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domenica 6 agosto 2017

AUTOLESIONISMO

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« Le mie motivazioni per l'autolesionismo sono svariate tra cui esaminare l'interno delle mie braccia per le linee idrauliche. Questo può sembrare davvero strano. »

L'autolesionismo è conosciuto per esser stato un rituale ripetitivo praticato da culture come quella dell'antica civiltà Maya nella quale i sacerdoti praticavano auto-sacrifici tagliando e perforando i loro corpi in modo tale da prelevare sangue. Nella Bibbia ebraica si trova un riferimento ai sacerdoti di Baal "si tagliavano con lame fino a che il sangue non scorreva". Tuttavia, nel giudaismo, tali pratiche sono proibite dalla legge di Mosè.
L'autolesionismo è anche praticato dai sadhu e dagli asceti indù, nel cattolicesimo come mortificazione della carne, nell'antica Cananea come rituali di lutto e sono descritti nelle tavolette Shamra Ras; e nell'annuale rituale sciita di autoflagellazione, utilizzando catene e spade, che si svolge durante l'Ashura dove la setta sciita piange il martirio di Imam Hussein.

L'autolesionismo è un disturbo della sfera psicologica, che induce chi ne è affetto a procurarsi intenzionalmente danno fisico, come forma di punizione.
In genere, le persone autolesioniste si fanno del male ricorrendo a tagli o bruciature, assumendo grandi quantità di farmaci (overdose), perforandosi con punteruoli o strumenti simili, non mangiando o ingerendo notevoli quantità di sostanze alcoliche.
Secondo gli esperti, l'autolesionismo è espressione di un forte stress emotivo, un grave senso di colpa o un pensiero angoscioso difficilmente superabile.
Al contrario dell'opinione comune, raramente chi soffre di autolesionismo vuole suicidarsi o ha tendenze suicide.
Il trattamento dell'autolesionismo richiede l'intervento di specialisti nel campo della psichiatria e della psicologia.
Tra le terapie più efficaci, meritano una citazione particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.

Il termine "autolesionismo" deriva dal pronome greco a?t??, che ha valore enfatico o riflessivo, e dal verbo latino laedo (danneggiare), letteralmente "danneggiare sé stessi". L'atto più comune con cui si presenta l'autolesionismo è il taglio superficiale alla pelle ma esso comprende anche il bruciarsi, infliggersi graffi, colpire una o più parti del corpo, mordersi, tirarsi i capelli (tricotillomania) e l'ingerire sostanze tossiche o oggetti. Di solito però i comportamenti associati all'abuso di sostanze e disturbi alimentari non sono considerati veri e propri atti di autolesionismo poiché il danno ai tessuti che ne risulta sono collaterali e non volontari. Tuttavia possono esserci dei comportamenti non direttamente collegati con l'autolesionismo, ma che risultano tali poiché hanno l'intenzione di causare danni diretti ai tessuti.

Il suicidio non è il fine dell'autolesionismo, ma il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto complesso poiché, talvolta, un comportamento autolesionista può essere pericoloso per la vita. Vi è comunque un aumento del rischio di suicidio negli individui che praticano l'autolesionismo; infatti se ne trovano segni evidenti nel 40-60% dei suicidi. Bisogna però tenere presente che collegare l'autolesionista con un potenziale suicida è nella maggior parte dei casi inesatto.

Durante l'infanzia l'autolesionismo è piuttosto raro anche se dal 1980 i casi sono aumentati. Esso è anche indicato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR) come un sintomo del disturbo di personalità borderline. Inoltre esso si manifesta anche in soggetti che soffrono di depressione, disturbi d'ansia, abuso di sostanze, disturbo post traumatico da stress, schizofrenia e disturbi alimentari. L'autolesionismo è più comune durante l'adolescenza o la tarda adolescenza; di solito appare tra i 12 e 24 anni. Ma esso si può verificare a qualunque età, anche in soggetti anziani; in questo caso però l'autolesionismo è molto più pericoloso.

Tagliarsi, ma anche bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding) o grattarsi sino a farsi uscire il sangue, permette, in assenza di strategie più mature e funzionali, di ristabilire un equilibrio, di ricollocarsi nella propria vita, di esprimere la propria indipendenza affettiva dai genitori o una sfida nei confronti delle regole che questi ultimi vogliono imporre.

I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi racchiudono una sofferenza per la quale la persona non ha ancora trovato parole per raccontarla e spiegarla.

Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E questo non è un caso, se teniamo presente che il corpo che cambia, amato e al tempo stesso rifiutato, il corpo dove nasce il desiderio sessuale e in cui si radica l’identità è il terreno di battaglia di ogni adolescente, di ogni ragazzo e ragazza.

Con il tagliarsi, l’adolescente cerca una disperata via d’uscita dalla fatica per lui insostenibile della crescita, dal senso di fallimento per il non sentirsi in grado di farcela a diventare grande.

L’adolescente tenta così di affermare se stesso, utilizzando l’unica cosa su cui gli sembra di potere esercitare un controllo: il suo corpo.

Generalmente si crede che praticare autolesionismo significhi cercare attenzioni. Ma questo non è completamente esatto poiché in molti casi gli autolesionisti sono consapevoli delle proprie ferite e cicatrici e ciò provoca un senso di vergogna e di colpa che porta loro a fare di tutto per nascondere i segni con l'abbigliamento (bracciali, polsini ad esempio); cercano inoltre di nascondere le loro ferite a chi gli sta attorno montando scuse e bugie per spiegare i segni evidenti. In alcuni casi provocarsi ferite provoca un senso di piacere che allieva il dolore psicologico, infatti non si prova bruciore nel provocarsi questi danni. Com'è già stato suggerito prima il soggetto che pratica l'autolesionismo non lo fa di solito per porre fine alla propria vita; esso spesso è un modo per alleviare un disagio o un dolore emotivo: l'autolesionismo diventa così un modo di comunicare all'esterno il proprio disagio.

Le lesioni al cervello (trauma cranico con eventuale edema cerebrale) possono causare danni permanenti al sistema nervoso centrale, alla memoria, alle funzionalità motorie.

Negli adolescenti dagli 11 ai 14 anni, soprattutto nelle femmine, si riscontrano forme di autolesionismo praticato con tagli (cutting) o bruciature (burning) per dimostrare la propria indipendenza. Generalmente provocati sulle braccia, questi atti autolesionistici si evidenziano delle profonde cicatrici, che vengono coperte con bracciali o bandane.

Il termine automutilazione (self-mutilation) è comparso per la prima volta con gli studi di L.E Emerson nel 1913 in cui si evidenzia che l'autolesionismo è una simbolica alternativa alla masturbazione. Il termine ricompare anche nell'articolo nel 1935 e nel libro nel 1938 di Karl Menninger dove egli perfeziona le proprie definizioni concettuali di automutilazione. Il suo studio sull'autodistruzione ha fatto una distinzione tra comportamenti suicidi e di automutilazione. Secondo Menninger l'automutilazione era espressione non letale di un desiderio di morte attenuato e quindi coniò il termine suicidio parziale. Egli individuò sei tipi di mutilazione:

Nevrotico (mangiarsi le unghie, sottoporsi a inutili operazioni chirurgiche, depilazione eccessiva)
Pratiche religiose auto-flagellanti e altre
Riti praticati durante la pubertà (rimozione dell'imene, circoncisione, modificazione del clitoride)
Psicotico (amputazioni estreme, rimozione dell'occhio o dell'orecchio, automutilazione dei genitali)
Malattie organiche del cervello (sbattere la testa continuamente, mordersi la mano, rompersi un dito)
Comuni (rasatura della barba, tagliare capelli o unghie).
Nel 1969 Pao fece una differenziazione tra coloro che tagliano in modo "leggero" (bassa letalità) e coloro che tagliano in modo "grossolano" (alta letalità). Quelli che tagliano in modo attento sono giovani; generalmente producono tagli superficiali e soffrono di personalità borderline. Quelli che invece tagliano in modo meno preciso sono gli anziani e spesso soffrono di problemi psichici. Nel 1979 Ross e McKay divisero le automutilazioni in 9 possibili gruppi: tagli, morsi, abrasioni, recisioni, inserimento di corpi estranei, bruciature, ingestione o inalazione, colpi e costrizioni. Dopo il 1970 l'attenzione circa l'autolesionismo fu spostata dagli impulsi psicosessuali del paziente scoperti da Freud. Nel 1988 Walsh e Rosen crearono 4 categorie numerate secondo i numeri romani definendo forme di automutilazione le righe II, III, IV.

Nel 1993 Favazza e Rosenthal analizzarono centinaia di studi e divisero le automutilazioni in due categorie: automutilazioni stabilite culturalmente e automutilazioni patologiche, Favazza ha anche creato due sotto categorie delle automutilazioni stabilite prima: rituali e pratiche. I rituali sono mutilazioni ripetute di generazione in generazione che riflettono le tradizioni, il simbolismo e le credenze di una società. Le pratiche invece sono storicamente passeggere ed estetiche come il piercing su lobi delle orecchie, naso, sopracciglia, così come la circoncisione maschile (per i non ebrei) mentre le automutilazioni patologiche sono l'equivalente dell'autolesionismo.



È difficile trovare delle statistiche sicure e precise riguardo l'autolesionismo poiché la maggior parte delle persone tende a nascondere le proprie ferite e a vergognarsene. I dati si basano sui ricoveri ospedalieri, sugli studi psichiatrici e su alcune indagini sulla popolazione. Circa il 10% dei ricoveri nei reparti di medicina in Inghilterra sono dovuti all'autolesionismo; nella maggior parte dei casi a causa di un eccessivo abuso di sostanze (overdose). Tuttavia gli studi basati solo sui ricoveri ospedalieri potrebbero nascondere il grande numero di adolescenti autolesionisti perché non hanno bisogno e non cercano cure mediche. Infatti molti autolesionisti che si presentano in un ospedale qualsiasi presentano vecchie ferite che non sono state curate.

I migliori studi attuali indicano che i casi di autolesionismo sono molto diffusi tra i giovani dai 12 ai 24 anni; mentre si sono verificati pochissimi incidenti di autolesionismo tra bambini di età compresa tra i 5 e 7 anni. Nel 2008, Affinity Healthcare ha suggerito che i casi di autolesionismo tra giovani potrebbe essere alto come il 33%. Uno studio americano effettuato tra studenti universitari ha evidenziato che il 9,8% di loro, almeno una volta nella loro vita, ha avuto esperienze autolesioniste come tagli superficiali e bruciature. Quando parlando di autolesionismo ci si riferiva anche al battere la testa contro qualcosa o graffiare sé stessi la percentuale è salita al 32%. Questo dimostra che l'autolesionismo non è proprio di individui affetti da disturbi psichiatrici ma anche tra persone comuni, come giovani studenti.In Irlanda, invece, uno studio ha dimostrato che le persone autolesioniste vivono per lo più in città che in campagna. Inoltre, il CASE (Child & Adolescent Self-harm in Europe) ha evidenziato che il rischio di autolesionismo è 1:7 per le donne e 1:25 per gli uomini.

Nel 70% dei casi l'autolesionismo si presenta con il tagliare la pelle con un oggetto appuntito (come lamette). Tuttavia i modi con cui può essere effettuato sono limitati solo dall'inventiva dell'individuo e dalla reale intenzione e volontà di danneggiare il proprio corpo; per questo possiamo trovare anche casi di autolesionismo che si presentano con abuso di alcool, droghe, anoressia, bulimia. Di solito i tagli si presentano su aree del corpo che possono essere facilmente nascoste e/o non visibili dagli altri. L'autolesionismo può essere definito in termini di danneggiamento del proprio corpo ma sarebbe più corretto definirlo in termini di scopo per affrontare un problema, un'angoscia emotiva. Né DSM-IV-TR, né l'ICD-10 forniscono dei precisi criteri per diagnosticare l'autolesionismo: si è visto che l'autolesionismo è spesso un sintomo di un disturbo sottostante. Tuttavia recentemente (nel 2010) è stata formalmente mossa la proposta di includere l'autolesionismo come diagnosi distinta nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). È difficile uscirne e colpisce molto spesso gli adolescenti fin dalla giovane età.

Anche se di solito chi pratica l'autolesionismo non soffre di disturbi mentali, è stato dimostrato che gli individui che hanno sperimentato problemi di salute mentale sono più portati a praticarlo. Le malattie che più comportano ciò sono disturbo della personalità borderline, disturbo bipolare, depressione, fobie, disturbi comportamentali e anche la schizofrenia. Per quanto riguarda gli schizofrenici (soprattutto nei soggetti giovani) essi hanno un alto rischio di suicidio. Accanto a questi disturbi si trova anche l'abuso di sostanze e spesso anche la tendenza a non saper risolvere i propri problemi e l'impulsività. L'autolesionismo si può manifestare negli individui che soffrono della sindrome di Münchhausen; essi si sottopongono a continui esami e perfino ad indagini invasive. Nella psicoanalisi classica freudiana l'autolesionismo psichico è ricondotto alla cosiddetta pulsione di morte.

A livello emotivo gli ambienti in cui i genitori puniscono i figli o li feriscono possono generare nella persona una mancanza di fiducia e difficoltà a provare emozioni con il rispettivo aumento dell'autolesionismo. Altri fattori che possono indurre all'autolesionismo sono abusi durante l'infanzia, la guerra e la povertà. Inoltre il 30% circa degli individui che soffrono di autismo ad un certo punto sfociano nell'autolesionismo ad esempio mordendosi la mano, battendo la testa, tagliando la pelle. Autori moderni hanno aperto alcuni dibattiti per discutere del fatto che l'autolesionismo può nascondere degli scopi psicologici: è stato dimostrato che alcuni individui usano l'autolesionismo per vivere abusi o traumi passati che non erano sotto il loro controllo. L'autolesionismo, quindi, può essere un modo per riavere il controllo sulla propria vita e riprendere la propria autonomia.

L'abuso di sostanze, la dipendenza e l'astinenza sono associati con l'autolesionismo. Dipendenza da benzodiazepine o riduzione delle benzodiazepine si presenta soprattutto nei giovani. Un altro fattore di rischio da non sottovalutare è l'abuso di alcool. Al pronto soccorso dell'Irlanda del nord si è visto come l'alcool è uno dei tanti modi con cui si presenta l'autolesionismo nel 63,8% dei casi. In Inghilterra e Norvegia sono stati fatti alcuni studi per capire l'effettivo legame tra l'assunzione di cannabis e l'autolesionismo; essi hanno evidenziato che nei giovani adolescenti non è un alto fattore di rischio.

Praticare l'autolesionismo può significare farsi del male e nello stesso tempo provare piacere, derivare da esso sollievo. Per alcuni tagliarsi può essere abbastanza problematico ma alla fine decidono di farlo lo stesso proprio perché pensano a quello che possono ottenere dopo. Questo sollievo per alcuni è psicologico; in altri esso è generato da endorfine beta rilasciate nel cervello. Le endorfine sono gli oppioidi endogeni che vengono rilasciate dopo una lesione fisica, agiscono come un antidolorifico naturale, inducono piacere e riducono lo stress emotivo e la tensione. Alcuni autolesionisti dicono di non provare nessun dolore mentre si feriscono; altri, invece, lo usano per provare piacere.

Al contrario per altri farsi del male significa provare qualcosa, anche se la sensazione è dolorosa e per niente piacevole. Queste persone manifestano sensazioni di vuoto e intorpidimento (anedonia) e perciò il dolore fisico può essere un modo per provare sollievo.

Si è molto incerti su quali trattamenti psicosociali e fisici siano utili per i soggetti che praticano l'autolesionismo; perciò sono necessari ulteriori studi clinici. In queste persone sono comuni disturbi psichiatrici e della personalità; di conseguenza si può supporre che l'autolesionismo sia indotto da depressione e/o altri problemi psicologici. Se l'autolesionismo è indotto da una grave o moderata depressione clinica gli antidepressivi possono essere un'ottima soluzione. La psicoterapia cognitivo-comportamentale può essere utilizzata per i soggetti con problemi di depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. Invece la terapia comportamentale-dialettica può essere efficace con individui che soffrono di malattie mentali o che hanno un disturbo della personalità.

Un interessate studio medico statunitense ha preso in considerazione 4.000 persone autolesioniste, ricoverate in ospedale, e ne ha analizzato il motivo del ricovero. L'analisi ha riportato che circa l'80% dei soggetti aveva assunto una dose esagerata di farmaci e circa il 15% si era procurata dei tagli.
Tale osservazione non contrasta con quanto detto poc'anzi, in merito al modo più comune con cui gli autolesionisti si procurano danno: i tagli della pelle costituiscono la modalità più comune in generale, mentre le assunzioni esagerate di farmaci rappresentano la modalità che più frequentemente porta al ricovero.

In genere, gli autolesionisti recano danno a sé stessi successivamente a un momento di crisi, momento durante il quale i pensieri scatenanti il disturbo "si fanno sentire" in maniera più insistente.
Al termine della crisi, la situazione torna alla normalità e l'intenzione di farsi del male scompare gradualmente.
Quindi, le persone autolesioniste alternano momenti di serenità più o meno lunghi a momenti critici, in cui sentono il desiderio di procurarsi delle lesioni.

Chi soffre di autolesionismo può recarsi dei danni fisici letali.
Infatti, alcune intossicazioni da farmaci o prodotti nocivi, tagli assai profondi o alcuni colpi alla testa possono portare anche alla morte, specie se i soccorsi non sono immediati.
Inoltre, è importante ricordare il pericolo legato alle possibili complicanze di condizioni, quali l'anoressia nervosa, la bulimia o l'abuso di alcol.

Una persona che soffre di autolesionismo potrebbe necessitare di soccorsi immediati, se per esempio è in overdose da farmaci; ha abusato in maniera esagerata di sostanze alcoliche; ha perso coscienza; lamenta fortissimo dolore a seguito di un determinato colpo o lesione; manifesta gravi problemi respiratori; ha perso cospicue quantità di sangue a seguito di uno o più tagli; è in stato di shock in conseguenza a un taglio o a una bruciatura; ecc.
Diagnosi

In genere, le indagini mediche finalizzate alla diagnosi di autolesionismo prevedono un accurato esame obiettivo e un'analisi del profilo comportamentale e psicologico.
È importante delineare con precisione le caratteristiche di una condizione di autolesionismo, in quanto una diagnosi accurata permette ai medici curanti la pianificazione della terapia di supporto più adeguata.

Gran parte delle possibilità dei medici di diagnosticare con accuratezza l'autolesionismo dipende dalla sincerità dell'individuo sotto esame.
Le persone autolesioniste tendono a mentire in merito ai propri disturbi e, spesso, i percorsi di diagnosi risentono di questo anomalo comportamento.
La consapevolezza, da parte dei soggetti autolesionisti, di aver bisogno di assistenza medica è il punto di partenza per la descrizione precisa del disturbo in atto e per il raggiungimento della guarigione.

L'esame obiettivo consiste nella valutazione dello stato di salute generale del paziente, nella misurazione di alcuni suoi parametri corporei (peso, pressione sanguigna ecc.) e nell'osservazione, sul suo corpo, dei segni sospetti di autolesionismo.

Ferite, tagli e bruciature sono segni abbastanza evidenti.
Tuttavia, a un occhio esperto, lo possono essere anche i comportamenti e l'aspetto di chi ha abusato di sostanze alcoliche o farmaci.

L'analisi del profilo comportamentale e psicologico spetta, in genere, a un esperto in salute mentale e malattie psicologiche.
Brevemente, consiste in una serie di domande finalizzate a stabilire le modalità di autolesionismo e i motivi per i quali il paziente produce danno a sé stesso (quindi se è per una forma di depressione, se è per un trauma fisico subìto, se è per un trauma emotivo, se è per una grave malattia psicologica ecc).
Al termine di tale valutazione e con i dati raccolti durante l'esame obiettivo, il team di medici e specialisti che ha svolto le varie indagini è in grado di stilare una valutazione del caso sotto osservazione.
Punti che la diagnosi deve chiarire, al termine delle varie osservazioni:
Le relazioni interpersonali ed eventuali problemi di interazione sociale.
I modi con cui il paziente si procura danno.
Quanto spesso il paziente si reca danno.
Sentimenti o circostanze particolari che precedono l'intenzione di farsi del male.
Che cosa (se mai se ne è a conoscenza) riduce la tentazione di recarsi danno
Se l'intenzione di procurarsi danno è occasionale oppure persistente.
Quali sono i pensieri nel momento in cui i pazienti si producono delle lesioni.
Se l'autolesionismo è legato a qualche tendenza suicida.

Nella maggior parte dei casi, il trattamento dell'autolesionismo richiede la collaborazione di diversi specialisti – tra cui medici, psichiatri e psicologi – ed è di tipo psicologico (psicoterapia).
Tra i trattamenti di tipo psicologico, quelli più comunemente utilizzati (e forse più efficaci) sono: la psicoterapia cognitivo-comportamentale e la psicoterapia familiare.
Secondo alcuni esperti in materia di autolesionismo, sarebbe importante, ai fini terapeutici, anche la terapia di gruppo.
Il percorso di guarigione potrebbe richiedere diversi mesi di sedute terapeutiche, in quanto l'autolesionismo è un problema alquanto delicato e difficile da trattare.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale consiste nel preparare il paziente a riconoscere e a dominare i sentimenti e i pensieri "distorti" che spingono a recare danno al proprio corpo.
Essa prevede una parte "in studio", con lo psicoterapeuta, e una parte "a casa", riservata all'esercizio e al miglioramento delle tecniche di dominio.

La psicoterapia familiare è un tipo di trattamento psicologico che interessa tutta la famiglia del paziente autolesionista
Brevemente, si basa sul concetto che i genitori, i fratelli e gli altri parenti più stretti giochino un ruolo determinante nel supportare il proprio caro, durante il percorso terapeutico previsto per lui.
Per ottenere buoni risultati dalla psicoterapia familiare, è bene che la famiglia impari le caratteristiche del disturbo in atto e come aiutare al meglio chi ne è sofferente.

La psicoterapia familiare risulta poco appropriata qualora l'autolesionismo sia legato a difficoltà familiari, come abusi sessuali o violenze praticate da uno dei due genitori.

La terapia di gruppo consiste in gruppi di persone con problematiche di uguale natura, che condividono i propri disturbi e si supportano a vicenda.
Rapportarsi con soggetti in situazioni analoghe rende più facile la condivisione dei propri problemi, fa sentire meno soli e può risultare estremamente utile ai fini terapeutici (per esempio, un paziente potrebbe consigliare a un altro una nuova strategia di dominio dei pensieri "distorti" e così via).

Una persona autolesionista su 3, che si è recata danni gravi una volta, ripete gli stessi gesti almeno un'altra volta durante lo stesso anno.
Si ricorda che una lesione grave potrebbe portare anche alla morte.
3 persone autolesioniste di lunga data (almeno 15 anni) ogni 100 arrivano a suicidarsi, poiché non riescono più a sostenere la causa che le spinge a farsi del male.
I tagli e le bruciature possono lasciare cicatrici permanenti. Inoltre, le lesioni a carico di nervi e tendini potrebbero compromettere definitivamente la capacità sensitiva di una determinata area del corpo o la sua adeguata funzionalità.

Secondo gli esperti del comportamento umano, le persone autolesioniste potrebbero trovare sollievo e superare i momenti di crisi in vari modi:
Parlando con qualcuno: se il soggetto autolesionista è solo, può utilizzare il telefono e chiamare un amico fidato o un parente.
Uscendo di casa è particolarmente indicato per tutti quei casi di autolesionismo in cui la causa scatenante è legata, in qualche modo, a un familiare.
Ascoltando della musica e cominciando un'attività nuova, al fine di trovare una distrazione.
Recandosi in un posto rilassante/confortante.
Trovando modi alternativi per esprimere i pensieri angosciosi, lo stress ecc.
Procurandosi dei dolori "innocui", come per esempio mangiare un cibo estremamente piccante o fare una doccia fredda.
Focalizzando la propria mente su qualcosa di positivo.
Concedendosi dei momenti di svago.
Raccogliendo in un diario personale o in una serie di lettere personali tutte le sensazioni indotte dall'autolesionismo.

Ci sono molti movimenti tra le varie comunità che si occupano di questo problema per sensibilizzare i professionisti e il pubblico in generale. Per esempio ogni 1 di marzo si svolge la giornata globale "Self-injury Awareness Day" (SIAD) per rendere più consapevoli le persone riguardo l'autolesionismo. Molte persone indossano per l'occasione un fiocco arancione simbolo di questa consapevolezza e per incoraggiare gli altri ad essere più aperti riguardo al proprio problema con le persone che li circondano e per aumentare la conoscenza generale.



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lunedì 14 dicembre 2015

BAMBINI SOLDATI

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In diversi momenti della storia e in molte culture, i minori sono stati coinvolti in campagne militari anche quando la morale comune lo riteneva riprovevole. A partire dagli anni settanta sono state firmate numerose convenzioni internazionali allo scopo di limitare la partecipazione dei bambini ai conflitti; nonostante questo, sembra che l'utilizzo dei bambini soldato negli ultimi decenni sia in aumento.
In alcuni paesi africani, sudamericani o asiatici, i bambini soldato sono spesso soggetti a questo tipo di sfruttamento. A questi bambini, in alcuni casi, vengono somministrati degli stupefacenti, per poter interagire durante uno scontro senza che essi si arrendano mentre le bambine vengono spesso usate per scopi sessuali ma anche per cucinare, piazzare esplosivi, aprire la strada all'esercito sul campo minato perché possono essere rimpiazzate più facilmente, non devono essere pagate e non si ribellano.

In Afghanistan nonostante i progressi compiuti per porre fine al reclutamento e all'impiego di bambini nelle forze nazionali di sicurezza, i bambini continuano ad essere reclutati dalle parti in conflitto, quali la Haqqani Network e i talebani. Nei casi più estremi, i bambini sono stati usati come attentatori suicidi, per la fabbricazione di armi e per il trasporto di esplosivi.

Nella Repubblica Centrafricana ragazzi e ragazze di appena otto anni sono stati reclutati e utilizzati da tutte le parti coinvolte nel conflitto per prendere parte direttamente alle violenze inter-etniche e religiose.

Nella Repubblica Democratica del Congo le Nazioni Unite hanno documentato nuovi casi di reclutamento di bambini da parte di più gruppi armati che operano nella parte orientale del paese. I bambini, in alcuni casi, anche di 10 anni di età, sono stati reclutati e utilizzati come combattenti, o in funzioni di supporto, come facchini e cuochi. Le ragazze sono state usate come schiave sessuali o sono stati vittime di altre forme di violenza sessuale.

In Iraq e Siria gli avanzamenti dell'IS e la proliferazione di gruppi armati hanno reso i bambini ancora più vulnerabili al reclutamento. Bambini di 12 anni sono in fase di addestramento militare e sono stati usati come informatori, per presidiare i posti di blocco e per sorvegliare punti strategici. In alcuni casi, sono stati utilizzati come attentatori suicidi e per effettuare esecuzioni.

Sono più di 300.000 i minori di 18 anni attualmente impegnati in conflitti nel mondo.
Centinaia di migliaia hanno combattuto nell'ultimo decennio, alcuni negli eserciti governativi, altri nelle armate di opposizione. La maggioranza di questi hanno da 15 a 18 anni ma ci sono reclute anche di 10 anni e la tendenza che si nota è verso un abbassamento dell'età. Decine di migliaia corrono ancora il rischio di diventare soldati.

Il problema è più grave in Africa e in Asia ma anche in America e Europa parecchi stati reclutano minori nelle loro forze armate.

Negli ultimi 10 anni è documentata la partecipazione a conflitti armati di bambini dai 10 ai 16 anni in 25 Paesi. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono usati come "portatori" di munizioni, vettovaglie ecc. e la loro vita non è meno dura e a rischio dei primi.
Alcuni sono regolarmente reclutati nelle forze armate del loro stato, altri fanno parte di armate di opposizione ai governi; in ambedue i casi sono esposti ai pericoli della battaglia e delle armi, trattati brutalmente e puniti in modo estremamente severo per gli errori. Una tentata diserzione può portare agli arresti e, in qualche caso, ad una esecuzione sommaria.
Anche le ragazze, sebbene in misura minore, sono reclutate e frequentemente soggette allo stupro e a violenze sessuali. In Etiopia, per esempio, si stima che le donne e le ragazze formino fra il 25 e il 30 per cento delle forze di opposizione armata.

Anche nella storia passata i ragazzi sono stati usati come soldati, ma negli ultimi anni questo fenomeno è in netto aumento perché è cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica, religiosa e nazionalista. I "signori della guerra" che le combattono non si curano delle Convenzioni di Ginevra e spesso considerano anche i bambini come nemici. Secondo uno studio UNICEF, i civili rappresentavano all'inizio del secolo il 5 per cento delle vittime di guerra. Oggi costituiscono il 90 per cento.



L'uso di armi automatiche e leggere ha reso più facile l'arruolamento dei minori; oggi un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. I ragazzi, inoltre, non chiedono paghe, e si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affrontano il pericolo con maggior incoscienza (per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie).

Inoltre la lunghezza dei conflitti rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Quando questo non è facile si ricorre a ragazzi di età inferiore a quanto stabilito dalla legge o perché non si seguono le procedure normali di reclutamento o perché essi non hanno documenti che dimostrino la loro vera età.

Si dice che alcuni ragazzi aderiscono come volontari: in questo caso le cause possono essere diverse: per lo più lo fanno per sopravvivere, perché c’è di mezzo la fame o il bisogno di protezione. Nella Rep. Democratica del Congo, per esempio, nel '97 da 4.000 a 5.000 adolescenti hanno aderito all'invito, fatto attraverso la radio, di arruolarsi: erano per la maggior parte "ragazzi della strada".

Un altro motivo può essere dato da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall'ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative.

Per i ragazzi che sopravvivono alla guerra e non hanno riportato ferite o mutilazioni, le conseguenze sul piano fisico sono comunque gravi: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell'apparato sessuale, incluso l'AIDS.

Inoltre ci sono le ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati testimoni o aver commesso atrocità: senso di panico e incubi continuano a perseguitare questi ragazzi anche dopo anni. Si aggiungano le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell'inserirsi nuovamente in famiglia e del riprendere gli studi spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Le ragazze poi, soprattutto in alcuni ambienti, dopo essere state nell'esercito, non riescono a sposarsi e finiscono col diventare prostitute.

L'uso dei bambini soldato ha ripercussioni anche su gli altri ragazzi che rimangono nell'area del conflitto, perché tutti diventano sospettabili in quanto potenzialmente nemici. Il rischio è che vengano uccisi, interrogati, fatti prigionieri.

Qualche volta i bambini soldato possono rappresentare un rischio anche per la popolazione civile in senso lato: in situazioni di tensione sono meno capaci di autocontrollo degli adulti e quindi sono "dal grilletto facile".

Per quanto molti stati siano riluttanti ad ammetterlo, l'uso di bambini soldato può essere considerato come una forma di lavoro illegittimo per la natura pericolosa del lavoro. L'ILO riconosce che: "il concetto di età minima per l'ammissione all'impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui si svolge porti un rischio per la salute, la sicurezza fisica o morale dei giovani, può essere applicata anche al coinvolgimento nei conflitti armati". L'età minima, secondo la Convenzione n° 138, corrisponde ai 18 anni.
Ricerche ONU hanno mostrato come la principale categoria di ragazzi che diventa soldato in tempo di guerra, sia soggetta allo sfruttamento lavorativo in tempo di pace.
La maggioranza dei bambini soldato appartiene a queste categorie:

ragazzi separati dalle loro famiglie (orfani, rifugiati non accompagnati, figli di single)
provenienti da situazioni economiche o sociali svantaggiate (minoranze, ragazzi di strada, sfollati)
ragazzi che vivono nelle zone calde del conflitto.
Chi vive in campi profughi è particolarmente a rischio di essere sfruttato da gruppi armati. Le famiglie e le comunità sono distrutte, i ragazzi sono abbandonati a se stessi e la situazione è di grande incertezza. I rifugiati sono così spesso alla mercé dei gruppi armati.

Un crimine ripugnante. Su tutto questo, che rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani e un ripugnante crimine di guerra, è impegnata INTERSOS, l'organizzazione umanitaria che opera a favore delle popolazioni in pericolo, vittime di calamità naturali e di conflitti armati. L'Ong è stata fondata nel 1992 con il sostegno delle Confederazioni sindacali italiane, e fonda la sua azione sui valori della solidarietà, della giustizia, della dignità della persona, dell'uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti i popoli, del rispetto delle diversità, della convivenza, dell'attenzione ai più deboli e indifesi.
   
Nonostante gli sforzi a livello internazionale, il problema dei bambini soldato è ancora vivo e drammaticamente in aumento. La Convenzione Internazionale dei Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, è il primo strumento internazionale che enuncia i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti e garantiti a tutti i bambini e a tutte le bambine del mondo, insieme con gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell'infanzia. Nel 2002 entrò in vigore il Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, che tratta il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati: il Protocollo stabilisce che nessun minore di 18 anni può essere reclutato forzatamente o utilizzato direttamente nelle ostilità, né dalle forze armate di uno Stato né da gruppi armati. L'Italia ratifica il Protocollo Opzionale con la Legge n. 148 del 9 maggio 2002. Sebbene il Protocollo rappresenti un passo importante, non è ancora uno strumento giuridico completo e sufficiente. Infatti, per il reclutamento volontario negli eserciti regolari, non è imposto il limite minimo di 18 anni.
Con gli Impegni di Parigi del 2007, i rappresentanti di 58 paesi si impegnano a porre fine al reclutamento illegale di minori e ad assicurare che le procedure di arruolamento nelle forze armate siano conformi al diritto internazionale. Durante la conferenza vengono rivelati i Principi di Parigi (Paris Principles), una raccolta dettagliata di linee guida per la protezione dei minori dall'arruolamento, la riabilitazione fisica e psicologica di quelli vittime dei conflitti armati. A seguito dell'entrata in vigore del Protocollo Opzionale si sono registrati notevoli progressi per quanto riguarda l'arruolamento di minori, tuttavia il problema non è affatto superato.
Esistono alcuni strumenti normativi internazionali che nel tempo sono stati adottati per tutelare e proteggere i bambini coinvolti nei conflitti e associati ai gruppi armati.

* La Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia del 1989, che mette al bando l'uso di minori di 15 anni nei conflitti armati e che impone agli Stati coinvolti di prendersi cura della riabilitazione psicologica e sociale dei minori coinvolti nelle guerre.

* La Carta Africana sui diritti e il benessere del bambino del 1990, rafforza la protezione prevista nella Convenzione dell'89. Nella Carta è previsto il rispetto da parte degli Stati contraenti delle leggi del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati in cui sono coinvolti i minori, e che gli Stati prendano misure necessarie perché bambini non prendano parte diretta alle ostilità.

* Il Protocollo Opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati alla Convenzione sui diritti dell'infanzia del 2002, che porta a 18 anni l'età minima per l'arruolamento nelle forze armate.

* E ben 6 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite (1999-2005), che richiamano gli Stati all'osservazione delle norme di diritto internazionale sulla protezione dei bambini nei conflitti, richiedono al Segretario Generale dell'ONU l'iscrizione nella black list degli Stati parti che usano minori per la guerra, riaffermano l'urgenza di programmi di smobilitazione e disarmo, di percorsi di reinserimento e riabilitazione.


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