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lunedì 8 agosto 2016

RAZZISMO ITALIANO


Il razzismo in Italia è un fenomeno storico, sicuramente complesso, difficilmente definibile univocamente. In parte potrebbe affondare le sue radici indietro nel tempo, ma non vi sono prove di una sua continuità del o di un collegamento ideologico tra i diversi fenomeni nelle diverse epoche.

In senso stretto razzisti, i primi movimenti legati esplicitamente al mito della razza, ariana, pangermanica o italica, affondano le loro radici nel razzismo "scientifico" del XIX secolo, generatrice di xenofobia e segregazione razziale, base per l'avvento dei fascismi europei del XX secolo prima in Italia con il fascismo e poi con connotazioni razziste più marcate in Germania con il nazismo, parallelamente a fenomeni razzisti nella società statunitense di tutt'altro ordine sociale, come quelli propugnati dal Ku Klux Klan.

Dal punto di vista storico le leggi razziali fasciste, esempio concreto di tale fenomeno, sono state un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi varate in Italia fra gli anni trenta e gli anni quaranta del Novecento, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana.

Un esempio documentabile, ma in una ben precisa ottica storica, ci giunge dall'inizio del XVI secolo, epoca in cui iniziarono ad essere costruiti ghetti dove avveniva una segregazione nei confronti degli ebrei. Ciononostante il razzismo o comunque i sentimenti ostili verso gli ebrei hanno radici ancora più profonde. Ancor oggi l'aggettivo "farisaico" è spesso usato con il significato offensivo di "ipocrita" e denota la permanenza di un sottofondo razzista e antiebreo.

A partire dall'unificazione d'Italia, gran parte del sistema politico e culturale italiano, influenzato dalle teorie internazionali del razzismo scientifico del positivismo e dell'eugenetica si orientò verso posizioni razziste e anti-meridionali (e molti studiosi meridionali sostennero a loro volta l'anti-meridionalismo). Di questo clima politico e culturale furono artefici tra l'altro le pubblicazioni del criminologo Cesare Lombroso (le cui teorie tentavano di dimostrare la possibilità di identificare l'"innata natura criminale" di alcuni individui attraverso le loro caratteristiche fisiche, e i cui studi si incentrarono spesso sui "briganti" meridionali), le teorie di Luigi Pigorini e soprattutto di Giuseppe Sergi (messinese, fondatore della Società Romana di Antropologia) e di Alfredo Niceforo (castiglionese, presidente della Società Italiana di Antropologia e della Società Italiana di Criminologia), che scriveva:«La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc.».

Si ricordano inoltre, Enrico Ferri, secondo cui la minore criminalità nell'Italia settentrionale derivava dall'influenza celtica, Guglielmo Ferrero, Arcangelo Ghisleri, nonché moltissimi altri magistrati, medici, psichiatri, uomini politici, che influenzarono grandemente l'opinione pubblica italiana e mondiale.

Non furono posizioni isolate, al contrario era la convinzione «scientifica» della quasi totalità degli uomini di cultura europei, nonché dei ceti dominanti e dell'opinione pubblica dell'epoca. Già nel 1876 la tesi razzista fu pienamente avallata dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sicilia che concluse:
«la Sicilia s'avvicina forse più che qualunque altra parte d'Europa alle infuocate arene della Nubia; in Sicilia v'è sangue caldo, volontà imperiosa, commozione d'animo rapida e violenta».
Cioè le stesse caratteristiche «psico-genetiche» che, con lo stesso identico linguaggio, i razzisti di tutto il mondo attribuivano alla cosiddetta «razza» nera. E di questo erano accusati i mediterranei: di essere «meticci», discendenti di popolazioni preistoriche di razza africana e semitica.

L'accettazione già a fine ottocento della teoria dell'esistenza di almeno due razze in Italia, la eurasica, giapetica ariana e la eurafricana afro-semitica, contribuì in modo determinante alla nascita di un diffuso razzismo anti-meridionale nel nord Italia e in tutto il mondo. Basandosi sulle dichiarazioni degli scienziati italiani molti Stati degli USA diedero luogo a forme esplicite di discriminazione nei confronti dei meridionali (in particolare gli stati di Alabama, Georgia, Louisiana). Più in generale gli immigrati italiani venivano separati al loro arrivo a Ellis Island (New York) e computati in due diversi registri: razza iberica/mediterranea da una parte e razza alpina dall'altra. Divisione ufficialmente avallata dalla Commissione Dillingham del Senato degli Stati Uniti che nel 1911 ribadì la stretta correlazione degli Italiani del Sud con gli Iberici della Spagna ed i Berberi del Nord Africa. Il "Dictionary of Races and Peoples" precisò inoltre l'appartenenza etnica al Sud Italia dell'intera penisola propriamente detta, compresa la Liguria ("All of the people of the peninsula proper and of the islands of Sicily and Sardinia are South Italian. Even Genoa is South Italian" pg. 81). La "razza Hamitica", di cui gli "Italiani del Sud" avrebbero fatto parte, pur non essendo connessa alla razza nera, avrebbe avuto alcune tracce di sangue negroide in Nord Africa ed in alcune zone della Sicilia e della Sardegna, con rilevanza non solo nell'aspetto fisico, ma anche nel carattere e nelle inclinazioni».

Ai siciliani, infatti, per via della più recente commistione (nel periodo arabo) con mori e saraceni, spettava nel profondo sud americano un trattamento ancora peggiore ed erano sottoposti ad un vero e proprio apartheid economico, politico e sociale. All'epiteto «dago» riferito agli italiani in generale (forse dal nome spagnolo Diego o più probabilmente da dagger = accoltellatore) veniva loro in più anteposto l'aggettivo «black» (nero) per rimarcare la loro presunta «negritudine». In Louisiana prima della seconda guerra mondiale, anche se nati in America non potevano frequentare le scuole per i soli bianchi ed erano perciò obbligati a frequentare le scuole dei neri. In Alabama erano formalmente soggetti alle leggi anti-miscegenation. La loro paga era generalmente inferiore a quella degli stessi neri, inoltre erano spesso minacciati dal Ku Klux Klan e linciati per futili motivi: documenti locali affermano che gli «italiani» furono il gruppo più numeroso di vittime di linciaggio dopo i neri (e secondo quanto riportarono alcune fonti dell'epoca, furono il 90% di tutti i linciati che immigravano dall'Europa).

In epoca contemporanea, nel XX secolo il razzismo e l'antisemitismo vennero istituzionalizzati con le leggi razziali fasciste, differenti ma parallele a posizioni contemporanee già emerse nella Germania nazionalsocialista.

Le posizioni razziste erano condivise e avallate da diverse autorità, anche estranee al partito fascista, come si può evincere dagli scritti di personalità della cultura nazionale e dalle firme apposte in calce al manifesto della razza. Va sottolineata la distanza, in questo ambito, dalla concezione eugenetica del razzismo, spesso osteggiata anche da chi, come il gesuita padre Angelo Brucculeri, e altri cattolici, avallava le posizioni fasciste in ambito razziale. Il fascismo era fortemente permeato da una politica demografica senza se ne ma, e le politiche pronatalistiche del regime spesso non coincidevano con i concetti di disgenia espressi dai più convinti eugenetisti, come Leonardo Bianchi.

Posizioni, al contrario, a favore dell'eugenetica, fin dagli anni venti, si erano manifestate anche in altre aree culturali. Precedentemente, infatti, relativamente alla pubblicazione de Sul problema di Malthus, nel 1928, Brucculeri era già stato criticato, tra i tanti da Pietro Capasso su Il pensiero Sanitario per non appoggiare sufficientemente l'eugenica, ma la politica demografica fascista poggiava appunto su basi differenti e tendenzialmente non eugenetiche, rispetto a quella della Germania. Pietro Capasso, ed altri, firmarono il Manifesto di Benedetto Croce, nel 1925, in opposizione al fascismo, ma si dimostrarono diversamente attenti in termini razzisti a questi aspetti.

I concetti razzisti vennero ripudiati successivamente dall'Italia con la Costituzione repubblicana, come è affermato con chiarezza nell'articolo 3, nel comma 1 per l'uguaglianza formale, e nel comma 2 per l'uguaglianza sostanziale. Dal XIX secolo in poi si è diffuso, soprattutto nel nord, in conseguenza delle ricadute in termini umani e socioeconomici della questione meridionale. La terminologia venne usata per la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, il razzismo contro gli abitanti del sud della penisola.

Nonostante il capolinea del razzismo scientifico, rigettato come pseudoscienza subito dopo la seconda guerra mondiale, non fu modificata la mentalità formatasi in quasi un secolo di propaganda, e forme inconsce e semi-clandestine di razzismo antimeridionale hanno persistito fino ad oggi e sono spesso documentate da denunce pervenute a livello mondiale.



Nel XXI secolo si sono aggiunti fenomeni di avversione contro i popoli semiti (gli arabi). In particolare l'Antisemitismo anti-ebraico, che ha origini storiche e religiose più antiche, secondo molte indagini demoscopiche continua ad esistere in tutta Italia, sebbene in forme meno manifeste. Secondo la ricerca promossa nel 2003 dall'Unione delle comunità ebraiche italiane e condotta dal Dipartimento di ricerca sociale e metodologia sociologica Gianni Statera presso la facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma su 2.200 ragazzi tra i 14 e i 18 anni di 110 Comuni italiani, la punta massima del razzismo ad alta intensità si riscontra nel "profondo nord" con il 27.8% degli intervistati e la minima nel "sud urbano" con il 10.6% degli intervistati.

Accanto a queste sono sorti anche numerosi episodi di razzismo e xenofobia ai danni dei Rom e dei Sinti (etnie comunemente identificate con i termini zingari, gitani o semplicemente "nomadi"). Più recentemente atteggiamenti razzisti e soprattutto xenofobi, sono principalmente diretti verso gli stranieri immigrati, comunitari di nuova acquisizione e extracomunitari.

In particolare, azioni e dichiarazioni della Lega Nord sono state definite xenofobe e razziste da svariate fonti estere. Alcune azioni isolate come il tentativo di bruciare extracomunitari senza fissa dimora o come l'assassinio del 20 settembre 2008 di Abdul Salam Guibre, nativo del Burkina Faso sono state contestate come razziste, ma altre visioni considerano il razzismo elemento accessorio dei crimini.

L'Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Città del Vaticano indicò il razzismo come elemento cardine nella rivolta di Rosarno. L'affermazione dell'allora primo ministro Silvio Berlusconi concernente l'elezione del presidente di Stati Uniti Barack Obama, e l'abbronzatura della sua pelle guadagnò titoli sulle pagine dei giornali di area anglosassone. Secondo Eurobarometro, gli italiani avrebbero il più alto livello nella graduatoria in Europa della discriminazione praticata dai nativi verso l'etnia rom, dopo gli austriaci e i cechi, e il terz'ultimo per capacità di adattamento a convivere con persone di etnia rom come vicini di casa. La relazione fra razzismo e sessismo è stata studiata anche in Italia, infatti entrambi i sistemi di dominazione condividono un approccio essenzialista ovvero la naturalizzazione di costrutti sociali.

In Italia  l'Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali)  promuove iniziative nell'ambito della scuola, della cultura e dello sport, per invitare a riflettere sulla tolleranza sancita dall'articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Secondo una ricerca Ipsos Mori, gli italiani credono che il 30% della popolazione sia composta da immigrati, 20% dei quali musulmani.
Una vera e propria «invasione», su cui si sviluppano convinzioni xenofobe del tipo: «ci rubano il lavoro», «stuprano le nostre donne», «rubano», «puzzano».
Un lucido sguardo ai dati prova che non c'è nessuna invasione in corso: secondo l'ultima rilevazione Istat, gli stranieri residenti in Italia si assestano intorno all'8,3%. Tra questi, un buon numero proviene dall'Unione Europea, mentre i cosiddetti “extra-comunitari” sono il 5,7% della popolazione totale; scende al 3,7% la percentuale dei musulmani. È vero, nell'ultimo anno le richieste di asilo sono aumentate, ma vanno considerate relativamente a un paese di 742 milioni di abitanti. Nel primo semestre del 2015 in Italia le richieste sono state 251 per ogni milione di abitanti, vale a dire circa 83 al mese.

Secondo l'Istat, il primato degli stranieri residenti in Europa è detenuto dalla Svizzera con il 23,8%, seguita da Austria (12,4%), Irlanda (11,8%) e Belgio (11,3%).
Sono dati da interpretare: gli Stati che prevedono lo ius soli (nascendo in un dato territorio se ne acquisisce la cittadinanza) tendono ad avere una percentuale di stranieri più bassa, perchè i figli di immigrati non entrano in queste statistiche. Inoltre, la preminenza della Svizzera è dovuta alla forte presenza di immigrati da territori limitrofi (Francia, Germania e Italia).
A ogni modo l'Italia, con l'8,3% di stranieri residenti, si classifica all'ottavo posto. Il saldo migratorio è quindi superiore alla media europea, ma inferiore ai Paesi cui ci si paragona: oltre a quelli citati, contano più stranieri di noi anche Spagna, Norvegia e Germania. Fa eccezione la Francia, al 6,3%: proprio per la questione dello ius soli.
Occorre anche notare che non tutti gli immigrati approdati in Italia vi rimangono: molti proseguono il viaggio verso altre destinazioni europee.

La comunità straniera più numerosa sul suolo italiano è quella romena (22,0%) seguita a distanza da quella albanese (10%) e marocchina (9,2%), cinesi (5,2%) e ucraini (4,5%).
Le cinque regioni con la maggiore incidenza della popolazione straniera sono: Emilia-Romagna (12%), Lombardia (11,5%), Umbria (11%), Lazio (10,8%), Toscana (10,5%).
Ognuna di queste comunità è vittima di luoghi comuni. I romeni, in particolare, sono diventati un capro espiatorio; qualcuno continua a chiamarli “zingari” e pensa vivano di accattonaggio, in campi abusivi ai margini delle città. Eppure, i romeni non sono più nomadi: la maggior parte di loro vive in abitazioni stabili e lavora – di fatto, l'1,2% del Pil italiano è garantito dai “rom”.

Le destre sono in avanzata in Europa e non solo, e l'Italia non fa eccezione: i militanti di CasaPound e Forza Nuova sono cresciuti costantemente negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani delusi dalla politica e depressi dalla crisi. Questi gruppi, talvolta in sintonia con Lega Nord, promuovono una retorica anti-immigrati che arriva ad attacchi volgari e apertamente razzisti.
Complici del razzismo anche siti o pagine web come Informare per Resistere, che ha raggiunto un numero imponente di “like” su Facebook, o Tutti i crimini degli immigrati, che hanno spesso il preciso obiettivo di spargere bufale online, alimentando l'intolleranza.

Una ricerca condotta dal Pew Research Center ha rivelato che l'86 % degli italiani è prevenuto nei confronti dei rom, mentre il 61% è sfavorevole ai musulmani e il 21 % guarda gli ebrei con sospetto. L'atteggiamento nel resto dell'Ue è più rilassato: Germania, Spagna e Gran Bretagna hanno una visione più positiva dei rom – la Francia è più vicina a noi, con il 60% di “antipatia”.
Gli stessi Paesi hanno percentuali invertite rispetto alle nostre per i musulmani: meno del 40% della popolazione ne ha un'opinione ostile.
Nel caso degli ebrei, solo i polacchi sono più intolleranti: 28%.

Il Censis rileva che appena il 17,2 % degli italiani afferma di trovare “comprensione” e di avere un approccio “amichevole” nei confronti degli immigrati; quattro italiani su cinque si dividono invece tra “diffidenza” (60,1%), “indifferenza” (15,8%) e “aperta ostilità” (6,9%), mentre due italiani su tre (65,2%) pensano che gli immigrati in Italia siano semplicemente troppi.
La metà della popolazione (55,3 %) ritiene che nell’attribuzione degli alloggi popolari, a parità di requisiti, gli italiani dovrebbero essere inseriti in graduatoria prima degli immigrati e circa la metà pensa che in scarsità di lavoro sia giusto dare la precedenza agli italiani nelle assunzioni.

Sebbene sia opinione comune dei razzisti che gli stranieri siano tutti – o in gran parte – criminali, secondo i dati dell'associazione Antigone solo il 32% di detenuti è straniero: 17.403 su un totale di 53.889. Spesso si trovano dietro le sbarre per reati minori: il 50% di loro sconta pene inferiori o pari a un anno, mentre il 12% è condannato a oltre 20 anni, contro l'88% dei nostri connazionali. Rispetto alla media europea, quella italiana di stranieri incarcerati è superiore di 11 punti percentuali.
Gli stranieri contribuiscono all'8,6% del Pil.
Secondo il Rapporto annuale sull'economia dell'immigrazione, i 2,3 milioni di occupati stranieri sul suolo italiano producono l'8.6% del Pil: 125 miliardi di euro.
Il rapporto costi/benefici dell'immigrazione è in attivo: 12,6 miliardi contro 16,5. Il guadagno per lo Stato è dunque pari a 3,9 miliardi di euro.
Se dieci anni fa gli stranieri erano 2,2 milioni (il 3,8% dei residenti totali) e oggi sono saliti a oltre 5 milioni (8,3%), nel 2025 si prevede una crescita a 8,2 milioni, il 13,1% degli abitanti.

In Italia le unioni miste sono sempre meno anomale: secondo l’indagine “Il matrimonio in Italia” dell’Istat, nel 2011 si sono celebrati 18 mila matrimoni misti, circa l’8,8% delle nozze totali.
Nel 2011, metà della popolazione (50,1%) considerava la crescita né positiva né negativa, mentre quasi un terzo (28,2%) si esprimeva a favore e poco più di un quinto (21,7%) dichiarava di avere un’opinione negativa.
I dati cambiano quando il diverso ci tocca da vicino: la stessa indagine registra reazioni molto varie da parte di intervistati la cui figlia sposi uno straniero – anche in base alla provenienza dello sposo.

Le violenze razziste non accennano a diminuire nella multietnica Italia. Due studi mettono a confronto la crescita delle discriminazioni nel Bel Paese. Da una parte Vox – Osservatorio italiano sui diritti ha monitorato due milioni di tweet  per creare “la mappa dell’intolleranza”, specchio di un popolo web abituato a insultare donne, omosessuali, immigrati, ebrei e diversamente abili. Con dati più politici, invece, il Terzo Libro bianco sul razzismo in Italia, dove la associazione di ricerca romana Lunaria racconta di un Paese in cui gli atti discriminatori sono passati da 156 nel 2011 a 998 lo scorso anno, per un totale di oltre 2500 episodi registrati lungo i quattro anni dello studio.

Il lavoro di Vox invece, che ha coinvolto le università di Milano, Roma e Bari, ha voluto identificare le aree dove odio razziale, omofobia e intolleranza sono più diffusi. Il risultato finale sono state cinque mappe termografiche capaci di evidenziare la concentrazione del fenomeno.

Più colpite sono le donne, contro  le quali si concentra la maggiore parte dei commenti intolleranti, tanto che in 8 mesi sono stati rilevati 1.102.494 tweet misogini, con picchi in Lombardia,  Friuli, Campania, tra il sud dell’Abruzzo e il nord della Puglia e il Salento.

“La distribuzione dell’intolleranza è polarizzata soprattutto al Nord e al Sud – si legge sul report- poco riscontro invece nelle zone del centro come Toscana, Umbria, Emilia-Romagna”.

Il rapporto di Lunaria, articolato sul sito “Cronache di ordinario razzismo”, inserisce gli ebrei tra i gruppi bersaglio di violenze verbali e fisiche, insieme a rom  e musulmani, rispettivamente vittime di 427 e 162 episodi di discriminazione e violenza tra il 2011 e il 2014.

Inutile dare la colpa al mondo dello sport, nel 2014 reo del 5% degli atti discriminatori (fenomeno in decrescita, che passa dal 17% di quattro anni fa al 9% del 2013). Maglia nera per tutti e quattro gli anni dello studio agli attori istituzionali, dietro il 33% degli episodi nel 2011 fino ad arrivare al 35% nel 2013 e a più della metà lo scorso anno (54%). Cuore dei perpetratori istituzionali, i politici. Secondo il Terzo Libro Bianco sul razzismo in Italia, dal 2011 al 2014 Lega Nord è stata responsabile di oltre 700 violenze (verbali e fisiche), ben distante da Popolo delle libertà (83 episodi) o Partito democratico (17 casi).




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domenica 26 giugno 2016

IL CAPORALATO

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Il caporalato, nell'accezione originaria del termine, è un antichissimo sistema di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro (squadre) di dimensione variabile (da pochi individui a diverse centinaia). Esso si basa sulla capacità del "caporale" (che può essere un dipendente del proprietario del fondo agricolo oppure un operatore indipendente) di reperire la manodopera adatta, per le prestazioni della quale competono tutti gli imprenditori agricoli di una determinata zona, di condurla sul fondo e di dirigerla durante l'attività lavorativa.

Il caporale agisce, di fatto, come un vero e proprio mediatore di manodopera, che si fa anche carico di governarne l'attività secondo le richieste dell'imprenditore agricolo. Il caporale ingaggia per conto del proprietario i braccianti, stabilisce il loro compenso del quale tiene per sé una parte (che gli viene corrisposta o dal proprietario o dai braccianti reclutati).

Tuttavia in epoca contemporanea, a seguito del crollo dei prezzi agricoli (dovuto alla concorrenza internazionale ed al contestuale aumento del costo della manodopera), la pratica del caporalato è progressivamente degenerata, trasformandosi da lecito sistema di organizzazione del lavoro agricolo in un'attività volta all'elusione della disciplina sul lavoro, mirando allo sfruttamento a basso costo di manodopera che viene fatta lavorare abusivamente ed illegalmente a prezzi di solito assai inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e senza il versamento dei contributi previdenziali.

Il fenomeno è molto diffuso in Italia soprattutto nel mezzogiorno. Il caporalato è spesso collegato ad organizzazioni malavitose. Esso generalmente trova grande riscontro nelle fasce più deboli e disagiate della popolazione, ad esempio tra i lavoratori immigrati (come gli extracomunitari). Anche il Nord non è da meno, ogni anno infatti a Milano con l'avvicinarsi del Salone del Mobile, Rho diventa la maggior piazza del caporalato in città. Lo sfruttamento della manodopera a basso costo in agricoltura è prassi diffusa non solo nelle regioni del Sud, ma anche in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e provincia di Bolzano.

Questa pratica è documentata nelle cronache: nel maggio del 1980 tre ragazze di Ceglie Messapica in Puglia perdono la vita in un autobus dei caporali. Il 17 luglio alcuni caporali tentano di investire dei lavoratori e dei sindacalisti di Villa Castelli durante una manifestazione contro il fenomeno, dopo aver rivolto nei loro confronti ripetute minacce di morte. Il 21 luglio sempre a Villa Castelli otto caporali armati di pistola aggredirono i sindacalisti della CGIL e assaltarono la sede locale del sindacato.

Il fenomeno del caporalato si è ancor più diffuso con i recenti movimenti migratori provenienti dall'Africa, dalla Penisola Balcanica, dall'Europa orientale e dall'Asia: infatti chi emigra clandestinamente nella speranza di migliorare la propria condizione finisce facilmente nelle mani di queste persone, che li riducono in condizioni di schiavitù e dipendenza. Nel gennaio 2010 i lavoratori extracomunitari di Rosarno in Calabria organizzano una serie di manifestazioni contro i caporali, la tensione sfocia in una escalation di violenza tra braccianti e abitanti del piccolo centro calabrese. Il 26 aprile 2010 sono arrestati a Rosarno 30 caporali, sfruttavano lavoratori extracomunitari che erano costretti a lavorare in condizioni disumane nei campi, raccogliendo agrumi coltivati nel rosarnese, con turni di lavoro pari a 15 ore al giorno, l'inchiesta ha consentito inoltre di fare luce su un sistema di truffe perpetrate ai danni degli enti previdenziali. Sul piano patrimoniale, sono stati sequestrati duecento terreni e venti aziende agricole per un valore complessivo di 10 milioni di euro. Il 5 giugno 2011 a Villa Castelli nell'ambito dell'operazione Little Castle dalla Guardia di Finanza sono sequestrati beni per un totale di un milione e mezzo di euro.

L'art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 ha introdotto nel codice penale italiano il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Le pene previste per i cosiddetti "caporali" sono la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 1.000 a 2.000 € per ogni lavoratore coinvolto.

Inchieste giornalistiche del 2015 mostrano che il fenomeno continua ad aver diffusione anche nei confronti di donne italiane durante le campagne di raccolta dell'uva e delle fragole. I media hanno riportato, in un caso tragico che ha fatto scalpore che l'azienda pagava regolarmente l'agenzia di lavoro interinale, mentre alla lavoratrice arrivava una retribuzione enormemente inferiore.

Il governo ha annunciato il ricorso a strumenti normativi per punire gravemente, fino alla confisca dei beni, le aziende che utilizzano manodopera tramite il caporalato, mentre sui media si è sottolineato che il problema risiede principalmente nell'intermediazione, mascherata da forme solo in apparenza con una rispettabilità legale (false cooperative, filiali inquinate di agenzie di lavoro interinale).

Sono oltre 400 mila le vittime del caporalato in Italia. I nuovi schiavi passano intere giornate sotto il sole, curvi nei nostri campi per paghe da fame, minacciati e taglieggiati, costretti a vivere in condizioni disumane.

Un giro vite contro aziende e caporali dovrebbe arrivare con una nuova legge attualmente in discussione in Senato.



Dopo lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri (Nardò – Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto sicuramente positivo ma che rischia di avere le altre conseguenze quella di ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto intercorrente caporalato e sfruttamento lavorativo. Una tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali non indifferenti.

Dal 2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento lavorativo in agricoltura. E questo non solo in ambito giornalistico, ma anche in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è limitato a discutere di interventi – tra l’altro ancora lontani dall’essere approvati – volti al solo contrasto del caporalato.

Per avere idea di quanto la questione del “caporalato” abbia fagocitato il dibattito sullo sfruttamento nel lavoro agricolo valga come esempio, per quanto grossolano, il seguente: cercando con Google i termini “caporalato agricoltura” il motore di ricerca trova 3.380 risultati, con le parole “sfruttamento agricoltura” le ricorrenze trovate sono solo 595. Stando al dibattito pubblico, sembrerebbe che le condizioni di grave sfruttamento che si riscontrano nell’ambito del lavoro agricolo, e in particolare dell’attività di raccolta stagionale, siano principalmente, se non esclusivamente, conseguenza dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro. Sono pochi gli interventi, soprattutto tra quelli divulgati, rivolti quindi alla maggioranza degli interessati al tema, a sottolineare che il fenomeno dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro prende forma all’interno di una specifica configurazione economica dove il sistema di reclutamento dei lavoratori garantito dal caporalato è semplicemente funzionale agli interessi delle imprese perché permette di avere accesso, in breve tempo e in maniera altamente flessibile, ad una massa di lavoratori che possono essere in questo modo reclutati esclusivamente sulla base delle esigenze datoriali. Il caporalato si configura quindi come un ‘servizio’ che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare i segmenti dotati di minore capacità e forza contrattuale. Non bisogna dimenticare che la vera forza del sistema del sistema del caporalato è, in primo luogo, l’assenza istituzionale. I cosiddetti caporali non fanno altro che colmare vuoti istituzionali mantenendo i contatti tra azienda e lavoratori – cosa che dovrebbe essere garantita da uffici pubblici attraverso le liste di prenotazione – e garantendo il trasporto dai luoghi di residenza e i luoghi di lavoro, favoriti in questo dall’abbandono e dall’isolamento spaziale e sociale determinato dalla condizione alloggiativa dei lavoratori costretti nei vari ghetti che, in linea teorica, non avrebbero ragione di esistere visto che le spese per l’alloggio per i lavoratori stagionali dovrebbero essere garantite per legge dai datori di lavoro.

Inoltre, nonostante il caporalato tenda ad essere rappresentato come un sistema omogeneo, il modo in cui prende forma a livello territoriale cambia, esistono diversi modelli che vanno dal “semplice” taglieggiamento delle paghe in cambio del servizio di trasporto e dell’ingaggio a forme di maggiore prepotenza e violenza, fino a quelle – in realtà non così diffuse come si penserebbe – riferibili alla riduzione in schiavitù.

Il caporalato è dunque solo uno degli elementi, importante ma solo accessorio, che concorre al mantenimento del sistema di sfruttamento e sospensione dei diritti che conosce l’attuale configurazione del lavoro agricolo nelle campagne dell’Europa mediterranea. In tutti i paesi dell’Europa mediterranea aumentano i ghetti, le tendopoli e i campi temporanei. Si tratta non solo di luoghi che nascono, nel disinteresse istituzionale, ai margini delle società e dei diritti, ma anche di luoghi creati proprio dalle stesse istituzioni, tappe obbligate delle traiettorie del lavoro stagionale agricolo, che costringono la vita dei soggetti ad un’eterna provvisorietà e ad un’indefinita transitorietà. Siamo di fronte ad una vera e propria ‘lagherizzazione’di un numero sempre crescente di cittadini ridotti ad ‘umanità eccedente’ costretta ad uno stato di eccezione permanente all’interno di spazi abietti.

Parlare di lavoro agricolo quindi equivale a parlare di un microcosmo sociale in cui si intersecano e si condizionano vicendevolmente dinamiche strettamente lavorative e più generali dinamiche politiche, economiche e sociali che sono esplicitate e amplificate perché il settore agricolo si situa al centro delle molteplici contraddizioni che caratterizzano la contemporaneità in quanto somma ed estremizza molte delle dinamiche che investono i mercati del lavoro e, più in generale, i sistemi produttivi dei paesi capitalisticamente avanzati. Tra le principali: quelle relative ai processi di precarizzazione della condizione lavorativa e il conseguente depauperamento del potere contrattuale dei lavoratori in generale e della forza lavoro migrante in particolare; quelle relative alle ricadute sul piano economico delle politiche migratorie; quelle relative ai processi di esclusione sociale; quelle innescate dalle filiere produttive e dai processi distributivi dei prodotti agricoli.

Se lo scenario qui tratteggiato ha ragion d’essere, non appare quindi casuale la grande enfasi data al tema del caporalato rispetto ai processi di sfruttamento in agricoltura. Non sorprende per esempio che sul piano politico il ministro dell’agricoltura dell’attuale governo, così come pure il viceministro allo sviluppo economico, siano impegnati in un’azione politica volta ad estendere (giustamente) il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole che se ne avvalgono, mentre poco, o meglio nulla, si dice e si fa, rispetto alle condizioni politiche, istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono forma, tanto il caporalato (declinato nelle sue diverse forme), quanto, più in generale, i processi di sfruttamento in agricoltura. Non è casuale questa scelta per il governo che più di altri si sta contraddistinguendo per l’introduzione di politiche che precarizzano in maniera ancora più accentuata la condizione lavorativa, e il vergognoso jobs act non è che la punta dell’iceberg.

Oggi, sul piano dei rapporti lavorativi, la vera partita, in agricoltura ma non solo, va giocata sul terreno della lotta allo sfruttamento e su quello della lotta per i diritti. Un terreno su cui in Italia, in tanti, sono decisamente in ritardo. Insomma, fin quando la sacrosanta lotta contro il caporalato non sarà riportata all’interno di una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti del lavoro, poco si otterrà. Gli interventi sul piano penale sono insufficienti e la lotta al caporalato sarà destinata ad essere del tutto vana se non si interviene normativamente potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza in atto da quasi un trentennio che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali in materia di lavoro. Questa cosa, al momento, purtroppo, sembra non essere la prima preoccupazione di molti, sicuramente non è la prima preoccupazione dei ministri, né dei vari sottosegretari, né tantomeno del presidente del consiglio in carica e, cosa forse ancora più grave, non sembra essere la priorità delle organizzazioni che dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori.



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