensioni, ad esempio, versano 7,5 miliardi e ne ricevono “solo” 600 milioni, cioè di fatto pagano le pensioni agli italiani anziani. Quanto alle tasse abbiamo visto come contribuiscano per quasi 8 miliardi. I loro figli sono il 15% del totale e tengono alto il tasso demografico che, altrimenti – come nota il demografo Gian Carlo Blangiardo – “vedrebbe l’Italia condannata all’estinzione”. Sono dei grossi lavoratori, questo sì, in quanto pur essendo poco più del 7% della popolazione, “occupano” il 10,5% dei posti di lavoro (escluso il sommerso), ma i loro salari sono più bassi del 15-20%. In conclusione, considerato che nel mondo i migranti sono oltre 200 milioni, il dato di averne tra noi 5-6 milioni è poca cosa sul piano statistico. Semmai bisogna interrogarsi sull’appello del Papa a non chiudere le porte… ragionando anche in termini economici e valutando i benefici che l’immigrazione rappresenta per noi.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/09/tossicodipendenza-e-costi-sociali.html





.

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



domenica 30 agosto 2015

TU GIOCHI....IO LAVORO

.


Io sono un bimbo come te...però tu con la palla ci giochi mentre io la palla la costruisco per mangiare e dare da mangiare alla mia famiglia.
Sono almeno 168  milioni i bambini e gli adolescenti nel mondo costretti a lavorare, di cui 85 milioni in lavori altamente rischiosi. L'agricoltura il settore con la più alta presenza di minori - 98 milioni - ma bambine, bambini e adolescenti sono coinvolti anche in attività domestiche, nel lavoro in miniera o nelle fabbriche, spesso in condizioni di estremo pericolo e sfruttamento. L'Africa sub sahariana l'area del mondo con massima incidenza di minori al lavoro. Il lavoro minorile è presente anche in Italia e riguarda  almeno 340.000 minori sotto i 16 anni, di cui 28.000 coinvolti in attività molto pericolose per la loro sicurezza, salute e ai limiti dello sfruttamento. Per questo è urgente l'adozione di un piano nazionale sul lavoro minorile e di contrasto e prevenzione dello sfruttamento lavorativo di bambini e adolescenti nel nostro paese.

Lo chiedono Save the Children e ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), nella Giornata Mondiale contro il Lavoro Minorile del 12 giugno. "Alla vigilia di un anniversario ufficiale - dice Raffaela Milano, direttore programmi Italia-Europa di Save the Children - ci ritroviamo a constatare una mancanza di attenzione al lavoro minorile nel nostro Paese,  sia in termini di monitoraggio del fenomeno, che di azioni specifiche per prevenire e contrastare il fenomeno, anche nelle sue forme peggiori, nonostante si tratti di un problema presente e che rischia di peggiorare,  anche a causa della crisi economica",

Il rischio di compromettere il futuro. "Come emerge dal Rapporto mondiale sul lavoro minorile 2015 dell'Ilo, diffuso ieri, un bambino costretto a lavorare prima del tempo, avrà il doppio delle difficoltà dei suoi coetanei ad accedere ad un lavoro dignitoso in età più adulta - commenta Furio Rosati, dell'ILO e direttore del programma di ricerca ILO-UNICEF-Banca Mondiale Understanding Children's Work (UCW) - correrà molti più rischi di rimanere ai margini della società, in condizioni di sfruttamento. E' cruciale assicurare ai minori - ha aggiunto - una istruzione di qualità almeno fino all'età minima di accesso al mercato del lavoro per garantire l'acquisizione delle conoscenze base e delle competenze adeguate alle necessità del mercato del lavoro. Dobbiamo impedire che il lavoro minorile comprometta il presente e il futuro dei bambini e agire perché ciò non accada, sia nei paesi in via di sviluppo che nei paesi più benestanti,  Italia inclusa".


Secondo la ricerca Game Over di Save the Children, il 7% dei minori nella fascia di età 7-15 anni in Italia è coinvolta nel lavoro minorile. Più di 2 minori su 3 (fra 14 e 15 anni) sono maschi e circa il 7% è un minore straniero. L'11% degli adolescenti che lavorano - pari a circa 28.000 - sono coinvolti nelle forme peggiori di lavoro minorile, con orari notturni o con un impegno continuativo, con il rischio reale di compromettere gli studi, di non avere neanche un spazio minimo per il gioco e  il divertimento o per il necessario riposo. Lavorano  per lo più in attività di famiglia (44,9%) mentre per ciò che riguarda i minori impiegati all'esterno del circuito familiare, i settori principali sono quello della ristorazione (43%), dell'artigianato (20%) e del lavoro in campagna (20%).

E sono stati coinvolti in sfruttamento lavorativo anche molto pesante la gran parte di minori nel circuito della giustizia minorile, come emerge da un'ulteriore indagine di Save the Children. "Il picco di lavoro minorile si registra  fra gli adolescenti, in quell'età di passaggio dalla scuola media alla superiore, che vede in Italia uno dei tassi di dispersione scolastica più elevati d'Europa e pari al 18,2%", spiega Raffaela Milano. "Bisogna intervenire per spezzare il circuito perverso fra dissafezione scolastica e lavoro minorile, rafforzando i progetti contro la dispersione scolastica, gli interventi di sostegno formativo per i ragazzi che hanno prematuramente abbandonato gli studi e favorendo una maggiore continuità fra scuola e lavoro attraverso percorsi  protetti di inserimento lavorativo. Un lavoro dignitoso, a differenza di quello illegale e sfruttato, può essere uno strumento virtuoso per favorire lo sviluppo della personalità del minore, la sua responsabilizzazione e le capacità relazionali ed è quindi cruciale finanziare e potenziare questi percorsi", precisa Raffaela Milano.

In Africa, Asia, America Meridionale, Italia, Ungheria, Svizzera, Mongolia, Cina e Tibet all'inizio degli anni ottanta i piccoli lavoratori erano stimati a oltre 5 milioni. In questo momento sono oltre 150 milioni e secondo alcune stime anche 250 milioni. Il fenomeno del lavoro minorile riguarda non solo i paesi in via di sviluppo ma anche l'occidente industrializzato.

I lavori imposti ai bambini si possono dividere in due categorie: settore produttivo: agricoltura, industria, pesca, e settore urbano. In agricoltura i bambini vengono impiegati nei piccoli orti familiari, oppure dalle multinazionali nelle agricolture di piantagione come braccianti. Nell'industria invece i ragazzi, generalmente fra i 7 e i 15 anni, vengono impiegati per produrre oggetti tessili, ad esempio tappeti; oppure per fare palloni o scarpe.

La responsabilità del lavoro minorile va attribuita in primo luogo alla povertà: nella maggior parte dei casi i bambini devono lavorare per costruire palloni, scarpe o per cucire abiti. Il lavoro infantile o minorile può essere causa, e non solo conseguenza, di povertà sociale e individuale. In alcuni casi svolgendo attività lavorative, un bambino non avrà la possibilità di frequentare in modo completo neppure la scuola elementare, rimanendo in una condizione di analfabetismo, a causa della quale non potrà difendere i propri diritti anche da lavoratore adulto. Infatti molto spesso i lavoratori venivano imbrogliati dai padroni perché erano analfabeti e non potevano sapere che cosa il proprio padrone stava facendo loro firmare, e doveva stare ai suoi ordini magari per anni o addirittura fino alla loro morte.

Sono più di 1 su 20 i minori sotto i 16 anni coinvolti nel lavoro minorile in Italia: il 5,2% della fascia 7-15 anni per un totale di circa 260.000 giovani.

Una prima mappatura del lavoro minorile in Italia ci consegna un Paese fortemente spaccato: al centro e al nord il rischio spazia da "molto basso" a "medio" (a Roma e Milano), mentre al sud e nelle isole diventa "alto" e "molto alto" con i picchi più alti in Sicilia e nelle province di Foggia e Vibo Valentia.

In Italia, lo sfruttamento del lavoro minorile è vietato dalla legge 977 del 17 ottobre 1967.



Nel 1924 la Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni adotta la Convenzione di Ginevra (o Dichiarazione dei diritti del bambino). Il 20 novembre 1989, con l'approvazione da parte dell'ONU della Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia, vi è un tentativo di arginare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile. Viene infatti stabilito che i bambini hanno il diritto "di essere tutelati da tutte le forme di sfruttamento e di abuso".

Per fermare lo sfruttamento minorile sono state promosse iniziative come la promozione di marchi commerciali (Fair Trade) che garantiscano che un determinato prodotto non sia stato fabbricato utilizzando manodopera infantile. Questi programmi, pur essendo mossi da buone intenzioni, non creano alternative ai bambini attualmente occupati, che si ritrovano così costretti a indirizzarsi verso altre attività produttive, nella maggior parte dei casi più pericolose. Nonostante i numerosi provvedimenti attuati, i bambini vittime di schiavitù e privati di una buona infanzia sono ancora molti.

I bambini costretti a lavorare invece di andare a scuola e di giocare sono una realtà ancora largamente diffusa in questo terzo millennio, come se i progressi fatti nel campo dei diritti non fossero ancora riusciti a strappare i più piccoli dalla schiavitù e dallo sfruttamento. E non soltanto nei paesi in via di sviluppo.


LEGGI ANCHE : http://popovina.blogspot.it/2015/08/un-diamante-e-per-sempre-e-la-vita.html






FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



Post più popolari

Elenco blog AMICI