Visualizzazione post con etichetta pregiudizio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pregiudizio. Mostra tutti i post

sabato 1 ottobre 2016

PREGIUDIZI

.


È più difficile disintegrare un pregiudizio che un atomo.
Albert Einstein

Un pregiudizio è generalmente basato su una predilezione immotivata per un particolare punto di vista o una particolare ideologia. Un tale pregiudizio può ad esempio condurre ad accettare o rifiutare la validità di una dichiarazione non in base alla forza degli argomenti a supporto della dichiarazione stessa, ma in base alla corrispondenza alle proprie idee preconcette. Senza quindi alcuna riflessione.

Ciò non significa che sia necessario, prima di affrontare qualsiasi questione, liberarsi da ogni pregiudizio, ma solo che di ogni proprio pregiudizio vada assunta piena consapevolezza, al fine di relativizzarne il peso e di abbandonare ogni insostenibile pretesa di verità a priori. Solo così è possibile instaurare un dialogo tra religioni diverse nel quale gli interlocutori non debbano rinunciare alle proprie più genuine e marcate posizioni: i punti di incontro non vanno trovati a scapito delle irrinunciabili e manifeste incompatibilità, e tuttavia il dialogo è possibile proprio perché nessuno crede che la propria verità renda menzogna quella dell'altro.

Nel linguaggio della psicologia sociale, quando si parla di pregiudizi ci si riferisce a un tipo particolare di atteggiamenti. Propriamente sono atteggiamenti intergruppo, cioè posizioni di favore o sfavore che hanno per oggetto un gruppo e si formano nelle relazioni intergruppo. Il pregiudizio può essere analizzato da un punto di vista antropologico perché nasce dal comune modo di approcciarsi verso la realtà. Fa parte quindi del senso comune, che è quella forma di pensiero e di ragionamento che appartiene a una cultura e ne plasma la produzione culturale in modo inconsapevole.

Si può dire anche che i pregiudizi sono culturali nel senso che variano da cultura a cultura. Ad esempio gli europei hanno determinati pregiudizi nei confronti delle qualità fisiche e psicologiche delle etnie di pelle nera. Molte tribù africane, all'opposto, pensano che gli europei siano portatori di stregoneria nella loro terra. Inoltre vi sono basi psicologiche perché è un pensiero che si basa sulle paure e le fobie del singolo individuo. Ad esempio, un pregiudizio può portare al razzismo, perché si ha paura dell'altro, dell'altra cultura, specie quando la si conosce poco. Dunque l'ignoranza in un determinato campo porta al pregiudizio.

In sociolinguistica il termine pregiudizio assume che l'uso di una certa variante linguistica o di una certa varietà di lingua ci consente di esprimere una valutazione su altri aspetti della personalità dell'individuo con cui stiamo dialogando. Queste maniere differenti di dire la stessa cosa possono assumere un grande significato sociale.

Nella filosofia della scienza il termine "pregiudizio" ha a che fare con quei fattori psicologici che alterano gli esperimenti di verifica delle ipotesi.
All'interno delle scienze sociali, Walter Lippmann, intorno al 1920, promosse il termine stereotipo nei suoi scritti relativi al pregiudizio.

Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi.

Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria.

D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni, può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali.

Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.

Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.



Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi.

Eliminare i pregiudizi non è un'impresa facile, in quanto sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

Nel manuale di psicologia sociale di Kenneth J. Gergen e Mary M. Gergen, il pregiudizio viene considerato un atteggiamento e quando questo atteggiamento si traduce in un comportamento specifico si può parlare di discriminazione.
Uno dei risultati dei meccanismi di discriminazione è che le persone contro cui essa è diretta possono sperimentare un abbassamento dell’autostima, ovvero un senso di inferiorità. Chi è vittima della discriminazione può anche sviluppare una volontà di fallire, può voler evitare, cioè, la possibilità di aver successo in una competizione.
Secondo le ricerche e gli studi più aggiornati, il pregiudizio viene acquisito durante l’infanzia o in qualsiasi periodo della vita, e il fatto che cresca o diminuisca col tempo dipende da circostanze storiche. Le esperienze fatte nei primi anni di vita possono essere responsabili di buona parte dei pregiudizi che si trovano negli individui adulti. Ma i pregiudizi possono insorgere in qualunque momento dell’arco di una vita. Buona parte di questi si forma, quando un adulto viene punito da un altro in qualche modo. Quando la gente rimprovera ingiustamente gli altri delle proprie difficoltà, si crea il fenomeno del capo espiatorio. Anche la competizione fra i gruppi può svolgere un ruolo fondamentale nella manifestazione dei pregiudizi e della discriminazione. Inoltre le differenze fra le persone alimentano ancor di più i pregiudizi e una delle ragioni è quella che le persone giudicate diverse rappresentano una minaccia alla propria autostima. Per quando riguarda la persistenza dei pregiudizi sono tre i fattori presi in considerazione: i valori comuni, la consapevolezza dell’appartenenza al gruppo e i giudizi sociali (le etichette).
Il sociologo olandese Van Dijk diffonde la tesi che il discorso e la comunicazione costituiscono una modalità di fondamentale importanza nella riproduzione sociale del pregiudizio.  Poiché nelle moderne democrazie capitalistiche la classe al potere ha un continuo bisogno di legittimazione e di approvazione, l’ideologia, secondo il sociologo olandese, rappresenta quello strumento che permette di riprodurre i processi di persuasione e di creare un saldo consenso intorno alle decisioni. L’ideologia razzista come manifestazione esplicita del pregiudizio etnico risulta essere una diretta emanazione delle élite al potere. Sono proprio queste élite, infatti, a detenere sia il potere materiale che il potere simbolico, una sorta di controllo mentale esercitato per lo più attraverso il discorso. Queste élite simboliche, come le definisce il sociologo Van Dijk, sono anche le artefici del consenso etnico dominante; esse non comprendono solamente la classe economicamente o politicamente più forte ed influente, ma inglobano rappresentanti del mondo accademico, dell’editoria, della cultura ecc. E’ per questo che Van Dijk afferma che “al di là dei rapporti di classe, la riproduzione del potere razzista coincide con la riproduzione del potere del gruppo bianco nel suo insieme”.
Così in tutti i paesi dove il gruppo bianco riveste una posizione di potere, il pregiudizio ed il razzismo sembrano essere confezionati, o come afferma Van Dijk preformulati, dalle classi dominanti per mantenere in una posizione marginale le classi subalterne, sia bianche sia di colore.

L’educazione è considerata un sistema fondamentale di controllo dei pregiudizi. L’educazione può trasmettere informazioni sui gruppi sociali, sul retroterra storico dei problemi attuali, etc. Grazie ad una maggior esposizione a questo tipo di informazioni si dovrebbe sviluppare una maggiore accettazione degli altri. Infine il risveglio delle coscienze ovvero l’aumento del grado di consapevolezza sociale di certi problemi può essere un rimedio al pregiudizio. Le ricerche mostrano che i partecipanti al processo chiamato “risveglio delle coscienze” sviluppano spesso un comportamento attivo verso il mondo accompagnato ad un alto grado di impegno nella realizzazione dei propri progetti e ad una rivalutazione dell’autonomia e dell’indipendenza.
Il pregiudizio appare oggi radicato nei livelli più nascosti della vita sociale, nel privato; viene in un certo senso dato per scontato attraverso l’esaltazione dell’appartenenza etnica, religiosa, culturale e perfino geografica.



FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



mercoledì 15 giugno 2016

L'OMOFOBIA

.


Il termine omofobia significa letteralmente “paura nei confronti di persone dello stesso sesso” e più precisamente si usa per indicare l’intolleranza e i sentimenti negativi che le persone hanno nei confronti degli uomini e delle donne omosessuali. Essa può manifestarsi in modi molto diversi tra loro, dalla battuta su un una persona gay che passa per la strada, alle offese verbali, fino a vere e proprie minacce o aggressioni fisiche. In seguito all’omofobia, ad esempio, alcuni eterosessuali, raccontano di sentirsi a disagio in presenza delle persone gay o lesbiche, altri si mettono a ridere quando le incontrano per strada. Altri ancora dicono di essere disgustati dai loro comportamenti, arrabbiati o indignati. Anche la parola “frocio” può essere considerata come espressione di omofobia, perché di solito viene usata con una connotazione negativa.
L’omofobia deriva dall’idea che siamo tutti eterosessuali e che è normale e sano scegliere un partner del sesso opposto (eterosessismo). Tale considerazione è basata anche sulla falsa credenza che in natura non esistano comportamenti omosessuali (“L’omosessualità è contro natura”); molti animali, invece, presentano comportamenti omosessuali, tra cui topi, criceti, porcellini d’India, conigli, porcospini, capre, cavalli, maiali, leoni, pecore, scimmie, e scimpanzé.
L’omofobia, inoltre, si alimenta in vari modi. Innanzitutto la società è spesso diffidente nei confronti delle diversità, fino al punto di considerarle pericolose. Tale mancanza di fiducia riguarda tutte le minoranze portatrici di valori nuovi o diversi (es. anche i primi cristiani) perché minacciano quelli convenzionali. Il pregiudizio anti-gay, inoltre, è rinforzato dall’ignoranza e dalla mancanza di contatti con la comunità omosessuale. Gli individui che presentano alta omofobia, di fatto, non conoscono la realtà gay e lesbica e ne hanno un’idea astratta basata su ciò che hanno sentito dire dagli altri. Infine, noi tutti tendiamo ad agire in modo coerente con ciò che viene ritenuto desiderabile e giusto in base alle convenzioni sociali dominanti. Questo meccanismo, ad esempio, è alla base del fatto che si è soliti deridere i gay perché è consuetudine farlo.

È importante ricordare che non si nasce omofobi; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi, diretti e indiretti, che la famiglia, la politica, la Chiesa e i media, ci trasmettono. Fin da bambini tutti noi acquisiamo convinzioni e valori che ci vengono presentati come assolutamente giusti e legittimi. Molto prima, dunque, di avere una reale comprensione di cosa significhi la parola omosessualità, ereditiamo, da una cultura omofoba, la convinzione che essere gay sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune.
Molto dipende anche dal posto antropologico in cui nasciamo e cresciamo. Nei paesi a prevalenza cattolica come l'Italia, la Chiesa esercita un’alta ingerenza sulle famiglie, sulla politica e sulla capacità legislativa conseguente. E la posizione ufficiale della Chiesa cattolica rispetto agli omosessuali è di accoglienza, solo a patto che gli omosessuali rinneghino se stessi, riconoscendo il disordine e il male della propria condizione di vita e accettando la castità e la costrizione come elemento permanente dell’intera loro esistenza.
Questo tipo di pressione morale, così pervasiva, non può non sfociare nell’omofobia interiorizzata (quell’insieme di sentimenti negativi come ansia, disprezzo, avversione che gli omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui) al punto che l’incidenza statistica dei suicidi è elevata tra gli omosessuali adolescenti, soprattutto se credenti.
Anche i media trasmettono messaggi ambigui e omofobi, attraverso la censura di scene di sesso omosessuale (anche senza nudo), o la tolleranza e lo spazio concesso a chi, cardinali o politici, promulga messaggi falsi e offensivi come l’equazione gay=pedofilo (il 95% dei pedofili è eterosessuale).

Va comunque precisato che il termine è utilizzato con diversi significati. Le definizioni di omofobia esistenti possono essere sintetizzate in tre principali prospettive: accezione pregiudiziale, accezione discriminatoria e accezione psicopatologica:
l'accezione pregiudiziale considera come omofobia qualsiasi giudizio negativo nei confronti dell'omosessualità. In questa definizione vengono considerate manifestazioni di omofobia anche tutte le convinzioni personali e sociali contrarie all'omosessualità come ad esempio: la convinzione che l'omosessualità sia patologica, immorale, contronatura, socialmente pericolosa, invalidante; la non condivisione dei comportamenti omosessuali e delle rivendicazioni sociali e giuridiche delle persone omosessuali. Non rientra in questa accezione la conversione in agito violento o persecutorio nei confronti delle persone omosessuali;
l'accezione discriminatoria considera come omofobia tutti quei comportamenti riconducibili al sessismo che ledono i diritti e la dignità delle persone omosessuali sulla base del loro orientamento sessuale. Rientrano in questa definizione le discriminazioni sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella cultura, gli atti di violenza fisica e psicologica (percosse, insulti, maltrattamenti). Questa definizione – che comprende anche l'acting out del sentimento discriminatorio – può essere considerata più pertinente al costrutto di omofobia in senso ristretto;
l'accezione psicopatologica considera l'omofobia come una fobia, cioè una irrazionale e persistente paura e repulsione nei confronti delle persone omosessuali che compromette il funzionamento psicologico della persona che ne presenta i sintomi. Tale valutazione diagnostica includerebbe quindi l'omofobia all'interno della categoria diagnostica dei disturbi d'ansia e rientrerebbe all'interno dell'etichetta di fobia specifica. A differenza delle prime due accezioni, l'omofobia come fobia specifica non è frutto di un consapevole pregiudizio negativo nei confronti dell'omosessualità quanto piuttosto di una dinamica irrazionale legata ai vissuti personali del soggetto. Quest'ultima definizione, per quanto più attinente alla radice etimologica del termine, ad oggi non è sostenuta da una letteratura sufficiente da farla inserire nei principali manuali psicodiagnostici.
Omofobia deriva dal greco homos (stesso, medesimo) e fobos (paura). Letteralmente significa "paura dello stesso", tuttavia il termine "omo" è qui usato in riferimento ad omosessuale. Il termine è un neologismo coniato dallo psicologo clinico George Weinberg nel suo libro Society and the Healthy Homosexual (La società e l'omosessuale sano), pubblicato nel 1971.

Un termine precursore è stato omoerotofobia, coniato dal dottor Wainwright Churchill nel libro "Homosexual behavior among males" (Comportamento omosessuale tra maschi), pubblicato nel 1967.

Intesa nel senso di "paura fobica e irrazionale", l'omofobia non è inserita in alcun manuale di diagnostica psicologica come patologia, è quindi errato pensare che sia medicalmente una fobia, come invece il nome potrebbe portare a credere. L'omofobia non è legata a una credenza politica o a un livello culturale, ma piuttosto al livello di equilibrio del singolo individuo. È stato infatti riscontrato dagli anni sessanta il fatto che tendano all'omofobia le "personalità autoritarie", rigide, insicure, che si sentono minacciate dal "diverso da sé" (ovviamente non solo omosessuale). Alti livelli di omofobia sono stati riscontrati anche in persone in lotta con una forte omosessualità latente o repressa.

In questo secondo senso l'omofobia può trarre nutrimento e soprattutto legittimazione da condanne ideologiche, religiose o politiche.

Per omofobia si può intendere anche la paura dell'omosessualità, ed in particolare la paura di venire considerati omosessuali, ed i conseguenti comportamenti volti ad evitare gli omosessuali e le situazioni considerate associate ad essi.

L'omofobia consiste nel giustificare, condonare o scusare atti di violenza o di discriminazione, di marginalizzazione e di persecuzione perpetrati contro una persona in ragione della sua reale o presunta omosessualità (si pensi ai soggetti bisessuali o anche semplicemente a persone che hanno un atteggiamento o un aspetto che non rientra nel comune stereotipo di genere sessuale, ad esempio le persone definite "effeminate").

Le ricerche psicosociali evidenziano come l'omofobia sia maggiormente legata a caratteristiche personali quali: anzianità, basso livello di istruzione, avere idee religiose fondamentaliste, non avere contatti personali con gay o lesbiche, essere autoritari, provare sensi di colpa nei confronti del sesso, avere atteggiamenti tradizionalisti rispetto ai ruoli di genere (mascolinità, etc.)

Probabilmente l'omofobia è correlata al timore di essere considerati omosessuali. Questo timore, dice Erich Fromm, è più frequente negli uomini che nelle donne, perché dal punto di vista culturale il maschio omosessuale viene considerato una "femminuccia", e nel pensiero sessista dominante.

« se un ragazzo viene definito "femminuccia", si sente bollato e umiliato dal gruppo. Se una ragazza è invece definita un "maschiaccio", a ciò non si accompagna uguale disapprovazione, anzi, spesso diventa motivo di orgoglio. Così la "femminuccia" è un codardo, un mammone, mentre la "maschiaccia" è una ragazza coraggiosa, capace di tener testa a un ragazzo. Probabilmente questi giudizi di valore vengono sussunti nell'atteggiamento che in seguito si sviluppa nei confronti dell'omosessualità nei due sessi.»
(Erich Fromm)

L'omofobia interiorizzata consiste nell'accettazione da parte di gay e lesbiche di pregiudizi, etichette negative e atteggiamenti discriminatori verso l'omosessualità. Questa interiorizzazione del pregiudizio è per lo più inconsapevole e può portare a vivere con difficoltà il proprio orientamento sessuale, a contrastarlo, a negarlo o addirittura a nutrire sentimenti discriminatori nei confronti degli omosessuali.

L'omofobia può diventare causa di episodi di bullismo, di violenza o di mobbing nei confronti delle persone LGBT. Secondo l'Agenzia per i diritti Fondamentali (FRA) dell'Unione europea l'omofobia nel 2009 danneggia la salute e la carriera di quasi 4 milioni di persone in Europa. L'Italia è il paese dell'Unione Europea con il maggior tasso di omofobia sociale, politica ed istituzionale. Secondo i dati del Dipartimento di Salute Pubblica i suicidi della popolazione gay, legati alla discriminazione omofoba in modo più o meno diretto, costituirebbero il 30% di tutti i suicidi adolescenziali.

Da altri studi in merito è emerso con chiarezza che gli adolescenti LGBT sono maggiormente a rischio di ideazione suicidaria rispetto ai coetanei eterosessuali. In aggiunta a ciò, una review di Haas e colleghi del 2011 sulla letteratura pubblicata in merito, suggerisce che i giovani LGBT siano dalle 2 alle 7 volte più a rischio, rispetto ai coetanei eterosessuali, di suicidio.
Sono anche stati riportati dei contesti in cui studenti LGBT hanno lamentato: la presenza di atti di discriminazione, come la negazione di servizi finanziari e sanitari, l'affibiazione di etichette verbali ingiuriose, tentativi di conversione e timore di atti di violenza sessuale ai loro danni. Tale situazione ha determinato il nascondimento della loro identità, l'evitamento di alcuni corsi, la prematura cessazione degli studi ed anche la messa in pratica di tentativi di suicidio.



A seguito dell'elevato rischio di ideazioni suicidarie e di tentativi di suicidio tra le cosiddette minoranze sessuali, i ricercatori hanno tentato di identificare i fattori che potessero spiegare tali marcate differenze. Le teorie sullo stress e lo stigma da minoranza hanno permesso di evidenziare il ruolo portante che i contesti sociali e strutturali così come le pratiche e le politiche istituzionali possono giocare nel contribuire a generare simili disparità nella salute mentale degli individui. In accordo con queste teorie, infatti, gli adulti LGBT che risiedono in stati con poche politiche sociali di tipo protettivo, hanno un maggior tasso di disordini psichiatrici e di abuso di sostanze rispetto a persone che vivono in stati con politiche protettive mirate. In linea con questi risultati, si pone anche un lavoro del 2014 di Hatzenbuehler e colleghi che ha indicato che giovani LGBT sono meno a rischio di sviluppare ideazioni suicidarie quando sono all'interno di strutture scolastiche che hanno adottato misure protettive verso le minoranze sessuali. L'ambiente sociale, inoltre, può esercitare delle influenze anche in maniera meno diretta. Uno studio condotto su una popolazione di circa 4098 maschi che hanno rapporti sessuali con altri maschi (MSM, Men who have sex with men) sieronegativi per HIV ha evidenziato, ad esempio, che un più basso livello di stigma sociale contro le persone LGBT è legato ad una diminuzione del rischio di rapporti anali non protetti (adjusted odds ratio, aOR=0,97, intervallo di confidenza al 95%, 95%CI 0,94-0,99), maggior consapevolezza riguardante la profilassi anti-HIV post esposizione (aOR=1,06, 95%CI 1,02-1,09) e di quella pre esposizione (aOR=1,06, 95%CI 1,02-1,10), maggior utilizzo della profilassi anti-HIV post esposizione (aOR=1,08, 95%CI 1,05-1,26) e di quella pre esposizione (aOR=1,21, 95%CI 1,01-1,44) ed un maggior livello di tranquillità nel discutere di sesso tra maschi con operatori sanitari (aOR=1,08, 95%CI 1,05-1,11).
Va, tuttavia, segnalato che sussiste anche la possibilità che il grado d'influenza esercitato dallo stigma da minoranza e da eventuali interventi di tipo protettivo o di supporto vari anche a seconda dell'etnia delle persone prese in considerazione.

L'importanza del contesto socioculturale che circonda le persone LGBT è stata evidenziata anche da un lavoro di Duncan e Hatzenbuehler del 2014 riguardante i cosiddetti crimini d'odio definiti come "condotte illegali, violente, distruttive o minacciose il perpetratore delle quali viene motivato dal pregiudizio contro il supposto gruppo sociale della vittima". Già altri studi in passato avevano evidenziato che le minoranze sessuali vengono colpiti da tali crimini e, secondo l'FBI, il 17,4% dgli 88.463 crimini d'odio registrati tra il 1995 ed il 2008 hanno coinvolto tali minoranze.

Lo studio di Duncan e Hatzenbuehler, condotto su un campione di studenti delle scuole superiori pubbliche di Boston, ha cercato di valutare l'effetto sulle persone LGBT del grado di vicinanza geografica alle aree ove sono stati perpretrati crimini d'odio ai danni di altre persone LGBT. Dai dati raccolti è emerso che gli adolescenti LGBT che hanno riferito di aver avuto ideazioni suicidarie tendevano a vivere a meno di 800 metri da aree ad alto tasso di crimini d'odio contro persone LGBT (21,22 per 100.000 Vs 12,26 per 100.000, p value=0,013). Gli adolescenti LGBT che hanno tentato il suicidio, inoltre, avevano maggiori probabilità di vivere a meno di 400 metri da aree ad alto tasso di crimini d'odio contro persone LGBT (33,61 per 100.000 Vs 13,18 per 100.000, p value=0,006). Tali associazioni statistiche non sono state rintracciate per quanto riguarda gli adolescenti eterosessuali. Nessuna significatività statistica è stata, inoltre, rintracciata per quanto riguarda l'associazione di problematiche suicidarie e crimini d'odio non ai danni di persone LGBT, indicando così che le significatività precedentemente presentate sono specifiche per gli adolescenti LGBT. I risultati di tale lavoro, sebbene preliminari soprattutto in considerazione della scarsa presenza di pubblicazioni analoghe, sono in accordo con la letteratura che documenta l'importanza dei contesti socioculturali nella determinazione dello Stato di salute mentale nelle minoranze sessuali.

In termini generali, il sentimento religioso sembra essere associato ad un buon livello di salute mentale. Sebbene tale dato sia variabile a seconda degli aspetti presi in considerazione, si può affermare che la religiosità sembra determinare effetti positivi: minor depressione e stress psicologico e migliore soddisfazione, felicità e stato psicologico personali. Per quanto riguarda le persone LGBT, al momento, sussistono pochi lavori che abbiano analizzato lo stato di salute mentale in rapporto con l'affiliazione religiosa. Sebbene, il sentimento religioso, come precedentemente accennato, sembri sortire effetti positivi, un ambiente sociale caratterizzato da stigma e rifiuto può produrre, in chi ne è vittima, effetti patologici.
La teoria dello stress da minoranza suggerisce che il differente livello di salute mentale tra le persone LGBT ed eterosessuali sia dovuto al differente livello di stigma e pregiudizio cui si va incontro.

Uno dei fattori presi in considerazione dalla teoria come fattore di stress è l'omofobia interiorizzata. Per omofobia interiorizzata s'intende l'internalizzazione, da parte delle persone LGBT, delle attitudini e delle credenze negative della società contro le persone LGBT stesse e poiché tale visione può essere appresa durante i normali processi di socializzazione, essa può costituire un fattore di stress particolarmente insidioso da individuare. Il suo superamento viene, inoltre, considerato un passo importante nel processo di coming out e viene considerato dai terapisti come necessario al fine di acquisire un buon livello di salute mentale. Di converso, l'omofobia interiorizzata è stata collegata ad una serie di sviluppi negativi: ansietà, depressione, ideazione suicidaria, condotta sessuale a rischio, problematiche nella vita intima ed uno stato generale di benessere più basso.

Sotto questo punto di vista, nei contesti religiosi gli insegnamenti possono essere parte di una socializzazione che si basi sullo stigma ed il permanere in tale contesto può contribuire ad potenziare il fenomeno dell'omofobia interiorizzata. Vistesi rifiutate da molte organizzazioni religiose, l'attendenza delle persone LGBT alle pratiche religiose istituzionali tende ad essere minore rispetto agli eterosessuali e vi è una maggior probabilità d'abbandono del loro credo. Al di là di ciò, comunque, le persone LGBT che si affiliano a gruppi religiosi, tendono a partecipare per lo più a denominazioni religiose “non supportive”. Alcuni lavori hanno, infatti, evidenziato che le persone LGBT tendevano ad affiliarsi a correnti di maggioranza o con maggioranza di eterosessuali sebbene tali gruppi potessero presentare un clima sociale poco ospitale. Tale dato, apparentemente contraddittorio, potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che le persone LGBT possano avvertire un profondo significato personale nell'appertenere ad un contesto religioso cui loro sono abituati, spesso dall'infanzia. In effetti, è noto che l'abbandono di un gruppo religioso possa risultare spiacevole sotto l'aspetto sociale, culturale e spirituale.

Tale situazione può diventare particolarmente pressante per persone appartenenti a minoranze etniche. Per le persone afro-americane, ad esempio, è noto come le chiese abbiano costituito un baluardo contro il razzismo sociale e siano state promotrici e sostenitrici di identità ed orgoglio etnico. Hanno, inoltre, provveduto a fornire servizi sociali e culturali in vario modo. Risulta, pertanto, chiaro come il processo di separazione, magari per confluire in contesti maggiormente supportivi per le persone LGBT, significhi anche perdere non solo i servizi ma anche tutto un contesto di profondo significato interiore.
Al fine di continuare la partecipazione in questi contesti, le persone LGBT tendono ad adottare svariate strategie per cercare di risolvere o di alleviare lo state di tensione che si può generare dalla partecipazioni in questi contesti non supportivi:
ritenere la Bibbia un documento che sarebbe stato ispirato da Dio ed in quanto tale, contenente occasionalmente punti di vista umani ormai antiquati, quali quelli sull'omosessualità;
separare le identità LGBT e religiosa così da sopprimere quella LGBT quando quella religiosa, in alcuni contesti, diviene preponderante;
neutralizzare i messaggi contro l'omosessualità questionando la credibilità a vario grado del pastore, sacerdote o di chi promuove tale visione (ciò può includere, tra le altre, la conoscenza biblica, la moralità o l'eccessiva enfasi sulla percepita eccessiva tendenza al legalismo contro il messaggio d'amore incondizionato promosso dal Nuovo Testamento).
Sebbene gli studi riguardanti la religiosità delle persone LGBT non abbiano preso molto in considerazione se il gruppo religioso fosse più o meno supportivo, un lavoro di Lease e colleghi ha mostrato che persone caucasiche LGBT coinvolte in attività religiose in contesti maggiormente supportivi erano collegate ad un minor livello di omofobia interiorizzata e che questa era legata ad un miglior livello dello stato di salute mentale. Altri lavori, di converso, hanno rilevato che contesti religiosi non supportivi possono avere un significativo effetto nel promuovere l'omofobia internalizzata nelle persone LGBT.

La problematica, tuttavia, può variare anche a seconda del gruppo etnico preso in considerazione dato che la religiosità tende a variare a seconda dell'etnia. Sebbene alcuni lavori abbiano suggerito che le persone latino-americane ed afro-americane tendano a dimostrare un maggior sentimento religioso, al momento non è stato rilevato che le persone LGBT appartenenti a questi gruppi siano maggiormente esposte a contesti non supportivi rispetto a quelle caucasiche. Alcuni lavori hanno, infatti, suggerito che alcune denominazioni evangeliche frequentate da caucasici possano essere caratterizzate da contesti particolarmente omofobi. Tuttavia, se l'affiliazione religiosa delle persone LGBT riflette quella della popolazione generale, c'è da aspettarsi che quelle latino-americane ed afro-americane siano esposte a contesti omofobi in misura maggiore rispetto a quelle caucasiche.

Un lavoro di Barnes e Meyer del 2012 condotto su 355 partecipanti LGBT ha cercato di valutare l'effetto del contesto religioso nello stato di salute delle persone LGBT attendenti. In generale, è emerso che le persone caucasiche tendevano a non dichiararsi religiose (58%) mentre solo il 36% ed il 35% degli afro-americani e dei latino-americani si è dichiarato non religioso. In termini di omofobia interiorizzata è emerso che, rispetto ai caucasici, gli afro-americani ed i latino-americani hanno maggiori livelli di essa sebbene il risultato sia statisticamente significativo solo per i latino-americani; in generale gli affiliati a contesti non supportivi hanno maggiori livelli di omofobia generalizzata rispetto agli affiliati a contesti supportivi ed ai non praticanti. La frequenza di pratica religiosa, in questo lavoro, non ha esercitato alcuna influenza sui livelli di omofobia interiorizzata dato che non è stata riscontrata nessuna differenza statisticamente significativa tra coloro che avevano un'elevata frequenza di pratica contro chi ne aveva una bassa. Va segnalato, tuttavia, che sia i latino-americani che gli afro-americani sono risultati maggiormente esposti, rispetto ai caucasici, a contesti non supportivi e che l'affiliazione a tali contesti si è dimostrata essere un buon mediatore statistico dei livelli di omofobia interiorizzata. Va segnalato infatti che la variabile affiliazione a contesti non supportivi nel modello statistico finale ha reso non più significativa la differenza dei livelli di omofobia interiorizzata tra latino-americani e caucasici ma ha anche diminuito il valore del coefficiente standardizzato B del 50% e del 25% nei modelli testati. I livelli di omofobia interiorizzata, infine, sono risultati essere statisticamente associati alla presenza di sintomi depressivi ed ad un minore benessere psicologico rendendo, nei due modelli testati, la variabile affiliazione a contesti non supportivi un miglior predittore sebbene non statisticamente significativo.

Gli autori di questo studio hanno quindi concluso che i dati presentati forniscono una base all'ipotesi che i contesti religiosi non supportivi determinino lo sviluppo di un ambiente sociale ostile alle persone LGBT il che può risultare in una maggior presenza di omofobia interiorizzata. I latino-americani, in particolare, hanno manifestato livelli significativamente maggiori, rispetto ai caucasici, di omofobia interiorizzata. La maggior affiliazione e pratica in contesti religiosi non supportivi sembra spiegare i maggiori livelli di omofobia interiorizzata. Per quanto riguarda gli afro-americani, i dati sembrano suggerire un quadro analogo sebbene non si sia raggiunta la significatività statistica.

Tali conclusioni, basate su un campione limitato e non casuale, non sono ovviamente generalizzabili. Risulta interessante, tuttavia, notare che uno studio di Gibbs e Goldbach del 2015 sembra concludere che giovani adulti LGBT che crescono e maturano in contesti religiosi sono a più alto rischio, rispetto ad altre persone LGBT, di ideazione suicidaria, più specificatamente di ideazione suicidaria cronica, così come di tentativi di suicidio.

In ambito legislativo, in molte nazioni, soprattutto europee sono previsti strumenti legislativi, di carattere civile e penale, finalizzati al contrasto dell'omofobia intesa principalmente come discriminazione basata sull'orientamento sessuale.

Va evidenziato che le legislazioni esistenti in molti casi mantengono distinto l'aspetto della non discriminazione dalle norme mirate invece a sanzionare in modo specifico azioni e comportamenti esplicitamente omofobici, quali atti violenti o di incitamento anche solo verbale all'odio. Ci sono legislazioni che fanno rientrare questo secondo aspetto in un ambito legislativo non specifico, non considerando quindi la motivazione dell'omofobia per il reato o non prevedendo sanzioni specifiche per le espressioni di odio o di incitamento all'odio legate all'orientamento sessuale.

L'omofobia, intesa come atto violento e/o incitamento all'odio, è esplicitamente punita come reato con sanzioni carcerarie e/o pecuniarie in Danimarca, Francia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e a livello regionale in Tasmania (vietato l'incitamento all'odio). Con un emendamento allo Hate Crimes Bill approvato dal Congresso nell'ottobre 2009 e denominato Matthew Shepard Act, gli Stati Uniti d'America hanno stabilito che la violenza causata da odio basato sull'orientamento sessuale costituisce un reato federale.

Norme antidiscriminatorie che menzionano esplicitamente l'orientamento sessuale sono in vigore in Europa, oltre che nei paesi sopra citati, in Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, in quattro Länder della Germania (Berlino, Brandeburgo, Sassonia e Turingia), Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria, Regno Unito, Repubblica Ceca, Serbia e Montenegro.

Al di fuori dell'Europa, leggi antidiscriminazione sull'orientamento sessuale sono in vigore in Canada, in alcuni degli Stati Uniti, in Australia, Nuova Zelanda, Isole Fiji, in alcuni stati del Brasile, Nicaragua, Uruguay, Colombia, Ecuador, Israele e Sudafrica.

Anche il regime castrista ha adottato forme di persecuzione nei confronti degli omosessuali. Considerati "controrivoluzionari", dagli anni sessanta agli anni ottanta anche i gay sono stati perseguitati e molti di loro sono stati rinchiusi nei campi di lavoro forzati UMAP ("Unidades Militares de Ayuda a la Producción") a causa del loro orientamento sessuale. Nell'ideologia castrista i maricones ("finocchi") erano infatti considerati espressione dei valori decadenti della società borghese:

« Agli omosessuali non dovrebbe essere concesso di stare in posizioni dove potrebbero essere capaci di mal influenzare i giovani. Nelle condizioni in cui viviamo, a causa dei problemi che il nostro paese deve affrontare, dobbiamo inculcare nei giovani lo spirito della disciplina, della lotta, del lavoro... Noi non arriveremmo mai a credere che un omosessuale possa incarnare le condizioni e i requisiti di condotta che ci permetterebbero di considerarlo un vero Rivoluzionario, un vero Comunista aggressivo. Una deviazione di questa natura si scontra con il concetto che abbiamo di ciò che un militante comunista deve essere.»
Nel marzo del 1965, Giangiacomo Feltrinelli riuscì ad ottenere da Fidel Castro una lunghissima intervista chiedendogli anche perché perseguitasse i gay, sul perché ce l'avesse tanto con gli omosessuali e cosa c'entrasse quel pogrom con la rivoluzione. Il líder máximo, dopo una risata per la domanda sfacciata, rispose alla domanda ed accennò alla paura di "mandare un figlio a scuola e vederselo tornare frocio". Nel 2010 Castro ha ammesso pubblicamente di aver "commesso una grande ingiustizia" a perseguitare gli omosessuali. Tuttavia, almeno dal 1988, Cuba è all'avanguardia in America latina per le politiche contro l'omofobia ed ha eliminato ogni traccia di legislazione omofobica.

La legislazione di contrasto alla discriminazione tra cittadini trae principale fondamento dall'articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana (principio di uguaglianza formale e sostanziale):
« Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. »
Pur non citando espressamente l'orientamento sessuale, esso può rientrare per via interpretativa sia nella nozione di "sesso", sia tra le "condizioni personali e sociali".

La Legge 25 giugno 1993, n. 205 intitolata Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa (cosiddetta Legge Mancino), integra il diritto penale italiano per quanto attiene ad alcune forme di discriminazione, tra cui non rientrano quelle basate sull'orientamento sessuale che, inserite nella sua prima formulazione, furono espunte dal testo nella stesura definitiva.

La menzione esplicita dell'orientamento sessuale è invece presente nel Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, che tutela dalle discriminazioni sul luogo di lavoro. Le eccezioni inizialmente previste per il personale delle Forze Armate, delle Forze dell'ordine e di soccorso furono poi abolite a seguito della procedura d'infrazione aperta dalla Comunità Europea contro l'Italia, in quanto contrarie alla direttiva comunitaria contro le discriminazioni.

Il 2 ottobre 2009, nel corso della XVI Legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha adottato un testo base, presentato dalla deputata Anna Paola Concia e costituito da un singolo articolo, che tra le circostanze aggravanti comuni previste dall'articolo 61 del codice penale inserisce anche quella inerente all'orientamento sessuale. Tale testo è stato poi bocciato il 13 ottobre 2009 dalla maggioranza parlamentare per una pregiudiziale di costituzionalità sollevata dall'Unione di Centro. La bocciatura ha sollevato dure critiche verso l'Italia da parte di rappresentanti dell'Unione europea e dell'ONU. Alla bocciatura ha reagito invece positivamente il vescovo Domenico Mogavero, che ha definito la proposta di legge «solo un primo passo, in quanto il vero obiettivo di questa campagna sono le nozze gay».

Mara Carfagna, Ministro per le pari opportunità del Governo Berlusconi IV, il 9 novembre 2009, ha presentato Nessuna differenza, la prima campagna istituzionale in Italia contro l'omofobia e le discriminazioni di genere.

Il 17 maggio 2011, in occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito «inammissibile in società democraticamente adulte» l'irrisione degli omosessuali. Il 18 maggio 2011 il testo base della deputata Anna Paola Concia, basato su una direttiva europea, è stato ripresentato alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che l'ha bocciato con 24 voti contrari e 17 favorevoli. Il ministro Carfagna ha commentato: «Il Popolo della libertà ha perso un'occasione». Il 26 luglio 2011 la Camera ha respinto per la seconda volta il ddl presentato dalla deputata Concia contro l'omotransfobia.

Un nuovo disegno di legge per l'estensione della legge Mancino ai casi di omofobia e transfobia è stato presentato durante la XVII Legislatura.

In vari paesi (per esempio Canada, Regno Unito, USA, Italia) sono stati annullati molti concerti di famosi esponenti della "scena reggae", quali Sizzla, Beenie Man, Capleton, Bounty Killer, T.O.K., Buju Banton, Elephant Man per i contenuti omofobi e sessisti dei loro testi.

L'omofobia non è inserita in alcuna classificazione clinica delle varie fobie; infatti, non compare né nel DSM né nella classificazione ICD; il termine, come nel caso della xenofobia, è solitamente utilizzato in un'accezione generica (riferita a comportamenti discriminatori) e non clinica.



FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



lunedì 23 maggio 2016

PEDOFILI IN CARCERE




Chi finisce in carcere con una condanna per pedofilia non deve solo fare i conti con la sentenza sancita dal giudice ma anche con il pregiudizio degli altri carcerati.I bimbi non si toccano, reciterebbe una legge tacita in vigore tra i carcerati di tutto il mondo. Capaci di battezzare a sangue i neo arrivati macchiatisi di uno dei crimini più orrendi.

E proprio a causa della specificità del reato commesso sono confinati in un’ala ben precisa della struttura. È una prassi in vigore da tempo. Anche perché poi gli altri tendono a fare comparazioni. Chi è in carcere per truffa o per furto si sente comunque un po' migliore rispetto a chi ha commesso atti pedofili o legati alla sfera sessuale. D’altra parte questa separazione permette ai condannati per pedofilia di prendere coscienza di quanto sia terribile il reato commesso. Il fatto che abbiano una pena per un reato grave da scontare non significa che debbano essere lasciati in balia degli altri carcerati. Anche perché in carcere la concentrazione di persone con tratti caratteriali dissociali è maggiore rispetto all’esterno. Di conseguenza il rischio di aggressioni è più alto.

La mediatizzazione dei casi di pedofilia, constatabile negli ultimi anni, ha accresciuto il livello di guardia sulla tematica. "I detenuti hanno la possibilità di leggere i giornali. Sanno che magari arriverà un determinato personaggio, autore di reati pedofili. Si creano attese e aspettative, c'è chi vuole vedere queste persone in faccia, dobbiamo fare ancora più attenzione quindi".
In alcune occasioni i condannati per reati sessuali su minori hanno la possibilità di mescolarsi con gli altri carcerati. "Ma solo in circostanze in cui noi abbiamo il massimo controllo e possiamo dunque intervenire rapidamente in caso di difficoltà – ammette un direttore di un carcere –, capita ad esempio per quanto riguarda le feste o le celebrazioni. Per il resto, forse è meglio che stiano separati. E sono loro stessi a rendersene conto, si sentono più protetti. Va ricordato che non di rado questi detenuti hanno un età molto maggiore rispetto alla media degli altri e sono dunque più vulnerabili”.

Per il trattamento specifico delle persone condannate per i reati nella sfera sessuale, oltre ai colloqui individuali è stata aggiunta anche una terapia di gruppo. Momenti in cui i condannati hanno la possibilità di ripercorrere i loro errori, esplicitandoli di fronte agli altri. "Questo lavoro di gruppo – evidenzia il direttore – viene portato avanti indipendentemente dalle sedute di psicoterapia individuale. Lo scopo principale è quello di sviluppare la presa di coscienza da parte dei detenuti. Funziona un po' come in una comunità di recupero".

Gli altri detenuti li chiamano "infami", traditori dell'etica carceraria. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono "protetti", gente che va tutelata dalla violenza dei reclusi comuni, dalle intimidazioni e dagli atti di intolleranza che colpiscono anche collaboratori di giustizia e detenuti appartenenti alle forze dell'ordine. Sono stupratori, pedofili, molestatori, torturatori di donne e bambini. Quelli che assistenti sociali, psicologi ed educatori del carcere chiamano sex offender, autori di reati sessuali.



FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



domenica 18 ottobre 2015

I VELI ISLAMICI



La concezione di una donna sottomessa, costretta a coprirsi interamente o imprigionata in un harem nel medio oriente non esiste. Questo pregiudizio del tutto occidentale nasce, molto probabilmente, da una serie di fraintendimenti e discordanze, originati dalla differenza tra quello che è realmente scritto nel Corano, l'interpretazione e strumentalizzazione politica dei diversi stati islamici e la visione della donna islamica nell’immaginario occidentale.

La realtà' dei diversi paesi arabi, e di conseguenza la realtà femminile, non può e non deve essere confusa con la realtà islamica. È ormai risaputo che in molti di questi paesi c'è grande disparità tra la condizione maschile e quella femminile, ma si tratta di paesi in cui e' da sempre in atto una battaglia contro l'occidentalizzazione della cultura (e il nemico americano). Dove, appunto, si e' radicata l'idea che maggiore liberta' significa maggiore occidentalizzazione. E di cio' ne fanno le spese proprio le donne, che finiscono per essere strumentalizzate perdendo parte dei loro diritti ,per altro bene esplicitati nello stesso Libro a cui queste teocrazie fanno riferimento.

Il pregiudizio più grande che la nostra cultura ha verso la cultura islamica è quello del velo che riteniamo il simbolo, chiaro ed evidente, della sottomissione della donna all'uomo e della sua mancanza di diritti. È quasi inconcepibile, per noi, che questa donna possa avere libertà di scelta o che, in caso l'avesse, possa scegliere di sua spontanea volontà di indossare un indumento tanto “alienante” come l'hijab, se non a causa esclusiva del forte condizionamento sociale dovuto alla sua ignoranza. Ovviamente, e purtroppo, tutto questo è una realtà innegabile in molti Paesi arabi, ma non è l'unica realtà. Questo pregiudizio di fondo impedisce la vera conoscenza di questo fenomeno che si presenta molto più vasto ed eterogeneo di quel che noi crediamo e di ciò che questo “simbolo” realmente significhi per molte donne arabe.

Esistono diversi tipi di velo usati dalle donne islamiche, ognuno dei quali è legato ad una determinata regione e in quanto tale ne riflette la cultura e la tradizione al di là della religione.
L’Hijab, il classico foulard che copre i capelli e il collo, è anche il più antico di tutti; la sua origine risale gia al XII sec a.c. Quando era in uso nella Mesopotamia assira. Lascia scoperto il viso e prevede che, oltre a coprirsi il capo la donna indossi un vestito lungo e largo che nasconde le forme del corpo, anche se solo le più osservanti tra chi sceglie questo tipo di copertura usano il vestito completo ed è il tipo di velo più diffuso tra le donne mussulmane in occidente e nei paesi islamici più liberali.

Il Niqab, è un tipo di velo, che copre interamente il volto della donna. È sovente confuso con il Burqa, l’abito islamico di colore azzurro, tipico dell’ Afghanistan, che avvolge integralmente il corpo e il viso, compresi gli occhi, coperti da una fitta griglia. Al contrario di quest’ultimo il niqab lascia, nella maggior parte dei casi, scoperti gli occhi. È molto diffuso in Arabia Saudita e Yemen anche se la foggia cambia leggermente tra i due stati. Il niqab yemenita è in fatti realizzato da un fazzoletto triangolare che copre la fronte e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento, mentre quello saudita è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca.

Nelle zone del Golfo persico è molto diffuso l’ Abaya, un velo leggero, ma coprente, lungo dalla testa ai piedi e che lascia completamente scoperto il volto. Mentre in Iran troviamo il famoso Chador che può essere sia un semplice fazzoletto sulla testa che un mantello che copre tutto il corpo, generalmente di colore nero.

Il velo tradizionale dei paesi del Nord Africa, quali la Tunisia e l’Algeria, è l’Haik, un ampio velo di cotone bianco, nero o anche colorato. Questo tipo di velo copre dalla testa ai piedi e spesso le donne, soprattutto le più anziane, lo usano per coprirsi il volto, tenendo uniti i due lembi con i denti.

Per molte donne rivolgere pubblicamente la parola ad un uomo senza indossare il velo,anche nei paesi dove questo non è d'obbligo, è motivo di imbarazzo. Grazie all'hijab si sentono libere di stringere rapporti di amicizia con uomini senza avere il timore di essere fraintese o di perdere la loro reputazione.



Secondo la sociologa egiziana Laila Ahmed, in questo contesto il velo non è ineluttabilmente un simbolo di segregazione, ma permette alle donne di presentarsi nella sfera pubblica senza costituire una minaccia né una trasgressione dell’etica socio-culturale islamica. Grazie al velo la donna islamica ha la possibilità di crearsi uno spazio pubblico legittimo. Non è uno strumento per relegare la donna in casa, quindi, ma al contrario per legittimarne la presenza al di fuori di essa.

Continua, poi, sostenendo che per quanto l'uso del velo possa apparire conservatore,il numero sempre maggiore di donne che grazie ad esso accedono alle università, alle professioni e allo spazio pubblico,non può essere considerato un fenomeno regressivo. E, mentre una coscienza femminista è più specifica delle classi medie urbane, sostiene la sociologa, il linguaggio del velo rivela la ricerca di una identità culturale anche da parte delle donne appartenenti ad ambienti rurali. Dunque “non cristallizza chi lo indossa nel mondo della tradizione, ma connota la volontà di approdare alla modernità”.

È quasi assurdo pensare che per compiere l’emancipazione sia sufficiente abbandonare i costumi di una determinata cultura, anche quando cosi androcentrica, in favore di quelli appartenenti ad una cultura differente . La dottoressa Ahmed afferma inoltre: ”Neppure la più ardente femminista del secolo scorso ha mai sostenuto che le donne europee potessero liberarsi dall’oppressione della moda vittoriana (concepita per costringere la figura femminile a conformarsi a un ideale di fragilità per mezzo di corpetti soffocanti che spezzavano le costole) adottando semplicemente l’abbigliamento di un altro tipo di cultura. Né si è mai sostenuto che l’unica possibilità per le donne occidentali fosse quella di abbandonare la loro cultura per trovarsene un’altra, dal momento che il predominio maschile e l’ingiustizia verso le donne sono sempre esistiti all’interno di essa” .

Per le stesse femministe arabe che combattono ogni giorno per l’ emancipazione della donna, il velo non è uno strumento culturale, politico o ideologico, che rappresenta la sottomissione agli uomini,ma una convinzione personale,legata alla fede. E in quanto tale, ogni donna libera e mussulmana ha il pieno diritto di scegliere se indossarlo o meno.

Il divieto del velo va contro il diritto della donna sul suo corpo esattamente quanto l'obbligo di indossarlo. Sembra quindi che questo indumento che fa tanto discutere sia in realtà un problema tutto occidentale.

L'abbigliamento delle donne musulmane è stato spesso oggetto di accesi dibattiti in Occidente dove è stato preso come simbolo dell'oppressione femminile di cui si accusa la religione di Maometto. La copertura totale del volto con il velo scandalizza alcuni paesi cattolici eppure secondo un recente sondaggio sono pochissimi i paesi islamici dove il burqa è ritenuto il tipo di abbigliamento più appropriato per le donne. La maggior parte degli intervistati preferisce il velo che copre solamente i capelli (hijab) ed alcuni non ritengono che sia necessaria alcuna copertura.

L'Institute for Social Research della University of Michigan ha posto la questione a sette paesi a maggioranza musulmana: Turchia, Egitto, Tunisia, Libano, Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq. Le sei varianti fra cui scegliere passano dal burqa, il velo integrale dove la parte all'altezza degli occhi è traforata al niqab, una variante del burqa con una fessura per lasciar scoperti gli occhi, il chador, un velo nero che copre il capo e la fronte, l'al Amira, un velo bianco intorno al volto, l'hijab, un foulard avvolto come un velo ed infine il capo interamente scoperto.

Dai più 'laici' come la Turchia ed il Libano ai più conservatori Arabia Saudita e Pakistan in media i paesi musulmani optano in maggiornaza (44%) per l'al Amira, si può dire il "più comodo" fra i veri e propri veli. Al secondo posto il favorito è l'hijab, variante ancora più blanda della copertura (12%) mentre l'8% preferisce il niqab o il chador.

Fanno eccezione l'Arabia Saudita dove la stragrande maggioranza (63%) sceglie il niqab ed, al contrario, il Libano dove quasi la metà ritiene che lasciare il volto scoperto sia l'acconciatura più appropriata (risultato probabilmente influenzato dal 27% di cristiani intervistati), opinione condivisa dal 32% dei turchi ed il 15% dei tunisini. Diversa la situazione in Pakistan dove a pari merito vincono le due forme più conservatrici, il niqab ed il chador, indicato come seconda scelta anche dall'Iraq e l'Egitto. Peccato solo che gli intervistati non siano divisi per sesso così da conoscere eventuali differenze fra le preferenze degli uomini e di chi deve effettivamente indossare il velo.

In ogni caso, se il burqa, il niqab ed il chador sono effettivamente indumenti destinati a standardizzare l'aspetto femminile, tutt'altra storia è l'hijab. Come dimostrato dai numerosi blog di moda sull'hijab, questo tipo di velo è considerato da molte giovani donne musulmane un dettaglio da scegliere con cura e da impreziosire con spille, forme, tessuti e pieghe diverse.



Ciò che in Occidente viene chiamato "velo" ed erroneamente si pensa sia stato introdotto dall'Islam esiste in realtà ben prima di esso. Una legge del XII secolo a.C. nella Mesopotamia assira sotto il regno del sovrano Tiglatpileser I (1114 a.C. — 1076 a.C.) rendeva di già obbligatorio portare il velo all'esterno a ogni donna sposata. Esso appariva anche nel mondo greco, tant'è vero che, nell'Iliade, si dice che Elena, moglie di Menelao, si velava per uscire.

Questa situazione si riscontrava in tutto il Mediterraneo, tanto che ancora nel Medioevo si hanno notizie di tre donne (Accursia, Bettisia Gozzadini e Novella d'Andrea) che nel XIII e XIV secolo ebbero la possibilità di tenere delle lezioni di Diritto all'Università di Bologna, ma soltanto a condizione che tenessero il corpo e il volto completamente velati per non distrarre gli studenti.

Nella Penisola araba preislamica la situazione delle donne era notevolmente contraddittoria: non pare vi fossero norme istituzionalizzate, in forza delle quali esse potessero reclamare precisi diritti. Da un canto, le bambine potevano occasionalmente essere sotterrate vive per motivi che ci sono rimasti oscuri ma che sembrano coinvolgere la sfera religiosa, d'altro canto le donne godevano nondimeno di vasti privilegi in campo coniugale: poliandria mirante alla procreazione di fanciulli sani in caso di impotenza del primo marito, possibilità di ripudio del marito e matrimoni a tempo predeterminato (mut'a), per il quale era assolutamente prescritto il libero consenso della donna e in base al quale l'eventuale figlio della coppia rimaneva al padre, che se ne assumeva ogni onere economico. Troviamo donne imprenditrici e notevolmente attive in campo politico (in passato si parlava non episodicamente di "regine degli Arabi").

A ridosso della nascita dell'Islam, alcuni di questi istituti giuridici non risultano essere stati più validi: segno probabile di una rivalsa virile a discapito del ruolo muliebre: è probabile che l'uso del velo, in questo periodo, fosse comunque abbastanza diffuso, sia pur non generalizzato come in seguito con l'affermarsi dell'Islam.

Secondo alcuni sociologi, con l'avvento dell'Islam il velo diviene il simbolo di una ritrovata dignità femminile, dal momento che la donna diventa soggetto di alcuni precisi diritti (al mahr, ad esempio, una quota di beni o denaro obbligatoriamente versata dall'uomo a tutela dell'eventuale vedovanza o di un ripudio subito, senza dimenticare il diritto all'eredità, per quanto normalmente determinata nella metà della quota-parte riservata al maschio avente pari titolo giuridico); secondo altri, l'obbligo del velo manifesta invece la subordinazione della donna rispetto all'uomo, vista come una sua proprietà e quindi costretta a nascondere il proprio capo a tutti gli altri uomini, se non a quelli della propria famiglia. La religione islamica chiede inoltre alle donne che si convertono di velarsi per essere distinte dalle schiave non musulmane.

Rimane un dato storico incontrovertibile che l'uso del velo non sia una pratica esclusivamente e specificamente musulmana, ma semmai araba e anteriore all'Islam, diffusa anche in varie altre culture e religioni, tra le quali il Cristianesimo orientale e in generale il mondo bizantino. Il suo scopo principale era quello di segnalare le differenze sociali, indicare le donne che dovevano essere oggetto di un particolare rispetto, e spesso marcare la differenza tra sacro e profano.

I passaggi del Corano che normalmente vengono citati a proposito del precetto di indossare il velo sono, in particolare, l'aya 31 della sura XXIV (al-Nur, "La luce")

« E di' alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle ad altri che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne, e non battano assieme i piedi sì da mostrare le loro bellezze nascoste; volgetevi tutti a Dio, o credenti, che possiate prosperare! »
e l'aya 59 della sura XXXIII (al-Azab, "Le fazioni alleate")

« O Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre, e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente e clemente! »




Il nome utilizzato per indicare il velo nella sura al-Nur è khumur (plurale di khimar), la cui radice  significa "velare, celare, occultare qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Renato Traini, pubblicato dall'Istituto per l'Oriente (Roma 1966–1973), alla voce "khimar" si legge: «Velo che copre il capo e la faccia della donna» e nell'Arabic-English Lexicon di E. Lane: «A woman’s muffler, or veil, with which she covers her head and the lower part of her face, leaving exposed only the eyes» ("uno scialle o velo, con cui la donna si copre il capo e la parte inferiore del viso, lasciando scoperti solo gli occhi").
Nella surat il termine è jalabib (plurale di jilbab), la cui radice quadrilittera significa "indossare, essere rivestito di qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Traini, alla voce "jilbab" si legge semplicemente: «Indumento femminile», e in quello di E. Lane leggiamo: «A shirt  that envelopes the whole body» ("Una camicia che ricopre l'intero corpo"). Secondo i commentari del Corano (tafasir), il jilbab ricopre anche il capo, e per molti dotti anche il viso.
La parola hijab, invece, la più usata oggigiorno in riferimento al velo islamico, appare in sette versetti del Corano, ma in modo meno specifico, dato che si riferisce sempre - salvo un caso - ad una cortina, una tenda, dietro alla quale può avvenire la rivelazione del Corano stesso. In particolare:

« A nessun uomo Dio può parlare altro che per rivelazione, o dietro un velame, o invia un messaggero il quale riveli a lui col suo permesso quel che egli vuole »
(XLII,51)
« E quando tu reciti il Corano, noi poniamo tra te e coloro che rinnegano la vita futura un velo disteso »
(XVII,45)
« O voi che credete! Non entrate negli appartamenti del Profeta senza permesso, per pranzare con lui, senza attendere il momento opportuno! ... E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori. E non vi è lecito offendere il Messaggero di Dio, né di sposare le sue mogli mai, dopo di lui. Questo sarebbe, presso Dio, cosa enorme »
(XXXIII,53)
Questa separazione, inizialmente riservata alle mogli del profeta Maometto, in seguito sarebbe stata estesa alle donne musulmane libere. L'imposizione di rivolgersi alle mogli del Profeta da dietro un hijab aveva quasi certamente in origine motivazioni di protocollo, e solo più tardi venne preso a pretesto per giustificare forme generalizzate di segregazione sessuale, del tutto sconosciute all'Islam dell'epoca di Maometto.

In un solo caso nel Corano hijab indica un velo inteso come capo di abbigliamento.

« Nel Libro ricorda Maria, quando si appartò dalla sua gente lungi in un luogo d'oriente ed essa prese, a proteggersi da loro, un velo. E noi le inviammo il nostro Spirito che apparve a lei sotto forma di uomo perfetto »
(XIX,16-17)
In sintesi, dunque, i giuristi musulmani designarono ben presto con il termine generico hijab tutto ciò che dissimula o copre il corpo delle donne al fine di preservarne il pudore. Hijab è il termine comunemente più utilizzato per designare il "velo" della donna musulmana, anche se nel Corano altri due termini (khimar e jilbab) lo definiscono in modo più preciso, specificando come esso dovrebbe coprire il capo della credente e a parere di molti anche il volto.

Secondo molti musulmani praticanti, per quanto riguarda l'abbigliamento femminile le principali fonti del diritto islamico, cioè il Corano e la Sunna, prescriverebbero senza alcun dubbio l'obbligo di indossare il velo. Anche tra gli assertori della obbligatorietà del velo, tuttavia, esistono due differenti linee di interpretazione dei testi: una ritiene che la donna possa mostrare il proprio viso (anche se si giudica più meritevole celarlo davanti agli estranei), l'altra afferma che sia comunque tenuta a coprirlo. Evidentemente, le donne musulmane che seguono quest'ultima interpretazione non la ritengono una tradizione culturale locale o invalsa solo col tempo e a motivo di presunti influssi di altre tradizioni sulla civiltà musulmana, bensì di un insegnamento appartenente in pieno all'Islam.

In Egitto, si considera che la prima contestazione riguardante l'asserita obbligatorietà d'indossare un velo abbia avuto luogo verso la fine del XIX secolo: Qasim Amin, che apparteneva allora alla corrente di pensiero "modernista", che cercava d'interpretare l'Islam per renderlo compatibile con i processi di modernizzazione della società egiziana in particolare, si espresse a favore dell'evoluzione dello status della donna nella sua opera  (La liberazione della donna, pubblicata nel 1899). Si dichiarò in particolare a favore dell'istruzione femminile, della riforma della procedura di divorzio e della fine dell'uso del velo e della segregazione muliebre. A quei tempi Qasim Amin si riferiva al velo facciale (burqu: velo di mussolina bianca che ricopre il naso e la bocca) che portano le donne di classe agiate urbane, fossero esse cristiane o musulmane. Il hijab d'allora era effettivamente legato all'isolamento delle donne. Si considera generalmente che fu da quel momento che il hijab cessò dall'essere il simbolo d'uno status sociale e di ricchezza per divenire simbolo di arretratezza e di posta in gioco sociale, politica e religiosa.



Nel 1923, Hoda Sharawi, considerata come una delle prime femministe, ripudia il suo velo facciale tornando da un incontro femminista svoltosi a Roma, lanciando in tal modo, insieme a molte altre donne, un movimento di "svelamento" che sarà chiamato in arabo al-sufur.

In Turchia e in Iran, l'abolizione del velo fu imposta all'inizio del XX secolo da Mustafa Kemal Atatürk e dallo Shah d'Iran, che videro l'adozione dell'abbigliamento occidentale come un segno di modernizzazione. In Tunisia, Habib Bourghiba vietò il velo nell'amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico.

In Marocco, all'avvento dell'indipendenza, il re Mohammed V, padre di Hassan II e nonno dell'attuale sovrano Mohammed VI, chiese a sua figlia di togliersi il velo in pubblico, come simbolo della liberazione della donna. Tuttavia in presenza del re, i deputati donne si videro obbligati a coprire i loro capelli in segno di rispetto per la tradizione.

Nel corso degli ultimi anni della guerra d'Algeria, i francesi organizzarono cerimonie di "svelamento" collettivo, miranti a dimostrare l'opera civilizzatrice della Francia in Algeria, a favore dell'emancipazione delle donne algerine.

Negli anni Sessanta, portare il velo divenne un fenomeno estremamente minoritario nella maggior parte dei paesi arabi (con l'eccezione dei paesi che si rifacevano al pensiero del wahhabismo).

Attualmente la maggior parte degli autori è concorde nell'includere il tema del hijab nell'ambito dello zay al-shari, il "vestito secondo la shari'a". Esso indica, in prima battuta, l'abbigliamento femminile che gli integralisti musulmani hanno preso ad adottare a partire dagli anni Settanta e che consiste in una tenuta lunga e ampia, il (jilbab), di colore sobrio e d'un velo, khimar, del pari di colore sobrio, che ricopre interamente i capelli delle donne, il loro collo, le spalle e il petto, in modo tale che - conformemente alla pretesa legge islamica - non appaiano altro che le mani e il viso.

L'obbligo di velarsi è oggi controverso, ma generalmente dedotto da un insieme di versetti già esposti del Corano e di Jadith del profeta Muammad. Non si trova traccia d'una tale controversia nei testi degli Julama e degli esegeti ( mufassirun ) antichi. Il soggetto del loro disaccordo era piuttosto quello di appurare se il velo fosse obbligatorio per coprire o meno il volto delle donne. L'obbligo di nascondere le altre parti del corpo (escluso il viso, le mani e i piedi per alcuni) è del pari riportato nei libri consacrati al tema del consenso.

A parte qualche sporadica ed isolata ordinanza municipale che ne dispone la proibizione punibile con sanzioni amministrative, indossare un velo integrale in Italia non è reato.

Coloro che si oppongono alla libera circolazione di donne con il viso velato si appellano al vigente Codice penale e alla Legge 152/1975 (e successiva Legge 155/2005) relativa alle norme di Pubblica Sicurezza, il cui art. 5 recita: "È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino."

Sulla interpretazione della clausola "senza giustificato motivo" si è già espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto la matrice religiosa e/o culturale un giustificato motivo per poter circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra il viso.

La ratio legis di questa norma, diretta alla tutela dell'ordine pubblico, è infatti quella di evitare che l'utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene "senza giustificato motivo". Con riferimento al “velo che copre il volto”, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. In questa sede al giudice non spetta dare giudizi di merito sull’utilizzo del velo, né verificare se si tratti di un simbolo culturale, religioso, o di altra natura, né compete estendere la verifica alla spontaneità, o meno, di tale utilizzo. Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.

Il citato articolo 5 della legge 152/1975 consente nel nostro ordinamento che una donna indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni, e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.

Va precisato, però, che in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato ha solo funzione di tutela nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione. In particolare il Consiglio di Stato è il Giudice di secondo grado della giustizia amministrativa, ovvero il Giudice d'appello avverso le decisioni dei TAR, e nella sentenza richiamata si annullò un ricorso avverso decisione del TAR sostanzialmente per motivi di merito procedurale e gerarchico.

Rimane stabilito peraltro (Sentenza TAR Friuli Venezia Giulia n° 645 – 16.10.06) "che a prescindere dai singoli casi concreti in cui ogni agente di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi (allo stato attuale non esistente), il che è tra l'altro in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione.".


.

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE





http://www.mundimago.org/



Post più popolari

Elenco blog AMICI