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mercoledì 29 novembre 2017

PAURA DI AMARE

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Ogni essere umano ha paura di qualcosa. 

Molti soggetti sperimentano una paura di innamorarsi, o di instaurare una relazione dove alla base vi sia un innamoramento. 

Tutti noi siamo soliti nel considerare l’amore come un qualcosa di positivo, qualcosa che dà un beneficio alla persona, e non una cosa da cui bisogna stare alla larga.
Eppure varie ricerche hanno messo in luce che un buon numero di individui si dichiarano spaventati di fronte all’innamoramento (Tavormina, 2014).
Infatti sono molti i soggetti che quando si innamorano esperiscono emozioni molto intense: magari ansia (nei momenti in cui non si sa come doversi comportare con il partner o cosa aspettarsi da lui), felicità (quando le cose vanno bene ed entusiasmano), vergogna, rabbia o via dicendo. Comunque molto spesso queste emozioni vengono vissute con un’alta intensità, al punto tale che possono essere percepite dal soggetto che le esperisce come incontrollabili e che prendono il sopravvento sul proprio modo di fare e di pensare.

E per chi soffre di un qualsiasi tipo di fobia è impensabile perdere il controllo della situazione o di se stessi.
Quindi il philofobico non teme l’innamoramento in sé per sé, piuttosto la propria reazione di fronte all’evento, che potrebbe fargli perdere il controllo dei propri comportamenti e delle proprie emozioni e portarlo poi a comportarsi in maniera troppo istintiva e poco razionale.
Inoltre molti individui vedono dietro l’innamorarsi e nel condividere con l’altro i propri sentimenti un “mettersi a nudo”, mostrando quindi all’altro la parte reale di se stessi, quella priva di formalismi e in un certo senso più intima, privata (Manucci, Curto, 2003).



Ed in questi casi il soggetto evita di farsi troppo coinvolgere emotivamente con un’altra persona, in quanto si sentirebbe “invaso” da qualcun altro e perderebbe di conseguenza un po’ i propri spazi, sentendosi in qualche modo sopraffatto.
In ogni caso il risultato è quello che il soggetto, non appena esperisce un certo coinvolgimento emotivo che lo sta legando sentimentalmente ad un’altra persona, si allontana. E come qualsiasi altra fobia che si rispetti evita la situazione temuta.

La paura di amare non sempre è dettata dalle delusioni, dalle aspettative disattese. Le credenze, l’educazione ricevuta, l’influenza genitoriale possono lasciare una traccia indelebile dentro di noi. Credere che la felicità possa durare un attimo e sparire è una convinzione che molte persone vivono a causa di avvenimenti passati che hanno vissuto o sentito con persone per loro importanti. Questo comporta un non riuscire a lasciarsi andare e il rimanere distaccati dalla persona che potrebbe essere fonte di felicità, ma anche di dolore. Ma anche la paura di essere abbandonati non fa altro che rendere la propria vita un inferno, per cui si evita il coinvolgimento emotivo per tutelarsi dalle possibili sofferenze. 

La paura dell’impegno del sentimento, della relazione, del saper gestire emozioni e situazioni nello stesso tempo. Ed ecco l’angoscia che prende il sopravvento soppiantando il sentimento più puro e semplice che è l’amore. 
Ci si rifugia nelle relazioni superficiali, spesso con un passaggio da una donna ad un’altra, da un uomo ad un altro, per poi scappare nel momento in cui ci si accorge che qualcosa sta cambiando e diventa di difficile controllo.
La paura di amare può essere legata al senso di colpa che può nascere dal lasciarsi andare all’altro/a. La colpa che ci attribuiamo è quella di tradire una figura parentale che ha avuto un ruolo fondamentale nella propria vita e i cui insegnamenti sono in netta contrapposizione con i comportamenti che si vorrebbero avere con la persona amata. Colpe immaginarie dovute, il più delle volte, ad autoaccuse erronee e a messaggi distruttivi provenienti dai genitori. Malgrado tale infondatezza ci si autopunisce come se il tutto fosse reale. L’accesso alla felicità diviene così impedito.

Quella grande forza a cui diamo il nome di amore è un potente strumento di conoscenza di chi realmente siamo. L’altro diventa lo specchio attraverso il quale poterci riflettere con il rischio di vedere un’immagine che non ci piace perché lontana da come l’abbiamo sempre pensata.

Per questo la paura d’amare è paura di perdere la bussola, di inoltrarsi in un viaggio di cui non sappiamo quale sia la meta, di intraprendere un percorso in solitaria in cui non possiamo contare su nessun compagno di viaggio se non noi stessi. Ma siamo sicuri che ne valga davvero la pena? O, nel rinunciare a indagare noi stessi, non stiamo facendo altro che mettere un freno al nostro vivere?





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venerdì 30 ottobre 2015

L'INFINITO

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« Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima. »
(Albert Einstein)

Il senso dell'infinito si può già comprendere guardando anche solo il cielo immaginando che lo spazio del cosmo non finisca mai. Alcune illusioni ottiche possono far pensare, per un errore dei sensi o di traduzione del cervello, che ciò che si sta osservando sia infinito, anche la religione ha avuto a che fare con il concetto di infinito fin dai tempi antichi.

Il simbolo dell'infinito rappresenta l'anello di congiunzione spazio-temporale che unisce i vari punti dell'esistenza in un continuo evolversi senza fine, due cerchi (il cerchio rappresenta lo spirito ma anche i cicli della vita come anche il tempo senza fine, come il segno dell'inifinito matematico) che si susseguono senza sosta uno dopo l'altro, a rappresentare la materia che segue lo spirito, lo spirito che segue la materia, generazione dopo generazione. L'otto rappresenta la materia sublimata, formato da 4+4 (il quattro rappresenta simbolicamente la materia poiché indicato dal quadrato che rimane sempre uguale a sé stesso, anche cambiando lato di appoggio, esattamente come la materia è sempre uguale, seppure differente sotto certi aspetti, a sé stessa). Il due volte 4 indica che la materia si ripete anche nel mondo spirituale nel quale trova la sua sublimazione elevata per raggiungere la perfezione.

La grande tradizione della cultura occidentale è caratterizzata fino al Seicento da una visione finitistica: l'universo è finito, ha un diametro molto grande, però è finito.

Una prima rivalutazione dell'infinito si ha con il Romanticismo. Il Romanticismo intese il concetto di ragione come una forza infinita (cioè onnipotente), che abita il mondo e lo domina, e perciò costituisce la sostanza stessa dei mondo. Fichte per la prima volta identificò la ragione con l'Io infinito o Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l'intero mondo è prodotto. L'infinità in questo senso era una infinità di coscienza o di potenza, non un'infinità di estensione o di durata. Hegel, invece, contrapponeva al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito cioè dalla realtà e si contrappone ad esso e cerca di trasformarlo o di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un principio spirituale creativo: quello che Fichte chiamò “Io”, Schelling “Assoluto”, e Hegel “Idea”. Comunque lo si chiami, tuttavia, il principio infinito è unanimemente considerato dai romantici come coscienza, attività, spontaneità, libertà, capacità di creazione incessante. D'altro lato tuttavia può essere inteso in due modi.



L'infinito fu inteso come attività libera amorfa, tale che si pone continuamente al di là di ogni sua determinazione. In questo senso l'infinito viene inteso come sentimento. Schlegel infatti interpretava l'infinito come al di fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Ma se l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell'arte che nella filosofia: giacché la filosofia è razionalità e l'arte appare invece ai romantici come espressione del sentimento. Schelling ritenne appunto che la migliore manifestazione dell'Assoluto, si avesse nell'arte e che perciò l'esperienza artistica fosse per l'uomo a solo mezzo efficace per avvicinarsi all'Assoluto.

Per i romantici, dunque, l'oggetto della conoscenza filosofica è il principio che essi chiamano Assoluto, ossia ciò che esiste incondizionatamente, fondamento del divenire cosmico; tutta la filosofia romantica si preoccupa di fornire le modalità attraverso cui giungere alla conoscenza di questo principio. L'uomo arriva alla comprensione dell'Assoluto attraverso la comunione empatica, una modalità conoscitiva secondo cui è possibile conoscere una determinata cosa perché siamo fatti della stessa sostanza. Tanto noi, quanto la Natura siamo fatti di Assoluto: lo possiamo cercare in noi, come un qualche cosa che ci appartiene, oppure lo si può ritrovare nella Natura: il filosofo romantico scorge in essa i segni, li interpreta con l'aiuto della sua emotività, facendosi guidare dal sentimento dello Streben, un perenne tendere, una tensione che lo spinge a trascendere se stesso, i suoi limiti derivanti dall'essere fisico, ma che non approda ad alcuno sbocco, perché le esperienze umane sono tutte finite. Da qui la Sehnsucht, lo struggimento, il "desiderio dei desiderio": "un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla, un desiderio irrealizzabile perché  indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo" (L. Mittner). Ogni romantico dunque ha sete di infinito; e quello struggimento, che è desiderio irrealizzabile lo è proprio perché ciò che in realtà brama è l'Infinito. Ora, la filosofia deve cogliere e mostrare il nesso dell'infinito coi finito, l'arte lo deve realizzare: l'opera d'arte è l'Infinito che si manifesta nel finito.

Tutte le filosofie romantiche pongono l'Assoluto come un movimento dinamico, un flusso: è il movimento che dà origine alle cose, che ci fa esistere. Tutto dunque nasce da un movimento illimitato a limitato, nasce perché l'infinito si limita: è da questa infinita limitazione che nasce il movimento dell'Assoluto. L'Assoluto quindi attiva continuamente i suoi meccanismi per dirigersi verso il limite e superarlo.



I filosofi che aderirono all'idealismo tedesco, cioè alla tendenza che identifica la realtà con l'io, mentre il mondo esterno è qualificato come non-io, svilupparono notevolmente questo concetto. Fichte ha accentuato l'elemento della soggettività (io): l'atto fondamentale dell'io è la sua scissione in io e non-io, superando la quale l'io giunge di nuovo a sé. Scrive Fichte: "In quanto è Assoluto l'Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è” In questo senso Fichte esalta l'assoluta libertà dell'uomo (dell'io) e la sua capacità di dare forma e legge al mondo. L'agire morale dell'uomo è il suo incessante sforzo di superare il finito.

Schelling supera la concezione fichtiana della natura come limite che l'io pone a se stesso, nel processo del proprio autosuperamento: per lui la natura è invece un primo stadio della vita dell'Assoluto o Spirito. La natura si evolve a partire da uno stadio privo di consapevolezza, verso forme più complesse, fino a raggiungere la piena consapevolezza di sé. Essa è la preistoria dell'io, qualcosa che è in intima comunione con lo Spirito. Organo dell'Assoluto è l'arte: nell'arte, infatti, si rivela l'intima unione di ciò che appare erroneamente separato: natura e storia, azione e pensiero. Nell'opera l'artista rappresenta "un'infinità, che nessun intelletto finito è capace di sviluppare interamente".

Con Hegel il nodo centrale della filosofia diventa il problema di temporalizzare l'Assoluto, di farlo entrare nei processi storici. La storia è allora la progressiva ascesa dello Spirito verso la coscienza di sé, verso lo Spirito Assoluto. L'uomo può conoscere l'Assoluto, può innalzarsi fino ad esso: deve prima però superare le finitezze della coscienza, ed elevare in tal modo l'io empirico a lo trascendentale, a Ragione e Spirito. La Fenomenologia dello Spirito è stata concepita esattamente allo scopo di purificare la coscienza fenomenica e di innalzarla fino al Sapere assoluto. Essa è la via filosofica che conduce la coscienza finita all'Assoluto infinito, e coincide con la via che l'Assoluto stesso ha percorso per giungere fino a sé. Si può dire che nella Fenomenologia, intesa come la via che porta all’Assoluto, l'uomo risulta coinvolto non meno  dell'Assoluto medesimo. Infatti non esiste nell'orizzonte hegeliano il finito staccato dall'infinito, il particolare separato dall'universale, e quindi l'uomo non è staccato e separato dall'Assoluto, ma ne è parte strutturale e determinante, perché l'infinito hegeliano è l'infinito che si fa mediante il finito. L'Assoluto infatti si attua e si realizza come superamento del finito stesso. L'itinerario fenomenologico procede secondo una dialettica di progressiva negazione della fase precedente; tre sono le tappe di questo viaggio, che corrispondono ai tre momenti della tesi, antitesi e sintesi. Inizialmente la coscienza ha consapevolezza della sua sola esistenza; resasi conto dell'inadeguatezza di questa sua determinazione, la coscienza nega il suo essere tale e diventa autocoscienza: ora è in grado di percepire le altre coscienze. L'ultima fase è invece quella in cui l'autocoscienza arriva alla consapevolezza di essere Spirito; quest'ultimo passaggio è mediato dau'arte, dalla religione e finalmente dalla filosofia, che in quanto specchio dello Spirito, permette di giungere all'Assoluto.

Lo Spirito infinito di Hegel è come un circolo in cui il principio e la fine coincidono in maniera dinamica: il punto iniziale è la tesi, il movimento circolare è l'antitesi e i due momenti vengono unificati nella sintesi. L'inizio coincide con la fine perché riattraversa la tesi che è stata arricchita da una negazione, perciò il particolare è risolto nell'universale, l'essere nel dover-essere e il reale nel razionale. L'infinito di Fichte, che può essere visto come una retta in cui l'ostacolo viene spostato e non superato, è per Hegel un cattivo infinito o falso infinito, poiché resta un processo irrisolto, in quanto non raggiunge un fine, uno scopo e l'essere e il dover-essere rimangono scissi. Per questo Hegel affermò che Fichte fosse arrivato solo a una scissione tra lo e non-lo, tra Soggetto e Oggetto, tra finito e infinito; per Hegel invece il vero infinito è un infinito della ragione, non dell'intelletto, il quale non è una retta, ma un circolo, o meglio un processo circolare-. il processo dialettico. Tutta la dialettica di Hegel è continuamente il gioco di sfondare tutto ciò che è finito, di risolverlo in un orizzonte di infinitezza.



Marx muoverà inizialmente la sua filosofia sulla critica al concetto di Assoluto hegeliano: considerato una costruzione astratta che non tiene conto dei fatti in cui agisce l'uomo, Marx distrugge ogni fondamento metafisica. Per lui la storia è solo prassi, principio materiale che corrisponde all'azione degli uomini: venuta a cadere la giustificazione metafisica dell'Assoluto, gli eventi storici risultano frutto di meccanismi terreni, fisici.

Kierkegaard, invece, recupera il concetto di infinito, legandolo però a un ambito decisamente religioso. L'uomo, ente finito, è consapevole di questa sua finitezza e cerca di trascenderla, di superarla. La singola esistenza ha profonda coscienza di essere un'entità finita, destinata perciò a concludersi e a morire. Per sfuggire a questa condizione, il singolo segue l'esempio religioso. La religione, infatti, è la sola che può aprire uno spazio verso l'infinito, altrimenti lontanissimo e irraggiungibile dall'uomo. Mondo reale e mondo infinito non sono in comunicazione costante come in Hegel; sono invece separati, in quanto il primo è proprio dell'uomo, il secondo, invece, della Divinità. Proprio lo spazio dei religioso assume un senso tragico: l'uomo ricorre alla religione per sfuggire alla sua finitezza, per raggiungere l'infinito. Ma il rapporto con la divinità è un rapporto costantemente impari, perché mette l'uomo di fronte al suo essere finito. Ne nasce un sentimento di disperazione cui l'uomo cerca di porre rimedio. Prova dapprima ad accettare se stesso, e quindi la sua finitudine. Ma questo determina una contrapposizione con l'infinito, cioè con Dio, comporta l'eliminazione dei Divino-. l'uomo va allora verso il nulla, verso la morte, e la disperazione non cessa. L'alternativa è cercare di rinunciare a se stesso per coniugarsi con il divino; ma l'uomo non è in grado di sconfiggere la sua finitudine e di divenire infinito. La disperazione quindi non cessa.





venerdì 25 settembre 2015

LE BESTEMMIE



Il verbo blaspheméo significa nella lingua greca insultare, calunniare, bestemmiare: esso infatti e composto da due verbi che significano danneggiare e dire (blapto-phemí). Nel greco profano lo si usava sia nel senso proprio di bestemmia, cioè ingiuria o falsità nei confronti di una divinità, come anche nei confronti delle persone con il senso di calunniare, insultare. Con questi significati il verbo e i sostantivi da esso derivati sono usati anche nella bibbia greca detta dei LXX e nel nuovo testamento. In italiano bestemmiare ha un uso molto più ristretto che nella lingua greca tanto che la traduzione di questo verbo deve servirsi di molte altre parole per renderne il significato.

Nel vocabolario del nuovo testamento il verbo blaspheméo lo si usa in assoluto parlando della vera e propria bestemmia contro Dio e i suoi attributi, ma si usa anche per indicare un atteggiamento che mette in questione le prerogative di Dio.

Gli scribi e i farisei diranno «costui bestemmia» quando Gesù affermerà di rimettere i peccati (Marco 2,7) e uno dei motivi della condanna di Gesù sarà appunto la bestemmia perché Gesù si dichiara giudice escatologico (Marco 14,64). E' bestemmiare anche l'affermare che Gesù non è il messia (Marco 15,29), «Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava...»  Luca 23,39, ed è bestemmia l'abbandono della fede (1 Tim. 1,20). E così bestemmiano gli avversari di Paolo (Rom. 3,8) che lo accusano di essere lui stesso un bestemmiatore.

In ultima analisi secondo il nuovo testamento la bestemmia si rivolge sì contro Dio, ma soprattutto contro il suo Cristo negandone la funzione salvifica. In questo senso va inteso anche l'insulto del "malfattore" appeso con Gesù alla croce.

C'è poi una affermazione sulla bocca di Gesù, che per certi versi è misteriosa, ed è il passo, comune ai vangeli sinottici, con cui egli dichiara imperdonabile la bestemmia contro lo Spirito Santo (Mc 3,28-30). Secondo i più Gesù vuole affermare che chi rifiuta il suo dono di salvezza non potrà essere forzato a riceverlo e renderà così impotente l'azione dello Spirito Santo.

Presso i popoli primitivi esisteva la convinzione che la parola possedesse una forza magica, cioè che fosse in grado di rendere magico l'oggetto interessato, di modificarlo. La funzione antica della bestemmia, così come dell'invettiva e della calunnia vanno compresi alla luce di tale mentalità.

Negli scritti greci profani possono essere indicate come bestemmie le false presentazioni della divinità, per esempio le forme antropomorfe, come pure il dubbio circa la potenza della divinità.

Nel diritto romano la bestemmia non era considerata un reato. Il brocardo "deorum iniuriae diis curae" (delle ingiurie agli dei si occupino gli dei) esprimeva il carattere laico dello stato. Infatti lo stato romano fu sempre caratterizzato dalla presenza di diverse religioni. Solo quando nel 313 il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero la bestemmia fu considerata un grave delitto, da punire con la morte o altre incisive sanzioni penali. Col Codice Giustinianeo del 534 la bestemmia fu sanzionata con la pena di morte.



Nell'Antico Testamento greco il termine blasphemeo dice sempre riferimento, diretto o indiretto, contro la maestà divina, e, con poche eccezioni, indica sempre l'ingiuria a Dio dei popoli nemici di Israele. Alcuni esempi:

Nel paragone con il re di Assur, JHWH è privato di ogni potere, è "reso inferiore", cioè insultato (2 Re).
Quando Israele viene assalito è JHWH che viene bestemmiato (Tobia, 2 Mac).
Quando Edom si felicita della rovina di Israele, insolentisce contro JHWH (Ez).
Dato che per i pagani il Dio d'Israele non è fonte di speranza, essi sono in genere indicati come bestemmiatori di Dio (cf. Dn Versione dei Settanta).

L'espressione di Levitico:

« Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. »
si interpreta nel senso che anche solo menzionare il nome di JHWH è una bestemmia, perché tale nome non deve essere assolutamente pronunciato (Es). Viene comminata la morte non soltanto agli israeliti che bestemmino, ma anche ai pagani (2 Re, 2 Mac, ecc.)

L'affermazione di Giobbe: La collera non ti trasporti alla bestemmia, l'abbondanza dell'espiazione non ti faccia fuorviare, è interpretata da mons. Gianfranco Ravasi nel senso che "anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un'istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall'impotenza che l'uomo avverte per sé".
Il giudaismo conserva in genere la valenza dei testi esaminati della Versione dei Settanta.

I termini legati alla radice di blasfemia compaiono nel Nuovo Testamento 56 volte, di cui 34 nella forma di verbo, senza che ci sia alcun libro nel quale tali voci siano più attestate che in altri. Si tratta sempre di un uso religioso, cioè in riferimento diretto o indiretto a Dio (eccetto Gd): bestemmie contro Dio sono parole o atteggiamenti che offendono la gloria e la santità di Dio.

I significati riscontrati sono i seguenti:

Bestemmia come mancanza contro la maestà di Dio. Può essere contro Dio stesso (At, Ap) o contro il suo nome (Rm, 1Tim, Ap, dove il nome è parafrasi di Dio stesso), come contro la parola di Dio (Tt) o contro gli angeli di Dio (2Pt). Lo stesso Gesù, quando rivendica alla sua parola e alle sue azioni un'autorità messianica e si attribuisce diritti e poteri (per esempio, quello di rimettere i peccati, Lc, Mt), appare agli occhi dei giudei come un bestemmiatore di Dio (Mc, Gv). La sua condanna a morte è basata tra l'altro sulla bestemmia di Dio (Mc e par., Mt). Anche nel tardo giudaismo tale delitto comporta la morte.
Bestemmia come negazione della messianicità di Gesù, a cui consegue l'ingiuria e la derisione (Mc e par., Lc); chi lede la dignità dell'inviato, Gesù, con la bestemmia, pecca contro Dio stesso.
Bestemmia come ingiuria rivolta verso i discepoli di Gesù: la chiesa di Cristo e i suoi membri che testimoniano il Cristo con la loro vita sono oggetto delle ingiurie che avevano colpito il loro Signore (1 Pt, Ap). Allo stesso modo Paolo deve a sua volta patire le persecuzioni che aveva prima consumato contro i cristiani (At, 1 Tim). Bestemmiare la chiesa che porta il nome di Cristo costituisce derisione del Cristo e indirettamente bestemmia contro Dio.
La condotta cattiva dei discepoli può essere occasione di bestemmia contro Dio o contro la sua parola (1 Tim, Tt). La vocazione dei discepoli è quella di contribuire alla glorificazione del Padre (Mt). In questa linea vanno compresi anche i cataloghi dei vizi in cui si trova sempre la condanna della bestemmia (Ef, Col, 1 Tim; 2 Tim). La bestemmia è presentata quale caratteristica specifica dei pagani e dei cristiani apostati.



Giuda parla di una bestemmia contro esseri gloriosi. L'espressione, non chiara, si riferirebbe a propagatori di false dottrine dalla vita libertina, che con la loro immoralità contravvenivano a determinate esigenze rituali e ascetiche delle potenze angeliche, bestemmiando così questi esseri gloriosi.

Il peccato della bestemmia può essere perdonato (Mc, Mt), ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere perdonata (Mc). Tale loghion, di carattere per noi enigmatico, viene interpretato comunemente nel senso che, tra coloro che recano ingiuria allo Spirito Santo vi sono alcuni che, pur riconoscendo l'azione dello Spirito di Dio nell'attività di Gesù, possono (e in questo consiste la bestemmia) scambiare la fede in Dio con la fede nel diavolo; il loghion mette in guardia, con profonda serietà, dal quest'estrema e quasi inimmaginabile possibilità demoniaca dell'uomo di dichiarare guerra a Dio, non in debolezza e in dubbio, ma dopo essere stato sopraffatto dallo Spirito Santo, sapendo quindi con precisione a chi dichiara guerra. Questo bestemmiatore diventa pienamente consapevole nell'incontro con Dio. "Perciò colui che bestemmia lo Spirito impreca non più un Dio Lontano del quale si è fatta un'idea ridicola, ma un Dio che gli ha manifestato la sua opera di grazia convalidata dal segno della rivelazione. Per cui dovrebbe rivolgersi a lui con un atteggiamento di riconoscenza, non di bestemmia".

Al contrario di alcune religioni - fra cui l'Ebraismo - il Corano esorta i suoi fedeli a nominare spesso il nome di Dio (che, in base a una semplice lettura del testo sacro dell'Islam, è Allah, ma anche al-Rahman, ossia "Il misericordioso").

Dunque, nella normale parlata araba e di altre lingue di Paesi di cultura islamica, si usano numerose espressioni e interiezioni che impiegano il termine Allah o i sinonimi relativi all'Essere Supremo: "Se Dio vuole", "Dio mi perdoni", "Mi rifugio in Dio", "Dio ne sa di più" o il noto takbir (Allahu Akbar ) o il semplice Ya Allah! (Oh Dio!).

Accostare il nome di Dio o del profeta Maometto a sostantivi o aggettivi insultanti oppure osceni costituisce nondimeno uno dei principali peccati, sanzionati con la massima durezza dalla giurisprudenza islamica, come avvenne ad esempio, per bestemmie rivolte al profeta dell'Islam, con un folto gruppo di oltranzisti cristiani mozarabi a Cordova (i cosiddetti "Martiri di Cordova") che, all'epoca dell'Emirato dell'omayyade Abd al-Raman II (822-852), si recavano nella moschea principale per rivolgere insulti a Maometto.
Anche più di recente tale grave fattispecie giuridico-religiosa è stata ipotizzata per quanto riguarda la nota opera letteraria di Salman Rushdie "I versi satanici", anche se il reato contestato dai mullah sciiti iranici e dall'Ayatollah Khomeini fu piuttosto quello di apostasia, in punta di principio sciaraitico sanzionabile parimenti con la pena di morte.



La bestemmia ingiuriosa e triviale, in quanto offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici che laici; in questi ultimi, i termini della legge sono stati estesi per tener conto delle sensibilità religiose delle popolazioni immigrate da altri paesi.

In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio, negli Stati Uniti d'America essere perseguiti per questo crimine violerebbe la Costituzione secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza nel caso Joseph Burstyn, Inc contro Wilson. Nel Regno Unito, precisamente in Inghilterra e Galles i reati di blasfemia sono stati aboliti nel 2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione. Nei paesi in cui è in vigore la shari'a ed in altri paesi (come ad esempio il Pakistan), la blasfemia è un reato punibile con la pena di morte.

In luogo del reato di blasfemia, o in aggiunta ad esso, alcuni paesi vietano l'incitazione all'odio su base religiosa, il vilipendio della religione o gli "insulti religiosi". Queste reati si configurano con la citazione in giudizio effettuata da chi si senta offeso nei confronti della propria sensibilità religiosa.

Come tutte le imprecazioni, anche non di natura sacrilega (es. porca miseria, porca puttana), le bestemmie italiane più diffuse accostano l'epiteto porco al nome da profanare: i più tipici esempi sono infatti i nominativi della divinità e della Madonna associati prima o dopo l'elemento lessicale offensivo (spesso tale elemento coincide con il termine riferito al suino, porco o maiale). Essi sono testimoniati anche dalla letteratura contemporanea, in questa forma (Ammaniti, 2004, p. 46) o in alcune varianti (Iddio invece di Dio, Manganelli, 1975, p. 125; mapporco, Scòzzari, 1996, p. 29). Anche Pasolini, nelle opere ispirate alla vita di borgata, riproduce queste bestemmie, ma censurandole in porco d... e porca m...

L'epiteto porco non è però l'unico. Fra le altre bestemmie si ricordano l'uso di termini come bestia, boia, serpente, e cane, quest'ultima specialmente in Italia settentrionale; nella forma dialettale can è il tipico intercalare veneto. Sempre in Veneto sono molto usati "mas-ciò", "lazaròn" e "luamàro" (rispettivamente maiale, lazzarone e letamaio). In Piemonte frequentemente l'epiteto usato è "faus" (falso). Inoltre, tra gli altri epiteti offensivi si nomina "mannaggia" associato prima del nome della divinità (utilizzato specialmente per Cristo e per la Madonna), e "puttana" se la bestemmia è rivolta alla Madonna.



Frequente è il mascheramento del nome venerato in vocaboli assonanti, a volte dotati di significato ("Maremma" per "Madonna"; "zio", oppure "diesel", "due", "duo", "Diaz", "disco", "Dionisio", "Diogene", "Diomede" per "Dio"; "Christian", "Cristoforo", "cristallo", "Cristopher", "cribbio" per "Cristo"), a volte privi di senso ("diu", "dao", "tio", "dino", "dinci", "dindio" ("tacchino" in veneto), "dindo", "disse", "diona", "diose", "madosca", "cristianamento"), e "ostrega" al posto di "ostia".

Fenomeno inverso è la sostituzione dell'epiteto offensivo: essa può tradire l'intento blasfemo (es. "porlo" per "porco", "bo" per "boia") o tradursi in un'espressione ancora forte ma non più ingiuriosa. È il caso dell'eufemismo "perdio", registrato come lemma autonomo dai dizionari, e dei suoi derivati ancora più blandi ("perdinci", "perdiana").

Su questa scia si pongono espressioni che sostituiscono l'epiteto offensivo con sostantivi e aggettivi privi del tradizionale senso di impurità (es. "campanaro", "povero", "cantante", "Carlo"; nell'area modenese e reggiana, però, si nomina un "cantero" che può riferirsi al pitale), quando non, apparentemente, benevoli ("caro", "bono", "bello", "santo", "benedetto", "beato"). Tra gli eufemismi si nomina anche l'associazione tra "Dio" e "Cristo".

Inoltre, vi sono altre espressioni usate per mascherare l'intera bestemmia, utilizzando parole inventate o non, che si basano sulla somiglianza fonetica ("Marcoddio", "Bioparco", il veneto "Orcodì" - dove "dì" sta per "giorno"- ecc.).

L'insegnamento morale della Chiesa cattolica applica il secondo comandamento Non pronunciare il nome di Dio invano alle bestemmie, anzi, vede nella bestemmia un gesto ancora più grave di quello stigmatizzato dal secondo comandamento.

L'imperatore Giustiniano giudicava i bestemmiatori meritevoli di morte più di qualsiasi altro delinquente e Filippo II li faceva affogare con una grossa pietra al collo. Luigi IX faceva forare la lingua dei bestemmiatori con un ferro rovente e diceva che egli stesso si sarebbe sottoposto a tale supplizio pur di eliminare la bestemmia dal suo regno.

Alcuni uomini e padri della Chiesa, autorevoli per la santità della vita nonché per l'alto insegnamento lasciato in eredità alla Chiesa come sant'Agostino d'Ippona, san Girolamo, san Tommaso d'Aquino, san Bernardo da Chiaravalle, san Bernardino da Siena fin dall'antichità hanno ritenuto la bestemmia come il peccato più grave tra tutti i peccati mortali.

Nelle religioni patriarcali, come quelle abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), il corpo e l'istinto naturale animale a livello popolare sono spesso percepiti fortemente negativi e triviali; perciò una tipica bestemmia per queste religioni è l'identificazione con animali quali i suini, oppure ancora come escrementi.

Poiché la bestemmia, nella storia, è stata spesso contrastata da legislazioni mirate a sopprimerne la diffusione, non ne è particolarmente frequente l'uso in letteratura dove, nei rari casi in cui se ne trovano accenni, è spesso censurata o variamente mascherata. L'esempio più eminente è quello dell'opera in francese di Rabelais, scritta a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. Come analizzato dal critico russo Mikhail Bakhtin, l'uso sistematico della bestemmia e del corpo grottesco, nel contesto carnevalesco, ha il significato di una gioiosa celebrazione della vittoria della vita.



Nel nostro ordinamento pronunciare bestemmia è stato, per lungo tempo, un reato penale. Sulle ragioni di questa collocazione particolarmente “severa” è difficile esprimersi in modo univoco, ma si può certamente rilevare che la risalente compenetrazione tra tavola valoriale e principi del cattolicesimo potrebbe aver ragionevolmente influito sul Legislatore del tempo.
Oggi, con l’avvento di una penetrante tendenza alla secolarizzazione, il disvalore sociale della bestemmia si è considerevolmente ridotto. L’esperienza comparatistica restituisce risultati disuniformi: nonostante la bestemmia sia considerata un comportamentto antigiuridico in una significativa parte della comunità internazionale, molti ordinamenti prediligono una più ampia estensione del diritto di espressione (si pensi agli Stati Uniti d’America ). Il Legislatore ha, nell’ambito di un progressivo fenomeno di deflazione del sistema penale, parzialmente eroso la precedente disciplina, riallocando la condotta della “bestemmia” tra gli illeciti amministrativi. L’illecito amministrativo (ad esempio la c.d. “multa per eccesso di velocità”), pur condividendo alcuni profili strutturali con il reato penale (in particolare i principi di personalità, legalità, tassatività, capacità), se ne discosta significativamente per il ridotto disvalore giuridico e per la relativa inferiore entità della pena.
Attualmente l’art. 724 del Codice Penale prevede, per chiunque pronunci bestemmia, la sanzione amministrativa nella misura massima di euro 309. Il precetto ha subito un intervento erosivo della Consulta che, con una pronuncia del 1995, ha espunto il riferimento al credo cattolico come “religione dello Stato”, sulla scorta della modifica dei Patti bilaterali tra Repubblica Italiana e Chiesa Cattolica noti come “Lateranensi”. Quanto al soggetto attivo, l’illecito può essere commesso da chiunque (si trattava in passato di un “reato proprio”) ed, in riferimento al bene giuridico oggetto di tutela, può pacificamente ritenersi che esso si identifichi col sentimento religioso e con la libertà di professione del credo. La norma richiede, ai fini della configurabilità dell’illecito, che la condotta sia tenuta “pubblicamente” e quindi in luoghi accessibili ad altri soggetti. Molto discussa è la possibilità di ritenere la sanzione applicabile nel caso in cui la bestemmia si concretizzi per il tramite di mezzi telematici di comunicazione. La giurisprudenza consolidata considera i “social network” luoghi pubblici. Il tema è tornato agli onori della cronaca a seguito di un generalizzato malcontento dei credenti per il proliferare di siti web e pagine sui social network caratterizzate da contenuti oltraggiosi per il cattolicesimo e, più in generale, per l’altrui sentimento religioso. Nello specifico caso delle pagine sui social network, si era spesso profilato il più grave reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi”, condotta penalmente sanzionata all’art. 415 del Codice Penale con la reclusione da sei mesi a cinque anni. In alcuni siti e pagine web si è manifestata la preoccupante tendenza degli utenti alla realizzazione e condivisione di testi, immagini ed altri file multimediali a contenuto spregiativo nei confronti del sentimento religioso. Assunto che la bestemmia costituisce illecito amministrativo, la condotta del soggetto che, personalmente o telematicamente, istighi o induca altri all’atto di bestemmiare rientra infatti nel perimetro della fattispecie citata del 415 C.P..
L’oggetto della bestemmia era indicato genericamente, nel testo censurato dalla Consulta, in “simboli” e “persone” venerate dalla religione. Nel testo originario si considerava bestemmia, quindi, non solo l’invettiva verbale rivolta alla divinità, ma segnatamente l’oltraggio a simboli del culto (si pensi alla croce) o a soggetti destinatari di venerazione. Eppure, la giurisprudenza di merito ha disatteso le aspettative più rigoriste: il vilipendio alla Vergine è stato infatti in più casi escluso dall’area di punibilità della norma. Tra i tanti, una richiesta di archiviazione in tal senso è stata in passafo accolta dal Tribunale di Bologna, aderendo alla prospettazione che, non trattandosi di divinità in senso stretto, la Madonna non goda delle stesse garanzie di tutela. Nonostante l’intervento erosivo della Corte Costituzionale abbia espunto il riferimento alla “religione dello stato”, de facto la norma è rivolta alla tutela specifica (ed unica) del credo cristiano cattolico.
Già nel 1988 con la storica sentenza n. 925 la Corte Costituzionale aveva denunciato il periglioso vuoto di tutela in relazione alle altre religioni. Allo stato dell’arte, la norma si limita a sanzionare gli abusi ai danni del sentimento religioso cattolico, marginalizzando gli altri credi e mancando di apprestare garanzie uniformi. Il monito della Consulta è passato inascoltato, dato che ad oggi non si sono registrati interventi estensivi della tutela anche alle altre religioni, creando una concreta disparità di trattamento tra i soggetti dell’ordinamento in relazione al loro credo, (mal)giustificabile esclusivamente per ragioni storiche e tradizionali.
I possibili sviluppi de jure condendo si collocano essenzialmente lungo due possibili direttrici: l’abrogazione in toto dell’illecito amministrativo (sull’esempio del Regno Unito, che nel 2008 ha espunto la fattispecie dall’ordinamento) per decomprimere il sofferente diritto di espressione, oppure la riforma della struttura dell’illecito, al fine di apprestare una tutela uniforme ed indifferenziata.

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