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martedì 5 luglio 2016

I PILASTRI DELL'ISLAM

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Per i musulmani i 5 pilastri sono degli obblighi fondamentali che il fedele è tenuto a rispettare. Essi sono la testimonianza della fede, la preghiera, fare zakat (l'elemosina), digiunare nel mese di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nel corso della vita.

Per il Corano "non esiste divinità al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta". La testimonianza della fede viene chiamata Shahada ed è una formula che il musulmano pronuncia giornalmente.

Secondo il Corano, il Libro Sacro dell'Islam, "Non esiste divinità all'infuori di Dio (Allah), e Maometto è il Suo profeta". Questa dichiarazione di fede viene detta ayyab, una semplice formula che il musulmano pronuncia giornalmente. Intrinseca in questa azione è l'accettazione del Profeta Maometto: "Maometto non è padre di nessuno dei vostri uomini, egli è l'Inviato di Allah e il sigillo dei profeti. Allah ha piena conoscenza di tutte le cose". (Corano 33:40)

La preghiera va recitata cinque volte al giorno: all'alba, a mezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto e di notte. Ogni preghiera dura pochi minuti ed è un collegamento diretto tra il fedele e Dio. Per gli uomini è obbligatorio riunirsi in una moschea per pregare (chi è malato può restare a casa), ma per le donne no.

Per gli uomini è obbligatorio riunirsi in una moschea per pregare (chi è malato può restare a casa anche se il profeta Maometto, in caso di malattia, andava lo stesso alla moschea), ma per le donne no. Al venerdì, giorno festivo per i musulmani, la preghiera congregazionale (jumua) si tiene a mezzogiorno, ed è ritenuta obbligatoria per gli uomini e facoltativa per le donne. Un musulmano può pregare praticamente ovunque, anche sul lavoro o a scuola. È raccomandato però che si metta una stuoia pulita a terra dove pregare e di rivolgersi in direzione (qibla) della Mecca durante la preghiera.

Prima di fare la preghiera bisogna essere in stato di purità, o wudu. Wudu è il nome del rito dell'"abluzione minore", una pulizia rituale con acqua pura o, in caso d'impossibilità, sostituibile col tayammum (sfregarsi con terra pulita invece di acqua), in cui le parti lavate comprendono: le mani, la bocca, il naso, il volto, le braccia, la testa, le orecchie e i piedi fino alle caviglie.

Se il lavaggio viene eseguito con acqua, il musulmano è considerato in stato di ahara (purità rituale), il che significa che si è ripulito dai peccati per il periodo che intercorre tra due preghiere. In altre parole, a meno che il musulmano non faccia qualcosa per rimuovere questa pulizia, non ci sarà bisogno di altri lavaggi prima della preghiera successiva. Quando invece viene fatto il tayammum e cioè viene usata la sabbia, la pulizia è temporanea e solo per quella preghiera, indipendentemente dal fatto che venga o meno commesso un atto impuro. Perciò, prima di eseguire un'altra preghiera, si dovrà procedere al lavaggio rituale del wudu.

Tradizionalmente la salat deve essere recitata in arabo (anche se la persona non lo parla né lo comprende, dato che comunque le preghiere vanno recitate a memoria): l'arabo è una lingua sacra ed è la lingua nella quale è stato rivelato il Sacro Corano. La salat comprende la testimonianza di fede in Dio (Allah) e nella missione profetica (shahada) di Maometto, che implica una richiesta di perdono e invoca la benedizione celeste. Si recitano la prima sura (al-Fatia) e una o più parti del Corano (imparate a memoria). L'intera sessione include varie posizioni (raka): in piedi, inchinati, inginocchiati e prostrati.

Un altro dei pilastri fondamentali è il credo che tutte le cose appartengono a Dio. Le ricchezze quindi sarebbero soltanto in custodia agli esseri umani. Il termine 'zakat' significa sia purificazione che crescita. Fare zakat vuol dire quindi "dare una percentuale di alcune proprietà ai bisognosi. La zakat viene calcolata individualmente e implica il pagamento annuale del 2,5% del capitale in eccesso a quello che serve per far fronte ai bisogni primari. Una persona può anche donare una cifra maggiore come carità volontaria, nella speranza di una ricompensa divina.

Nel mese del Ramadan non si può bere, mangiare, fumare e avere rapporti sessuali durante tutto il giorno, fino al calare del sole. Sono esclusi i malati e le donne durante il loro ciclo mestruale, che dovranno recuperare i giorni saltati il prima possibile.



Durante il mese lunare di Ramadan i musulmani trascorrono più tempo in preghiera o ascoltando ogni giorno una parte del Corano letto da lettori specializzati in moschea o in luoghi allestiti allo scopo. Il Sawm mira a disciplinarsi, rafforzando le virtù della pazienza (sabr) e dell'autocontrollo, e del fare anche capire e provare su di sé le difficoltà che provano coloro che a volte non hanno di che mangiare. Questi atti vengono fatti sempre dedicando l'aspetto penitenziale del tutto a Dio.

Infine c'è il pellegrinaggio a La Mecca (Hajj), il luogo sacro dei musulmani, che va effettuato almeno una volta nell'arco della vita per tutti quelli che siano in grado di affrontarlo, sia economicamente che fisicamente. Un pellegrinaggio "minore" e assolutamente facoltativo è la visita della Mecca nei mesi diversi da quello del pellegrinaggio "maggiore" canonico. Del pari non obbligatoria è la ziyara, la visita alla Moschea del Profeta a Medina.

Il pellegrino indossa una tenuta distintiva composta da due pezze di stoffa non cucite per lo più di colore bianco che non mostrino differenze di classe sociale e di cultura, perché tutti sono uguali davanti a Dio. L'esecuzione del Hajj coinvolge una serie di rituali, compresa la circumambulazione antioraria del più importante santuario islamico, la Kaba, una costruzione cubica coperta da un drappo nero (kiswa) che è situata al centro di una grande spianata sacra (matàf). Dopo aver percorso 7 volte a passo affrettato (ma non di corsa) il tragitto fra Safa e Marwà, un altro momento essenziale è costituito dalla sosta (wuquf) nella pianura di Arafa, qualche Km. a sud della Mecca, dal sacrificio di animali e dalla tonsura dei capelli che esaurisce l'intera cerimonia.

Sia pur assai meno che nei secoli scorsi, il Hajj costituisce ancora oggi una prova ardua e potenzialmente rischiosa e non sono infatti mancati negli ultimi anni gravi incidenti che hanno provocato un gran numero di morti fra i pellegrini. Comunque, con l'avvento dei moderni mezzi di trasporto e un'adeguata infrastruttura, l'Arabia Saudita ha mostrato di essere in grado di accogliere milioni di visitatori all'anno (2 milioni per il solo hajj). Un pellegrinaggio "minore" e assolutamente facoltativo è la visita della Mecca nei mesi diversi da quello del pellegrinaggio "maggiore" canonico. Del pari non obbligatoria è la ziyara, la visita alla Moschea del Profeta a Medina.

L'origine dei cinque pilastri è da attribuirsi al cosiddetto Hadith di Gabriele attribuito al terzo califfo Umar ibn al-Khaab .


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martedì 3 maggio 2016

LE DONNE DEL'ISIS




Gli yazidi sono una popolazione di lingua curda che abita principalmente nel nord dell’Iraq. La loro caratteristica principale è la religione che praticano lo yazidismo, un misto di quasi tutte le religioni sviluppate in Medio Oriente: l’islam, il cristianesimo, l’ebraismo e lo zoroastrismo.
Gli attacchi contro gli yazidi iniziarono nell’estate del 2014 attorno al monte Sinjar, nel nord-ovest dell’Iraq, due mesi dopo la conquista della città irachena di Mosul. All’inizio sembrava che l’azione militare dello Stato Islamico fosse un’altra battaglia con l’obiettivo di conquistare nuovi territori. Ben presto si capì però che si trattava di una cosa diversa e iniziò lo stupro sistematico delle donne yazide. Il 3 agosto del 2014 lo Stato Islamico annunciò di avere ripristinato l’istituzione della schiavitù sessuale, che tra le altre cose prevede dei contratti di vendita autenticati dai tribunali islamici istituiti dall’ISIS. Si trattava di un processo preparato meticolosamente nei mesi precedenti, come si scoprì in seguito. Nell’ottobre del 2014 su Dabiq, il magazine online dell’ISIS in inglese, uscì un articolo che spiegava nei dettagli la “teologia dello stupro”. Prima dell’attacco al monte Sinjar l’ISIS aveva chiesto ai suoi studenti della sharìa di fare delle ricerche sugli yazidi e si spiegava chiaramente che per gli yazidi non c’era alcuna possibilità di salvarsi pagando una tassa, cosa che invece è permessa agli ebrei e ai cristiani. L’ISIS aveva anche cominciato a citare versi specifici del Corano per giustificare il traffico degli esseri umani (tra gli studiosi di teologia islamica c’è un ampio dibattito su questo punto). Nei mesi successivi l’ISIS continuò a giustificare la schiavitù sessuale tramite un’interpretazione particolare dell’Islam.
Più di recente il “dipartimento della ricerca e della fatwa” dell’ISIS ha diffuso un manuale di 34 pagine sulle regole di “gestione” delle schiave. Nel manuale si legge per esempio che non si possono avere rapporti sessuali con la propria schiava prima che lei abbia il primo ciclo mestruale, in modo da verificare che non sia incinta (non è possibile invece avere rapporti quando la donna è incinta). In generale non ci sono molti limiti a ciò che è permesso fare alle schiave: si possono anche stuprare le bambine, per esempio. Allo stesso tempo le schiave del Califfato islamico possono essere liberate dai loro proprietari tramite un “Certificato di emancipazione”.

I sopravvissuti degli attacchi dell’ISIS hanno raccontato cosa fanno i miliziani dopo avere conquistato una città yazida. Per prima cosa dividono le donne dagli uomini. Ai ragazzi adolescenti è chiesto di alzare la maglietta: se hanno peli sul petto finiscono nel gruppo degli uomini, se non li hanno in quello delle donne.
Gli uomini, costretti a sdraiarsi con la faccia a terra, vengono uccisi. Le donne vengono invece caricate su dei furgoni e portate via in una città vicina. Qui le ragazze più giovani e non sposate vengono fatte salire su degli autobus bianchi con la scritta “Haji”, il termine che indica il pellegrinaggio a La Mecca: sui finestrini degli autobus sono bloccate delle tendine, un accorgimento che sembra essere preso per evitare che da fuori si vedano delle donne non coperte con il burqa o con il velo in testa. Le donne vengono poi riunite anche a migliaia in grossi edifici di una città irachena e poi ritrasferite in altre città dell’Iraq e della Siria per essere vendute.
L’ISIS si riferisce alle donne messe in schiavitù con il termine “Sabaya” seguito dal loro nome. Le donne e le ragazze più belle e giovani vengono in genere comprate entro poche settimane dopo essere state rapite. Altre, le donne più anziane o già sposate, vengono trasferite più volte da un posto all’altro in attesa di essere vendute. Alcuni degli edifici in cui vengono tenute le donne rapite hanno anche una stanza usata dagli uomini per scegliere la donna da comprare.

Nel Califfato Islamico lo stupro viene oggi interpretato dai combattenti dell’ISIS come un diritto riconosciuto dall’Islam: non solo un diritto, ma anche un dovere.
L’istituzionalizzazione dello stupro viene usata oggi anche come strumento di reclutamento per nuovi potenziali miliziani, soprattutto per gli uomini che provengono da società musulmane molto conservatrici dove il sesso viene considerato un tabù e frequentare una donna fuori dal matrimonio è proibito dalla legge.

Lo schiavismo sessuale ripristinato dall’ISIS sembra riguardare solo le donne della minoranza yazida, mentre non c’è traccia di un fenomeno così esteso per altre minoranze religiose attaccate negli ultimi mesi dallo Stato Islamico. Il manuale del Dipartimento della ricerca e della fatwa dell’ISIS, comunque, permette lo stupro anche di donne cristiane ed ebree quando si trovano su territori conquistati.

"Conquisteremo Roma, faremo a pezzi le vostre croci, ridurremo in schiavitù le vostre donne": la minaccia del portavoce dell'Isis Abu Muhammed al Adnani risuona ancora forte nelle coscienze, turpe nel dimostrare la sua ferocia attraverso la scelta di bersagli che sono simboli, più che obiettivi militari qualunque, emblemi sacrosanti di una cultura che supera i confini nazionali e si fa valore universalmente riconosciuto.

Un grido impietoso questo, relegato nella paura di un'intimidazione per il mondo occidentale, ma squallida realtà per una parte di donne, migliaia delle quali sono violentate, rapite e sfruttate dallo Stato Islamico che si fa garante, come rivelato anche da diversi ex appartenenti alle milizie dell’Isis, di rapporti sessuali non consenzienti con le prigioniere, rapite con lo scopo di ridurle merce, 'schiave del sesso' senza identità nè importanza alcuna.

E se ci sono musulmane che volontariamente si offrono ai jihadisti per 'alleviare le loro sofferenze' e supportare la causa dello Stato Islamico, tante sono coloro che si ribellano, che urlano il dolore e la fatica di tollerare ancora l'intollerabile.

Storie vere, storie di ordinaria follia che non solo fanno sì che i jihadisti diventino destinatari di vergini in paradiso, ma che in più, per motivarli alla guerra, li incoraggiano ad ogni tipo di pulsione sessuale, perché, nel caso dell’Isis e contrariamente ad altri gruppi estremisti islamici, il sesso ha un ruolo centrale ed è, di fatto, una delle armi del gruppo estremista.

Ma allo stesso tempo, di fronte alle donne soldato curde – le cosiddette 'guerriere peshmerga' –, gli uomini dello Stato Islamico si fermano e fanno marcia indietro, perché convinti che venire uccisi da una donna farebbe perdere il diritto al paradiso, al loro, personalissimo 'paradiso': la peggiore delle umiliazioni per questi uomini che, alla fine, di 'umano' non hanno davvero nulla.

Sebbene poco se ne parli, è un mercato enorme quello messo in piedi dal califfato di Abu Bakr al-Baghdadi che rimpolpa, e non poco, le voci «note» di bilancio. Già, perché sedicente che sia, il Daesh ci tiene, e tanto, ad apparire come uno Stato a tutti gli effetti. Non è un caso che sia stato pubblicato un vero e proprio bilancio, con tanto di entrate – tra petrolio e confische dei beni di rivali e prigionieri – e uscite, quasi totalmente assorbite dalle spese militari. Accanto alle voci pubbliche, però, ci sono altre entrate su cui l’Isis può contare. Entrate che si tengono nascoste. Come appunto il mercato di donne e bambine. Un mercato enorme: secondo un rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) parlano di oltre 25 mila donne e bambini rapiti, stuprati e poi venduti come schiavi. Con un vero e proprio prezzario.

A raccontarlo per la prima volta è stata Zainab Hawa Bangura, rappresentante Onu per le violenze sessuali nei conflitti. Solitamente i jihadisti dividono donne e ragazze in tre categorie. La prima è quella delle donne sposate con bambini e delle anziane; la seconda sono le donne e le ragazze sposate senza figli; la terza è quella delle ragazze più giovani. Tutte «vengono spogliate, pulite e fatte sfilare come se fossero bestiame», racconta il rappresentante Onu. Ma ecco che arriva il momento della compravendita. Con un vero e proprio listino prezzi: i bambini (femmine e maschi, dai nove anni in giù) valgono 200 mila dinari, l’equivalente di circa 150 dollari. Le bambine e le ragazze dai 10 ai 20 anni vengono vendute per 150 mila dinari (circa 120 dollari), mentre le donne tra i 20 e i 30 anni costano sui 100 mila dinari (80 dollari). E se qualcuno dovesse ribellarsi? Il racconto è agghiacciante: «Mi hanno raccontato di ragazze “ripulite” con un getto di petrolio, a cui veniva appiccato il fuoco se si rifiutavano di fare ciò che ordinavano i loro cosiddetti padroni».

Da Mosul a Fallujah, insomma, il mercato dell’orrore è piuttosto florido, con un’organizzazione tutt’altro che improvvisata. Secondo quanto riferito dall’Unami (United Nations Iraq) l’Isis avrebbe aperto un ufficio a Mosul, un vero e proprio mercato centrale dove «le donne e le ragazze vengono esposte con cartellini dei prezzi, in modo che gli acquirenti possano scegliere e negoziare la vendita». Altre situazioni simili sono state segnalate a Ramadi e a Fallujah, ma anche nelle città siriane di Raqqa e al-Hasakhan. «Nel nome della jihad del sesso, le donne sono state messe in vendita a prezzi che oscillano tra 500 e 2.000 dollari». Non solo. Perché, spesso, le donne vengono anche regalate dopo alcune competizioni organizzate ad hoc, come fossero premi: «I criminali dell'Isis – si leggeva ancora nel comunicato del ministero iracheno - hanno inventato anche un concorso per la lettura del Corano. Ai primi tre classificati, in premio una donna».

Nemmeno il suicidio è concesso alle ragazze schiave: «Ci hanno detto che se ci fossimo tolte la vita, avrebbero ucciso i nostri parenti»

In questo modo, con torture e sevizie ammantate di follia pseudo-religiosa, lo Stato Islamico è diventato «il principale attore nella gestione della tratta di esseri umani nella regione», come denunciato da Terre des Hommes. Questo perché l’Isis «ha introdotto e legittimato la pratica della schiavitù sessuale a un livello senza precedenti». Solo nel corso del 2014, d’altronde, i guerriglieri avrebbero rapito circa 3 mila donne e ragazze, in larga parte appartenenti a minoranze etniche e religiose (yazidi, turkmeni e cristiani). Le giovani vittime che sono riuscite a fuggire dai miliziani raccontano storie drammatiche e tra loro molto simili.

Come se non bastasse, Boko Haram utilizza sempre più spesso donne e bambini come kamikaze per portare a termine attentati suicidi in luoghi affollati come i mercati o nei pressi delle stazioni di polizia.

Ma l’Isis, come si sa, si estende anche in Libia. E anche qui il trattamento riservato a donne e bambine è lo stesso. Nella città di Derna - una delle roccaforti del Califfato - secondo quanto riferito da attivisti locali il numero dei matrimoni di ragazze minorenni avrebbe avuto un brusco aumento, «con ragazze di appena 12 anni costrette dalle famiglie a sposare gli jihadisti stranieri». Un fenomeno nuovo per la Libia dove, fino al 2012, solo il 2% delle donne tra i 20 e i 24 anni si era sposata prima dei 18 anni. Il motivo? Come riferito dalle associazioni umanitarie, in Libia molte famiglie acconsentono al matrimonio delle figlie ancora bambine con i miliziani dell’Is nella convinzione di proteggerle e assicurare loro una buona qualità di vita. Vana illusione, ovviamente. «Solo nelle cliniche che possiamo monitorare, vediamo dalle quattro alle cinque spose bambine a settimana - spiega un’attivista di Terre des Hommes - I medici si trovano spesso a dover curare bambine troppo giovani per avere rapporti sessuali e che arrivano in clinica sanguinanti per lacerazioni o aborti spontanei, quasi senza rendersene conto, ma con danni irreparabili al loro fisico e alla loro psiche».

Situazioni tragicamente analoghe anche in Nigeria, dove troviamo Boko Haram, con cui l’Isis ha creato una sorta di asse del terrore. Sebbene sia molto difficile avere dati esatti, Amnesty International ipotizza che siano più di 2 mila le donne e le ragazze rapite dai terroristi nigeriani. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne non sposate e adolescenti che vengono costrette a sposare i miliziani dell’organizzazione terroristica oppure ad imbracciare le armi.


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lunedì 16 novembre 2015

PERCHE' L'ISIS ATTACCA LA FRANCIA?

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L'Isis ha ufficialmente rivendicato gli attentati di venerdì 13 novembre a Parigi con un comunicato pubblicato su Telegram e diffuso anche da SITE.

L'Isis nella rivendicazione dice esplicitamente che la Francia è stata attaccata perché è uno dei paesi che conduce gli attacchi aerei contro le forze del Califfato in Siria e Iraq.

Il comunicato comincia con la sura Al-Hasr, che richiama la sorpresa.

La sorpresa dei miscredenti usciti dalla loro dimora perché pensavano di essere protetti dalla loro fortezza, che li avrebbe difesi contro Allah. "Ma Allah li raggiunse da dove non se lo aspettavano e gettò il terrore nei loro cuori."

La sorpresa, ovvero l'attacco a luoghi non "sensibili" e quindi non protetti. Luoghi che sono anche luoghi di svago, dove si esprime e diventa manifesta la cultura libera e "empia" degli "idolatri", che devono essere puniti.

Evidente in questo quadro il ruolo particolare del Bataclan, luogo dove si celebra la musica rock, lo stile di vita occidentale, dove era in corso, al momento dell'attacco, "una festa della perversione".

Nel comunicato una parte importante è l'esaltazione degli assassini di Parigi, i martiri, gli shahid.

"Otto fratelli", avvolti nelle cinture esplosive e armati di fucili automatici, che hanno puntato su bersagli "accuratamente scelti" nel cuore della capitale francese, fra i quali lo stadio dove era in corso la partita fra "i crociati tedeschi e francesi", dove era presente lo "stupido di Francia, Francois Hollande".

Parigi è stata "scossa sotto i piedi" degli otto fratelli, e "il risultato degli attacchi è stata la morte di non meno di 100 crociati", poi hanno "fatto esplodere le loro cinture nei luoghi di raduno dei miscredenti, dopo aver terminato le munizioni".

Infine c'è la parte più minacciosa del comunicato dell'Isis: gli attacchi che verranno condotti nel futuro, in Francia e negli altri paesi che si oppongono al Califfato: "È il primo attacco della tempesta e un avvertimento a coloro che vogliono imparare".

Nelle parole di chi ha redatto il comunicato dell'Isis, vanno sottolineati i riferimenti alla Francia che guida il carro della campagna dei crociati e che ha "osato insultare il Profeta": indicazione quest'ultima che lega direttamente questa strage a quella a Charlie Hebdo.

La Francia viene anche accusata di "combattere l'Islam in Francia", passaggio che, come sottolinea Renzo Guolo su Repubblica, mescola insieme l'ostilità alla laicità della Repubblica, ma anche le azioni del governo di Parigi di puntare sull'associazionismo musulmano fedele al paese, da contrapporre alla organizzazioni radicali nate in terra di Francia e duramente represse.

Da non trascurare, poi, nel comunicato, la sprezzante considerazione per i musulmani "ipocriti" che non combattono per il Califfato.




La Francia è in prima linea negli affari del Medio Oriente. E’ in prima linea quasi da sola nel Mali, dove combatte gli estremisti islamici. Ed è almeno in seconda linea nella guerra a bassa intensità contro l’Isis, colpendo con i suoi aerei in Iraq e Siria. Piccolo dettaglio, sul suo territorio c’è la più grande comunità islamica d’Europa». Jean Guisnel, esperto di questioni militari e servizi segreti, professore alla Scuola speciale militare di Saint Cyr, autore di una dozzina di libri sul tema, è una delle persone più adatte per tentare di rispondere alla domanda più elementare e al tempo stesso più difficile.

«Sul piano formale è stato fatto tutto quel che andava fatto. Dopo Charlie Hebdo i servizi segreti e gli apparati di sicurezza sono stati rinforzati con uomini, denaro, maggiore libertà di indagine, leggi molto più permissive e votate da tutti sulle intercettazioni telefoniche ed elettroniche».
Allora che cosa è mancato?
«Il metodo. Quel che i servizi segreti non utilizzano a dovere è il modo, il contesto. Hanno tutti i mezzi per proteggere il Paese da una minaccia esterna. Ma qui non parliamo di stranieri, parliamo di persone che vivono in Francia, che lavorano accanto a noi, che fanno parte di una comunità di 6 milioni di persone. Ed è subito apparso chiaro che la ricchezza di mezzi nulla poteva contro la ricerca di un ago nel pagliaio».
Ancora con la teoria del lupo solitario?
«No, anche questo diaframma purtroppo è caduto. Non sappiamo ancora bene cosa è successo, ma appare chiaro che si tratta di attacchi coordinati e diversificati al tempo stesso. L’assalto a bar e ristoranti, i kamikaze allo Stade de France, la presa d’ostaggi in una sala da concerto. Una operazione ben preparata e coordinata, eccome».
Erano mesi che a Parigi si parlava della possibilità di nuovi attacchi... «Certo. Ma con il fatalismo che si riserva appunto all’ineluttabilità del lupo solitario. Bisogna essere pronti, si diceva, sappiamo che può succedere ancora. Tutto veniva messo in relazione all’organizzazione di attentati da parte di singole individualità. Era un modo per prepararsi al peggio. Prevenire, prevenire davvero, è un’altra cosa».
Ma il controspionaggio a cose serve?
«A infiltrare un ambiente del quale si possiedono le coordinate minime. Ma è di tutta evidenza che 6 milioni di persone sono l’equivalente di una intera nazione. La retorica del lupo solitario, alla quale sono stati ridotti i fratelli Kouachi e Ahmedi Koulibaly, serve ad esorcizzare la paura dell’inelluttabile».
Anche a creare un alibi?
«Sì, in un certo senso è così. A preparare la gente e soprattutto a trovare delle giustificazioni a qualcosa che si sa che prima o poi accadrà nuovamente, dato il contesto politico e soprattutto sociale della Francia».
Resta l’ennesima catastrofe dei servizi di sicurezza francesi?
«Abbiamo detto delle possibili giustificazioni, adesso bisognerebbe parlare di defaillances che ogni volta appaiono differenti. E imperdonabili. Come anche le operazioni propaganda».
A cosa si riferisce?
«Per tragica ironia, pochi giorni fa è stato annunciato con grande spreco di fanfare l’arresto di un presunto aspirante attentatore che voleva colpire i cantieri navali di Tolone. Un anno di indagini per arrivare a quello che era stato descritto come l’ennesimo lupo solitario, per rassicurare, per far vedere che nessuno stava con le mani in mano».

Non era un successo?
«Macchè. Pura propaganda, che oggi appare persino imbarazzante, davanti all’enormità dei fatti di Parigi, davanti a una operazione quasi militare che ha preso di mira tutta la città. La plastica dimostrazione del fatto che nessuno sapeva dove guardare davvero. O peggio, chi ci dovrebbe proteggere lo sapeva, come lo sappiamo tutti. Ma non aveva idea di come fare per impedire che il nostro Paese fosse nuovamente colpito».
I sei milioni di musulmani in Francia non sono una possibile giustificazione?
«Parliamoci chiaro: il fatto che in Francia ci siano altri sessanta milioni di abitanti non impedisce alla Polizia di arrestare i rapinatori, i ladri, i truffatori, di sgominare le organizzazioni criminali. La verità è che non siamo assolutamente preparati a questa minaccia, a questo scontro durissimo e irregolare».

Da quando è nato, l'Isis ha dimostrato, come evidente dai video delle decapitazioni in cui i prigionieri vestono con la tuta arancione di Guantanamo, di saper usare i mezzi di comunicazione di massa, grazie anche alle competenze fornite dagli jihadisti cresciuti in Occidente. Quale miglior occasione del clip in cui tra i boia appaiono due giovani francesi di fede musulmana per rimarcare il messaggio?

Lo stesso invito rivolto ai musulmani di Francia di "unirsi alla lotta dei fratelli in Siria e in Iraq" e, se non possibile, "di avvelenare l'acqua o investire i passanti" ha una sua grammatica. Investire con l'auto i passanti è diventato, di recente, il modo più semplice (e imprevedibile) scelto dai militanti palestinesi per rilanciare l'Intifada.

Il messaggio è subliminale ma tocca al cuore tutti i musulmani: per rilanciare la lotta palestinese occorre attaccare la Francia. A sua volta progettare di avvelenare l'acqua è il modo più semplice per diffondere il terrore tra la popolazione. Il modo più efficace, come l'avvelenamento dei pozzi in epoca romana, per far vivere nel terrore il tuo nemico.







domenica 18 ottobre 2015

I VELI ISLAMICI



La concezione di una donna sottomessa, costretta a coprirsi interamente o imprigionata in un harem nel medio oriente non esiste. Questo pregiudizio del tutto occidentale nasce, molto probabilmente, da una serie di fraintendimenti e discordanze, originati dalla differenza tra quello che è realmente scritto nel Corano, l'interpretazione e strumentalizzazione politica dei diversi stati islamici e la visione della donna islamica nell’immaginario occidentale.

La realtà' dei diversi paesi arabi, e di conseguenza la realtà femminile, non può e non deve essere confusa con la realtà islamica. È ormai risaputo che in molti di questi paesi c'è grande disparità tra la condizione maschile e quella femminile, ma si tratta di paesi in cui e' da sempre in atto una battaglia contro l'occidentalizzazione della cultura (e il nemico americano). Dove, appunto, si e' radicata l'idea che maggiore liberta' significa maggiore occidentalizzazione. E di cio' ne fanno le spese proprio le donne, che finiscono per essere strumentalizzate perdendo parte dei loro diritti ,per altro bene esplicitati nello stesso Libro a cui queste teocrazie fanno riferimento.

Il pregiudizio più grande che la nostra cultura ha verso la cultura islamica è quello del velo che riteniamo il simbolo, chiaro ed evidente, della sottomissione della donna all'uomo e della sua mancanza di diritti. È quasi inconcepibile, per noi, che questa donna possa avere libertà di scelta o che, in caso l'avesse, possa scegliere di sua spontanea volontà di indossare un indumento tanto “alienante” come l'hijab, se non a causa esclusiva del forte condizionamento sociale dovuto alla sua ignoranza. Ovviamente, e purtroppo, tutto questo è una realtà innegabile in molti Paesi arabi, ma non è l'unica realtà. Questo pregiudizio di fondo impedisce la vera conoscenza di questo fenomeno che si presenta molto più vasto ed eterogeneo di quel che noi crediamo e di ciò che questo “simbolo” realmente significhi per molte donne arabe.

Esistono diversi tipi di velo usati dalle donne islamiche, ognuno dei quali è legato ad una determinata regione e in quanto tale ne riflette la cultura e la tradizione al di là della religione.
L’Hijab, il classico foulard che copre i capelli e il collo, è anche il più antico di tutti; la sua origine risale gia al XII sec a.c. Quando era in uso nella Mesopotamia assira. Lascia scoperto il viso e prevede che, oltre a coprirsi il capo la donna indossi un vestito lungo e largo che nasconde le forme del corpo, anche se solo le più osservanti tra chi sceglie questo tipo di copertura usano il vestito completo ed è il tipo di velo più diffuso tra le donne mussulmane in occidente e nei paesi islamici più liberali.

Il Niqab, è un tipo di velo, che copre interamente il volto della donna. È sovente confuso con il Burqa, l’abito islamico di colore azzurro, tipico dell’ Afghanistan, che avvolge integralmente il corpo e il viso, compresi gli occhi, coperti da una fitta griglia. Al contrario di quest’ultimo il niqab lascia, nella maggior parte dei casi, scoperti gli occhi. È molto diffuso in Arabia Saudita e Yemen anche se la foggia cambia leggermente tra i due stati. Il niqab yemenita è in fatti realizzato da un fazzoletto triangolare che copre la fronte e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento, mentre quello saudita è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca.

Nelle zone del Golfo persico è molto diffuso l’ Abaya, un velo leggero, ma coprente, lungo dalla testa ai piedi e che lascia completamente scoperto il volto. Mentre in Iran troviamo il famoso Chador che può essere sia un semplice fazzoletto sulla testa che un mantello che copre tutto il corpo, generalmente di colore nero.

Il velo tradizionale dei paesi del Nord Africa, quali la Tunisia e l’Algeria, è l’Haik, un ampio velo di cotone bianco, nero o anche colorato. Questo tipo di velo copre dalla testa ai piedi e spesso le donne, soprattutto le più anziane, lo usano per coprirsi il volto, tenendo uniti i due lembi con i denti.

Per molte donne rivolgere pubblicamente la parola ad un uomo senza indossare il velo,anche nei paesi dove questo non è d'obbligo, è motivo di imbarazzo. Grazie all'hijab si sentono libere di stringere rapporti di amicizia con uomini senza avere il timore di essere fraintese o di perdere la loro reputazione.



Secondo la sociologa egiziana Laila Ahmed, in questo contesto il velo non è ineluttabilmente un simbolo di segregazione, ma permette alle donne di presentarsi nella sfera pubblica senza costituire una minaccia né una trasgressione dell’etica socio-culturale islamica. Grazie al velo la donna islamica ha la possibilità di crearsi uno spazio pubblico legittimo. Non è uno strumento per relegare la donna in casa, quindi, ma al contrario per legittimarne la presenza al di fuori di essa.

Continua, poi, sostenendo che per quanto l'uso del velo possa apparire conservatore,il numero sempre maggiore di donne che grazie ad esso accedono alle università, alle professioni e allo spazio pubblico,non può essere considerato un fenomeno regressivo. E, mentre una coscienza femminista è più specifica delle classi medie urbane, sostiene la sociologa, il linguaggio del velo rivela la ricerca di una identità culturale anche da parte delle donne appartenenti ad ambienti rurali. Dunque “non cristallizza chi lo indossa nel mondo della tradizione, ma connota la volontà di approdare alla modernità”.

È quasi assurdo pensare che per compiere l’emancipazione sia sufficiente abbandonare i costumi di una determinata cultura, anche quando cosi androcentrica, in favore di quelli appartenenti ad una cultura differente . La dottoressa Ahmed afferma inoltre: ”Neppure la più ardente femminista del secolo scorso ha mai sostenuto che le donne europee potessero liberarsi dall’oppressione della moda vittoriana (concepita per costringere la figura femminile a conformarsi a un ideale di fragilità per mezzo di corpetti soffocanti che spezzavano le costole) adottando semplicemente l’abbigliamento di un altro tipo di cultura. Né si è mai sostenuto che l’unica possibilità per le donne occidentali fosse quella di abbandonare la loro cultura per trovarsene un’altra, dal momento che il predominio maschile e l’ingiustizia verso le donne sono sempre esistiti all’interno di essa” .

Per le stesse femministe arabe che combattono ogni giorno per l’ emancipazione della donna, il velo non è uno strumento culturale, politico o ideologico, che rappresenta la sottomissione agli uomini,ma una convinzione personale,legata alla fede. E in quanto tale, ogni donna libera e mussulmana ha il pieno diritto di scegliere se indossarlo o meno.

Il divieto del velo va contro il diritto della donna sul suo corpo esattamente quanto l'obbligo di indossarlo. Sembra quindi che questo indumento che fa tanto discutere sia in realtà un problema tutto occidentale.

L'abbigliamento delle donne musulmane è stato spesso oggetto di accesi dibattiti in Occidente dove è stato preso come simbolo dell'oppressione femminile di cui si accusa la religione di Maometto. La copertura totale del volto con il velo scandalizza alcuni paesi cattolici eppure secondo un recente sondaggio sono pochissimi i paesi islamici dove il burqa è ritenuto il tipo di abbigliamento più appropriato per le donne. La maggior parte degli intervistati preferisce il velo che copre solamente i capelli (hijab) ed alcuni non ritengono che sia necessaria alcuna copertura.

L'Institute for Social Research della University of Michigan ha posto la questione a sette paesi a maggioranza musulmana: Turchia, Egitto, Tunisia, Libano, Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq. Le sei varianti fra cui scegliere passano dal burqa, il velo integrale dove la parte all'altezza degli occhi è traforata al niqab, una variante del burqa con una fessura per lasciar scoperti gli occhi, il chador, un velo nero che copre il capo e la fronte, l'al Amira, un velo bianco intorno al volto, l'hijab, un foulard avvolto come un velo ed infine il capo interamente scoperto.

Dai più 'laici' come la Turchia ed il Libano ai più conservatori Arabia Saudita e Pakistan in media i paesi musulmani optano in maggiornaza (44%) per l'al Amira, si può dire il "più comodo" fra i veri e propri veli. Al secondo posto il favorito è l'hijab, variante ancora più blanda della copertura (12%) mentre l'8% preferisce il niqab o il chador.

Fanno eccezione l'Arabia Saudita dove la stragrande maggioranza (63%) sceglie il niqab ed, al contrario, il Libano dove quasi la metà ritiene che lasciare il volto scoperto sia l'acconciatura più appropriata (risultato probabilmente influenzato dal 27% di cristiani intervistati), opinione condivisa dal 32% dei turchi ed il 15% dei tunisini. Diversa la situazione in Pakistan dove a pari merito vincono le due forme più conservatrici, il niqab ed il chador, indicato come seconda scelta anche dall'Iraq e l'Egitto. Peccato solo che gli intervistati non siano divisi per sesso così da conoscere eventuali differenze fra le preferenze degli uomini e di chi deve effettivamente indossare il velo.

In ogni caso, se il burqa, il niqab ed il chador sono effettivamente indumenti destinati a standardizzare l'aspetto femminile, tutt'altra storia è l'hijab. Come dimostrato dai numerosi blog di moda sull'hijab, questo tipo di velo è considerato da molte giovani donne musulmane un dettaglio da scegliere con cura e da impreziosire con spille, forme, tessuti e pieghe diverse.



Ciò che in Occidente viene chiamato "velo" ed erroneamente si pensa sia stato introdotto dall'Islam esiste in realtà ben prima di esso. Una legge del XII secolo a.C. nella Mesopotamia assira sotto il regno del sovrano Tiglatpileser I (1114 a.C. — 1076 a.C.) rendeva di già obbligatorio portare il velo all'esterno a ogni donna sposata. Esso appariva anche nel mondo greco, tant'è vero che, nell'Iliade, si dice che Elena, moglie di Menelao, si velava per uscire.

Questa situazione si riscontrava in tutto il Mediterraneo, tanto che ancora nel Medioevo si hanno notizie di tre donne (Accursia, Bettisia Gozzadini e Novella d'Andrea) che nel XIII e XIV secolo ebbero la possibilità di tenere delle lezioni di Diritto all'Università di Bologna, ma soltanto a condizione che tenessero il corpo e il volto completamente velati per non distrarre gli studenti.

Nella Penisola araba preislamica la situazione delle donne era notevolmente contraddittoria: non pare vi fossero norme istituzionalizzate, in forza delle quali esse potessero reclamare precisi diritti. Da un canto, le bambine potevano occasionalmente essere sotterrate vive per motivi che ci sono rimasti oscuri ma che sembrano coinvolgere la sfera religiosa, d'altro canto le donne godevano nondimeno di vasti privilegi in campo coniugale: poliandria mirante alla procreazione di fanciulli sani in caso di impotenza del primo marito, possibilità di ripudio del marito e matrimoni a tempo predeterminato (mut'a), per il quale era assolutamente prescritto il libero consenso della donna e in base al quale l'eventuale figlio della coppia rimaneva al padre, che se ne assumeva ogni onere economico. Troviamo donne imprenditrici e notevolmente attive in campo politico (in passato si parlava non episodicamente di "regine degli Arabi").

A ridosso della nascita dell'Islam, alcuni di questi istituti giuridici non risultano essere stati più validi: segno probabile di una rivalsa virile a discapito del ruolo muliebre: è probabile che l'uso del velo, in questo periodo, fosse comunque abbastanza diffuso, sia pur non generalizzato come in seguito con l'affermarsi dell'Islam.

Secondo alcuni sociologi, con l'avvento dell'Islam il velo diviene il simbolo di una ritrovata dignità femminile, dal momento che la donna diventa soggetto di alcuni precisi diritti (al mahr, ad esempio, una quota di beni o denaro obbligatoriamente versata dall'uomo a tutela dell'eventuale vedovanza o di un ripudio subito, senza dimenticare il diritto all'eredità, per quanto normalmente determinata nella metà della quota-parte riservata al maschio avente pari titolo giuridico); secondo altri, l'obbligo del velo manifesta invece la subordinazione della donna rispetto all'uomo, vista come una sua proprietà e quindi costretta a nascondere il proprio capo a tutti gli altri uomini, se non a quelli della propria famiglia. La religione islamica chiede inoltre alle donne che si convertono di velarsi per essere distinte dalle schiave non musulmane.

Rimane un dato storico incontrovertibile che l'uso del velo non sia una pratica esclusivamente e specificamente musulmana, ma semmai araba e anteriore all'Islam, diffusa anche in varie altre culture e religioni, tra le quali il Cristianesimo orientale e in generale il mondo bizantino. Il suo scopo principale era quello di segnalare le differenze sociali, indicare le donne che dovevano essere oggetto di un particolare rispetto, e spesso marcare la differenza tra sacro e profano.

I passaggi del Corano che normalmente vengono citati a proposito del precetto di indossare il velo sono, in particolare, l'aya 31 della sura XXIV (al-Nur, "La luce")

« E di' alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle ad altri che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne, e non battano assieme i piedi sì da mostrare le loro bellezze nascoste; volgetevi tutti a Dio, o credenti, che possiate prosperare! »
e l'aya 59 della sura XXXIII (al-Azab, "Le fazioni alleate")

« O Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre, e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente e clemente! »




Il nome utilizzato per indicare il velo nella sura al-Nur è khumur (plurale di khimar), la cui radice  significa "velare, celare, occultare qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Renato Traini, pubblicato dall'Istituto per l'Oriente (Roma 1966–1973), alla voce "khimar" si legge: «Velo che copre il capo e la faccia della donna» e nell'Arabic-English Lexicon di E. Lane: «A woman’s muffler, or veil, with which she covers her head and the lower part of her face, leaving exposed only the eyes» ("uno scialle o velo, con cui la donna si copre il capo e la parte inferiore del viso, lasciando scoperti solo gli occhi").
Nella surat il termine è jalabib (plurale di jilbab), la cui radice quadrilittera significa "indossare, essere rivestito di qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Traini, alla voce "jilbab" si legge semplicemente: «Indumento femminile», e in quello di E. Lane leggiamo: «A shirt  that envelopes the whole body» ("Una camicia che ricopre l'intero corpo"). Secondo i commentari del Corano (tafasir), il jilbab ricopre anche il capo, e per molti dotti anche il viso.
La parola hijab, invece, la più usata oggigiorno in riferimento al velo islamico, appare in sette versetti del Corano, ma in modo meno specifico, dato che si riferisce sempre - salvo un caso - ad una cortina, una tenda, dietro alla quale può avvenire la rivelazione del Corano stesso. In particolare:

« A nessun uomo Dio può parlare altro che per rivelazione, o dietro un velame, o invia un messaggero il quale riveli a lui col suo permesso quel che egli vuole »
(XLII,51)
« E quando tu reciti il Corano, noi poniamo tra te e coloro che rinnegano la vita futura un velo disteso »
(XVII,45)
« O voi che credete! Non entrate negli appartamenti del Profeta senza permesso, per pranzare con lui, senza attendere il momento opportuno! ... E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori. E non vi è lecito offendere il Messaggero di Dio, né di sposare le sue mogli mai, dopo di lui. Questo sarebbe, presso Dio, cosa enorme »
(XXXIII,53)
Questa separazione, inizialmente riservata alle mogli del profeta Maometto, in seguito sarebbe stata estesa alle donne musulmane libere. L'imposizione di rivolgersi alle mogli del Profeta da dietro un hijab aveva quasi certamente in origine motivazioni di protocollo, e solo più tardi venne preso a pretesto per giustificare forme generalizzate di segregazione sessuale, del tutto sconosciute all'Islam dell'epoca di Maometto.

In un solo caso nel Corano hijab indica un velo inteso come capo di abbigliamento.

« Nel Libro ricorda Maria, quando si appartò dalla sua gente lungi in un luogo d'oriente ed essa prese, a proteggersi da loro, un velo. E noi le inviammo il nostro Spirito che apparve a lei sotto forma di uomo perfetto »
(XIX,16-17)
In sintesi, dunque, i giuristi musulmani designarono ben presto con il termine generico hijab tutto ciò che dissimula o copre il corpo delle donne al fine di preservarne il pudore. Hijab è il termine comunemente più utilizzato per designare il "velo" della donna musulmana, anche se nel Corano altri due termini (khimar e jilbab) lo definiscono in modo più preciso, specificando come esso dovrebbe coprire il capo della credente e a parere di molti anche il volto.

Secondo molti musulmani praticanti, per quanto riguarda l'abbigliamento femminile le principali fonti del diritto islamico, cioè il Corano e la Sunna, prescriverebbero senza alcun dubbio l'obbligo di indossare il velo. Anche tra gli assertori della obbligatorietà del velo, tuttavia, esistono due differenti linee di interpretazione dei testi: una ritiene che la donna possa mostrare il proprio viso (anche se si giudica più meritevole celarlo davanti agli estranei), l'altra afferma che sia comunque tenuta a coprirlo. Evidentemente, le donne musulmane che seguono quest'ultima interpretazione non la ritengono una tradizione culturale locale o invalsa solo col tempo e a motivo di presunti influssi di altre tradizioni sulla civiltà musulmana, bensì di un insegnamento appartenente in pieno all'Islam.

In Egitto, si considera che la prima contestazione riguardante l'asserita obbligatorietà d'indossare un velo abbia avuto luogo verso la fine del XIX secolo: Qasim Amin, che apparteneva allora alla corrente di pensiero "modernista", che cercava d'interpretare l'Islam per renderlo compatibile con i processi di modernizzazione della società egiziana in particolare, si espresse a favore dell'evoluzione dello status della donna nella sua opera  (La liberazione della donna, pubblicata nel 1899). Si dichiarò in particolare a favore dell'istruzione femminile, della riforma della procedura di divorzio e della fine dell'uso del velo e della segregazione muliebre. A quei tempi Qasim Amin si riferiva al velo facciale (burqu: velo di mussolina bianca che ricopre il naso e la bocca) che portano le donne di classe agiate urbane, fossero esse cristiane o musulmane. Il hijab d'allora era effettivamente legato all'isolamento delle donne. Si considera generalmente che fu da quel momento che il hijab cessò dall'essere il simbolo d'uno status sociale e di ricchezza per divenire simbolo di arretratezza e di posta in gioco sociale, politica e religiosa.



Nel 1923, Hoda Sharawi, considerata come una delle prime femministe, ripudia il suo velo facciale tornando da un incontro femminista svoltosi a Roma, lanciando in tal modo, insieme a molte altre donne, un movimento di "svelamento" che sarà chiamato in arabo al-sufur.

In Turchia e in Iran, l'abolizione del velo fu imposta all'inizio del XX secolo da Mustafa Kemal Atatürk e dallo Shah d'Iran, che videro l'adozione dell'abbigliamento occidentale come un segno di modernizzazione. In Tunisia, Habib Bourghiba vietò il velo nell'amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico.

In Marocco, all'avvento dell'indipendenza, il re Mohammed V, padre di Hassan II e nonno dell'attuale sovrano Mohammed VI, chiese a sua figlia di togliersi il velo in pubblico, come simbolo della liberazione della donna. Tuttavia in presenza del re, i deputati donne si videro obbligati a coprire i loro capelli in segno di rispetto per la tradizione.

Nel corso degli ultimi anni della guerra d'Algeria, i francesi organizzarono cerimonie di "svelamento" collettivo, miranti a dimostrare l'opera civilizzatrice della Francia in Algeria, a favore dell'emancipazione delle donne algerine.

Negli anni Sessanta, portare il velo divenne un fenomeno estremamente minoritario nella maggior parte dei paesi arabi (con l'eccezione dei paesi che si rifacevano al pensiero del wahhabismo).

Attualmente la maggior parte degli autori è concorde nell'includere il tema del hijab nell'ambito dello zay al-shari, il "vestito secondo la shari'a". Esso indica, in prima battuta, l'abbigliamento femminile che gli integralisti musulmani hanno preso ad adottare a partire dagli anni Settanta e che consiste in una tenuta lunga e ampia, il (jilbab), di colore sobrio e d'un velo, khimar, del pari di colore sobrio, che ricopre interamente i capelli delle donne, il loro collo, le spalle e il petto, in modo tale che - conformemente alla pretesa legge islamica - non appaiano altro che le mani e il viso.

L'obbligo di velarsi è oggi controverso, ma generalmente dedotto da un insieme di versetti già esposti del Corano e di Jadith del profeta Muammad. Non si trova traccia d'una tale controversia nei testi degli Julama e degli esegeti ( mufassirun ) antichi. Il soggetto del loro disaccordo era piuttosto quello di appurare se il velo fosse obbligatorio per coprire o meno il volto delle donne. L'obbligo di nascondere le altre parti del corpo (escluso il viso, le mani e i piedi per alcuni) è del pari riportato nei libri consacrati al tema del consenso.

A parte qualche sporadica ed isolata ordinanza municipale che ne dispone la proibizione punibile con sanzioni amministrative, indossare un velo integrale in Italia non è reato.

Coloro che si oppongono alla libera circolazione di donne con il viso velato si appellano al vigente Codice penale e alla Legge 152/1975 (e successiva Legge 155/2005) relativa alle norme di Pubblica Sicurezza, il cui art. 5 recita: "È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino."

Sulla interpretazione della clausola "senza giustificato motivo" si è già espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto la matrice religiosa e/o culturale un giustificato motivo per poter circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra il viso.

La ratio legis di questa norma, diretta alla tutela dell'ordine pubblico, è infatti quella di evitare che l'utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene "senza giustificato motivo". Con riferimento al “velo che copre il volto”, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. In questa sede al giudice non spetta dare giudizi di merito sull’utilizzo del velo, né verificare se si tratti di un simbolo culturale, religioso, o di altra natura, né compete estendere la verifica alla spontaneità, o meno, di tale utilizzo. Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.

Il citato articolo 5 della legge 152/1975 consente nel nostro ordinamento che una donna indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni, e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.

Va precisato, però, che in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato ha solo funzione di tutela nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione. In particolare il Consiglio di Stato è il Giudice di secondo grado della giustizia amministrativa, ovvero il Giudice d'appello avverso le decisioni dei TAR, e nella sentenza richiamata si annullò un ricorso avverso decisione del TAR sostanzialmente per motivi di merito procedurale e gerarchico.

Rimane stabilito peraltro (Sentenza TAR Friuli Venezia Giulia n° 645 – 16.10.06) "che a prescindere dai singoli casi concreti in cui ogni agente di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi (allo stato attuale non esistente), il che è tra l'altro in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione.".


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