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domenica 26 giugno 2016

IL CAPORALATO

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Il caporalato, nell'accezione originaria del termine, è un antichissimo sistema di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro (squadre) di dimensione variabile (da pochi individui a diverse centinaia). Esso si basa sulla capacità del "caporale" (che può essere un dipendente del proprietario del fondo agricolo oppure un operatore indipendente) di reperire la manodopera adatta, per le prestazioni della quale competono tutti gli imprenditori agricoli di una determinata zona, di condurla sul fondo e di dirigerla durante l'attività lavorativa.

Il caporale agisce, di fatto, come un vero e proprio mediatore di manodopera, che si fa anche carico di governarne l'attività secondo le richieste dell'imprenditore agricolo. Il caporale ingaggia per conto del proprietario i braccianti, stabilisce il loro compenso del quale tiene per sé una parte (che gli viene corrisposta o dal proprietario o dai braccianti reclutati).

Tuttavia in epoca contemporanea, a seguito del crollo dei prezzi agricoli (dovuto alla concorrenza internazionale ed al contestuale aumento del costo della manodopera), la pratica del caporalato è progressivamente degenerata, trasformandosi da lecito sistema di organizzazione del lavoro agricolo in un'attività volta all'elusione della disciplina sul lavoro, mirando allo sfruttamento a basso costo di manodopera che viene fatta lavorare abusivamente ed illegalmente a prezzi di solito assai inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e senza il versamento dei contributi previdenziali.

Il fenomeno è molto diffuso in Italia soprattutto nel mezzogiorno. Il caporalato è spesso collegato ad organizzazioni malavitose. Esso generalmente trova grande riscontro nelle fasce più deboli e disagiate della popolazione, ad esempio tra i lavoratori immigrati (come gli extracomunitari). Anche il Nord non è da meno, ogni anno infatti a Milano con l'avvicinarsi del Salone del Mobile, Rho diventa la maggior piazza del caporalato in città. Lo sfruttamento della manodopera a basso costo in agricoltura è prassi diffusa non solo nelle regioni del Sud, ma anche in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e provincia di Bolzano.

Questa pratica è documentata nelle cronache: nel maggio del 1980 tre ragazze di Ceglie Messapica in Puglia perdono la vita in un autobus dei caporali. Il 17 luglio alcuni caporali tentano di investire dei lavoratori e dei sindacalisti di Villa Castelli durante una manifestazione contro il fenomeno, dopo aver rivolto nei loro confronti ripetute minacce di morte. Il 21 luglio sempre a Villa Castelli otto caporali armati di pistola aggredirono i sindacalisti della CGIL e assaltarono la sede locale del sindacato.

Il fenomeno del caporalato si è ancor più diffuso con i recenti movimenti migratori provenienti dall'Africa, dalla Penisola Balcanica, dall'Europa orientale e dall'Asia: infatti chi emigra clandestinamente nella speranza di migliorare la propria condizione finisce facilmente nelle mani di queste persone, che li riducono in condizioni di schiavitù e dipendenza. Nel gennaio 2010 i lavoratori extracomunitari di Rosarno in Calabria organizzano una serie di manifestazioni contro i caporali, la tensione sfocia in una escalation di violenza tra braccianti e abitanti del piccolo centro calabrese. Il 26 aprile 2010 sono arrestati a Rosarno 30 caporali, sfruttavano lavoratori extracomunitari che erano costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi, raccogliendo agrumi coltivati nel rosarnese, con turni di lavoro pari a 15 ore al giorno, l'inchiesta ha consentito inoltre di fare luce su un sistema di truffe perpetrate ai danni degli enti previdenziali. Sul piano patrimoniale, sono stati sequestrati duecento terreni e venti aziende agricole per un valore complessivo di 10 milioni di euro. Il 5 giugno 2011 a Villa Castelli nell'ambito dell'operazione Little Castle dalla Guardia di Finanza sono sequestrati beni per un totale di un milione e mezzo di euro.

L'art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 ha introdotto nel codice penale italiano il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Le pene previste per i cosiddetti "caporali" sono la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 1.000 a 2.000 € per ogni lavoratore coinvolto.

Inchieste giornalistiche del 2015 mostrano che il fenomeno continua ad aver diffusione anche nei confronti di donne italiane durante le campagne di raccolta dell'uva e delle fragole. I media hanno riportato, in un caso tragico che ha fatto scalpore che l'azienda pagava regolarmente l'agenzia di lavoro interinale, mentre alla lavoratrice arrivava una retribuzione enormemente inferiore.

Il governo ha annunciato il ricorso a strumenti normativi per punire gravemente, fino alla confisca dei beni, le aziende che utilizzano manodopera tramite il caporalato, mentre sui media si è sottolineato che il problema risiede principalmente nell'intermediazione, mascherata da forme solo in apparenza con una rispettabilità legale (false cooperative, filiali inquinate di agenzie di lavoro interinale).

Sono oltre 400 mila le vittime del caporalato in Italia. I nuovi schiavi passano intere giornate sotto il sole, curvi nei nostri campi per paghe da fame, minacciati e taglieggiati, costretti a vivere in condizioni disumane.

Un giro vite contro aziende e caporali dovrebbe arrivare con una nuova legge attualmente in discussione in Senato.



Dopo lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri (Nardò – Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto sicuramente positivo ma che rischia di avere le altre conseguenze quella di ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto intercorrente caporalato e sfruttamento lavorativo. Una tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali non indifferenti.

Dal 2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento lavorativo in agricoltura. E questo non solo in ambito giornalistico, ma anche in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è limitato a discutere di interventi – tra l’altro ancora lontani dall’essere approvati – volti al solo contrasto del caporalato.

Per avere idea di quanto la questione del “caporalato” abbia fagocitato il dibattito sullo sfruttamento nel lavoro agricolo valga come esempio, per quanto grossolano, il seguente: cercando con Google i termini “caporalato agricoltura” il motore di ricerca trova 3.380 risultati, con le parole “sfruttamento agricoltura” le ricorrenze trovate sono solo 595. Stando al dibattito pubblico, sembrerebbe che le condizioni di grave sfruttamento che si riscontrano nell’ambito del lavoro agricolo, e in particolare dell’attività di raccolta stagionale, siano principalmente, se non esclusivamente, conseguenza dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro. Sono pochi gli interventi, soprattutto tra quelli divulgati, rivolti quindi alla maggioranza degli interessati al tema, a sottolineare che il fenomeno dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro prende forma all’interno di una specifica configurazione economica dove il sistema di reclutamento dei lavoratori garantito dal caporalato è semplicemente funzionale agli interessi delle imprese perché permette di avere accesso, in breve tempo e in maniera altamente flessibile, ad una massa di lavoratori che possono essere in questo modo reclutati esclusivamente sulla base delle esigenze datoriali. Il caporalato si configura quindi come un ‘servizio’ che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare i segmenti dotati di minore capacità e forza contrattuale. Non bisogna dimenticare che la vera forza del sistema del sistema del caporalato è, in primo luogo, l’assenza istituzionale. I cosiddetti caporali non fanno altro che colmare vuoti istituzionali mantenendo i contatti tra azienda e lavoratori – cosa che dovrebbe essere garantita da uffici pubblici attraverso le liste di prenotazione – e garantendo il trasporto dai luoghi di residenza e i luoghi di lavoro, favoriti in questo dall’abbandono e dall’isolamento spaziale e sociale determinato dalla condizione alloggiativa dei lavoratori costretti nei vari ghetti che, in linea teorica, non avrebbero ragione di esistere visto che le spese per l’alloggio per i lavoratori stagionali dovrebbero essere garantite per legge dai datori di lavoro.

Inoltre, nonostante il caporalato tenda ad essere rappresentato come un sistema omogeneo, il modo in cui prende forma a livello territoriale cambia, esistono diversi modelli che vanno dal “semplice” taglieggiamento delle paghe in cambio del servizio di trasporto e dell’ingaggio a forme di maggiore prepotenza e violenza, fino a quelle – in realtà non così diffuse come si penserebbe – riferibili alla riduzione in schiavitù.

Il caporalato è dunque solo uno degli elementi, importante ma solo accessorio, che concorre al mantenimento del sistema di sfruttamento e sospensione dei diritti che conosce l’attuale configurazione del lavoro agricolo nelle campagne dell’Europa mediterranea. In tutti i paesi dell’Europa mediterranea aumentano i ghetti, le tendopoli e i campi temporanei. Si tratta non solo di luoghi che nascono, nel disinteresse istituzionale, ai margini delle società e dei diritti, ma anche di luoghi creati proprio dalle stesse istituzioni, tappe obbligate delle traiettorie del lavoro stagionale agricolo, che costringono la vita dei soggetti ad un’eterna provvisorietà e ad un’indefinita transitorietà. Siamo di fronte ad una vera e propria ‘lagherizzazione’di un numero sempre crescente di cittadini ridotti ad ‘umanità eccedente’ costretta ad uno stato di eccezione permanente all’interno di spazi abietti.

Parlare di lavoro agricolo quindi equivale a parlare di un microcosmo sociale in cui si intersecano e si condizionano vicendevolmente dinamiche strettamente lavorative e più generali dinamiche politiche, economiche e sociali che sono esplicitate e amplificate perché il settore agricolo si situa al centro delle molteplici contraddizioni che caratterizzano la contemporaneità in quanto somma ed estremizza molte delle dinamiche che investono i mercati del lavoro e, più in generale, i sistemi produttivi dei paesi capitalisticamente avanzati. Tra le principali: quelle relative ai processi di precarizzazione della condizione lavorativa e il conseguente depauperamento del potere contrattuale dei lavoratori in generale e della forza lavoro migrante in particolare; quelle relative alle ricadute sul piano economico delle politiche migratorie; quelle relative ai processi di esclusione sociale; quelle innescate dalle filiere produttive e dai processi distributivi dei prodotti agricoli.

Se lo scenario qui tratteggiato ha ragion d’essere, non appare quindi casuale la grande enfasi data al tema del caporalato rispetto ai processi di sfruttamento in agricoltura. Non sorprende per esempio che sul piano politico il ministro dell’agricoltura dell’attuale governo, così come pure il viceministro allo sviluppo economico, siano impegnati in un’azione politica volta ad estendere (giustamente) il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole che se ne avvalgono, mentre poco, o meglio nulla, si dice e si fa, rispetto alle condizioni politiche, istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono forma, tanto il caporalato (declinato nelle sue diverse forme), quanto, più in generale, i processi di sfruttamento in agricoltura. Non è casuale questa scelta per il governo che più di altri si sta contraddistinguendo per l’introduzione di politiche che precarizzano in maniera ancora più accentuata la condizione lavorativa, e il vergognoso jobs act non è che la punta dell’iceberg.

Oggi, sul piano dei rapporti lavorativi, la vera partita, in agricoltura ma non solo, va giocata sul terreno della lotta allo sfruttamento e su quello della lotta per i diritti. Un terreno su cui in Italia, in tanti, sono decisamente in ritardo. Insomma, fin quando la sacrosanta lotta contro il caporalato non sarà riportata all’interno di una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti del lavoro, poco si otterrà. Gli interventi sul piano penale sono insufficienti e la lotta al caporalato sarà destinata ad essere del tutto vana se non si interviene normativamente potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza in atto da quasi un trentennio che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali in materia di lavoro. Questa cosa, al momento, purtroppo, sembra non essere la prima preoccupazione di molti, sicuramente non è la prima preoccupazione dei ministri, né dei vari sottosegretari, né tantomeno del presidente del consiglio in carica e, cosa forse ancora più grave, non sembra essere la priorità delle organizzazioni che dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori.



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domenica 1 maggio 2016

IL LAVORO



Il lavoro è un diritto riconosciuto a tutti i cittadini dall'articolo 4 della Costituzione. In esso si dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Il diritto del lavoro è quel ramo del diritto che studia la disciplina degli aspetti ed i problemi attinenti alla disciplina del lavoro, del rapporto di lavoro, e tutte le tematiche ad esso collegate. Si tratta di una disciplina che è nata e si è sviluppata per regolare e attenuare le problematiche sociali sorte con la rivoluzione industriale.

Esso riguarda la regolamentazione delle relazioni tra datore di lavoro e lavoratore a quella delle relazioni sindacali (oggetto propriamente del diritto sindacale) a quella attinente alle assicurazioni sociali e previdenziali (di cui si occupa il diritto della previdenza e della sicurezza sociale). È uno di quei rami del diritto che più direttamente risente dell'influenza della situazione economica generale, occorrendo tradurre in norme e concetti legislativi le concezioni ideologiche o statalistiche del sistema di riferimento.

L'organizzazione internazionale di più antica data che opera nel campo del lavoro a livello mondiale è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, della quale fanno parte attualmente 178 tra i 191 Stati membri delle Nazioni Unite, che svolge un'attività normativa composta da raccomandazioni indirizzate agli stati in materia di lavoro; raccomandazioni però che gli stessi stati devono recepire e ratificare in progetti di convenzioni all'interno del proprio ordinamento. Se questo ha portato, almeno formalmente, ventate di civiltà e principi di civiltà giuridica nei Paesi membri meno sviluppati, ha avuto meno eco nei paesi a struttura giuridica più complessa come l'Italia, spesso dotata di una disciplina giuridica ben più sviluppata del principio recepito.

Portata ben più pesante hanno invece gli atti emanati dall'Unione europea, di cui l'Italia fa parte. Essendo infatti molto più ristretta come organizzazione (27 membri) e, soprattutto, essendo le fonti comunitarie vincolanti e, nel caso dei regolamenti, direttamente applicabili dopo la loro emanazione, ci si trova di fronte ad una uniformazione fra gli Stati membri dell'Unione di molte materie concernenti il diritto del lavoro.

La disciplina principale è stata per lungo tempo il codice civile italiano, fondamentale fu poi l'emanazione dello statuto dei Lavoratori nel 1970.

A partire dagli anni novanta del XX secolo si è avuta una progressiva introduzione di nuove figure e contratti di lavoro, soprattutto dopo l'emanazione del pacchetto Treu nel 1997. La normativa venne arricchita durante il governo Berlusconi II con la promulgazione nel 2003 della legge Biagi, e il successivo d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 che modificò in maniera incisiva il diritto del lavoro italiano. Infatti, con tale normativa si procedette ad una decisa trasformazione delle tipologie contrattuali in ambito lavorativo, sia estendendo la portata di alcune già esistenti (è il caso ad es. del cosiddetto lavoro interinale, ora denominato somministrazione di lavoro) sia con la creazione di nuove forme contrattuali (come il lavoro a chiamata e lavoro ripartito).

Nel 2014 il governo Renzi emanò una serie di norme - raggruppate in un pacchetto detto Jobs Act - che attuò un riordino dei contratti di lavoro e modificò lo statuto dei lavoratori.

Il lavoro è uno dei principi fondamentali fissati dalla Costituzione della Repubblica Italiana, valore addirittura fondante della Repubblica stessa (art.1) e criterio ispiratore dell'emancipazione sociale, oltre che oggetto di forte tutela. L'art.35 «tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», mentre gli art. successivi dettano precisi criteri di determinazione per materie delicate come retribuzione, orari di lavoro e ferie.

Come fonte centrale (almeno formalmente) dell'ordinamento giuridico italiano, la legge ordinaria (e gli atti con forza di legge) è lo strumento principale col quale lo Stato cerca di equilibrare i delicati equilibri delle parti coinvolte nei rapporti di lavoro.

Se alla fine del XIX secolo il legislatore intervenne solo per principi generali come lo sfruttamento dei minori o delle donne, col passare del tempo gli interventi divennero sempre più frequenti e sempre più complessi. Così il codice civile del 1942 arrivò a dare immediatamente definizione del lavoro subordinato (art. 2094), principi generali del contratto di lavoro (art.2060) e soprattutto una disciplina organica (oggi in gran parte aggiornata) per la tutela del lavoratore subordinato.

Dopo l'entrata in vigore della Costituzione, ci fu un'evoluzione della materia divisibile in tre periodi: un primo periodo di conservazione del modello di intervento tradizionale, con l'allargamento delle tutele già esistenti (legge 14 luglio 1959, n. 741; legge 23 ottobre 1960, n. 1369; legge 18 aprile 1962, n. 230). Un secondo periodo con la legge 20 maggio 1970, n. 300 con un provvedimento legislativo di sostegno alle organizzazioni sindacali, con l'introduzione del procedimento di repressione dell'azione antisindacale. E, infine, un terzo ed ultimo periodo d'inversione di tendenza e di contemperamento della tutela del lavoratore a favore delle esigenze di efficienza e produttività delle imprese e per la liberalizzazione del mercato del lavoro.

Un importante dibattito si è acceso in dottrina circa l'individuazione del fondamento dell'efficacia dei contratti collettivi di lavoro. Infatti, con l'abrogazione delle norme del sistema corporativo, il contratto collettivo non si poteva più considerare come un istituto pubblicistico (art. 2077 c.c.). Occorre pertanto rintracciare tale fondamento nell'autonomia privata (art. 1322 c.c.), e in tal caso risulta che l'autonomia collettiva sia, assieme all'autonomia individuale, una species del genere "autonomia privata". Il contratto collettivo produce dunque effetti vincolanti (art. 2113 c.c.) nei confronti degli iscritti all'associazione sindacale (datoriale o dei lavoratori) contraente a causa della sua natura e forza di atto di autonomia privata, destinato ad operare nell'ambito degli interessi collettivi gestiti dalle parti sociali e sottratti al potere di regolamentazione dei singoli (Renato Scognamiglio).

La funzione primaria del contratto collettivo è quella di integrare e, se possibile, migliorare le tutele offerte al lavoratore dalla legge, adattandole ai vari tipi di contesti (professionale, merceologico, geografico..). La stessa legge spesso rimanda al contratto collettivo, fissando solo determinati principi e lasciando a quest'ultimo la peculiare disciplina. Gli attuali contratti collettivi (cd di diritto comune) non hanno efficacia generale obbligatoria in quanto contratti di diritto privato stipulati tra soggetti privati (le organizzazioni dei datori e dei lavoratori). Essi trovano applicazione soltanto per i soggetti (datore di lavoro e lavoratore) che siano membri di dette associazioni sindacali o che vi abbiano fatto espresso rinvio nel contratto individuale di lavoro.

Vi sono tuttavia alcuni contratti collettivi degli anni '50 (circa 8.000 è difficile fare una stima numerica degli accordi collettivi recepiti in Decreto del presidente della Repubblica ma sono sicuramente di molto inferiori a 1000 al massimo qualche centinaio considerato che nel periodo considerato 1959-1961 e cioè prima del periodo antecedente alla sentenza della Corte Costituzionale del 1962, non si sono avuti più di 1400 provvedimenti legislativi l'anno) che hanno ottenuto efficacia obbligatoria per essere stati recepiti da provvedimenti di legge che ne hanno riprodotto il contenuto in virtù della legge n. 741 del 1959. Ma tale escamotage, elaborato al fine di superare la mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione (che permane tuttora), è stato dichiarato incostituzionale e non più utilizzato (rectius: è stata dichiarata illegittima la legge di proroga degli effetti della legge 741 respingendo così l'eccezione di incostituzionalità; quest'ultima aveva infatti carattere unicamente contingente, anche e soprattutto in relazione all'art. 39 Cost.). Restano ancora in vigore anche alcuni contratti collettivi del periodo corporativo, soppresso nel 1945, ma mantenuti in vigore per legge per non creare un vuoto normativo. Ma il loro ruolo è ormai praticamente inesistente.

La disciplina del rapporto di lavoro può essere affidata agli usi normativi, nel caso in cui non ci siano disposizioni di legge o contratti collettivi relativi (art. 2078 c.c., è da considerarsi abrogato l'art. 8 secondo comma delle disp. prel. al c.c.). Gli usi possono prevalere anche in caso di disposizione di legge se prevedono una tutela più efficiente, ma non prevalere sul contratto di lavoro. Gli usi aziendali sono da considerare come fonti del diritto del lavoro in alcuni casi. Gli usi negoziali, rientrando nell'ambito dell'autonomia individuale, non possono essere considerati fonti del diritto del lavoro.
L'equità ha una funzione sia sussidiaria che determinativa:
funzione sussidiaria: quando il giudice, ove occorra, si rimetta a valutazioni di tipo equitativo per stabilire i connotati del giusto salario (art. 36 Cost.)
funzione determinativa: l'art. 432 c.p.c. attribuisce al giudice il potere di liquidare in via equitativa le competenze del lavoratore.
L'autonomia individuale costituisce fonte di diritto nel senso limitato che il contratto che ne è espressione ha "forza di legge tra le parti" (art. 1372 c.c.) (Persiani-Proia).
Il contratto individuale (volgarmente "lettera di assunzione") è il contratto stipulato dal singolo lavoratore con il datore; tale contratto non può derogare alla legge, ma può contenere disposizioni in melius rispetto al contratto collettivo (ossia, oltre le condizioni minime di trattamento economico e normativo contenute nel contratto collettivo, il contratto individuale può stabilire ulteriori condizioni, ma solo a patto che siano più favorevoli per il lavoratore).



Una crisi economica che sembra non finire. Un mercato del lavoro che dà deboli segnali di ripresa mettendo però ancora ai margini i più deboli e i giovani, tanto da indurre Mario Draghi, il governatore della Banca Centrale Europea, a lanciare l’allarme di una generazione perduta. La paura, la rassegnazione e il cinismo spesso prevalgono e non aiutano a comprendere la grande trasformazione del lavoro che stiamo già vivendo. Ne subiamo, spesso mediaticamente, gli aspetti più negativi senza saperne cogliere le sfide e le grandi opportunità che ci offre. Eppure il cambiamento in atto non porta alla 'fine del lavoro' preconizzata da Rifkin oltre vent’anni fa. Basti pensare che nel decennio 2005-2015 tutta l’occupazione aggiuntiva americana è stata generata dalle cosiddette 'forme di lavoro alternative', ossia tutto ciò che non è contratto subordinato standard.

Parliamo di lavori nei servizi, proprio quei nuovi lavori che oggi ancora si faticano a definire e ad inquadrare, che vanno dal settore informatico, a quello della sicurezza, passando dagli autisti di Uber e Lyft fino ai servizi alla persona forniti però attraverso agenzie specializzate. Un dato questo che chiarisce più di ogni elucubrazione come il normale rapporto di lavoro subordinato sul quale si è costruito il modello economico e sociale del Novecento stia lentamente scomparendo.

Le cause sono molteplici e vanno dalle diverse esigenze di vita dei lavoratori contemporanei, alla necessità di maggior flessibilità nei sistemi produttivi. Il secondo dato, per restare negli Usa, è che dal 1950 ad oggi siamo passati dal 24% di lavoratori nell’industria all’8,5%. Nello stesso periodo sono cresciuti gli utili ed è cresciuta la produttività. Questo, in parole povere, significa che oggi per produrre gli stessi beni di 60 anni fa abbiamo bisogno di un terzo dei lavoratori. Ma la transizione in atto, soprattutto in Germania, verso la nuova fabbrica intelligente, con la nascita di nuove figure professionali e nuovi lavori, ci porta a dire che siamo anche in questo campo di fronte ad un cambiamento, non all’ultima tappa.

Questi dati si innestano su fattori demografici e inefficienze strutturali nel mercato del lavoro, nella formazione, nella scuola, nell’università con particolare riguardo alla ricerca, nella composizione dei servizi creditizi e finanziari all’impresa, che collocano l’Italia in una posizione di particolare debolezza nel nuovo scenario di marcato dinamismo e 'agilità' che pure dovrebbe essere propizio alle dimensioni delle nostre imprese e ai caratteri originali dei nostri lavoratori e imprenditori. Le tecnologie digitali cambiano l’organizzazione della produzione di beni e servizi e, in conseguenza, il lavoro, con caratteristiche di velocità e imprevedibilità che non hanno precedenti. Vengono progressivamente abbandonati i modelli organizzativi verticali fondati sulla esecuzione di ordini gerarchicamente impartiti e sul relativo potere di controllo; si affermano relazioni lavorative orizzontali che lasciano spazio alla creatività e alla responsabilità; il lavoro si realizza per cicli, per fasi o per obiettivi; cambia radicalmente il concetto di inquadramento e di mansione staticamente inteso; si smaterializza la postazione fissa, l’orario di lavoro diventa flessibile e talora autogestito; la retribuzione viene definita in modo crescente per risultati. Questi tumultuosi cambiamenti, che incidono su imprese e lavoro, non sono solo di tipo economico.

Stili di vita, preferenze, esigenze personali e professionali sono in rapida evoluzione. Non più un posto di lavoro per tutta la vita, ma neanche un unico luogo di lavoro durante lo stesso rapporto di lavoro, e neppure un orario fisso. La mobilità e il cambiamento di occupazione non sono più visti in negativo ma anche come un passaggio spesso obbligato per acquisire nuove e maggiori competenze. Le tecnologie di nuova generazione non sono altro, in questa dimensione, che uno strumento funzionale a questi profondi mutamenti sociali e culturali aprendo nuove opportunità professionali e occupazionali. L’agilità insomma diventa una caratteristica pervasiva della vita e in essa delle prestazioni lavorative; non si risolve nel solo lavoro a distanza o nel solo incremento della produttività indotto dal risparmio di tempo. Si tratta quindi non di fissare i cambiamenti immaginando di codificarli in nuove norme, destinate ad essere sempre incapaci di comprendere una realtà dalle molte sfaccettature e in rapido divenire, ma di individuare strumenti duttili, utili ad accompagnare l’impiego delle tecnologie in modo che esprimano tutti i vantaggi potenziali per i lavoratori e per le imprese.

In una situazione così complessa sembrano due le strade da percorrere parallelamente. Da un lato limitare un certo allarmismo che, come i lavoratori luddisti che nell’Ottocento distruggevano le macchine, identifica tutto ciò che è cambiamento unicamente come un potenziale rischio e mai come una opportunità. Terrorizzare i giovani, dipingendo un futuro grigio e senza lavoro non solo è pericoloso ma è anche anti-storico. Nessun lavoratore agricolo di due secoli fa avrebbe potuto immaginare che la sua professione poteva scomparire quasi totalmente senza che i tassi di occupazione calassero drasticamente come è accaduto, per poi rinascere sotto nuove forme sicuramente meno pesanti e faticose e anzi in linea con le istanze di sostenibilità di cui parla Papa Francesco. La seconda strada è quella di imparare ad osservare la realtà del mondo del lavoro. È un appello fatto più volte ma sempre meno ascoltato.

Esistono invece dati, esperienze in atto, sperimentazioni, nuovi modelli che possono servire da base empirica per un dibattito serio, anche in chiave di riforme politico-economiche. Per costruire insieme a chi già ci sta provando una visione per il futuro, partendo non da immagini che mai come oggi sono fumose e mutevoli, ma da quello che già c’è. Occorre ripartire quindi da quel 'fare insieme' al quale il Pontefice ha richiamato tutti poche settimane fa, una dimensione collettiva e comunitaria della quale oggi abbiamo più bisogno che mai. A partire dal rapporto tra lavoratori, tra lavoro e impresa, tra impresa e istituzioni, riscoprendo l’esistenza di tessuti sociali, corpi intermedi, rappresentanza che vivono oggi una crisi che non basta a sancirne l’inutilità.



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lunedì 7 marzo 2016

LE DONNE NEL MONDO



Numerose e diverse culture hanno riconosciuto alla donna capacità e ruoli limitati alla procreazione e alla cura della prole e della famiglia. L'emancipazione femminile ha rappresentato, negli ultimi secoli, la ricerca di un'uguaglianza formale e sostanziale tra la donna e l'uomo.

Nella preistoria di Homo sapiens la situazione è stata sicuramente variata e diversificata a seconda delle culture, epoche e luoghi geografici. Partendo da 200 000 anni fa, la società ha presentato variabili modelli, dal cacciatore di piccole prede e raccoglitore del paleolitico medio organizzato in piccole unità sociali, attraverso le più numerose società dedite alla caccia dei grossi mammiferi come mammut e ungulati, fino alle culture stanziali dedite ad agricoltura ed allevamento dell'età del rame.
Attraverso le varie epoche si sono potuti ipotizzare vari schemi sociali, e secondo alcune teorie anche matriarcato o società con parità di genere come nel caso delle sei nazioni, formate da popoli ascrivibili al neolitico, ma in nord America giunte alla nostra cultura in epoca storica, in popolazioni melanesiane, ed altre ancora.

Nell'immaginario, sicuramente supportato da diverse prove, ma non esauriente tutte le situazioni, mentre l'uomo si dedicava alla caccia le donne si specializzarono nella raccolta di bacche commestibili, radici e frutti. Si ritiene, in alcune situazioni, che fossero impegnate per gran parte della loro vita da gravidanze, allattamento e cura della prole, fossero meno mobili e si dedicassero alla raccolta dei vegetali commestibili e dei piccoli animali.

Alla fine del paleolitico superiore si ritiene che la donna avesse come compito primario quello di procreare, come si dedurrebbe dal fatto che in alcune sculture (di epoca magdaleniana), vengono evidenziati gli organi connessi alla riproduzione: a scapito delle altre parti del corpo, il ventre e i fianchi sono decisamente prominenti, il seno voluminoso. In altri reperti invece, sempre afferenti alle veneri paleolitiche si evidenziano fatture longilinee.
In alcuni periodi in cui parte dell'umanità viveva allo stato nomade, si suppone che esse fossero sottomesse al maschio. Secondo altre teorie, almeno alcune società primitive erano invece matriarcali e, solo in un secondo momento, si sviluppò la supremazia maschile. Non ci sono sufficienti dati archeologici per convalidare o confutare completamente le teorie.

In un primo momento nella civiltà egizia ed in quelle mesopotamiche (Persia, Assiria, Babilonia) la donna aveva una posizione molto elevata all'interno della società. In questi luoghi è stato presente anche il matriarcato ma poi, con l'ascesa delle monarchie militari, persero di prestigio e si iniziarono a formare i ginecei, dai quali le donne non potevano uscire e dove non potevano vedere nessun uomo ad eccezione degli eunuchi e del proprio marito. In Egitto vi furono anche casi di donne di casta elevata, che riuscirono, spesso governando in nome dei figli ancora piccoli, dopo essere rimaste vedove, a divenire persino faraone: esempi furono Hatshepsut, Nefertiti e Cleopatra. Nefertari, la moglie di Ramses II, influenzò grandemente la politica del marito.

Nella civiltà minoica la condizione della donna era molto più avanzata che fra i micenei e la Grecia classica. Nella Grecia omerica la donna veniva rispettata ma esistevano comunque numerose contraddizioni. Nell'età di Pericle la donna ricca era tenuta in casa, mentre le donne povere erano costrette a lavorare e quindi avevano una certa libertà. Le donne non avevano diritti politici (non potevano quindi votare o essere elette membri dell'assemblea, durante l'età delle poleis) e non erano oggetto di legislazione giuridica (una donna non era colpevole, ad esempio del reato di adulterio, a differenza dell'uomo, perché ritenuta "oggetto del reato"). La condizione femminile ad Atene era assimilata a quella dello schiavo e dello straniero, o del maschio ancora minorenne. La donna passava molto tempo a contatto con la madre del marito, nel gineceo, e quest'ultima aveva un ruolo primario sulla sua educazione. Paradossalmente, se nella più raffinata Atene la donna era in condizione di inferiorità, nella militarista Sparta le donne della classe dominante (spartiati), pur non potendo governare o combattere, erano addestrate alle arti militari e godevano di maggiore libertà.



Nella società greca alle donne era vietato assistere a qualsiasi manifestazione pubblica, oltre che praticare qualsiasi attività sportiva (ad Atene), mentre a Sparta potevano dedicarsi a sport di tipo esclusivamente ginnico (danza, corsa, ecc). In occasione dei Giochi olimpici alle donne non era nemmeno permesso di avvicinarsi al perimetro esterno del santuario, pena la morte. Secondo un'antica tradizione si diceva addirittura che, se mai una donna avesse praticato una qualche attività sportiva, grandi sventure sarebbero arrivate in seguito a tutto il genere femminile. Ciò conferma la condizione di inferiorità a cui era soggetta la donna nella società greca, molto diversa, ad esempio, dalla condizione di relativa emancipazione di cui godeva la donna nel mondo romano.

In Grecia esistevano le mogli che si dedicavano esclusivamente all'educazione dei figli legittimi, le concubine che avevano rapporti sessuali stabili con l'uomo e la compagna, per il piacere. Esisteva inoltre la prostituta, che svolgeva il suo lavoro nelle strade o nelle case di tolleranza e alla quale spettava l'ultimo "gradino" nella scala sociale.

Aristotele affermava che la donna era inferiore all'uomo in quanto aveva cervello più piccolo e che la donna era un maschio mutilato.

Platone invece fu uno dei primi a pronunciarsi in favore delle donne, almeno in parte: sosteneva che le donne istruite alla filosofia, nello stato ideale da lui delineato, avessero uguali diritti politici degli uomini, e potessero accedere al governo. Questa tradizione rimarrà diffusa negli ambienti del platonismo. Anche Epicuro rivendicava pari dignità per le donne, all'interno della sua scuola filosofica, che accettava anche schiavi e stranieri. Durante l'età ellenistica la condizione femminile migliorò molto. Durante il dominio romano sul mondo greco (I secolo a.C-IV secolo d.C) molte donne di cultura ricoprivano ruoli importanti nella società, come Ipazia di Alessandria.

A Roma la donna era considerata quasi pari all'uomo: entrambi i genitori avevano pari obblighi nei confronti dei figli e la donna poteva accompagnare il marito ad una festa, a patto che mangiasse seduta e non sdraiata come era norma per gli uomini. In età arcaica era sottomessa al padre e al marito, mentre verso la fine della Repubblica e in età imperiale le donne di condizione elevata potevano svolgere una vita indipendente, ottenere il divorzio e risposarsi, mentre quelle delle classi basse erano rimaste sotto la soggezione maschile, con eccezioni delle prostitute, che pur essendo al gradino più basso (ad eccezione delle donne schiave), avevano una discreta libertà. Una certa indipendenza avevano le donne sacerdotesse dei vari templi.

Non mancarono tuttavia le limitazioni poste dal diritto romano alla capacità giuridica delle donne: esse non avevano lo ius suffragii e lo ius honorum, ciò che impediva loro di accedere alle magistrature pubbliche. Nel campo del diritto privato era inoltre negata alle donne la patria potestas, prerogativa esclusiva del pater, e conseguentemente la capacità di adottare. Il principio è espresso per il diritto classico dal giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni: Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent ("Le donne non possono affatto adottare, perché non hanno potestà neanche sui figli naturali"). Sempre da Gaio apprendiamo che alle donne, con l'eccezione delle Vestali, non era consentito in epoca arcaica di poter fare testamento. Tale ultima limitazione venne però abrogata già in epoca repubblicana.

Tra i casi di donne importanti, si può ricordare quello di Agrippina minore, moglie e nipote dell'imperatore Claudio e madre di Nerone, che durante l'assenza del marito in guerra, divenne l'unica imperatrice a battere moneta con la propria effigie e a governare de facto l'impero romano.

Nell'impero romano d'Oriente vi furono donne che regnarono e governarono in maniera assoluta, senza dividere il potere con i consorti, un esempio fu l'imperatrice Irene di Bisanzio.

Il messaggio cristiano contenuto nel Nuovo Testamento, che sotto questo punto di vista supera e reinterpreta notevolmente i precedenti testi dell'Antico Testamento, giunge ad equiparare di fatto uomo e donna. Gesù non si faceva scrupolo di predicare alle donne come agli uomini, dei miracoli narrati nei Vangeli ne beneficiavano tanto le donne quanto gli uomini, esse erano protagoniste delle parabole al pari degli uomini, e infine Gesù appare dopo risorto alle donne prima che agli uomini. Nelle lettere di Paolo, che descrivono la vita della primordiale chiesa apostolica, le donne vengono in alcuni passi esplicitamente equiparate agli uomini (Gal3,28;1Cor11,11-12).

Non mancano però testi delle epistole paoline in cui riemerge una visione impregnata dell'Antico Testamento, in cui s'invitano le donne alla sottomissione all'uomo (1Cor11,7;Ef5,22), o ne limitano l'attività nelle varie chiese locali (1Tm2,12;1Cor14,34-35). Il tenore dei passi però non sarebbe così marcato da indurre a parlare di misoginia e l'esame del contesto storico e letterario dei passi 'misogini' ridimensiona maggiormente il tenore del discredito: in 1Tm Paolo si riferisce a un problema concreto che la comunità di Efeso aveva con alcune fedeli (1Tm5,13), mentre in 1Cor la richiesta di silenzio durante i momenti carismatici dedicati alla profezia richiama il fenomeno della libera profezia femminile, spesso in contrasto con l'insegnamento degli Apostoli e della guida dei vescovi, che evolverà in seguito nel montanismo. La chiesa, se in principio aveva nella propria gerarchia anche donne, nel ruolo di diacono, successivamente riserverà agli uomini l'ordinazione sacerdotale, regola tuttora in vigore nella chiesa cattolica, e abolito invece nelle varie chiese protestanti e riformate.



Con l'arrivo dei barbari Franchi e Longobardi in Italia, la condizione della donna peggiora. Essa è infatti un oggetto nelle mani del padre, finché questi non decida di venderla ad un uomo, anche se vi furono regine che tennero il potere di fatto, come in effetti accadeva a volte nelle tribù barbariche.

Il Cristianesimo medioevale impose la sottomissione della donna all'uomo, ma la considerò importante in quanto doveva crescere spiritualmente i figli.

Con l'inquisizione alcune donne vennero ritenute rappresentanti del Diavolo sulla Terra (le streghe), capaci di trarre in inganno l'uomo spingendolo al peccato in qualsiasi modo.

Tuttavia, dopo il 1000, con l'avvento del dolce stil novo, la donna venne angelicata e considerata un tramite tra Dio e l'uomo. Tra le donne di potere vi fu la regina d'Italia e contessa Matilde di Canossa.

Alcuni filosofi illuministi avevano in precedenza preso posizione a favore dell'uguaglianza fra i sessi: fra essi d'Holbach, Condorcet, Voltaire.

Nelle insurrezioni le donne lottano a fianco degli uomini. Sono presenti il 14 luglio 1789 (presa della Bastiglia) e il 10 agosto del 1792 (assalto alle Tuileries). Nell'ottobre 1789 sono le prime a mobilitarsi e a marciare su Versailles, seguite nel pomeriggio dalla guardia nazionale. Quando la guerra porta gli uomini al fronte sono loro a sostituirli nelle fabbriche e nei laboratori con un salario minimo e inferiore a quello dei maschi. Non possono votare né essere elette, sono totalmente escluse dalla vita politica e dalle assemblee. Ma le donne non si arrendono e chiedono di essere arruolate nell'esercito per difendere la propria patria. L'assemblea legislativa, a cui si sono rivolte, gli ride in faccia, segno che, naturalmente,fa capire che non possono. Ma centinaia e centinaia di donne riescono a partire e a marciare verso il fronte. La girondina Olympe de Gouges fu una militante per i diritti femminili, ghigliottinata per aver difeso la regina Maria Antonietta e attaccato i giacobini di Robespierre.

Nel 1793 le repubblicane di Parigi chiedono che a tutte le donne sia fatto obbligo di portare la coccarda simbolo della rivoluzione e diritto alla cittadinanza. La convenzione approva, ma gli uomini hanno paura che poi chiedano anche il berretto frigio e le armi. Inoltre gli uomini trovano insopportabile che gli stessi diritti possono essere estesi anche alle donne e pensano che debbano ritornare alle faccende domestiche e non immischiarsi nella guerra.

Nell'Ottocento si diffusero anche le prime istanze femministe e di suffragio a livello europeo e negli Stati Uniti: si pronuciarono e lottarono per l'eguaglianza William Godwin e sua moglie Mary Wollstonecraft, quest'ultima dando inizio al movimento femminista. Il suffragio femminile fu sostenuto anche da John Stuart Mill, nel periodo della sua elezione come deputato alla Camera dei comuni. Anche il movimento marxista e socialista ebbe un ruolo importante nell'emancipazione femminile.

Le donne ebbero parte importante nel risorgimento italiano, ricordiamo numerose patriote: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Anita Garibaldi, Rosalia Montmasson (una dei Mille), Giuditta Bellerio Sidoli (amica di Giuseppe Mazzini).

La condizione delle donne nell'era vittoriana, nonostante il fatto che il sovrano fosse una donna, è spesso vista come l'emblema della discrepanza notevole fra il potere e le ricchezze nazionali dell'Inghilterra e l'arretrata condizione sociale. Durante il regno della regina Vittoria, la vita delle donne divenne sempre più difficile a causa della diffusione dell'ideale della "donna angelo", condiviso dalla maggior parte della società. I diritti legali delle donne sposate erano simili a quelli dei figli: esse non potevano votare, citare qualcuno in giudizio né possedere alcuna proprietà.

Inoltre, le donne erano viste come esseri puri e puliti. A causa di questa visione, i loro corpi erano visti come templi che non dovevano essere adornati con gioielli né essere utilizzati per sforzi fisici o nella pratica sessuale. Il ruolo delle donne si riduceva a procreare ed occuparsi della casa. Non potevano esercitare una professione, a meno che non fosse quella di insegnante o di domestica, né era loro riconosciuto il diritto di avere propri conti correnti o libretti di risparmio. A dispetto della loro condizione di "angeli del focolare", venerate come sante, la loro condizione giuridica era spaventosamente misera.

L’assenza di molti uomini chiamati a combattere provocò delle conseguenze a livello economico e sociale. Durante la Grande Guerra i posti di operai e contadini furono lasciati vuoti e vennero coperti dalle donne che passarono da "Angeli del Focolare" a membri attivi dell’economia e della società. Questo processo, però, non fu indolore perché le donne furono obbligate a compiere gli stessi lavori degli uomini e esse presero anche il posto dei mariti nelle faccende domestiche maschili. A questo non corrispose una maggiore libertà poiché spesso nelle case rimanevano gli anziani, i quali continuavano ad esercitare un ruolo autoritario all’interno della famiglia.

Il primo traguardo importante è il conseguimento del diritto di voto per il quale si batterono le suffragette. In seguito ai conflitti mondiali le donne, che avevano rimpiazzato i molti uomini mandati al fronte sul lavoro, ottennero maggiori ruoli in società e possibilità lavorative fuori dalla famiglia.Inoltre iniziarono ad aprire esercizi commerciali autonomi.

Le donne si sono battute per sostenere cambiamenti nel campo del diritto, dal voto all'IVG, dal divorzio alle leggi in materia di violenza sessuale. Le conquiste femminili nel mondo occidentale si sono tradotte in maggiori diritti e in un divario meno ampio tra i sessi. Malgrado questo, nemmeno nel mondo occidentale è stata raggiunta un'effettiva parità. La violenza sulle donne è una piaga presente tutt'oggi anche nei paesi occidentali. In base ad un'indagine del Parlamento Europeo, "almeno il 20% delle donne europee ha subito violenza nelle relazioni familiari e questa è una delle principali cause di decesso per le donne.



La condizione femminile in Italia comincia a migliorare verso la metà del XX secolo, quando, secondo alcune fonti, il movimento delle suffragette ottenne il suffragio femminile. Quest'ultimo venne infatti riconosciuto solo nel 1945 con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia, anche in riconoscimento della lotta sostenuta da molte donne durante la guerra. Nel dopoguerra, all'Assemblea Costituente vennero elette 21 donne. La spinta femminile per l'emancipazione diminuì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946 per poi rafforzarsi a partire dagli anni sessanta.

Si rafforza il movimento femminista che rivendicò gli stessi diritti degli uomini nella famiglia, nel lavoro e nella società. La Costituzione italiana del 1948 garantiva pari diritti in ogni campo (le donne hanno pari dignità sociale e uguali diritti rispetto al genere maschile, secondo l'articolo tre della Costituzione). Questo venne tradotto in legge effettiva solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, e l'apertura degli anni '90 al servizio militare femminile, l'ultima categoria rimasta (con l'eccezione del diritto canonico che è però un diritto fra privati interno alla chiesa) ad essere esclusivamente maschile, fino all'introduzione della nuova norma.

Ancora oggi però il World Economic Forum con un'indagine chiamata Global Gender Gap Index, rivela che nel 2010, su 128 Paesi, l'Italia si trova al 74º posto per uguaglianza di genere. L'indagine è oggetto di critiche in quanto è volta a rilevare i soli ambiti nei quali le donne sono sotto la parità. A sostegno di tale tesi si riporta che nello stesso documento è evidenziato che qualora, in un determinato ambito, sia rilevata una disparità a favore della donna e dunque a svantaggio dell'uomo il giudizio attribuito sarà "parità perfetta" e non sarà rilevata pertanto la disuguaglianza inversa donna-uomo. Tale metodologia rende, per molti, tale documento utile a valutare solo quei paesi nei quali le disparità uomo-donna sono molto elevate e presenti in tutti gli ambiti (escludendo dunque l'Italia).

Lo svantaggio femminile nella scuola secondaria di secondo grado, che storicamente caratterizzava il sistema scolastico italiano, è stato colmato agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le ragazze hanno sorpassato i ragazzi sia per tasso di partecipazione (il 93 per cento, contro il 91,5 degli studenti maschi nell'a.s. 2010/2011), sia soprattutto per percentuale di conseguimento del diploma: tra i diciannovenni nell'a.s. 2009/2010 il 78,4 per cento delle ragazze ha conseguito il diploma contro il 69,5 per cento dei ragazzi.

Anche nel proseguimento degli studi universitari le donne ormai sorpassano gli uomini: nel 2004 su 100 laureati con il vecchio ordinamento 59 erano donne, mentre per i corsi triennali le donne rappresentavano il quasi il 57 per cento. Inoltre i voti finali sono mediamente più alti per le donne. Attualmente le donne hanno maggiore accesso, e agevolazioni nel mondo del lavoro alla fine del percorso di studi (laurea). Inoltre, le giovani donne che decidono di essere single raggiungono posizioni dirigenziali in percentuale pari ai colleghi uomini nelle medesime condizioni.

Dal punto di vista universitario e del mondo del lavoro le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro: scelgono infatti percorsi umanistici, artistici e sanitari piuttosto che altri (soprattutto ingegneristici).

Il tasso di disoccupazione femminile in Italia è più elevato di quello maschile. Il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore a quello maschile, risultando occupate nel 2010 solo circa 46 donne su 100, contro una percentuale del 67% degli uomini. Nel Mezzogiorno le differenze sono più accentuate e l'occupazione delle donne arriva a appena a superare il 30%. Il tasso di inattività è, di contro, molto alto, arrivando a sfiorare la metà di tutta la popolazione femminile in età lavorativa. Tra le principali cause di questo fenomeno va citata l'indisponibilità per motivi familiari, motivazione che è quasi inesistente per la popolazione maschile. Ad esempio il 15% delle donne dichiara di aver abbandonato il posto di lavoro a causa della nascita di un figlio. Spesso si tratta di una scelta imposta, infatti in oltre la metà dei casi sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza.

Tutta questa inattività non si traduce però in un maggiore tempo libero per le donne. Al contrario, il tempo delle donne italiane è impiegato nel sopportare in maniera preponderante i carichi di lavoro familiari, molto più che in tutto il resto d'Europa. Gli uomini italiani risultano i meno attivi del continente nel lavoro familiare, dedicando a tali attività appena 1 h 35 min della propria giornata. Per lavoro familiare si intende sia le attività domestiche (cucinare, pulire la casa, fare il bucato etc.), sia le attività di cura dei bambini e degli adulti conviventi. Si stima che il 76,2 per cento del lavoro familiare delle coppie sia ancora a carico delle donne. Considerando i tempi di lavoro totale, cioè la somma del tempo dedicato al lavoro retribuito e di quello dedicato al lavoro familiare, le donne lavorano sempre più dei loro partner. Una donna con una occupazione tra 25 e 44 anni senza figli lavora giornalmente 53 min in più del suo partner; se però ci sono i figli la differenza aumenta ad 1 h 02 min più del partner. Persino le madri non occupate lavorano più dei loro partner (8 h 15 m contro 7 h 48 m). Una conseguenza di questa disparità è che le lavoratrici italiane dormono meno che in tutti gli altri paesi europei e hanno poco tempo da dedicare allo svago.

I dati dimostrano che le lavoratrici donne sembrano orientate a lavori meno usuranti e meno pericolosi rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità sul lavoro è di circa 11 punti per milione; quello maschile si attesta a circa 86 unità per milione. Inoltre le donne occupate che lavorano la sera sono il 16% contro il 25% dei loro colleghi uomini. Le donne occupare che lavorano la notte sono solo il 7% contro il 14% dei loro colleghi uomini.

Nella pubblica amministrazione italiana le lavoratrici donne sono poco più della metà del totale, grazie alla preponderanza femminile tra gli insegnanti soprattutto nella scuola di base. In tale settore si nota tuttavia una netta prevalenza maschile nelle qualifiche più elevate: ogni 100 dirigenti generali si contano solo 11 donne.

Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne: nel 2004 ad esempio il monte salari maschile (reddito complessivamente percepito dagli uomini italiani) era superiore di circa il 7% rispetto a quello femminile, mentre nel 2010 questo divario è arrivato al 20%. Questo si verifica perché l'occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione e perché a parità di mansioni gli stipendi maschili sono, seppur leggermente (del 2%), superiori. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario.

La speranza di vita alla nascita femminile è di 5,6 anni superiore a quella maschile. Le donne, inoltre, sono meno esposte ad omicidi ed aggressioni rispetto agli uomini: i decessi per tali ragioni ai danni di persone del genere femminile rappresentano circa un quarto del totale.

In materia di diritto di famiglia svariate sentenze della magistratura italiana, tutelano la figura femminile in maniera più marcata, affermando il principio di “non bilateralità” tra i coniugi in materia di procreazione. In particolare il tribunale di Monza afferma che “non può … attribuirsi alle scelte attinenti alla maternità una qualsivoglia valenza ‘bilaterale'”.

Sempre in materia di diritto di famiglia si registra che il 71% delle richieste di divorzio è presentata dal genere femminile. Inoltre, in caso di divorzio, l'assegnazione della casa dove la famiglia viveva (in assenza di figli ed indipendentemente della proprietà della stessa) è attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex-mariti.

Sul totale delle persone che hanno svolto attività gratuita per un partito politico nel corso del 2005, circa un quarto sono donne. Il numero di parlamentari donne in Italia è coerente con tale tasso di partecipazione alla vita politica.

Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 20% del totale (18,69% al Senato e 21,43% alla Camera nella XVI Legislatura) con un risultato peggiore rispetto ad esempio alla composizione del Parlamento europeo, nel quale le donne rappresentano circa il 35%.

Oggi possiamo affermare che nei Paesi occidentali i diritti delle donne sono legalmente riconosciuti e le leggi italiane sono tra le più avanzate d'Europa, soprattutto quelle per la tutela della maternità e sulle pari opportunità. Nonostante le leggi, molti ostacoli si frappongono ancora tra le donne e la carriera: infatti sono pochissime quelle che occupano posti di vertice nelle aziende e nei partiti politici, continuando la loro giornata ad essere la somma di due fatiche, quella domestica e quella extradomestica. Occorre realizzare quelle strutture sociali che consentirebbero di conciliare il lavoro fuori casa con la vita domestica, e particolarmente efficace potrebbe risultare la legge sul lavoro part-time.
Se però allarghiamo lo sguardo al mondo intero, il quadro è per varie ragioni sconfortante; il genere femminile, che costituisce poco più della metà dell'umanità e svolge i due terzi circa del lavoro globale, non possiede che un decimo della ricchezza, è rappresentato minimamente nei parlamenti, subisce forti discriminazioni. La piaga della violenza sessuale esiste in tutti i continenti, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo e non conosce differenze sociali o culturali; secondo l'OMS almeno una donna su cinque nel corso della vita subisce abusi fisici o sessuali.
In paesi come la Cina e l'India, dove nascere donna è spesso considerata una disgrazia, migliaia di neonate vengono lasciate morire per cure inadeguate o per abbandono.
Nei paesi del terzo mondo la violenza sulle donne è una normale componente del tessuto culturale e non viene identificata come tale neppure dalle sue vittime.
Anche la povertà miete vittime in primo luogo tra le donne; in Nepal circa 10 mila ragazze ogni anno vengono vendute dalle famiglie per essere avviate alla prostituzione e nell'Asia sudorientale sono oltre mezzo milione le bambine costrette a tale attività.
Un problema specifico di alcune culture africane è invece quello della mutilazione genitale, ancora ampiamente praticata ed effettuata in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e soprattutto su bambine anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti e colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. Sarebbero 130 milioni le donne che hanno subito questa mutilazione e i flussi migratori stanno facendo arrivare il problema anche nei paesi occidentali.
Un altro fattore di disuguaglianza è quello derivante da motivi religiosi, presente soprattutto nei paesi di religione islamica, dove le donne sono vittime di pesanti discriminazioni. Diffusi in alcuni paesi musulmani, i gruppi integralisti si propongono di trasformare la società secondo le regole del Corano e di imporle come legge dello Stato. In Algeria alle donne è imposto di portare l'hidjab, il velo, e di vivere ai margini della società; in Iran, in Afghanistan è imposto il burka e alle donne è preclusa l'istruzione.


Un'altra piaga che colpisce le donne in ogni parte del mondo è lo stupro: sconvolge sapere quanto sia diffuso in paesi ricchi e civili quali gli Usa e il Canada, ma ancor più sconvolgente è scoprire come per esempio in Pakistan, per avere giustizia, la donna debba presentare quattro testimoni maschi e non possa testimoniare lei stessa. Inoltre, se la vittima non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite, incarcerata, frustata pubblicamente; in Nigeria, per un fatto analogo, è stata condannata alla lapidazione Safja, per la quale si stanno mobilitando anche le donne italiane. La violenza sessuale è anche un'arma di guerra, solo da poco riconosciuta come tale dalle leggi internazionali. I conflitti con un forte connotato etnico, come quelli nei Balcani o in Africa centrale, vedono l'uso dello stupro come strumento bellico da parte di entrambi i contendenti.



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sabato 17 ottobre 2015

LA MALEDUCAZIONE



Sino a poco tempo fa -e per “poco tempo” intendiamo trent’anni circa- i rapporti tra gli  individui appartenenti alle varie fasce della società erano disciplinati da regole non scritte ma universalmente valide che miravano a sottolineare l’appartenenza dei soggetti protagonisti a determinati ruoli  dai quali non era facile staccarsi o a cui poteva far comodo rimanere legati come ad un’assicurazione che garantiva privilegi e meriti di carattere economico-sociale.

Sempre più spesso si levano voci di dissenso nei confronti di comportamenti che vorrebbero essere disinvolti e che invece denunciano un reale disagio  a causa della consapevolezza di trovarsi in una condizione che non si accetta  e che si tenta di ignorare rivolgendosi agli altri come ad esseri inferiori per sentirsi-erroneamente- gratificati e automaticamente promossi ad un livello giudicato superiore rispetto a quello del prossimo.

Comunemente, chi si rivolge ad un suo simile (a qualunque classe sociale appartenga e qualunque sia il suo ruolo, qualunque il suo sesso) in maniera scorretta ed arrogante, viene detto scortese, sgarbato, insolente, villano, cafone: in una parola, maleducato.

Ma nella parola “maleducato”, per la valenza che essa aveva in tempi passati, era implicito un giudizio negativo sulle capacità educative di chi aveva allevato sin dalla prima infanzia chi si era comportato male, e, nel far ciò, si liberava in certo qual modo il suddetto dalla totale responsabilità  di un comportamento asociale attribuendone l’onere ad altri.

Oggi non è necessario invocare responsabilità altrui nei comportamenti di individui  adulti e consapevoli: ci si può forse riferire alla famiglia quando si tratta di minori,  ma non lo si può certamente fare superata una certa età, che , data la precocità  dell’inserimento dei giovani nella parte attiva della società, si può stimare inizi tra i sedici e i diciotto anni al massimo.

E mentre prima  parlando di “maleducazione” ci si riferiva, seppure velatamente, alle origini sociali di soggetti che ignoravano le regole del vivere civile perché appartenevano a fasce inferiori della società che venivano ritenute comunemente incapaci di avere un comportamento urbano e di conoscere le buone maniere solitamente considerate appannaggio della “gente-bene”, ora purtroppo la scortesia è praticata indifferentemente  da chiunque e spesso mascherata da disinvoltura.

Non c’è bisogno di uscire dalle mura domestiche per cercare esempi di sgarbataggine se non addirittura di volgarità e villania.
Si confonde spesso, infatti, la familiarità con l’eccesso di confidenza e con la mancanza di rispetto.

E’ il caso del rapporto fra coniugi, allorquando, passato un certo tempo dal giorno delle nozze,ritenendo che lo stare sotto lo stesso tetto renda inutile qualsiasi forma di gentilezza e di cortesia nei confronti dell’altro, finisce col diventare un rapporto sbilanciato, dove il più debole, di solito la donna, viene trattato dall’altro come uno schiavo che deve occuparsi delle necessità primarie del consorte e della famiglia, quali  la pulizia della casa,la preparazione del cibo, la cura dei figli.

Il tutto senza mai una parola gentile di ringraziamento, anzi, spesso, subendo richieste esose e pressanti formulate con arroganza e senza tener conto delle condizioni e delle possibilità fisiche dell’altro.
Non di rado le separazioni coniugali avvengono anche per il desiderio di essere rispettati come persone e per  recuperare una dignità che appare conculcata dall’inciviltà del compagno della propria vita.

Qualcosa di simile avviene coi membri più anziani della famiglia, spesso emarginati, mal sopportati e trattati sgarbatamente mostrando apertamente di considerarli non graditi.

Quanto ai bambini, nei loro confronti si diramano messaggi apertamente  e nascostamente, che però i piccoli leggono  con uguale capacità di comprensione. Mentre infatti a parole si tenta di insegnare loro come comportarsi correttamente, con i fatti ci si comporta male e sarà sempre l’esempio concreto quello che insegnerà loro qualcosa, non le regole esposte verbalmente.

Il massimo della capacità di sopportazione è però necessario quando si viene a contatto con gli estranei, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto, negli uffici, sul posto di lavoro.



Sono tutte situazioni che ormai sono ampiamente note a chiunque: dal “mobing”, che spesso si esercita servendosi anche di maniere volgari e impositive, ai comandi espressi dai superiori  con arroganza, alle confidenze che si prendono i colleghi, al “tu” ingiustificato che ormai è entrato nell’uso comune nei rapporti anche con persone sconosciute o che s’incontrano per la prima volta, quasi a volere istituire subito una  forma d’intimità dalla quale può nascere poi qualsiasi tipo di rapporto.
E’ anche un segno di maleducazione mettere in difficoltà un/una collega rilevandone l’incapacità a svolgere un determinato lavoro davanti ai superiori cercando di trarne un vantaggio personale.

Dagli uffici alla strada il passo è breve: tutti ci ritroviamo ,se siamo al volante, ad aver attraversata la strada da un motorino che per poco non investiamo pur senza volerlo, o da una motocicletta che pretende di non restare, come gli automobilisti, bloccata nel traffico e che cerca di svignarsela salendo su un marciapiedi senza osservare i diritti dei pedoni.

Ma questo è niente di fronte al maleducato che posteggia la sua macchina in seconda fila davanti alla tua che hai sistemato faticosamente munendola dell’apposita scheda-orario e poi scompare lasciandoti ad aspettare che si degni di tornare per liberarti, oppure dinanzi ad un  automobilista che non solo ti sorpassa da destra , ma per giunta ti insulta perché a suo dire gli sbarri la strada, e se sei donna il complimento più gentile è un invito ad occuparti delle faccende domestiche anziché della guida di un’auto.
Abbiamo più volte sottolineato la cattiva educazione delle commesse nei negozi,che danno del tu a tutte le giovani-e meno giovani- che entrano per fare acquisti, o la scortesia delle infermiere degli ospedali e degli ospizi per anziani che si rivolgono ai loro pazienti come a dei bambini scemi chiamandoli “nonnetto, nonnetta” e dando sempre del tu, ammiccando tra loro per prendere in giro le persone che dovrebbero assistere con pietà e rispetto e che invece diventano lo zimbello del personale addetto all’assistenza e alle pulizie.

Maleducati sono quelli che, se tu stai aprendo una porta o un portone, ne approfittano ed entrano prima di te che resti a tenergli aperta la porta per non fargliela sbattere addosso  (e se lo meriterebbero) oppure quelli che hanno bussato a casa tua e quando tu apri entrano senza salutare proseguendo per l’interno della tua casa senza preoccuparsi di chiudere la porta.
Grossolani e villani sono quelli che parlano perennemente in modo sboccato per darsi delle arie, infilando una parolaccia ogni tre, bestemmiando senza risparmio ogni pie’ sospinto, senza preoccuparsi se ci siano d’intorno bambini a sentire.

Peggiore è la volgarità del mezzo televisivo, che lascia liberi attori e conduttori di abbandonarsi al turpiloquio, al massimo fingendo disappunto per qualche vocabolo  che sfugge al controllo.

Senza dubbio uno dei motivi per cui si è giunti alla totale mancanza di freni nei comportamenti della vita quotidiana odierna è stato il rifiuto globale dell’eccessiva quantità di precetti  educativi che la società del Novecento –erede peraltro di quella ottocentesca- imponeva  a tutti gli strati sociali, codificandone i rapporti con la stretta osservanza di regole  complesse, che  abbiamo in altra sede riconosciute come ereditate per molteplici e intricate vie dall’Inghilterra vittoriana.

Diversi avvenimenti di carattere storico, sociale e culturale hanno accelerato un processo che si potrebbe chiamare di destrutturazione ricostruttiva, se si ritiene che la progressiva sparizione delle regole  che fissavano i cardini del comportamento in società  sia stata o sarà in qualche modo sostituita da altri canoni  che caratterizzano le relazioni umane dei nostri giorni.

Le due guerre mondiali, la diffusione dell’equalitarismo facilitata dal propagarsi delle idee socialcomuniste, la sempre più estesa affermazione della mentalità americana che rispecchiava una realtà sociale costituita da individui di varia provenienza e condizione  (il ben noto “melting pot”), l’adozione pressoché universale dell’ ”american way of life”, e, per finire, la rivoluzione culturale del ’68 che aveva rifiutato negandolo il principio di autorità, furono tutti momenti decisivi per abbattere i paraventi di cui la società si circondava onde creare sottili divisioni ed argini al dilagare di comportamenti un po’  troppo spontanei e disinvolti che col passar del tempo sono diventati confidenziali ed eccessivamente incivili.



A ciò si è aggiunta l’eccessiva importanza che via via si è andata attribuendo alle nuove generazioni a discapito della generazione degli anziani, giudicati un peso dalla società perché ormai improduttivi dal punto di vista economico, e della generazione degli adulti che costituiva un freno all’espandersi incontrollato della presenza giovanile in tutti gli ambiti delle attività sociali e lavorative.

Un malinteso sistema educativo basato sull’assoluta libertà dei piccoli durante l’età evolutiva proveniente ancora una volta dagli USA e diffusosi nella seconda metà del Novecento ha avuto un relativo ma non indifferente influsso sulla decodificazione dei comportamenti all’interno e all’esterno della famiglia: lo stesso autore della teoria in proposito, il celebre dott. Spock, ha ritrattato le sue idee quando ha avuto l’occasione di verificarne l’insuccesso sul campo.

I mass-media, ma sopra tutto il cinema e la televisione, hanno fatto il resto, mettendo sotto gli occhi di tutti esempi concreti di volgarità, prepotenza, arroganza, sfrontatezza, insolenza, villania, e di tutti i sostantivi che possano rappresentare le infinite sfumature della maleducazione, a cui noi tutti assistiamo, resi impotenti dalla generale incapacità di reagire.

Secondo un sondaggio pubblicato da Le Figaro, il 65 per cento dei francesi ritiene che nel loro Paese si sia accentuata negli ultimi anni la mancanza di civismo, inteso in primo luogo come rispetto degli altri e delle norme che regolano la vita collettiva. Da italiani potremmo quasi interpretare un dato delgenere in senso positivo, come una sollecitazione a non buttarci troppo giù alla luce appunto del vecchio adagio «mal comune mezzo gaudio». Tanto più che sullo stesso giornale Luc Ferry, filosofo ed ex ministro dell’Educazione, riconduce la maleducazione generalizzata e la mancanza di civismo a una causa di fondo - la «decostruzione dei valori tradizionali e dell’autorità in nome dell’individualismo» - che non è specificamente francese o italiana. 

In realtà, proprio di fronte a processi del genere, abbiamo tutti la sensazione che, se effettivamente non interessano solo l’Italia, è vero però che da noi spesso assumono forme più accentuate e gravi, come se i virus di certe malattie sociali nel nostro Paese trovassero un terreno particolarmente favorevole. È probabile, nel caso specifico, che questo avvenga perché in Italia il patrimonio di cultura civica non è mai stato abbondantissimo, anzitutto per i tempi e i modi in cui si è formato lo Stato nazionale, come hanno osservato uno stuolo di storici e politologi, ma come pensavano già gli uomini 
del Risorgimento (a cominciare da d’Azeglio e dalle sue famose osservazioni sulla necessità di «fare gli italiani»). E tuttavia, a quei fattori di predisposizione alla malattia tante volte evocati, ha finito con l’aggiungersene almeno un altro. 
Vediamo come quotidianamente la politica dia un pessimo spettacolo di sé, mettendo in scena quella mancanza di rispetto dell’altro, quella lotta contro il «nemico», quella propensione a urlare più che a ragionare, che con la mancanza di civismo hanno evidentemente parecchio a che fare. E ci sono pochi dubbi sul fatto che il cattivo esempio fornito dai politici abbia conseguenze negative in una società democratica. 
Che i processi di livellamento verso il basso, di abbassamento qualitativo nelle aspirazioni e nei comportamenti, di conformistico adeguamento agli usi e costumi delle maggioranze (siano pure i peggiori) facciano intrinsecamente parte delle società democratiche lo scriveva Ortega y Gasset nella Ribellione delle masse del 1930. Ma già un secolo prima lo aveva osservato Tocqueville, con la sua acutissima percezione del futuro della democrazia. Tra ciò che poteva contrastare le tendenze negative della società democratica Tocqueville individuava anche la possibilità di far rivivere, trasformati, 
alcuni elementi di tipo aristocratico. Egli stesso nobile, riteneva infatti che l’aristocrazia avesse spesso saputo dar prova di quella dedizione all’interesse generale, di quella conservazione di valori slegati dalla ricerca del benessere materiale, di quel senso della misura che l’individualismo della società democratica tende a penalizzare. 




Per un tratto della sua storia - per tutto il cinquantennio liberale, ma anche per i primi decenni della Repubblica - la classe politica italiana ha avuto, forse inconsapevolmente o forse no, alcuni di quei comportamenti e caratteri «aristocratici». 

Non escluso il comunista Togliatti, il quale - come è noto - aveva modi e linguaggio tutt’altro che plebei. È rimasta famosa l’algida risposta che diede a un giovane militante il quale aveva osato rivolgersi a lui con il «tu»: «Quand’è - così pressa poco gli disse - che io e lei ci siamo conosciuti?». L’Italia povera e per molti aspetti arretrata di allora non può essere rimpianta. Ancor meno possono esserlo molte delle idee e dei programmi dei partiti dell’epoca (a cominciare da quelli del Pci di Togliatti). Ma non sarebbe male se i nostri politici riscoprissero almeno un po’ lo stile e i toni dei loro colleghi di cinquant’anni fa.


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lunedì 12 ottobre 2015

IL RACCONTO DELLA NONNA

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Ai tempi della nonna ciò che accomunava la gente era la povertà e la paura: una miseria fiera perché capace di gesti di solidarietà e di indignazione, di chi lavora duramente nei campi 10 o 12 ore al giorno per assicurare la sopravvivenza di tutti, in un mondo comunque duro e vede minacciare la propria esistenza dalla durezza delle condizioni di vita. All’apertura del secolo nelle città permangono i segni drammatici della contrapposizione di una classe sociale, gli operai contro la borghesia che è la classe dominante aggiunta all’arretratezza femminile, dal diritto di famiglia legato al primato del marito, dalle morti per parto allo sfruttamento salariale.

Per conoscere meglio la vita in quel periodo è opportuno sapere che nel 1900 il pane costava 0,45 £/kg, la pasta 0,56 £/kg, la farina di granturco 0,25 £/kg, la farina di grano 0,43 £/kg, la carne 1,30 £/kg, il latte 0,26 £/l, lo zucchero 1,54 £/kg, 10 sigarette 0,18 £, un giornale 0,05 £ (un soldo), un operaio guadagnava 1,5÷2 £ al giorno ed una donna 0,80÷1 £ al giorno per giornate lavorative di 11÷12 ore e settimana di 6 giorni. Il salario di un contadino era sulle 0,60 £/giorno.

Le case d’abitazione erano, in generale, povere casupole di pietra intonacata parzialmente soltanto all’interno con copertura in lose, composte generalmente da una cucina col camino e la stalla al piano terreno, una o più stanze (dove si dormiva in molti) col fienile al piano superiore e in qualche caso la cantina interrata, le finestre erano molto piccole.

Non c’era l’elettricità e la luce era data da lampade a olio di noci, petrolio o dalle candele di cera (molto costose in quel tempo), che si stava ben attenti a non consumare.

I mobili erano pochi: letti, cassapanche e qualche armadio nelle stanze. In cucina si trovavano tavoli, sgabelli o panche, una madia per il pane e altri cibi , una trave alla parete con la stoviglieria attaccata ai chiodi, il camino e la stufa. D’altra parte tutta la vita della famiglia si svolgeva fuori, nel lavoro dei campi e quando si era in casa, si stava in cucina o, al più, nella stalla. Le stanze da letto erano riservate al dormire.

I vestiti generalmente erano di canapa e cotone o fustagno, rari gli abiti di lana, si calzavano zoccoli di legno oppure rozze scarpe con molte toppe: in ogni casa c’era sempre qualcuno che si improvvisava ciabattino , ingegnandosi ad aggiustare suole e tacchi. Gli uomini nelle feste portavano sempre sul capo un cappello di panno o feltro con la falda ed un nastro intorno alla fascia, il gilè abbottonato in alto, il fazzoletto annodato intorno al piccolo colletto della camicia e la giacca. Per ripararsi dal freddo erano frequenti pesanti mantelle nere in cui gli uomini si avvolgevano. Le donne vestivano con abiti semplici: una ampia sottana, un corpetto, una cuffia o fazzoletto in testa a coprire i capelli lunghi raccolti a crocchia sulla nuca e uno scialle per coprirsi le spalle. Per le solennità o andando alla messa coprivano il capo con qualche bel fazzoletto di lana a tinte vivaci.

In cucina c’era uno o più secchi che si andava a riempire d’acqua alla fontana. Un fiasco, invece, veniva riempito un po’ prima del pranzo direttamente alla sorgente, perché l’acqua da bere era così più fresca. 

Per lavarsi, si riempiva il catino d’acqua. Durante i mesi invernali nella stufa o sul camino, acceso dalla mattina alla sera, vi era sempre un paiolo d’acqua a scaldare di circa 5 litri, per cui almeno nei mesi freddi c’era sempre acqua calda disponibile. Solo il sabato si svolgeva la cerimonia del bagno completo, dentro una grande tinozza, che veniva piazzata nella stanza più calda (la cucina) o in alternativa nella stalla, e ci si lavava lì, a turno. Però, dopo due bagni l’acqua veniva cambiata. In estate ci si lavava con l’acqua scaldata dal sole.



I pochi che in camera da letto avevano un catino e una brocca, al mattino d’inverno trovavano l’acqua trasformata in ghiaccio, perché le stanze non erano riscaldate. Come unico sistema per avere meno freddo nel letto c’erano le pietre riscaldate nella brace del camino ed avvolte in un panno, usate soprattutto per gli anziani. Non ci si fermava mai, se non appunto all’ora della cena consumata in religioso silenzio sopraffatti più dalla stanchezza che dai profumi delle minestre, che bollivano e ribollivano nel paiolo di rame appeso nel camino sotto lo scoppiettante rumore e lo scintillio della legna secca, conferendo ai cibi quel particolare sapore che solo la cottura a “legna” sa dare.

Di anno in anno provvedeva a prepararsi la legna per quello successivo, attento alle fasi lunari e alle diverse proprietà delle essenze a disposizione. Ciascuno sapeva di avere un ruolo utile nell’interesse di tutti. Da una parte c’erano l’asprezza della vita, la povertà, la mortalità infantile, gli incidenti e l’emigrazione… dall’altra la tranquillità, la pazienza, l’aiuto reciproco, lo spirito comunitario,… le speranze, le illusioni, e l’orgoglio.

Il pane che si consumava a tavola era nero di segale. Era seminata un anno si ed uno no alternando la coltivazione delle patate. Il pane era fatto con l’impasto classico di farina, acqua, sale, lievito (lievito naturale riprodotto da un precedente pezzo d’impasto che si era lasciato riposare e prendere una naturale acidità sotto un piatto rovesciato in un angolo della dispensa) e patate bollite e schiacciate (come se si dovessero preparare degli gnocchi). Già, la patata, perché quest’ultima conferiva al pane una certa freschezza e permetteva una conservazione più lunga nel tempo (non lo si faceva tutti i giorni ma poche volte l’anno e nelle ricorrenze). Abitualmente, giornalmente o a giorni alterni, secondo il numero dei componenti della famiglia, si preparava una grossa pagnotta con un impasto di farina di segala anche mista ad altri farinacei disponibili che a tarda sera veniva cotta nel focolare seppellendola sotto le braci ancora accese e la cenere, residui della legna bruciata durante il giorno; dopo qualche ora ne veniva fuori una pagnotta piatta di colore piuttosto scuro, dura e non sempre cotta, impregnata di cenere; si lasciava appena raffreddare, si puliva con uno strofinaccio e quindi veniva messa nella madia.

Per condire si usava il burro o in qualche caso l’olio di noce (l’olio di oliva a quei tempi era una rarità). I cibi di ogni giorno erano: polenta, minestra (dove abbondavano patate, castagne, cipolle e legumi), in inverno qualche foglia di cavolo, in estate qualche bietola e i prodotti dell’orto.


La fame era tanta e sempre arretrata. Le uova non si toccavano perché venivano vendute al mercato per potere comperare il sale, la carne compariva in tavola due o tre volte l’anno ed era di pecora o pollo.

La conservazione degli alimenti era un problema molto serio, quelli deperibili venivano consumati in giornata o, al massimo nei due giorni successivi. Altri alimenti potevano essere messi sotto sale, sotto il grasso della sugna oppure essiccati o affumicati. Erano sistemi di conservazione degli alimenti che duravano da millenni e che continuano a durare e che hanno permesso all’uomo la sua crescita . Dobbiamo però anche ricordare che a causa della cattiva conservazione degli alimenti erano frequenti i casi di tenia o vermi intestinali.

Da novembre, quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nuvole basse e la notte si faceva buia come la pece, davanti al camino, illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna, c’era ben poco da fare. Ci si riuniva nella stalla più grande della borgata. Ognuno portava la propria sedia e la propria lucerna. Gli uomini giocavano a carte, le donne chiacchieravano filando la lana, i giovani, sotto l’occhio vigile dei genitori, approfittavano di questa promiscuità per parlare d’amore. Ma chi si divertiva di più erano i bambini che, liberi come fringuelli saltavano a perdifiato sul fieno, oppure giocavano con le ombre prodotte dai lumi e, quando erano presi dalla stanchezza, ascoltavano le favole che venivano narrate da qualcuno che conosceva l’arte del racconto e li faceva rimanere a bocca aperta parlando di orchi, lupi, maschere, streghe e castelli fatati. 



L’istruzione era obbligatoria nel grado inferiore di due anni. L’obbligatorietà veniva però vanificata perché non c’erano sanzioni contro gli inadempienti. Molti bambini risultavano iscritti alla scuola ma poi, di fatto, la frequentavano solo quando non avevano incombenze lavorative o altre mansioni famigliari. L’economia famigliare, infatti, dipendeva molto dal lavoro minorile, allora legale a partire dai 12 anni di età: in pratica il bambino iniziava a lavorare appena poteva tenere in mano un attrezzo.

Solo la legge Coppino del 1877 sancirà l’obbligatorietà del corso inferiore della scuola elementare che da due anni passerà a tre, portando la durata totale in cinque anni (3+2) comminando sanzioni pecuniarie ai genitori che non provvedevano all’adempimento dell’obbligo scolastico dei figli. Le scuole furono distinte in urbane e rurali e furono aboliti i direttori spirituali. Il corso elementare inferiore che durava fino ai nove anni, comprendeva le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell’aritmetica e del sistema metrico decimale.

Si accedeva al corso superiore di due anni per mezzo di un esame. In tale corso si studiava grammatica, storia, geografia e geometria. L’obbligo fu stabilito soltanto per il solo corso elementare inferiore, fino ai nove anni d’età, riconoscendo di fatto il lavoro infantile, diffuso tra i fanciulli d’età superiore, una necessità vitale delle masse popolari. La legge Orlando del 1904, estese l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno d’età, riducendo di nuovo a quattro anni la scuola elementare, ma istituendo il V e VI anno nei comuni con più di 4000 abitanti. Dove previsti, il V e il VI anno costituivano il corso popolare. In tale situazione, dopo il quarto anno delle elementari, con un esame, si poteva accedere alle scuole secondarie, mentre gli alunni che non intendevano continuare gli studi potevano seguire il corso popolare. Nel 1900 i bambini/e generalmente terminavano gli studi alla terza classe, pochi maschi proseguivano sino alla quarta o quinta, poi non si era più considerati bambini, ma già due braccia che dovevano e potevano fare di tutto.

In ogni casa si acquistava un unico sussidiario che raccoglieva elementi di grammatica, aritmetica, geografia e storia e veniva poi passato ai numerosi fratelli più piccoli. Gli strumenti dello scolaro oltre il sussidiario erano la scatolina di legno che serviva da astuccio e che conteneva anche la matita, la gomma , la cannetta ed il pennino da intingere nell’inchiostro sul banco e il quaderno con copertina nera.

La cartella era fatta con la iuta che serviva a realizzare i sacchi per trasportare cereali o patate. La maestra, impartiva le lezioni a tre classi contemporaneamente in un’unica stanza. L’inchiostro lo dava la maestra, ogni mattina, in una boccetta di vetro.
Ci si recava a scuola a piedi perché allora non erano diffuse le automobili e le strade, per la maggior parte, erano fangose e non asfaltate. Le classi erano formate da molti alunni, arrivavano fino a un numero di 45 o 50. Maschi e femmine erano separati: infatti, c’erano classi femminili e classi maschili. I banchi erano alti, di legno, a due posti e avevano un buco per il calamaio, dove si trovava l’inchiostro per bagnare il pennino con cui si scriveva.

Gli insegnanti erano severissimi e si potevano permettere qualsiasi punizione corporale. In un angolo dell’aula, una sottile canna da sostenere i fagioli serviva alla maestra non solo per spiegare la lezione, ma anche per accarezzare le dita di qualcuno che chiacchierava o s’addormentava, con la testa sul quaderno. Ma non mancavano calci e schiaffi agli scolari disattenti o monelli e, la punizione più umiliante per un bambino, il cappello d’asino in testa. Non mancava anche quella dietro la lavagna in ginocchio su sassolini. Lo scolaro malmenato, non s’azzardava mai a lagnarsi con i genitori perché, altrimenti, a casa, avrebbe ricevuto il doppio delle botte. Come in tutte le scuole il corpo degli alunni era formato da intelligenti , meno intelligenti , diligenti , svogliati e da veri somari.

L’abbigliamento era assai misero: un berretto, una giacca, un paio di calzoni di fustagno a mezza gamba magari con rattoppi sulle ginocchia e sul di dietro, zoccoli di legno; le calze erano di lana filata in casa.

Le ragazze indossavano un gonnella lunga fino alle caviglie e d’inverno portavano sulle spalle uno scialle di lana. In generale il vitto giornaliero era: al mattino prima della scuola una scodella di latte crudo con pane o castagne secche ben cotte; a mezzogiorno polenta o minestra; condimenti, burro, latte, formaggio casalingo.



I bambini non avevano in genere molto tempo da concedere al divertimento, le bimbe aiutavano la mamma nelle faccende domestiche ed accudivano i più piccoli, i bimbi venivano avviati ai lavori nei campi. I bambini si costruivano da soli i loro giochi con i materiali che c’erano a disposizione e la fantasia diventava la materia primaria.

I giochi si facevano prevalentemente per strada o nei tanti spazi che la natura concedeva, c’era il piacere di fare parte del gruppo di mettersi alla prova riuscendo a superare le difficoltà. Molti giochi hanno un fondo comune di tradizione, in quanto l’uno l’ha imparato dall’altro e spostandosi lo ha modificato e adattata al nuovo ambiente e alle nuove abitudini. I giochi più frequenti erano il rincorrersi, il gioco del nascondino, il girotondo, il salto della cavallina e qualche bambola di pezza riempita di segatura per le bambine.
Allora non c’era ancora la televisione, c’era solo la radio e qualche volta il cinema, soprattutto all’aperto. Ogni tanto arrivava nella piazza del paese il “cantastorie” che raccontava alcune storie clamorose accompagnandosi soprattutto col suono di una chitarra e di un tamburo. 
In seguito si diffuse la televisione. I primi programmi televisivi, in bianco e nero, iniziarono in Italia solo nel 1954 e tra i primi a possedere la televisione furono i bar, dove la sera si riunivano parecchie persone per seguire alcuni programmi. Uno dei programmi più seguiti si chiamava “Lascia o Raddoppia?”. La televisione di allora non era come quella di oggi che trasmette i programmi ininterrottamente per l’intera giornata. Inizialmente i programmi duravano quasi quattro ore. La pubblicità non esisteva. Nei giorni feriali le trasmissioni iniziavano alle 17,30 con la TV dei ragazzi, poi s’interrompevano per riprendere con il TG delle 20,45. La pubblicità fu introdotta nel 1957 con “Carosello”. Nel 1961 nacque il secondo canale e la giornata TV durava quasi undici ore. Col passare degli anni la televisione entrò in quasi tutte le case contribuendo al cambiamento delle abitudini e ad arricchire il livello culturale e sociale delle persone. Alcuni personaggi televisivi molto amati, soprattutto da bambini e ragazzi, erano: Giovanna la nonna del Corsaro Nero, Topo Gigio, Calimero, Rin Tin Tin, Lassy, ecc., che sapevano offrire valori positivi. Il 1° febbraio 1977 iniziarono in Italia le trasmissioni a colori.

Per fare il bucato ci voleva tanto tempo e anche tanta fatica. Infatti, non essendoci ancora l’acqua corrente in casa, si preparavano i panni sporchi da lavare mettendoli nella conca che era sistemata vicino al caminetto, dove c’era il paiolo in cui si riscaldava l’acqua. Sui panni si metteva un lenzuolo con uno strato di cenere e dopo si cominciava a versare l’acqua calda. Quest’ultima filtrava lentamente attraverso i panni e scolava dal tubo che era attaccato al foro della conca. I panni erano lasciati nella conca fino all’indomani, quando, di buon mattino, si caricavano in una tinozza sopra un carretto e si andava al fiume. Arrivati al fiume, i panni venivano sistemati sulle sponde e nel frattempo si sceglievano delle pietre adatte per battere e sciacquare il bucato. Dopo averli lavati e sciacquati, i panni venivano stesi al sole poggiandoli su dei cespugli o attaccandoli a dei fili sistemati al momento.  Questo naturalmente quando c’erano delle belle giornate. Se invece il tempo era nuvoloso, il bucato veniva riportato a casa e asciugato con il fuoco dei bracieri o davanti al caminetto acceso. Per stirare i panni puliti si usava il ferro a carbone, all’interno del quale veniva messo del carbone infuocato. Oggi a noi sembra veramente incredibile pensare che per avere la biancheria pulita a quei tempi era necessario tutto questo lavoro e impiegare tutto questo tempo. A questo punto c’è da ringraziare coloro che hanno favorito lo sviluppo tecnologico dandoci tutti gli elettrodomestici che ci permettono di vivere meglio e in modo più sereno.






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