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giovedì 23 luglio 2015

VISITANDO ZOGNO



Zogno è posto a 16 chilometri da Bergamo sulla sponda destra del fiume Brembo. Raggruppa intorno alla chiesa e allinea lungo i bordi della strada provinciale i nuclei principali delle sue abitazioni. Il resto è disseminato qua e là sui fianchi dei monti che lo cingono, come un arco di cerchio che comincia ai Ponti di Sedrina e va fin oltre la località di Ambria.

Il Museo di S. Lorenzo viene fondato nel 1985 da Mons. Giulio Gabanelli e da un gruppo di cultori di storia locale. Disposto su tre piani in un edificio di proprietà della Parrocchia, raccoglie materiale relativo alle varie fasi della religiosità popolare zognese nel corso dei secoli. Si tratta di affreschi, quadri, sculture, crocefissi, calici, pissidi, ostensori, candelabri, baldacchini, para¬menti, indumenti sacri, pizzi e ricami, mobili, libretti di preghiere, immaginette e tanti altri oggetti devozionali di grande valore artistico e storico. Nel cortiletto esterno sono esposte sculture e manufatti in pietra.

Nell’anno 2002 il gruppo Alpini di Zogno guidato dal capogruppo Luigi Garofano, tramite una convenzione con l’Amministrazione Comunale, ristrutturava lo stabile e lasciava la vecchia sede in affitto per una più spaziosa e moderna.
Avendo in magazzino del materiale militare molto importante si decideva di esporlo in una apposita sala, chiamandola “Museo dell’Alpino” (Anche se all’inizio poteva sembrare una definizione esagerata).
Col passare del tempo, grazie al lavoro di tante persone, del consiglio direttivo e del segretario Renato Gherardi, con varie ricerche il museo si ampliava con nuovo materiale, non solo alpino ma di tutti i corpi militari.
Nel giro di pochi mesi venne ribattezzato “Museo del Soldato”.
Il materiale è vario, dalle armi alle divise, dai cappelli ai distintivi, alle fotografie e lettere dal fronte. Il fiore all’occhiello –precisa Garofano- sono gli attestati con Croce di guerra dei nostri reduci di tutte le guerre.

Il museo della Valle è un museo etnografico e archeologico fondato nel 1979 dal Comm. Vittorio Polli in collaborazione con un gruppo di amici protagonisti della cultura vallare bergamasca. La sede è la Casa del Cardinal Furietti, disposta su due piani in via Mazzini, e la raccolta è costituita da un lato da reperti archeologici di notevole importanza, preziose testimonianze della vita nella nostra Valle in tempi remotissimi, e dall'altro da oggetti di epoche più recenti. Il ritrovamento di tale materiale risale al 1975, quando Onorato Pesenti scopre nella Buca di S. Andrea, nei pressi delle Grotte delle Meraviglie, numerosi resti di sepolture collettive (veri e propri ossari, corredi funerari, oggetti d'ornamento, ecc.) relativi ad un arco di tempo che partiva dalla metà del III millennio fino al XIX secolo a.C.. Per quanto riguarda i tempi a noi più vicini, invece, il museo raccoglie attrezzi degli antichi mestieri (fabbro, maniscalco, arrotino, tessitrice, fabbricante di zoccoli e di chiodi, contadino ecc....), oggetti d'uso domestico, arredi, indumenti e pizzi, antichi divertimenti (roulette paesana e baracca dei burattini) che permettono al visitatore di ricostruire le immagini di vita dei propri antenati.

Esplorate per la prima volta nel 1932 dal Gruppo di speleologi guidato da Ermenegildo Zanchi, furono in breve tempo fra le prime grotte turistiche d'Italia (1939). Il complesso delle Grotte delle Meraviglie, pur nella sua modesta estensione, presenta spunti di notevole interesse sia per la comprensione delle vicende geologiche legate alla formazione della cavità, sia per i fenomeni carsici che vi sono riccamente rappresentati. Un complesso di gallerie di antica formazione, irregolarmente circolari che confluiscono in stupende grotte. Fra queste, la zona più spettacolare è quella del "Labirinto" (Büs de la Marta), che si sviluppa prevalentemente in una sala di ampie dimensioni e dalla volta altissima arricchita dalle più svariate decorazioni calcaree. Stalagmiti di varie forme e dimensioni vanno ad incontrare le stalattiti, costruendo una serie interessante di colonne. Il contesto ricco di fascino e debitamente illuminato, rende la visita stimolante e piacevole. Da alcuni anni la gestione è affidata al gruppo speleologico "Grotte delle Meraviglie" che, oltre ad un continuo studio dell'interno, ne segue anche il comportamento e ne gestisce le visite.

La villa zognese, che dal 1985 ospita la Biblioteca Comunale "B. Belotti", venne realizzata nel 1906 per il notaio Ulisse Cacciamali dall'architetto bergamasco Giovanni Barboglio, autore a Zogno anche di edifici pubblici e della vecchia scalinata alla parrocchiale, ma più famoso in Lombardia per la costruzione o il restauro di chiese. Nel 1913 la acquistò Bortolo Belotti, che era interessato ad avere un punto d'appoggio per affrontare l'impegnativa campagna elettorale per il seggio parlamentare, che lo vedeva contrapposto al deputato uscente Egildo Carugati, appoggiato dai liberali di Giolitti e dai cattolici. Su richiesta del Belotti, il Barboglio trasfomò l'abitazione da civile in signorile, con il recupero del seminterrato e la costruzione di uno studio esterno e di un portichetto. Contemporaneamente, l'ampio prato a sud dell'abitazione veniva trasformato in giardino con alberi pregiati, vialetti e gradinate. La cura della villa e del giardino accompagnò il successo politico di Bortolo Belotti che, da giovanissimo deputato, divenne sottosegretario, ministro e leader della destra liberale. L'opposizione al fascismo ne determinò l'allontanamento dalla politica attiva e, quasi come compensazione, Belotti iniziò ad intervenire sul giardino e ad arricchirlo di opere d'arte particolarmente significative. Gli interventi si susseguirono in tre fasi principali: 1928 - 29,1931 - 33 e 1937 - 40. Particolarmente ricca è la prima fase con l'ideazione del Convito dei Grandi Brembani, undici busti di uomini di grande fama di famiglia originaria della Val Brembana, eseguiti dallo scultore bergamasco Nino Galizzi. Di questi nove sono raccolti a semicerchio nella parte pianeggiante del parco: sono i grandi vissuti tra il 1500 e il 1700, tra i quali campeggia il busto di Jacopo Palma il Vecchio, che probabilmente è l'autoritratto dello scultore; altri tre (Calvi, Cattaneo e Ruggeri), sono collocati a monte di questi e appaiono rivolti verso di loro. L'insieme è completato dalla stele del Saluto all'ospite, opera sempre del Galizzi e con testo del Belotti. Con questa operazione, il giardino diviene luogo di rifugio adatto all’otium umanistico e specchio di un animo profondamente turbato dalle sorti della nazione. Dello stesso periodo sono il gioco delle bocce (con la caccia, una delle passioni del Belotti) con la famosa sestina S'ha da Tegn ol balì, basata su un'efficace relazione tra sport e vita e che appare anche come un esame di coscienza. Il secondo periodo segue immediatamente la breve ma triste esperienza del confino a Cava dei Tirreni ed è contrassegnato dall'edificazione dell'edicola della Madonna, dalle statue dei leoni e del busto del Gioppino. L'edicola, probabilmente un ex voto, segno della profonda fede del Belotti, racchiude un quadretto in marmo della Natività, interessante opera del giovane scultore cremonese Dante Ruffini; completano la cappellina due terzine tratte dalla Divina Commedia di Dante Alighieri che richiamano la necessità di una fede assoluta nel disegno provvidenziale di un Dio misericordioso. I leoni, opera dell'artista veronese Bragantin, rappresentano gli stemmi di Venezia e di Bortolo Belotti: particolarmente significativo è quello posto accanto alla stele del Saluto dell'ospite con l'emblema della quercia sradicata o il motto Non col vento, così spiegati da un amico: "la bufera non potè schiantare rami né strappare fronde, ma l'albero intero fu divelto dalla furia della tempesta e nel saldo terreno apparvero le forti radici spez-zate come membra ferite e lacerate", in cui la bufera è la violenza del regime fascista e le forti radici nel saldo terreno sono la tempra e la fedeltà di Belotti nei confronti della civiltà millenaria italiana e del popolo brembano. Il Gioppino, infine, opera dell'artista Alfredo Faino e dono degli amici del Ducato di Piazza Pontida, dovrebbe rappresentare il carattere dell'uomo bergamasco, a cui Belotti e i suoi amici aderivano, cioè "un onest'uomo, bonario, leale, pacifico", contrapposto all'ideale di uomo fascista, vendicatore, violento, prevaricatore e ambizioso. Poche, ma sempre interessanti, sono le realizzazioni dell'ultimo periodo: la statua della Fede, l'epigrafe Hyeme et aestate e la lapide tassesca. La prima, che conserva nel basamento una pergamena, è copia tratta da una statua della cattedrale francese di Reims e rappresenta la fede religiosa e la fedeltà alle scelte politiche e di vita, in quanto "simbolo di un ideale che non tramonti e che illumini ogni giorno della tua vita". La parola incisa sul basamento, "Sempre", esprime un concetto, l'assoluta coerenza di vita, che viene ribadito anche in una piccola stele con l'epigrafe Hyeme et aestate. Infine, la lapide tassesca con l'iscrizione "hinc discessit nobilissima tassorum gens…", presentata dal Belotti stesso come lapide settecentesca ritrovata nella sua casa natale zognese (abitata nel Seicento da Maffeo Tasso) e poi collocata nel giardino della villa. Probabilmente, però, si tratta di un'epigrafe dettata dallo stesso Belotti: l'operazione è di difficile interpretazione, forse richiama il senso della stele del Saluto dell’ospite e può essere intesa come sintesi delle realizzazioni artistiche del giardino, con riferimento alla civiltà brembana, bergamasca e italiana nel momento in cui veniva messa in crisi dallo scoppio devastante della Seconda Guerra Mondiale. E' quindi, forse un ultimo messaggio ai posteri di Bortolo Belotti, che nello stesso periodo si accingeva a completare la Storia di Bergamo e la Storia di Zogno e che sarebbe morto poco dopo in esilio, nel 1944, senza vedere la resurrezione della Patria.

La Chiesa di San Lorenzo Martire, costruita sui ruderi dell'antico castello nel 1431, prendeva il posto della vecchia chiesa dell'Annunciazione di S. Maria. Nel 1458 l'edificio è già murato, sebbene non del tutto completato. I decori interni, infatti, oltre al campanile, al cimitero e allo scalone, furono realizzati in un secondo tempo. Il 10 agosto 1472 si procedette all’inaugurazione. Ulteriori trasformazioni e restauri operati nel corso dei secoli la porteranno poi ad assumere l'aspetto attuale. Sul campanile si trova la statua di S. Lorenzo, opera dello scultore Francesco Albera di Milano che eseguì anche le statue dei dodici apostoli poste all'interno. Oltre alle decorazioni neoclassiche, l’interno racchiude numerosi dipinti e opere di nomi famosi, tra cui si ricordano Vincenzo Angelo Orelli, Palma il Vecchio, Enrico Albricci, Cavagna e Rillosi. Di particolare valore anche i quindici Misteri del S. Rosario ritenuti sino ad ora di Francesco Zucco. Una moderna vasca battesimale in bronzo, il leggio del presbiterio e l'altare comunitario sono opere dello scultore con-temporaneo Alberto Meli. Il coro è dell'abilissimo artista zognese Giuseppe Lazzaroni.

Le vicende architettoniche del Palazzo Rimani devono essere ancora chiarite nelle sue principali trasformazioni mentre, al punto attuale della ricerca, si dovrà ampliare la sua denominazione da Palazzo Rimani  a  Palazzo Zambelli Rimani.
Il rilevamento catastale, rappresentato in una mappa del 1812, ci descrive una casa di abitazione con corte intestata a Bernardo Zambelli.
L'edificio, già completato nelle sue parti architettoniche e decorative, prospettava sul tracciato della "via Priula" ed era presumibilmente racchiuso da un muro di cinta che lo delimitava dai campi retrostanti coltivati ad aratorio e a prato con moroni. Di pertinenza al Palazzo, ed accostati da un viale che conduceva alla via allora detta "strada delle   muracche", si estendevano un piccolo orto e il brolo. Il diverso contesto urbano illustrato dalla mappa era costituito, nel sito attualmente occupato dalla piazza, da campi arati e orti e, in prossimità ad essa, da alcune case periferiche al nucleo storico e disposte lungo la Priula. La posizione e il disegno architettonico del palazzo conferivano così importanza e prestigio sia al manufatto che al proprietario.
Fino ad ora non è possibile datare l'edificio anche se si potrebbe supporre la costruzione, o un suo adattamento, nell’ultimo quarto del XVIII  secolo. Alcuni particolari sono riscontrabili con quelli della chiesa parrocchiale, trasformata tra il 1770 ed il 1789 da Giuseppe Damiani. Neanche sulla famiglia promotrice vi sono precise certezze. Il   ritrovamento di un atto di vendita datato 27 Luglio 1800 tra Francesco Maffei (figlio di Carlo) e Bernardino Zambelli di un "corpo di case consistenti in sette fondi terranei in parte cilterati e superiori ... con una pezza di terra broliva cinta di muro attaccata alla suddetta  casa posta in principio della contrada di Foppa e confinante a nord con la Priula, a est con lo Zimbelli, a sud con la strada delle muracche”, suggerisce forse l’esistenza di una certa attività nella stessa proprietà della quale però non vi sono notizie.
In seguito la proprietà venne ereditata da Barnaba Vincenzo, sindaco di Zogno nel 1828 professore all'università di Padova tra gli anni quaranta e cinquanta, e primo deputato del distretto al Parlamento Italiano negli anni 1860 e 1861.

Il paese di Zogno, centro principale della valle inferiore, attivo nell'industria tessile, era già noto nel '600 per la lavorazione della carta da stracci. Alla sinistra della statale, ancora oggi si notano lungo il fiume, oltre a tessiture del primo '900, alcuni edifici a loggiato usati un tempo per asciugare la carta.

Fanno corona al capoluogo, nel verde delle sue alture, numerose frazioni come Poscante, luogo d'origine del bandito Paci' Paciana, Endenna, Stabello, dove nacque il poeta dialettale Pietro Ruggeri, Grumello de' Zanchi, patria degli omonimi pittori, Miragolo e Spino al Brembo.

Molte di queste contrade furono comuni autonomi fino all'inizio di questo secolo e conservano tuttora testimonianze artistiche e architettoniche di notevole importanza. Di rilievo il convento di Romacolo (XV secolo) che mantiene evidenti, nel chiostro e nel campanile a cuspide conica le linee originarie. Da vedere anche la chiesa dell'Assunta a Grumello de' Zanchi, con tele di Antonio Zanchi e un polittico di Francesco Rizzo da Santa Croce.

Rinomato a Zogno e' anche l'aspetto culinario con ristoranti e trattorie che servono piatti locali della tradizione bergamasca.
La sagra del paese di Zogno si svolge ad Agosto (San Lorenzo).

Uno degli elementi più belli e caratteristici del paesaggio in Valle Brembana è quello costituito dai roccoli.

Nati in epoca medievale come fonte integrativa di sostentamento della magra economia rurale, essi rappresentano un importante capitolo dell'architettura spontanea e della cultura rurale della Valle Brembana.
Utilizzati per la cattura degli uccelli, sono il risultato della sinergia tra una secolare passione venatoria, assai diffusa nei nostri paesi, la grande conoscenza dell'avifauna e una raffinata tecnica silvicolturale, proprie delle popolazioni di montagna. Malgrado molti siano andati perduti per abbandono, ve ne sono ancora decine che si stagliano con il loro profili sulle dorsali, sui poggi e sui crinali, lungo le linee migratorie dell'avifauna.
Tutti i roccoli sono infatti posti su punti dominanti, con ampio campo visivo, soprattutto verso est, per poter scorgere tempestivamente gli stormi in avvicinamento.
L'impianto fondamentale consiste in una costruzione realizzata in murature e legno (il casello), a forma di torretta e avvolta da specie rampicanti o da alberi addossati alla parete che mascherano la costruzione.
Sul casello, solitamente dotato di un piccolo ballatoio, si apposta l'uccellatore a sorvegliare l'arrivo dei migratori. Dal casello si sviluppa un doppio filare di alberi a semicerchio (il tondo o il cerchio) con la parte aperta in corrispondenza del casello.
Il tondo costituisce la parte fondamentale per la cattura degli uccelli: le cime degli alberi si fanno congiungere così da formare una galleria all'interno della quale è posta un'intelaiatura che regge delle reti.
La funzione del roccolo è quella appunto di attrarre gli stormi degli uccelli in volo e catturarli mediante le reti. Nel tondo vi sono degli uccelli (richiami) disposti in gabbie che con il loro canto richiamano l'attenzione dello stormo.
Quando lo stormo si posa, l'uccellatore dal casello lancia gli spauracchi, formati da rametti con penne di un rapace, che spingono gli uccelli a infilarsi nel tondo, rimanendo intrappolati nelle reti. Naturalmente oggi esiste una coscienza ecologica che ha portato già da anni al divieto di questa forma di caccia e i roccoli ancora funzionanti sono utilizzati per importanti studi sui flussi migratori dell'avifauna.
Di certo essi rimangono ancora oggi veri e propri monumenti architettonici, rappresentazione di una grande cultura naturalistica che ha permeato per secoli generazioni di montanari. Delle centinaia di roccoli esistenti un tempo sui passi e sulle creste della Valle Brembana, molti sono oggi andati perduti per abbandono e perché ricoperti e ormai nascosti dalla vegetazione. Ne rimangono tuttavia diverse decine che possiamo ancora oggi ammirare in tutta la loro bellezza.
Partendo dalla bassa valle troviamo sul Canto Alto, raggiungibili da Sorisole, Sedrina o Zogno, il Fontanù, o Fontanone, il Prat tònd e il Prati Parini.
Una magnifica zona di passaggio era Miragolo San Marco, sopra Zogno, che conta ancora diversi roccoli: il Colombèr, il Prato Rosso, il roccolo al colle e quello del Flin.



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ZOGNO



Zogno è un comune che si trova nella bassa Valle Brembana su un declivio tra il versante orientale del Monte Zucco (1232 m s.l.m.) e un'ansa del fiume Brembo.
Il capoluogo si estende lungo la strada di fondovalle, sulla sponda orografica destra del fiume Brembo, mentre gli altri centri abitati sono dislocati prevalentemente sulla sponda sinistra.

I reperti della "Bùsa de Andrea" (andros = uomo) sono le preziose testimonianze della vita a Zogno in tempi lontanissimi. Si tratta di resti di sepolture collettive (veri e propri ossari, corredi funebri, oggetti di ornamento) relativi ad un tempo che partiva dalla metà del III millennio fino al XIX secolo A.C.. Piuttosto oscura è invece l'origine etimologica del toponimo. Forse deriva da un aggettivo in "ogno" da "Zov" ("Giogo"), come a dire il paese del valico, oppure da un nome personale "Jovonius". Sopra Zogno è un villaggio detto Sum Zogno, cioè Sommo Zogno, e questo confermerebbe il riscontro che si ha nel cognome Sonzogni tanto ricorrente nel Comune.

Le prime notizie storiche relative a Zogno risalgono al 1102 per cui si può ipotizzare un nucleo abitato già in epoca longobarda.

In età comunale (iniziata nel bergamasco dopo il concilio di Milano del 1098), sebbene Zogno non fosse altro che un modestissimo comune rurale, organizzò comunque la sua vita politica e amministrativa secondo le nuove istituzioni. Non vi sono indicazioni di una cerchia di mura, ma vengono indicate tre porte della città: porta del Turchet, porta del Rissolo e porta della Foppa.

Più tardi nel 1304 verranno stabiliti i suoi confini. Nel 1144, in una bolla di Papa Lucio II, si fa menzione, per la prima volta , della chiesa di S. Lorenzo, attestandone la dipendenza ai canonici di S. Alessandro. Essa venne indicata quale chiesa parrocchiale fino al 1431, quando sui ruderi del castello si cominciò a costruire l'attuale struttura terminata nel 1452. Le lotte fra guelfi e ghibellini segnarono gli anni tra il 1340 e il 1420, rendendo ancora più difficile una vita fatta di privazioni. Un primo accenno di cambiamento vi fu solo a partire dal 1428, quando l'area bergamasca venne ammessa alla Repubblica di Venezia. Fu durante tale periodo che Zogno cominciò ad acquistare una tale importanza affermandosi gradualmente anche sugli altri comuni della valle, in concomitanza con Serina sede di vicariato. Le migrazioni verso territori più ricchi non contribuiva a migliorare lo stato di depressione economica dell'area. Nel 1592 Alvis Priuli progettava la Priula destinata a migliorare la comunicazione con la Valtellina e i Grigioni. La strada da un lato giovò ai collegamenti con Bergamo e dall'altro era spesso rovinata dalle piene del fiume.

Alla fine del Cinquecento Zogno aveva già un apparato amministrativo comunale e un consiglio di 17 persone che eleggeva un console. Le falde interne alle famiglie più nobili e la decadenza politica che caratterizzò il Seicento non impedirono che opere pubbliche di notevole importanza venissero portate a termine nella prima metà del secolo. Veniva costruito il ponte che univa Romacolo a Foppa (Chiamato ponte dei frati) distrutto successivamente con la piena del 1834, mentre nel 1627 fu la volta dello spostamento più a valle della roggia Traini, formata con acqua derivata dal Brembo fra Foppa e le Tre Fontane. Nel 1630 si diffondeva nuovamente la peste e nel 1646 un violentissimo diluvio indusse la popolazione a fare un voto promettendo di non frequentare più osterie, ne di giocare. Nel 1652 vengono soppressi da Papa Innocenzo X tutti quei conventi che, per lo scarso numero di religiosi, non riescono a gestire con decoro le loro chiese, tra questi il convento dell'ordine dei serviti di Santa Maria, i cui beni passano successivamente alle Vergini Francescane Terziarie di Romacolo (che ai tempi si occupavano dell'educazione e dell'istruzione dei giovani). La guerra di successione spagnola coinvolse anche il Comune di Zogno nei primi anni del XVIII secolo. La popolazione autorizzata ad armarsi, riuscì a scoraggiare più volte gli attacchi delle truppe tedesche potendo così godere di una relativa tranquillità. Nel frattempo l'attività economica, specializzatasi nell'industria della carta e nella produzione degli ami da pesca, non subiva cambiamenti di sorta, continuando secondo i ritmi dei secoli precedenti. La strada Priula aveva indubbiamente giovato a Zogno, poiché rappresentava da secoli maggiore movimento e nuove vie di comunicazione.

Altra data storica negli annali del paese è il 1759, anno di assunzione alla porpora di Giuseppe Alessandro  Furietti, nato a Bergamo ma di origini zognesi. Alla fine del secolo, si diffondevano le idee della Rivoluzione Francese e Zogno entrava nelle due repubbliche Cisalpine. Nel 1802 si costituiva la Repubblica Italiana e nel 1805 Napoleone era proclamato re. Intanto Zogno vedeva sempre più riconosciuta la sua importanza divenendo capoluogo della Valle Brembana. Tra il 1814 e il 1859 si instaurò il governo austriaco. E' di questi anni un'epidemia di colera che stroncò molte vite, inducendo tutti i padri di famiglia ad un pubblico e solenne voto per sè e i loro dipendenti, di celebrare in perpertuo, come giorni festivi di precetto, il 10 Agosto ( festa di S. Lorenzo) e il 16 dello stesso mese festa di S. Rocco. Scomparsa l'industria della lana e quella della seta, accanto alla permanente industria della carta, era sorta una notevole produzione del cemento con cave verso Sedrina ed Ambria.  Alla fine del secolo pertanto Zogno si arricchiva di nuove istituzioni civili e utili opere pubbliche. Da ricordare la strada che apriva il transito al collegamento dai ponti di Sedrina alla Valle Taleggio nel 1861, la costruzione dell'asilo infantile Cavagnis nel 1882 e la costruzione di una seconda centrale elettrica lungo il Brembo nel 1903 (la prima risale al 1901 presso Clanezzo).

Nel 1907 veniva fondata la manifattura di Valle Brembana e nel 1915 scoppiava la Prima Guerra Mondiale, nella quale l'Italia entrava a fianco di Francia e Inghilterra. Anche Zogno dava il suo contributo di valore e di vite umane. Cinquantotto giovani zognesi perivano durante la guerra e a loro memoria venne eretto il monumento dei caduti disegnato da Bortolo Belotti. Con l'avvento del fascismo vennero soppresse le elezioni amministrative, il consiglio comunale e i sindaci, sostituiti dal podestà di nomina governativa e con ampi poteri amministrativi. Nel 1929 gli antichi comuni di Poscante, Endenna, Stabello, Spino al Brembo e Grumello Dé Zanchi entravano a far parte del Comune di Zogno. In seguito a questo accorpamento la popolazione aumentava e nel 1931 risultava essere di 6811 abitanti. Era il Giugno 1940 e lo stato fascista dichiarava guerra a Francia e Inghilterra, alleandosi alla Germania. Scoppiava così la Seconda Guerra Mondiale, conclusasi cinque anni dopo e che costava a moltissimi uomini, molti caduti o dispersi in Russia. L'immediato dopoguerra vide un lento ma costante tentativo di rinascita, edilizia, artigianato e commercio intanto riprendevano quota con una crescita lenta ma progressiva. Molti capannoni e officine a conduzione familiare e artigianale nascevano e si sviluppavano negli anni ‘50 e ‘60, diventando anche delle efficienti e competitive fabbriche. Venivano completate alcune opere stradali, soprattutto verso Endenna, Ambria, Somendenna, e Grumello. Nel 1981 è stato costruito il viadotto di Sedrina.

Zogno dette alla luce anche personaggi di notevole spessore come il grande poeta dialettale Pietro Ruggeri da Stabello e l'onorevole Bortolo Belotti insigne storico, sua e' la monumentale Storia di Bergamo e dei Bergamaschi.


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SAN PELLEGRINO TERME



San Pellegrino Terme è un comune collocato al centro della Val Brembana e circondato dalle Prealpi Orobie, è una rinomata località climatica di cura e di soggiorno, conosciuta in tutto il mondo per via dell'omonima acqua minerale, la S. Pellegrino. Fa parte della Comunità Montana della Valle Brembana.

Considerata la capitale della Valle, conserva, all'interno dei propri confini, importanti testimonianze della Belle Époque in perfetto stile Liberty, quali il Grand Hotel, il Casinò Municipale e le Terme.

San Pellegrino Terme è adagiato lungo le rive del fiume Brembo, che divide in due il paese, ed è situato in una valle naturale, circondata da rilievi la cui vetta più alta è rappresentata dal monte Zucco che raggiunge i 1366 m s.l.m. (detto "Gioco" per distinguerlo dall'altro Zucco di 1232 metri).

San Pellegrino deve il suo nome al vescovo di Auxerre, Evangelizzatore della Francia, martirizzato sotto Diocleziano, diventato patrono della prima comunità cristiana il quale seppe unificare nella fede, prima che nei civili rapporti del libero Comune, sorto intorno al Mille, i diversi nuclei familiari preesistenti e storicamente documentati, che, ancora oggi, si contraddistinguono con i nomi dati dai loro abitatori.

È probabile invece che, nella nostra zona, ci sia stata una vita feudale e longobarda. Ne è la testimonianza il “Castello della Regina”, sopra Sussia, che può far pensare ad una tradizione risalente alla regina Teodolinda.

Alcuni vocaboli longobardi durano ancora oggi nella parlata locale: Corte, Brolo, Massaro, Salecc, per indicare certi fondi bassi presso il fiume e perciò adatti al salici (B.Belotti).

Sotto le dominazioni Longobarda e Franca si costituiscono le prime Comunità Cristiane; in questo periodo si assiste ad una fase di assestamento sociale favorita da una politica di esenzione dai tributi e di affrancamento applicata a quegli agglomerati che, situati in aree di confine, erano economicamente poveri, ma strategicamente importanti.

Verso l’anno Mille si possono considerare costituiti i centri più importanti della Valle Brembana; di ciò è testimonianza la sempre più frequente citazione dei loro nomi negli atti pubblici e privati degli anni successivi.

Gli agglomerati urbani nella zona di San Pellegrino più frequentemente citati sono Opelo, Plazzo, Antia e Piass; compaiono negli atti anche le denominazioni di villaggi minori quali Frasnit, Frasnadel, Apletto ed altri.

Nei tre secoli che seguono il Mille si formano nella Valle le “Parrocchie” che sostituiscono le antiche chiese battesimali plebane ,inadatte, ormai, a servire una popolazione sempre più numerosa.

Intorno al 1250 nasce la “Ecclesia Sancti Pellegrini”, in località Opelo, ancora dipendente dalla Pieve di Almeno San Salvatore dalla quale si affrancherà del tutto nel 1461.

Questa Parrocchia unisce sotto la propria giurisdizione le frazioni di fondovalle e della riva destra del Brembo e conferirà il proprio nome al comune che si sta formando.

Risale infatti al 1395 la definizione finale dei confini del nuovo Comune nato su sollecitazione della città di Bergamo intenta ad impedire il costituirsi di qualsiasi minaccia al suo potere nell’ambito del contado, favorendo la costituzione dei “Comuni” ed estendendone le proprie ordinanze e statuti.

Per secoli le risorse della Valle, a causa della prevalenza di terreno montano poco produttivo, rimangono limitate alla pastorizia, all’agricoltura di montagna, alla tessitura casalinga ed all’artigianato; queste attività economiche sono sempre integrate dall’emigrazione che rimane una delle principali fonti di reddito dai tempi più antichi fino all’inizio del Novecento.

Nel XIV secolo il territorio bergamasco è investito da numerose guerre tra fazioni avverse (guelfi e ghibellini) che portano alla dominazione dei Visconti. Sono costruiti in questo periodo casali fortificati, a Ruspino e alla Torre, e altre modeste fortezze di valico.

San Pellegrino si trovava allora al centro di Paesi guelfi per i quali parteggiava: località Pernazzaro-Pracastello sulla sponda di destra e, su quella di sinistra, il Comune di Piazzo, guelfo e ben difeso dal fiume. Da vigilare era il confine Ovest verso le Valli Brembilla e Taleggio. All’incontro di queste due Valli era stato eretto il Castello della Regina, centro delle grandi lotte locali.

Scontri sanguinosi percorreranno la zona impoverendola di uomini e di beni, lotte intestine che il Sommo Poeta ha così egregiamente deprecato nella Divina Commedia, orrori che continueranno fino al 1400, quando, con i trattati di Lodi e di Ferrara, essa entrerà a far parte della Serenissima.

L’assetto amministrativo dato da Venezia lascia notevoli libertà garantendo la conservazione degli statuti locali; nonostante il perdurare di guerre con il Ducato di Milano ed il frequente passaggio di truppe straniere, anche a San Pellegrino la restituita pacificazione interna favorisce una crescita economica e sociale. Lo sviluppo dell’artigianato, unito alla rudimentale industria tessile della lana, aprirà alla Valle nuove prospettive.

Sorgono nella contrada di Opelo la nuova Chiesa, a Piazzo Basso il convento di San Nicola e la successiva edificazione del nuovo ponte sul fiume Grembo che consentirà il collegamento con la sponda opposta. La contrada di Piazzo Basso è una delle più antiche e conservate nella sua struttura urbanistica: gli edifici formano una corte rettangolare addossata al fianco sud della chiesa di San Nicola. Il piccolo porticato e il ponte, risalenti al XV secolo, costituiscono le testimonianze più antiche.

Nel 1482 si costituisce pure la Parrocchia di Santa Croce, staccata da quella di San Pellegrino, la cui motivazione, come viene registrata negli atti, è dovuta alla distanza dalla Parrocchia di San Pellegrino ed all’impraticabilità della strada “multum ardua et discriminosa”. Essa verrà consacrata nel 1492 (come dal documento delle “Effemeridi” di Calvi).

È importante la segnalazione di questa terra perché testimonianza di nomi di famosi pittori quali: Francesco Rizzo, Francesco Simone, Vincenzo e Giovanni De Vegis De Galizzi, Girolamo da Santa Croce, la maggior parte dei quali dimorano e lavorano nelle botteghe venete e bergamasche (Tiziano e Moroni).

Sotto la Serenissima acquista impulso il commercio e l’artigianato e si ha una spinta alla risoluzione della viabilità attraverso l’apertura e l’ampliamento della Priula che verrà successivamente allargata sia sotto la dominazione francese che sotto quella austriaca.

Alvise Priuli (1592/93), con opere di allargamento e rettifica, con tagli nella viva roccia, apre una via adatta anche ai mezzi rotabili da Bergamo fino a Ca’ San Marco. Tale strada di collegamento viene ultimata nel 1598.

Nel corso del XVI secolo la vita della Comunità è segnata da frequenti carestie, da alluvioni e dalla terribile pestilenza del 1630 che, a San Pellegrino, miete circa i due terzi della popolazione.

Dopo il tramonto della Repubblica di Venezia, nel XVIII secolo, si succedono, nella Bergamasca, la Repubblica Cisalpina ed il dominio francese del Regno Italico di Napoleone.

Ma nemmeno l’Ottocento austriaco, unitario, muta sostanzialmente il quadro socio-economico di San Pellegrino, per quanto l’Austria cerchi di guadagnarsi il favore delle popolazioni del Lombardo Veneto mediante la realizzazione di opere pubbliche di generale interesse e l’ istituzione di scuole gratuite in tutti i comuni, sperando di tenere sopito quel sentimento di liberazione nazionale che Napoleone aveva alimentato negli italiani militanti nel suo esercito.

Il 1848 segna per San Pellegrino una tappa importante per il riacquistato interesse intorno alle sorgenti di acque minerali, interesse che si accentuerà sotto il dominio austriaco, segnando la premessa della fortuna futura del territorio.

L’Austria divide la provincia bergamasca in tre distretti: Almenno, Zogno e Piazza Brembana; San Pellegrino viene assegnato a Zogno. Sta di fatto che il quadro generale economico non cambia sostanzialmente; si modificano invece i flussi migratori che, dopo la metà del secolo, trovano nuovi sbocchi in Francia, in Svizzera e nelle Americhe.

Sempre 1848 San Pellegrino diventa rifugio di numerosi parenti di patrioti impegnati a guidare l’insurrezione di Bergamo che si accompagna e segue alle Cinque Giornate di Milano.

La persona più eminente di questo periodo è la consorte del patriota G.Battista Camozzi, Giovanna Giulini Della Porta in Camozzi, la quale trova rifugio insieme ad altre famiglie di Bergamo nell’ospitale stabilimento della signora Ester Palazzolo, mentre il marito e il cognato, legati a Mazzini e Garibaldi, sono impegnati nella lotta di insurrezione. Esiste un lungo carteggio tra la Contessa – che scrive proprio da San Pellegrino- e i sui cari in cui viene messo in luce il vivace patriottismo della stessa che condivide le sorti del marito e dei familiari.

Tra i fuggiaschi che da Bergamo si rifugiano in Valle Brembana nel 1848, all’indomani della disfatta di Novara, per il temuto ritorno dell’Austria, si trova pure il poeta Ruggeri da Stabello che, nei suoi testi “Poeti e Poemi del Brembo” rievocherà il percorso della sua fuga.

Dopo la terribile sconfitta e la perdita di ogni speranza con la capitolazione di Brescia, trovano ospitalità nell’ottimo salotto della signora Palazzolo, proprietaria dei bagni di San Pellegrino, patrioti, poeti e uomini di cultura.

I rapporti di amicizia dei fratelli Camozzi con i patrioti della Valle e di San Pellegrino, facilitano di molto la diffusione della propaganda e l’arruolamento dei volontari alle guerre di Indipendenza; fra questi si ricordano Orlandini G., Frassoni P., Zanchi P., Baroni B., Gandi D. e numerosi altri.

Nel 1860 con la proclamazione del Regno d’Italia e la divisione del territorio in province San Pellegrino ha il suo primo Sindaco nella persona del Rag. Carlo Della Chiesa che amministrerà il decennio 1861/1870.

La prima preoccupazione dell’Amministrazione comunale è quella di aprire una farmacia che verrà realizzata in San Pellegrino con decreto del Ministero dell’Interno il 21 luglio 1862. Il primo farmacista è il Dott. Mosè Torricella, illustre garibaldino, seguiranno altre personalità illustri tra cui il Dott. Augusto Bonapace, coadiuvato dal figlio Ermanno. L’Amministrazione Della Chiesa si adopera altresì ad ottenere la linea telegrafica San Pellegrino- Bergamo.

Nel 1871 Augusto Beaux apre il primo stabilimento filatoio, sotto la chiesa parrocchiale, utilizzando la larga disponibilità di rogge derivate dal Brembo come forza idraulica dei macchinari tessili, e la manodopera femminile già specializzata nella Valle ed in San Pellegrino, con l’assunzione anche di orfanelle come operaie con la sola retribuzione del vitto, del vestiario e dell’alloggio; quest’ultime cesseranno la loro attività nel 1904 con la chiusura dello stabilimento.

Succederanno al setificio di Augusto Beaux lo “Iutificio Bergamasco”, fino al 1913, e lo “Iutificio Nazionale” per le vaccherie che funzionerà fino al 1961.

Un progetto importante per l’utilizzo della sorgente del Boione, con interventi di canalizzazione, viene attuato grazie all’intervento di un commerciante di legnami dell’alta Valle, Andrea Ambrosioni, che trasferitosi con la sua attività in San Pellegrino, doterà il paese, nel 1898, di luce elettrica.

Nel 1908 si costituisce la società Colleoni – Ambrosioni a cui va il radicale rinnovamento del centro tra il Viale Papa Giovanni e il viale Della Vittoria con l’ampliamento dell’Hotel Excelsior e la costruzione nel 1930, lungo il viale alberato, in luogo delle baracche in legno, degli attuali portici.

Alla fine del XIX secolo, si assiste ad un effettivo cambiamento della struttura economico-sociale di San Pellegrino nonché del suo piano urbanistico.

L’apporto di capitali considerevoli dalla Società Anonima delle Terme, da società private (Pesenti, Licini, Palazzolo; società milanesi Mazzoni, Granelli) dà il via ad una serie di costruzioni legate al termalismo, alla qualità dell’acqua, di seguito riconosciuta in tutta Italia tale da fare diventare San Pellegrino la “Vichy d’Italia”. Nel 1901 si inaugura lo stabilimento dei Bagni e della Sala Bibite; dal 1902 al 1907 si assiste alla costruzione del Grand Hotel e del Casinò realizzati dall’architetto Squadrelli con la collaborazione, per il primo, dell’ingegner Mazzocchi.

La realizzazione della ferrovia che attraversa la Valle Brembana, terminata nel 1904, costituirà un’importante via di collegamento con la città di Bergamo.

Nel 1914 anche le scuole che già erano state aperte, con sede non definita, per l’insegnamento” dell’istruzione religiosa, del leggere, dello scrivere, dell’aritmetica, della calligrafia, della grammatica” (da Notizie Patrie), trovano la loro ubicazione nell’edificio attuale sito nel rione di Piazzo Basso, edificio che vedrà diversi ampliamenti e dove tuttora si trova.

Nel 1926 l’asilo infantile, come istituzione benefica, aperto nel 1891, viene eretto ad ente morale e vede la sua espansione ed ampliamento nel 1936, grazie all’opera del benefattore Ezio Granelli, il cui figlio, tragicamente scomparso, dà denominazione di “Giardino d’infanzia Bruno Granelli” alla rinnovata sede.

L’Amministrazione Comunale dà il via ad un programma di strutture urbanistiche che vedono uno sviluppo economico locale in ascesa determinato dall’esportazione dell’acqua minerale, dall’impresa elettro meccanica del gruppo Magrini e parallelamente alla trasformazione della cittadina grazie ad attività edilizie (dal Casinò, al Grand Hotel, dalla Funicolare alle Terme ,ecc) che esprimono il fervore e l’entusiasmo della Belle Epoque.

La presenza di personalità illustri, come viene riportata dal Giornale di San Pellegrino, dalla regina Margherita Di Savoia a Mascagni, Tittoni, Nigra, serve ad offrire non solo una cornice di richiamo e di prestigio, ma anche di importanza come luogo di cultura e di arte. Ma ciò che maggiormente concorse, insieme al complesso di opere e di personaggi autorevoli, a segnare l’ascesa trionfale di San Pellegrino fino a toccare floridezze mai viste come negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, fu l’esercizio quasi ininterrotto del gioco nel decennio 1907/1917.

Un cronista così scrive sul Giornale di San Pellegrino nel 1911: “…Nelle sale del grande Casinò, arredate con squisito buon gusto e scintillanti di luce, si legge, si suona, si danza, si conversa, si giuoca… ma per accedere alle sale da giuoco, è necessario essere iscritti alla Società del Casinò, previa regolare presentazione: a questa società appartengono gli elementi più cospicui della colonia: senatori, deputati, prefetti, ambasciatori, alti gradi dell’esercito.”

Nel 1917 l’onorevole Orlando decreta la chiusura delle case da gioco e il nostro Casinò, chiude i battenti il 28 luglio del 1917, concludendo il decennio della sua più florida attività.

San Pellegrino vive momenti difficili, come del resto tutta la realtà del Settentrione, a seguito degli avvenimenti bellici che, nel determinare dolori e morti, causano altresì un’irreparabile depressione delle facoltose correnti turistiche che alimentavano la stazione termale.

Nel periodo fascista si scioglie l’Amministrazione Comunale e si succedono Commissari e Podestà fino alla liberazione. Di questo periodo diverse sono le costruzioni: il Tempio dei Caduti, la facciata della Clinica Quarenghi (Arch. Cavallazzi) e i Portici Colleoni; ma è stato un modesto commissario prefettizio, Ernesto Cacciari, a disegnare l’assetto urbano dell’attuale cittadina, con una serie di opere (dal municipio, ai marciapiedi dei viali alberati, dalla copertura del canale alla costruzione della diga, dalla messa in posa di balaustre sulla sponda del Brembo con candelabri di ghisa alla costruzione di vialetti e di aiuole, ecc).

Il ventennio fascista, nella realtà di San Pellegrino, testimonia l’abilità dei dirigenti locali nel controllare con intelligenza e tolleranza tutte le forme estreme di convivenza e nel consentire la presenza di sfollati cittadini, soprattutto Ebrei milanesi, e di alcuni parlamentari aventiniani, tra i quali l’On. Bortolo Belotti di Zogno.

Dopo la guerra, la comparsa delle medicine che curano la gotta fa la fortuna delle farmacie ma favorisce, nel contempo, il declino di San Pellegrino come stazione termale.

Oggi della Belle Epoque non restano che alcuni edifici splendidi che riportano alla memoria l’eleganza e le feste di un tempo passato.

In questi ultimi anni la cittadina ha tentato di realizzare delle strutture urbanistiche e socio economiche per avviare il decollo e seguire le nuove esigenze di un turismo moderno.

I recenti impianti del centro medico termale costituiscono un elemento di ricchezza per il turismo. Inoltre gli avvenimenti musicali e teatrali realizzati al Casinò dimostrano che le attività culturali sono realizzabili e necessarie.

Sul finire del XVIII secolo San Pellegrino si sviluppa come centro termale, grazie alle acque solfato-alcaline-terrose che sgorgano alla temperatura costante di 26 gradi, note già dal Medioevo. Nel XX secolo la località si trasforma in un'elegante stazione termale. Viene creato lo Stabilimento Termale (ora appartenente alla Sanpellegrino S.p.A., nota industria che produce acqua e bibite gassate che fa capo alla svizzera Nestlé). La fama della cittadina accresce con la costruzione del Casinò Municipale nel 1904 e del Grand Hotel nel 1905. Nel 1961 viene costruito lo stabilimento per l'imbottigliamento dell'acqua minerale S. Pellegrino e delle altre bevande di produzione di Sanpellegrino S.p.A.


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FOPPOLO

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Foppolo è un comune italiano situato in Alta Val Brembana.
Le origini del paese sono tutt’ora molto incerte. Alcune ipotesi sostengono che i Romani, arrivati in molte località dell’alta valle Brembana per lo sfruttamento delle miniere, giunsero anche a Foppolo per utilizzare le risorse minerarie presenti in località Cadelle.

Altri invece asseriscono che i primi abitanti furono i pastori mandriani che, sin dall'epoca medievale, trasferivano le mandrie presso gli eccellenti pascoli di Foppolo durante i mesi estivi, per poi abbandonare la zona durante la fredda stagione invernale, che qui presentava temperature gelide anche a causa della conformazione territoriale del luogo, inserito tra anguste vallette, che assumevano l’aspetto di cavità del terreno. Ed è da questa caratteristica, che in dialetto locale si esprime con Foppa che vuol dire piccola conca (traslato poi in Foppolo), dal quale deriva il toponimo. All'allevamento dei bovini, nell'economia tradizionale di Foppolo, si accompagnava la fabbricazione dei formaggi, smerciati alla frequentatissima fiera di Branzi.

Gli abitanti di Foppolo in buona parte mandriani vi dimoravano soltanto dal giugno al settembre per il pascolo delle mandrie per discendere poi nel piano lombardo. Gli eccellenti pascoli di Foppolo alimentano ottimo bestiame. Industria di Foppolo oltre l’allevamento dei bovini è la fabbricazione dei formaggi che vengono smerciati alla frequentatissima fiera di Branzi.

Non sono molti i documenti scritti che attestano l’esistenza del piccolo borgo: il principale, risalente all’anno 1331, è uno statuto nel quale Foppolo veniva menzionato come borgo facente parte dell’unità amministrativa comprendente i vicini Carona, Valleve, Cambrembo, e Fondra.

Scarse sono le notizie riferite anche all’epoca medievale, della quale si sa che il borgo venne posto nel feudo facente capo alla famiglia ghibellina dei Visconti, che diedero il permesso, ad ogni persona appartenente alla loro fazione, di uccidere un guelfo. Nonostante questo non ci sono giunti documenti che attestano di lotte avvenute sul suolo comunale. Si sa inoltre che si verificò un ulteriore sviluppo delle miniere di ferro, tanto che il territorio venne parzialmente disboscato per favorire tale attività.

Nel 1452 Foppolo si staccò come comune da Valleve, e nel 1481 venne fondata una piccola chiesa parrocchiale con tre altari: Mons. Federico Cornelio nella visita pastorale del 1624 riportando i dati di una pergamena allora in possesso del Parroco, scrive:

« Hoc templum anno 1481 consecratume est a Paganino A.S.Paulo episcopo Dultenensi a Ludovico Donato Bergomi episcopo deputato qui statuit eius amniversarium fieri debere die 9 septembris, at suplliciter efflagitantibus incolis huius parocchiae ut majori cultu celebraretur Petrus Lipomanus in diem S. Rocchi videlicet die Augusti ennuens eorum supplicationibus transtulit anno 1525 die 21 Iulii »
Nel corso del XVI secolo il paese, dopo essere entrato a far parte della Repubblica di Venezia, ottenne l’autonomia amministrativa e fu inserito nel distretto amministrativo della Valle Brembana Oltre la Goggia, che comprendeva tutti i comuni dell’alta valle, con capoluogo posto a Valnegra e godeva di sgravi fiscali e numerosi privilegi.

La vita del borgo si sviluppava anche intorno a due confraternite: quella della S.S. Sacramento, eretta dal Rev. Visitatore di S. Carlo durante la sua visita (3 ottobre 1575) e l’altra del S. Rosario. Dell’Oratorio di San Rocco di Foppolo in monte, nominato dal suddetto visitatore, esistono forse appena le fondamenta. L'attuale chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta venne ricostruita nel 1735 sotto il parroco Don Giovanni Maria Dominoni, a seguito della distruzione della precedente da parte di una valanga, e consacrata da Mons. Vescovo Redetti durante la visita pastorale del 2 luglio 1737.

Con l’arrivo della dominazione austriaca, il territorio fu soggetto a forti dazi e tasse, che affossarono le esportazioni del ferro e fecero cadere in una crisi irreversibile l'economia valligiana.

Al Passo Dordona sul confine tra la provincia di Sondrio e Bergamo è possibile ancora osservare i resti delle trincee risalenti alla prima guerra mondiale. Queste trincee poste sul crinale Orobico non furono costruite lungo il fronte del combattimento, ma servivano come seconda linea difensiva, in caso di sfondamento austriaco attraverso l'alta Valtellina, per evitare che le truppe asburgiche raggiungessero in breve tempo Milano. Il generale Cadorna ordinò pertanto la costruzione di trincee e postazioni d'artiglieria lungo il tratto occidentale del versante Orobico che offriva alcuni passi di facile accesso, come il Passo di San Marco e il Passo Dordona.

In preparazione dello sforzo bellico, venne anche costruito un tratto di carrozzabile militare da Valleve a Cambrembo. Il tratto, allargato e risistemato, venne prolungato fino a Foppolo in epoca fascista, su impulso del podestà Antonio Bianchi, ed inaugurato nel 1934 intitolandolo ad Arnaldo Mussolini (fratello di Benito). La strada carrozzabile tolse dall’isolamento il paese, fino ad allora raggiungibile soltanto tramite anguste e pericolose mulattiere da Valleve, e permise più avanti la realizzazione degli impianti di risalita per la stagione invernale con il conseguente sviluppo turistico con hotel e nuovi appartamenti.

A partire dal secondo dopoguerra il paese ha visto un rilevante incremento turistico, facendo diventare il paese una delle mete più rinomate delle montagne bergamasche per quanto riguarda gli sport invernali. Ciò ha permesso a Foppolo di non risentire, al pari dei paesi vicini, del fenomeno dell’ emigrazione e dello spopolamento del territorio. Dalle visite pastorali risulta che gli abitanti di Foppolo nel 1575 erano 110; nel 1699, 270; nel 1780, 150; nel 1858, 172; nel 1920, 165; nel 1945, 137.

Foppolo, così come la vicina Valleve resta comunque un territorio di alta montagna naturalmente soggetto al fenomeno delle valanghe: il 12 gennaio 1977 una valanga si staccò da poco sotto la vetta del monte Arete (2.227 metri) e, percorrendo il canale Vallesino, si abbatté con estrema violenza sulla parte bassa dell'abitato di Foppolo, investendo numerosi condomini e abitazioni, oltre alla chiesa, che riportò non pochi danni. La vittime furono in totale otto, e il paese rimase isolato per una settimana.

Il territorio di Foppolo si divide in parecchie contrade: Arale, Costa, Moretti, Piano, Rovera, Sponda, Teggie, Cortivo, e Vendulaperto. Molte di queste sono disabitate, ma mantengono intatto lo stile rurale che le ha contraddistinte nel corso dei secoli.

Il nucleo storico invece ha visto stravolgere il proprio aspetto nel nome del turismo: centinaia di appartamenti, adibiti alla funzione di “seconde case”, costruiti un po’ ovunque, hanno completamente snaturato l’originale paesaggio.

Dal punto di vista storico, si può ancora ammirare la chiesa parrocchiale, dedicata a Santa Maria Assunta. Edificata nel XVIII secolo in luogo di un’altra, originaria del XV secolo distrutta da una valanga, è composta da tre altari e custodisce opere di buon pregio, tra le quali una Pietà in legno del XV secolo. Si possono ancora ammirare le varie contrade di antica realizzazione, rimaste ancora intatte..

Le sempre crescenti offerte turistiche di Foppolo si basano sull’ottima posizione geografica del paese. Numerose sono infatti le possibilità che vengono offerte al turista: in estate si possono compiere numerosissime escursioni, adatte ad ogni tipo di utenza, tra le quali spiccano quelle ai vicini Monte Toro e Pegherolo, al passo di Valcervia, del Porcile e del Dordona, dove si possono ancora vedere le trincee verso la Valtellina, ma anche ai laghi Moro, Foppa e Delle Trote, tutti abbondantemente al di sopra di quota 2000 metri s.l.m. La conca di Foppolo è circondata dai Monte Valgussera (2200 m), Pizzo del Vescovo (2175 m), Pizzo Corno Stella (2621 m), Monte Toro (2524 m), Monte Cadelle (2483 m), Monte Valegino (2415 m), Monte Arete (2227 m), Monte Cavallo (2323 m sopra San Simone) e il Monte Pegherolo (2369 m).

Foppolo è il centro sciistico più rinomato delle Orobie. Con la strategia dell'innevamento programmato e l'apertura del servizio promozionale Brembo Ski in questi anni ha provveduto ad adeguarsi alle crescenti richieste, integrando i pacchetti turistici alle diverse esigenze personali ed estendendo la praticabilità delle piste alla confinante conca di Carisole e alla vicina stazione di San Simone. Il nucleo storico, dove ha naturalmente prevalso la vocazione turistica rispetto alla matrice rurale, è nella zona bassa del paese, caratterizzata da una tipologia meno invasiva della concentrazione che invece si rivela in prossimità degli impianti di risalita. Tracce significative della precedente storia di Foppolo si scoprono nei rustici delle frazioni Tegge e Convento.

Nella frazione Pianico si trova l'oratorio del Crocefisso. Una piccola cappella con affreschi del '600. Situata al centro di un antico insediamento fra baite e stalle antiche. L'oratorio sostitui' una chiesetta piu' antica, probabilmente crollata per l'usura del tempo: "San Rocco in monte". Dell'antico oratorio di Foppolo abbiamo testimonianza solo dalle relazioni delle visite pastorali dei vescovi.
Un breve percorso a piedi, ci porta in uno dei piu' antichi insediamenti del territorio di Foppolo nella Frazione di Teggie. Un gruppo di case, baite e stalle su un poggio soleggiato e panoramico. Qui proprio sulla facciata di una baita, puo' essere di augurio e di buon auspicio per il viandante che percorreva la mulattiera che porta al passo Dordona, si trova un affresco del '600. La religiosita' e l'arte popolare si manifestava con semplicita' e buon gusto.


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PIAZZATORRE

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Piazzatorre è un comune della provincia di Bergamo, in Lombardia.

Si è sempre ritenuto comunemente che il toponimo Piazzatorre derivi dall'unione dei vocaboli piazza e torre, a significare la piazza della torre, forse perché in quel luogo sorgeva una torre contornata da uno spiazzo. Se per la parola piazza, platea, l'etimologia è plausibile, non così è invece per torre. Infatti, se fosse valida tale ipotesi, nei documenti latini più antichi dovrebbe essere utilizzato, a seconda della declinazione, il vocabolo turris, turrim, turri.

Risulta quindi chiaro che la torre non è pertinente con l'etimologia del toponimo Piazzatorre il quale invece va riferito al vocabolo torus o taurus, (inteso come altura o terreno rialzato) che unito a platea (piazza, spiazzo) indica spiazzo rialzato, area pianeggiante situata in altura, che è poi la caratteristica geografica di Piazzatorre.

Piazzatorre, oggi, è un'affermata stazione turistica invernale ed estiva, frequentata soprattutto come centro di villeggiatura e come sede per i ritiri precampionato delle squadre sportive che trovano nel locale e ben attrezzato Centro Sportivo Comunale, le infrastrutture e la tranquillità necessaria per svolgere il lavoro preparatorio all'attività agonistica. Piazzatorre da decenni è nota agli amanti degli sports invernali per le piste di sci e gli impianti di risalita del comprensorio sciistico Piazzatorre Ski Area e per il famoso palaghiaccio di proprietà dell'hotel Pinete che ha ospitato la coppia di pattinatori campioni del mondo nel 2001 Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio.
Da numerosi documenti si può dedurre che a Piazzatorre già dal ‘500 esistevano proprietari privati, anche se non nativi del luogo: i Dominoni, i Renovi, i Maisis e soprattutto i Mascheroni da Olmo al Brembo, che fin dal ‘200 possedevano gran parte delle proprietà fondiarie di Piazzatorre. Nel ‘300 alcune famiglie del paese acquistarono ed ottennero in affitto perpetuo una piccola parte di questi estesi possedimenti. Una di queste transazioni è registrata in un atto del 28 luglio 1330 con il quale Martino detto Donzello fu Giacomo dei Mascheroni concesse in enfiteusi perpetua (l’enfiteusi è quel rapporto in forza del quale il proprietario concede il diritto, perpetuo o di lunga durata, di utilizzazione di un fondo agricolo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone periodico) ai fratelli Giovanni e Pietro Renovi di Piazzatorre due pezze di terra con stalla sul Pegherolo e la tren­tesima parte del bosco del Cavallo per la somma di 20 soldi imperiali, da pagarsi alla successiva festa di San Martino, oltre a un soldo grande all’anno in perpetuo a titolo di fitto. Altre due pezze di terra furono vendute il 9 dicembre 1340 dallo stesso Martino a Vitale Dominoni di Piazzatorre. La parte più cospicua dei terreni fu concessa dai Mascheroni in enfiteusi collettiva al comune di Piazzatorre e ai componenti delle tre famiglie originarie del luogo: gli Arioli, gli Arizzi e i Maisis; ma nel Quattrocento i rapporti tra la proprietà e gli affittuari si guastarono, sia perché i boschi e i terreni non erano coltivati e mantenuti a dovere e probabilmente anche perché si verificavano troppo frequenti ritardi e dilazioni nel pagamento dei canoni d'affitto. In questo contesto s’inserisce l’atto rogato il 28 gennaio 1465 dal notaio Luchino fu Martino Bottagisi di Averara con il quale l'insieme dei vari discendenti dei fratelli Bono e Simone Mascheroni, comproprietari dei fondi in questione, si costituirono a vicenda sindaci, procuratori e difensori, affinché ciascuno potesse opera­re a tutela degli interessi degli altri, sia per le questioni in corso che per quelle a venire. L’atto accenna, senza tuttavia indicarne le cause, ad una lite in corso con gli uomini di Piazzatorre in merito alle loro proprietà e ad una causa imminente sempre sulla stessa questione.
La controversia fu risolta il 22 gennaio 1473 con un atto del notaio Simone fu Bonetto Donati di Piazza, che determinò una transazione amichevole tra i Mascheroni da una parte e il Comune e gli uomini di Piazzatorre dall'altra: questi ultimi ottennero di poter godere in perpetuo dei boschi che avevano in affitto per ricavarne legname da utilizzare per la costruzione di case e stalle, o legna da ardere e da utilizzare per produrre calce e carbone, a proprio vantaggio o per i residenti sul territorio di Piazzatorre. Per parte loro i Mascheroni si riservavano il diritto di recidere e tagliare a loro discrezione detti boschi e vendere il legname fuori paese e di disporre a piacimento di eventuali giacimenti minerari che si fossero rinvenuti sulle loro proprietà. Tale accordo resistette per novant'anni, ma alla fine dovette essere rivisto perché i beneficiari avevano iniziato ad accampare diritti di proprietà sui fondi suddetti. E così il 17 gennaio 1562, a Bergamo, le parti giunsero a un accordo definitivo con il quale i Mascheroni cedettero ai sindaci e agli uomini di Piazzatorre tutti i diritti sui boschi (di faggio, peghera e qualsiasi altro genere) situati entro i confini di del comune.
In cambio dei diritti il Comune e gli Originari di Piazzatorre (in tutto 72 capofamiglia, oltre ai tre sindaci del comune) versarono ai Mascheroni la somma di 11.340 lire imperiali. Quest’atto sancì la nascita della Società degli Antichi Originari di Piazzatorre, che assieme al Comune è ancora oggi proprietaria di gran parte dei boschi della zona (citazioni tratte dal testo “Olmo al Brembo nella Storia”). Essi non solo avrebbero goduto, tutti insieme, il prodotto dei pascoli e dei boschi, ma sarebbero entrati in possesso anche della Chiesa parrocchiale e con i redditi della proprietà collettiva avrebbero provveduto alle spese principali della comunità.
Questa situazione amministrativa durò quasi tre secoli, fino al 1806.
Il 5 dicembre 1822, con un atto di transazione stipulato tra gli Antichi Originari e il Comune, “…gli Originari retrocedevano al Comune i beni controversi (boschi e pascoli) sotto la espressa condizione, dal Comune accettata, che le rendite dei beni medesimi dovessero servire a provvedere a tutte le spese inerenti all’amministrazione del Comune di qualsivoglia natura, e gli avanzi, che dedotte queste spese si verificassero, dovessero distribuirsi con giusto riparto sopra ciascun individuo in tutte le famiglie, le quali all’evenienza del caso si trovassero ad avere lo stabile incolato nel Comune (nel diritto romano, chi aveva domicilio presso una comunità diversa da quella di origine, dal latino incolore, abitare, risiedere); se le rendite non fossero state sufficienti a far fronte alle spese, si avrebbe dovuto supplire all’eccesso coi mezzi che la legge prescrive nel proposito…” (Deliberazione Consigliare 11 Agosto 1894).

Il 1592 fu l’anno di costruzione della strada Priula di fondo valle, dal nome del provveditore veneto Alvise Priuli che la fece costruire e “tagliare nel sasso vivo”. Verso la fine del 1500 Venezia, duramente impegnata nella guerra del pepe, decise di costruire una strada carrabile che le permettesse di raggiungere i liberi Cantoni Svizzeri e di lì la valle del Reno, senza pagare dazi e dogane agli Spagnoli. Cercava così una valida alternativa alle strade di Trento, del Gottardo e del Tirolo per fare giungere in tutte le contrade d’Europa le ricche e pregiate mercanzie veneziane ed orientali. Tra le merci trasportate c’erano il cuoio lavorato alle cere, il sapone, le sete, l’uva passa, ai quali nel ‘700 si aggiunsero liquori e caffè. Su tutto dominavano, non per volume ma per valore, pepe e spezie d’ogni tipo che giungevano a Venezia sui convogli di navi provenienti dall’Oriente e poi venivano distribuite per tutta l’Europa con carri e carovane di muli. La richiesta di spezie era elevatissima, non solo per conservare i cibi e renderli più gradevoli, ma anche per preparare bevande e in particolare per usi medicinali. Ma per la Cà San Marco passavano anche grossi quantitativi di salnitro, la materia prima usata per fabbricare polvere da sparo.
La Priula risaliva il fondo valle forzando le due strette, fino allora invalicabili, della Botta e di Sedrina. I grossi centri disposti sul tracciato della via “Alta” decaddero mentre i paesi dell’Alta Valle divennero il centro di traffici e commerci.
Quando la strada fu ultimata nel 1600 scoppiò la guerra in Valtellina e la stessa fu occupata dagli Spagnoli; il progetto di Venezia fallì e la strada rimase a beneficio dei valligiani. Prima di allora le carovane di muli che raggiungevano il grande mercato di Serina, o i minori di Olmo e Averara, impiegavano ore ed ore per coprire il tracciato incerto e spesso impervio delle mulattiere. Il grande trasporto di merci pesanti era negato dalla natura della strada, così come quello della posta e delle notizie. Con l’apertura di una strada carrabile le comunicazioni divennero più veloci e i contatti col mondo “al di sotto della Goggia” meno rarefatti. Pur non interessando direttamente il nostro paese il grande impulso che essa diede agli scambi portò giovamento anche agli abitanti di Piazzatorre: si aprì il mercato al carbone e soprattutto al legname che altrimenti doveva essere trasportato via fiume nei periodi di piena. Inoltre da quel momento fu reso possibile il funzionamento del servizio postale.
Nel 1593 la comunità di Piazzatorre venne collegata con la strada Priula attraverso un grazioso ponte in località Jai sotto Piazzolo. Abbracciava con un arco perfetto, a tutto sesto, le sponde rocciose del Brembo sotto la strada per Mezzoldo, in prossimità del bivio di Piazzatorre. La costruzione iniziò nel 1593 per opera della squadra dell’Olmo con un preventivo di lire 450 imperiali (con l’alluvione del 1987 è scomparso anche quest’altro importante frammento del tracciato della strada Priula).
Di lì a poco, dagli inizi del 1600, si ebbe il primo boom edilizio con vere costruzioni abitative di un certo rilievo socio - familistico: Cà di Berere, Cà Santa, Cà Maisis, Cà Gottaroli, Cà di Sörine, Cà di Boi. Erano nuclei residenziali che testimoniavano un certo agio economico e una vera autonomia di organizzazione sociale.
Nel 1630 ci fu la grande pestilenza che dimezzò la popolazione.
La nascita di officine, magli, opifici, filande nei centri come Zogno e San Pellegrino, che sfruttavano l’acqua del fiume come forza motrice, ha sfiorato solo da lontano l’economia delle comunità rurali. Il primo balzo nella storia umana verso l’industrializzazione non interessò, quindi, l’Alta Valle. Qui si viveva ancora come 500 anni prima, come nota il Maironi da Ponte a proposito di Piazzatorre: “…i suoi 270 abitanti sono nella maggior parte mandriani, che vanno a passar l’invernata co’ loro numerosi bestiami nelle province di Milano e Lodi. Vi sono anche alcuni che si occupano nel far il guidone, ossia il condottiere di legnami, che dall’alte montagne mercé l’acque del Brembo si traducono alla pianura, e qualch’ altro che fa il montanista o il carbonaio.
Oltre a queste attività principali, trovavano posto vari mestieri, localizzati soprattutto nei paesi: al ciabattino spettava il compito di “rigenerare” le scarpe che spesso dovevano durare tutta una vita; col procaccia giungevano nei posti più sperduti le notizie, le lettere più attese e insieme il pane per gli ammalati e il sale per tentare di porre rimedio alla calamità del gozzo.
Ma il mestiere più diffuso era quello del carbonaio.
Anche la storia di Piazzatorre di questi anni non presenta evoluzioni di rilievo. Solo conviene ricordare che nel 1806 (pochi anni dopo il crollo del dominio veneziano – 1797) cessò lo sfruttamento comunitario delle risorse e riapparve così la proprietà privata. Un ritorno alla proprietà collettiva si ebbe nel 1920 con la nascita della Cooperativa alimentare alla quale la gente del paese partecipò con proprie quote azionarie.
Nel 1836 scoppiò in Valle il colera. La popolazione di Piazzatorre, guidata dal suo parroco, fece un voto propiziatorio: se il paese fosse stato risparmiato, ogni anno si sarebbe celebrata una festa solenne in onore della Madonna del Rosario a spese totali del Comune. La memoria della Beata Vergine del Rosario nel calendario liturgico è fissata il 7 di ottobre, ma da noi è stata spostata alla terza domenica di agosto per permettere ai compaesani emigranti di parteciparvi prima di partire per la nuova stagione lavorativa.
Tale festa si celebra ancora oggi con devota solennità.

Dagli inizi del ‘900 considerevoli cambiamenti (tra i quali l’elettricità e la ferrovia) hanno reso possibile il passaggio da una società puramente agricola ad una società sempre più industrializzata. Fu un passaggio rapido dal semplice e immobile mondo contadino al ritmo convulso di una società complessa. Il grande fenomeno di spopolamento tocca l’Alta Valle Brembana in modo particolare dal 1890; oltre le tradizionali direttrici della Francia, della Svizzera e dell’America del Sud, sono individuabili flussi migratori verso la Valle Padana.

Lo sviluppo turistico di Piazzatorre è molto recente; sebbene sin dagli inizi del secolo fosse frequentato da alcune famiglie che venivano a trascorrervi l’estate, è solo nel dopoguerra che il nostro paese ha conosciuto la popolarità. La felice posizione del paese, il paesaggio naturale incontaminato, le imponenti foreste di conifere, l’aria salubre e la possibilità di praticare lo sci in pista hanno richiamato un numero sempre maggiore di villeggianti.
Nel 1950 furono costruiti i primi impianti di risalita sul monte Torcola, che hanno dato inizio allo sviluppo turistico invernale ed al successivo sviluppo edilizio (sopratutto edifici adibiti a residenza secondaria), che ebbe il suo apice negli anni ’70-’76.

Il boom turistico si è verificato negli anni 1985-86, nei quali sono state calcolate circa 12-13.000 presenze. La speranza è che tali cifre non rimangano solo un ricordo, ma possano essere in qualche modo ripetute anche in seguito alla costruzione dei nuovi impianti di risalita per Torcola Vaga, in funzione da dicembre del 2002.

Agli inizi dell'autunno del 1918, oltre le difficoltà di reinserimento dei reduci ed i problemi quotidiani dovuti alla mancanza di generi alimentari, si abbatté sul nostro paese “la spagnola”, un’epidemia che fece ben 375.000 vittime in Italia (oltre venti milioni in tutto il mondo). Si trattava di una forma influenzale dovuta ad un virus che aggrediva i polmoni in forma molto spesso mortale. I sintomi consistevano in febbre alta, dolori muscolari, tosse ed insufficienza cardiaca.
Così scriveva il parroco di Piazzatorre don Clemente Manzoni: “La malattia si presentava con dolori al capo e si sviluppava in polmonite. Era molto infettiva e colpiva maggiormente quelli dai 15 ai 40 anni d’età. Ogni casa aveva il proprio ammalato e non uno solo, ma due o tre, e parecchie erano le famiglie totalmente colpite. Ogni odio era deposto e i guariti si facevano premura di portar soccorso ai più bisognosi. Se la morte non capitava entro i primi dieci o dodici giorni si poteva sperare in una guarigione, ma mesi e mesi durava la convalescenza. Non lasciava più nessuna forza muscolare, niente appetito, e i vecchi, per i quali era più benigna, uscivano dalla spagnola così abbattuti che ad ogni minimo raffreddore soccombevano per deficienza cardiaca o per bronchite”.
Non esistendo una cura specifica, l’unico consiglio era di tenere gli ammalati isolati per evitare il contagio e di disinfettare gli ambienti.
E misteriosamente com’era apparsa, la malattia verso la fine dell'anno si dileguò senza lasciare tracce e senza che gli scienziati che ancora oggi la studiano siano riusciti a scoprirne le cause.

L’ubicazione di Piazzatorre e le sue arie salubri la fecero prescegliere dall’Opera Bergamasca per la salute dei fanciulli onde erigervi un fabbricato che servisse a raccogliervi nella stagione estiva un centinaio di ragazze e ragazzi per i quali la gracile costituzione e lo stato di anemia richiedesse la cura climatica.
L’Opera Bergamasca diede del proprio £ 6500, la Cassa di Risparmio di Milano elargì £ 10.000 e la società degli Antichi Originari di Piazzatorre concesse gratis la presa della buonissima acqua potabile. Scriveva il Dottor Bonandrini nel giugno del 1903 sull’Alta Valle Brembana: “Il fabbricato, eretto dalla ditta Testa e Passera su progetto degli ing. Fusier Oberto e Gaetano Carminati di Bergamo, sorge nel centro del paese, vicino alla frazione Cà Montani e consta di un corpo centrale con due ali della lunghezza complessiva di 69 m. Il corno ha l’altezza di m. 13 per 15 di profondità, e contiene la cucina e le stanze per la Direzione ed Amministrazione, più una grande sala che in caso di bisogno potrà adibirsi a dormitorio. È tutto in muratura e per mezzo di due terrazze è congiunto alle ali, ognuna delle quali è alta 8 m. e lunga 23, e sono costruite parte in muratura, parte in legname. Al piano inferiore vi è il refettorio ed al superiore i dormitori, uno per ala, ciascuno dei quali potrà comodamente contenere 25 letti.
L’impianto per la distribuzione dell’acqua fatto dalla ditta Busconi di Bergamo fornisce l’acqua in ogni locale, e vi sono 12 docce e bagni. L’illuminazione ad acetilene impiantata dalla ditta Sibella nulla lascia a desiderare. A lato dello stabilimento sorgono la lavanderia e l’infermeria”.
L’inaugurazione venne fatta nel giugno del 1903 da una comitiva di ragazze che prime vennero a godervi i benefici di tanta oculata provvidenza e generosità.
Durante l’epoca fascista, sull’onda della politica di organizzazione di massa del regime, si moltiplicarono le colonie montane. A Piazzatorre, a quella già esistente se ne aggiunse un’altra intitolata a Mussolini.

Il nucleo “storico” di Piazzatorre si presenta come un complesso di abitati che si articolano addossandosi gli uni agli altri, non per ragioni difensive, ma economiche e funzionali. Sono semplici strutture a muro secco o modellato con sobria calce, appena ingentilite da finestrelle e da un portale ad arco tondo che esprime certamente dignità e grandezza. Il più antico e rinomato è “Sembiör” che si adagia disegnato sulle pendici del monte Pegherolo, quasi una piccola perla grigiastra nel mezzo dei prati. Più sotto, allacciato ai tornanti della strada principale che risale verso il paese attuale e protetto dall’insenatura valliva a densa forestazione, c’é l’abitato delle Piazzole: quasi un avamposto rispetto alle contrade più alte e, ai tempi, una sicura e ravvicinata base di partenza verso i pascoli e le stalle di Pegherolo. L’insieme delle case è di recente edificazione, ma all’interno, collocata in leggero pianoro a sbalzo sul costone, si trova un’antica e tipica costruzione patriarcale, cubata nella forma, povera nella struttura, eppure segno d’abbondante progenie.
Restando in paese, all’estremità superiore vi è “Cà Gottaroli”, una specie di dogana di confine per chi risaliva ai pascoli del Torcola e del Secco; più sotto è posta “Cà de Maes” (De Maisis) accostabile attraverso il passaggio di un piccolo tunnel. La piazzetta dev’esser stata molto bella un tempo se si osservano i due portali bassi, graziosi e signorili, della casa attigua alla breve galleria.
Casa Bianchi mostra evidenti i segni della sua storia: nella facciata sono presenti grandi motivi floreali e architettonici, festoni e un grande affresco centrale che raffigura la Vergine e il Bambino nella parte superiore, in basso il patriarca Mosè e l’arcangelo Gabriele.

L’edificio più antico è la Cà Santa, un enorme palazzo seicentesco che risale alla fine del 1500. La facciata è stata intonacata di recente; su di essa però sono ben visibili i segni del passato: le quattro finestre con spalline in pietra e inferiate in ferro battuto e il portone con volta in pietra. Fuori dalla casa c’è una cappella votiva fatta erigere nel 1620 circa da Giovanni Battista Maisis, come si legge nell’iscrizione un po’ rovinata.
Tutto l’esterno di Casa Arioli è cosparso di fregi, affreschi e festoni attorno a ciascuna finestra. In ogni festone è dipinta una massima illustrata da una piccola scena.
Il grande portone al piano terra è ornato da un gran festone e sormontato da una loggia in pietra, con ringhiera in ferro battuto legata con chiodi. Qui primeggia lo stemma di famiglia sotto il quale il motto latino “Non manet aeternum Dominus sine semine vivens ipsius at longum stemmate nomen habet”. Saggio e severo monito della caducità terrena (vita breve hanno anche i padroni di casa, se non ci sono eredi vivrà almeno lo stemma).
Dice l’Angelini (1974 in “Arte minore bergamasca”): “Lo scomparto è così diviso: un pianterreno con le finestre quadre e inferiate, la porta centrale a motivi dipinti ornati, un piano superiore di maggiore altezza con finestre rettangolari a riquadrature sagomate sobrie e un soprastante ornamento a colori che racchiude emblemi contornati da nastri con motivi simbolici italiani o latini, e infine un secondo piano, basso di sottotetto, illuminato pure da quadrotti di luce con riquadrature lineari. In centro sopra le porte un balcone e lo stemma della famiglia...”.
In un’ala della casa trova attualmente sede l’asilo infantile.

Al 1500 risale l’edificazione della chiesa di San Giacomo, consacrata il 29 luglio 1514. Non è la stessa chiesa che oggi vediamo sul poggio che domina l’imboccatura del paese: quella odierna è infatti il risultato di notevoli rimaneggiamenti e ristrutturazioni.
L’edificio originario, di certo molto più piccolo, già decretato dal vescovo Pietro Lippomani il 26 ottobre del 1518, fu distinto e reso pienamente autonomo dalla chiesa di San Martino Oltre la Goggia nel 1532. Sorta su un oratorio che pare risalisse al 1200, ricostruita ex novo nel 1675 (in seguito a danneggiamenti subiti per intemperie) e consacrata il 16 luglio del 1682 dal vescovo Daniele Giustiniani, dopo l’ampliamento operato nel 1913-14 su progetto dell’architetto Elia Fornoni, venne riconsacrata il 7 agosto del 1919 dal vescovo Luigi Maria Marelli, che sigillò nell’altare maggiore le reliquie dei santi Alessandro e Ippolito.
La sua storia è semplice e complicata ad un tempo. Le baite del Pegherolo, abitate da tanti pastori, volevano vedere la loro Chiesa per avere la presenza, quasi fisica, della Divinità, e anche quando il Vescovo consigliò di costruire la Chiesa in una posizione più comoda, gli abitanti opposero un’affettuosa resistenza, e la vollero lì, dov’è ancora ora, vicino ai loro morti, dove gli avi, per secoli, si erano alternati nella preghiera, in un luogo carico di memorie.
Scriveva l’Ing. Beretta (1968): “Posta in posizione molto bella, la Chiesa Parrocchiale presenta il tradizionale orientamento con l’altare rivolto a est ed è circondata da tutti i lati da un discreto sacrato. La facciata verso ovest è stata eseguita durante l’ultimo ampliamento (1913) ed è molto semplice, conclusa di gronda in cemento a spiovente. La decora l’ampio portale in pietra artificiale con tre archetti in opera su colonne in graniglia sassuola. Sopra tale ingresso una lapide di marmo nero, sagomata ed ornata di grande timpano curvo sorretto da mensoloni.
Esternamente sul lato sud la chiesa presenta l’ingresso secondario preceduto da ampio porticato sormontata di stemma con aquila bicipite e con scritta, fa da ornamento e da documento.
Il bellissimo blocco di pietra, istoriato possentemente da mano ignota quasi per fissare nella memoria storica del Paese i tre ceppi famigliari di Piazzatorre ora sormonta la porta d’ingresso della Chiesa, quella rivolta a mezzogiorno, la più usata e senz’altro resa più solenne dal portico e da altri elementi quali la lapide istoriata, lo stemma vescovile, la lapide dei caduti. Quest’antica scultura del secolo XVII raffigura i tre stemmi delle famiglie originarie di Piazzatorre. E precisamente: al centro quello della famiglia “Arici”, a sinistra quello della famiglia “De Maisis” e a destra quello della famiglia “Arioli”.
I nomi di queste tre famiglie si trovano tra l’altro ripresi nella lapide che era posta immediatamente sopra la porta d’ingresso, e che ora è stata collocata a fianco, abbassata. Il testo della lapide, scritto in latino, ricorda che l’edificio della Chiesa, dedicata a S. Giacomo, è stato riordinato nel 1675, per interessamento di “Vincenzo Arici De Montanis, Pietro Giacomo De Maisis e Giovanni Battista Arioli De Rivoris” (attualmente, scomparsi i De Maisis e gli Arici de Rivoris, restano a consolidare le generazioni sei ceppi familiari: gli Arioli, i Bianchi, i Berera, i Calvetti, i Fognini e i Piatti. Al di sopra di tutti dominano gli Arioli: il "fuoco" più celebre, più noto e più significativo della Gens Plateaturrensis).
La decorazione degli interni è sobria e presenta affreschi nelle volte e nella cupola; più in particolare nella volta della navata gli affreschi che rappresentano la chiamata dell’Apostolo S. Giacomo e il suo martirio (Servalli - Cavalleri), nelle pareti della cupola la glorificazione di S. Giacomo e santi patroni, nei pennacchi gli Evangelisti (Morgari, 1915) e nel catino la glorificazione della croce (Cavalleri). Sui pilastri della tazza centrale troviamo due ottime tele attribuite con riserva a Francesco Zucco, raffiguranti S. Bonaventura cardinale e S. Lodovico di Tolosa; sotto di esse, due belle icone di recente fattura (1991), realizzate da Emiliano Tironi di Bergamo che raffigurano la Madre di Dio e la Trinità. Di riscontro S. Filippo Neri e S. Romualdo dipinti da G. Armani nel 1943. Di Beppe Facchinetti le tele di S. Anna e dell’Immacolata (1932).
La cappella di sinistra è dedicata alla Madonna del Rosario, con il bell’altare in marmo grigio intarsiato con fregi e uccelli. L’ancona pure in marmo è decorata da due colonne rosse a tutto tondo che reggono il fastigio. A destra la porta che immette al campanile e sopra di essa la nicchia di S. Giuseppe. La cappella di destra è dedicata a S. Giacomo ed è dotata di altare in legno scolpito, dipinto e dorato; ai lati del santo due statue in legno raffiguranti la fede e la speranza (Giosuè Marchesi, 1915). A destra si trova la bussola dell’ingresso laterale ed a sinistra la porta d’accesso alla Sacrestia.
Il presbiterio, così come lo vediamo adesso, è molto differente dalla sua forma originaria: in principio era sopraelevato di tre gradini in marmo rosso Verona e delimitato da una balaustra sagomata in marmo rosso di Camerata e nero (modificati nel 1984). Al centro domina tuttora l’altare maggiore in legno scolpito e completamente dorato, con in mezzo il tabernacolo sormontato di cupoletta ed alle estremità dei candelabri due angeli adoranti. Ai lati del presbiterio due banchi per paratie per arredi in noce decorati di belle lesene scolpite; sopra i banchi, le cantorie (quella di destra è dotata d’organo); dietro l’altare segue il coro, pure in noce, costituito da tredici stalli separati da lesene decorate da cariatidi d’angeli.
Sorprendente per qualità e copia la dotazione degli arredi sacri, con paramenti in ganzo, raso e seta del 1600-1700, un calice in rame del 1500, un ostensorio d’argento del 1700, tre lampade pure d’argento sbalzato e graffito, di cui la maggiore reca gli stemmi araldici delle famiglie Arioli, De Maisis e Simoni, e altri arredi in rame sbalzato e argentato.
Dietro l’altare maggiore spicca il polittico firmato Agostino Caversegno (Facheris da Presezzo - 1537), a nove scomparti che raffigurano a partire dall’alto: l’Eterno Padre al centro con ai lati l’Angelo Custode e S.Anna, madre della B.V.Maria sposa di Gioacchino; sotto Dio Padre la Vergine con Bambino e al lato sinistro S.Sebastiano, martire sotto Diocleziano, e S.Rocco di Montpellier, santo pellegrino protettore contro il flagello della peste. A destra S.Antonio Abate monaco illustre della Chiesa antica (250-356). In basso, nello scomparto di centro, S. Giacomo Apostolo Maggiore, primo evangelizzatore della Spagna, S.Pietro e S. Giovanni Battista. La nuova grande ancona in legno intagliato e dorato che lo incornicia fu eseguita da Giosuè Marchesi nel 1915 su disegno del Fornoni.
Ai suoi lati sono poste due tele raffiguranti: a sinistra S. Antonio da Padova al quale appare sulle nubi il Bambin Gesù fra gli angeli, dipinto nel 1677 (in basso si notano i ritratti dei donatori con lo stemma della famiglia Arioli); a destra S. Giovanni della Croce in estasi davanti alla croce sorretta da un angelo, di autore ignoto.
L’organo fu costruito da Adeodato Bossi nel 1836, restaurato da Francesco Roberti nel 1914 e rinnovato dai Piccinelli nel 1938.
La bella torre campanaria, tutta in blocchi di salso - serizzo rosso locale, fu innalzata dal 1709 al 1712 da tal Gervasoni di Bordogna. Il concerto a cinque campane, già fuso da Giovanni Crespi di Crema e consacrato nel 1846 da mons. Sanguettola vescovo di quella città, dopo la spoliazione dell’ultima guerra fu sostituito con l’attuale concerto in “Do maggiore” fuso da Angelo Ottolina nel 1947 ed inaugurato nel mese di settembre dello stesso anno.
Nel 1932 un rovinoso incendio distrusse quasi tutto l’archivio parrocchiale, ricco di rari documenti e di preziose testimonianze.
Esistono altre due chiesine nel centro abitato: S. Antonio, un delizioso oratorio del ‘700 annesso alla casa Arioli (restaurato di recente) e S. Lucia, altro oratorio situato più a monte, nella contrada dei De Maisis. Fu edificata nel tardo ‘600 per ragioni di boom demografico e per esigenze devozionali. Avere una chiesa vicina a casa piaceva a tutti, perché in essa si trovavano quel tanto d’accoglienza e di sicurezza che la miseria della vita non dava.

Annessa all’asilo infantile la chiesetta di Sant'Antonio è un fabbricato di gusto settecentesco con architettura dipinta a fresco. La facciata rivolta a nord è liscia con motivi decorativi dipinti nella parte alta a modo di timpano sorretto da due mensole con la scritta su cartiglio: ANNO DOMINI MDCCIIL.
La cappella è ad una sola navata, suddivisa in due campate da lesena. Il presbiterio è ampio in larghezza come la navata ed è a pianta ottagonale, coperto da volta a spicchi. Entro una cornice di stucco la bella tela centrale sagomata rappresentante la Vergine con Bambino, e S. Antonio e Tommaso da Villanova. Ai lati due nicchiette con statue dell’Immacolata e s. Teresina.
Verso est si accede alla sacrestia, ove troviamo due tele raffiguranti S.Paolo e S.Luigi.

Posta nella parte alta del paese, discosta dalla strada, la chiesetta di Santa Lucia è preceduta da un piccolo sacrato in cemento a gradoni e presenta la facciata verso nord semplice e liscia, coperta di tetto a gronda in legno a due falde. Notevole la porta in contorno di vivo con ai lati due finestre pure di vivo con ferriata e vetri, ma l’elemento più notevole della facciata è una rozza finestra sopra la porta in contorno di muratura con soli vetri che dà più luce alla piccola navata cui si perviene attraverso detto ingresso.
Il presbiterio ha pianta rettangolare coperto di volta a botte con due strombiature di raccordo alle due finestrelle che si trovano ai lati.
L’altare è in muratura. Le due alzate per candelabri sono in legno traforato e dipinto. L’apertura di porta verso ovest immette alla piccola sacrestia.
Appesi alla parete della navata vi sono due tele con Apostoli. Tra i dipinti ricordiamo la Madonna con Bambino e Santi Rocco, Sebastiano e Lucia di autore ignoto del ‘700, la Vergine Addolorata di ignoto su tela sagomata e S. Andrea e Giuda di ignoto del ‘700.

Per quanto riguarda il tempo libero le opportunità di svago sono rappresentate dai vari percorsi per il trekking che conducono alla scoperta degli alpeggi estivi, della fauna e della flora alpina; non è raro avvistare durante un'escursione in quota splendidi esemplari di camosci e caprioli, oppure ammirare il gallo forcello durante le sue tipiche parate nuziali. In estate Piazzatorre gode di clima fresco e salubre grazie alle immense abetaie che la circondano, qualità che la rendono altamente appetibile per soggiorni di cura climatica e rigenerativa. Gli amanti dello sport possono usufruire di strutture all'avanguardia, che da anni ospitano ritiri di numerose squadre e gruppi sportivi (tra cui l'Atalanta e i pattinatori olimpici Fusar Poli e Margaglio), quali il Centro sportivo polivalente con annessa palestra, il palazzo del ghiaccio di misure olimpioniche aperto tutto l'anno e vari percorsi per le mountain bike.


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