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lunedì 21 agosto 2017

DIFFERENZA TRA UOMO E ANIMALE

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“Non saranno Einstein, ma- scrive Stanley Coren- sono di sicuro molto più del previsto simile a noi”. “Più conosco gli uomini, più amo i cani” (M.de Savignè).


Nel XVII secolo Cartesio, iniziatore del razionalismo moderno, stabilì che solo l’uomo è un essere razionale, ponendo come principio del sapere il “cogito ergo sum”, cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza. Decretò poi un netto dualismo tra pensiero -“res cogitans”- e materia- “res extensa”. Gli animali, per il filosofo francese, non agiscono “per conoscenza, ma soltanto per la disposizione dei loro organi”.

Il comportamento animale sembra riecheggiare il nostro. L’uomo però è l’unico animale ad arrossire e a vergognarsi. Ed è pure- rileva Mark Twain- l’unico “che ne ha bisogno”.

Il cervello e il sapere scientifico tuttavia sono una lama a doppio taglio. Possono essere usati per propositi nobili o per propositi meschini, personali o ignobili. Di qui, l’esigenza di un nuovo umanesimo, il cui fine è quello di realizzare il benessere mentale e fisico della persona, che è il motore che traina l’evoluzione della civiltà. Una civiltà più umana e umanizzante. Che possa affermare il primato dell’empatia, della solidarietà e del bene rispetto all’egoismo e alla malvagità.
Un prezioso contributo alla costruzione di questo processo può essere offerto dalla capacità dell’essere umano di riuscire a conoscere, apprendere e tesaurizzare lo straordinario dono di affezione, dedizione e tenerezza del nostro cucciolo. Sentimenti che purtroppo non albergano in tutti gli uomini. In molti prevalgono l’odio e il rancore, l’insensibilità e un’arrogante ignoranza.

Superando la propria condizione biologica, l’uomo è chiamato ad aprirsi alla conoscenza di nuove dimensioni, ha ricordato Benedetto XVI in un’omelia del 9 marzo 2008. Anche gli animali conoscono – ha proseguito il Papa – “ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica”. A differenza degli animali, l’uomo invece “ha sete di una conoscenza dell’infinito”.

Queste parole del Papa rappresentano un orientamento per la cultura dei nostri giorni, rispetto alla scottante e non sempre chiara questione dell’uomo e dell’animale.

Un esempio di questa situazione di confusione, nel contesto spagnolo, è dato dalla mozione dell’11 aprile 2006 della Camera dei deputati spagnola, con la quale si invita il Governo ad aderire al progetto “gran simio” (“grande scimmia”), ideato dagli animalisti Peter Singer e Paola Cavalieri, per promuovere la parità di condizioni giuridiche tra tutti i componenti della “comunità dei simili”, composta dai grandi antropoidi e dagli esseri umani.

L’uomo vive in genere nelle grandi città, dove gli animali sono confinati negli zoo, nei circhi o tenuti nei salotti di casa. Solo in campagna possiamo ancora credere che gli animali aiutino l’uomo nel suo lavoro e siano per lui fonte di alimentazione, compagni di lavoro, amici. Quello che interessa all’uomo d’oggi è la tecnologia che egli stesso costruisce. 

Paradossalmente però, più l’uomo sembra allontanarsi dall’animale, più cerca di avvicinarselo : ed ecco allora l’invenzione di teorie che sostengono la completa - o quasi – identità tra l’uomo e l’animale, come la sociobiologia, e il sorgere, su un altro versante, dei movimenti ecologisti, le società protettrici degli animali, le lotte contro la vivisezione ecc. 

Nel mondo greco  Aristotele (384-322 a.C.) dedicò diverse opere agli animali ed esse sono il primo grandioso tentativo sistematico e scientifico, nel senso moderno del termine, di dire qualcosa di valido “oggettivamente” su di essi e sull’uomo. 
Aristotele divise gli animali in due grandi gruppi : i sanguigni (che corrispondono più o meno ai nostri vertebrati) e i non sanguigni (i nostri invertebrati). I sanguigni si dividono a loro volta in vivipari (= mammiferi), ovipari (= rettili e uccelli) e ovovivipari (= pesci), mentre i non sanguigni si dividono in cefalopodi, crostacei, insetti e gasteropodi. 
In quanto poi alla distinzione tra l’uomo e l’animale, Aristotele ritiene che vi siano parecchie differenze: ad esempio l’uomo è l’unico ad avere posizione eretta, l’uomo è l’unico che ride, che ha la capacità di deliberare, che ha il linguaggio, che ha, in ultimo, la capacità di essere felice. 

Dopo i Greci, nel pensiero ebraico-cristiano è ulteriormente ribadita la distinzione tra uomo e animale. Comunque per la Bibbia il destino degli animali e dell’uomo è strettamente legato. Gli animali hanno una propria dignità che la Scrittura sottolinea più volte (ad es. il sabato tutti gli animali hanno diritto di riposare). Pur essendo solo l’uomo “ad immagine e somiglianza di Dio”, l’uomo non deve trattare gli animali con disprezzo : è anzi responsabile di ogni malvagità commessa nei confronti degli animali e del mondo che lo circonda.  

Tutto ciò che è seguito, nella storia dell’Occidente, è stato influenzato, direttamente o indirettamente, da queste concezioni. Nell’Ottocento, con Darwin, viene avanzato l’ipotesi dell’origine dell’uomo da forme di vita più semplici. Per alcuni poi tra l’uomo e l’animale vi è solo una differenza di quantità e non di qualità. Fino a quasi tutto l’Ottocento si è comunque cercato di spiegare l’animale e l’uomo guardando all’indietro, cercando qualcosa di più semplice a cui l’uomo potesse essere ricondotto o addirittura ridotto. Verso la fine dell’Ottocento si fa invece strada un’ipotesi del tutto diversa, e cioè che l’uomo e l’animale siano degli abbozzi di essere, cioè che essi siano soltanto una tappa verso una forma diversa di essere a cui tendono in futuro (Bergson, Blondel ecc.).  

Alcuni autori considerano l’animale umano come parte di un “continuum” con gli altri animali, mentre altri riconoscono una “netta divisione” fra umani e animali. Gli studi finora riconoscono le enormi differenze presenti tra la mente e il cervello dell’uomo e le strutture cerebrali dei non umani.
Invero, per lungo tempo gli animali sono stati considerati come misteriose entità, assumendo il significato di simboli religiosi (per gli Egizi), simboli moralistici (favole di Esopo), espressione della creazione divina (S. Francesco), oggetto di divertimento venatorio (Federico II di Svevia), macchine insensibili (Cartesio).
Con Darwin, il comportamento viene per la prima volta considerato un carattere della specie, che si è affermato a seguito di un processo evolutivo. Egli fu anche il primo a dare importanza alle attività psichiche degli animali e ad affrontare scientificamente il problema dell’istinto e dell’apprendimento.
Gli esseri umani hanno una capacità “innata” di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, intuizioni, credenze e stati mentali diversi. Questa capacità è stata chiamata per la prima volta “teoria della mente” (TOM) nel 1978 da David Premack. La qualità di osservare il comportamento altrui e inferire gli stati mentali interiori è già presente nei bambini di quattro-cinque anni di età. Ci sono addirittura indici della presenza della TOM persino prima dei due anni di età (Striedter). I soggetti che presentano sindrome di autismo hanno deficit legati alla teoria della mente e ai neuroni specchio.
Oggi la più grande sfida della nuova scienza del cervello è quella di scoprire in che modo funziona la mente. La maggior parte dei processi cerebrali ha luogo senza che noi ne siamo consapevoli (Posner). La funzione del cervello, infatti, presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade a livello cosciente e ciò che accade a livello non cosciente.
In realtà, la coscienza è un fenomeno che riguarda la dimensione soggettiva, introspettiva dell’essere umano, riguarda i suoi stati d’animo. I quali purtroppo non ci possono dare una risposta certa, poiché gli stati d’animo- chiamati “qualia” dai neuro scienziati- “non sono misurabili in maniera oggettiva” (Dehaene).
Ci sono dunque autori che affermano che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione scientifica, ossia che è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso i neuroni, le sinapsi o i neurotrasmettitori. “Ignoramus ignorabimus”: siamo condannati all’ignoranza eterna? Non è assolutamente così. Ci sono in effetti altri studiosi che ritengono che possa essere possibile decifrare quell’elemento così “unico” che chiamiamo coscienza. Tentare allora di avvicinarci alla mente e alla coscienza con i metodi scientifici rappresenta un’impresa persino più fantastica e affascinante.
In questi ultimi anni, le nostre conoscenze sul cervello sono progredite enormemente, soprattutto in virtù degli eccezionali avanzamenti delle metodiche di neuro imaging funzionale. Prima gli studi negli anni Ottanta del secolo scorso di Francis Crick con l’opera “La scienza e l’anima” poi le ricerche di Edelman, Kandel, Damasio, Gazzaniga e tanti altri, hanno definitivamente sancito che lo studio scientifico delle basi neurali della coscienza e della mente è “empiricamente possibile sul piano teorico e sperimentale” (Gazzaniga).



Gli esperimenti condotti sugli animali dunque rappresentano il miglior modo di studiare il cervello e la mente umana. Le ricerche mostrano che esistono molti livelli di coscienza. E’ generalmente accettato- scrive Gazzaniga- che i mammiferi “siano coscienti del qui e adesso”. La questione principale tuttavia è che non siamo in grado di elaborare un esperimento che possa valutare il grado di coscienza di un animale non verbale. Anche se non possiamo fare esperienza della coscienza dei membri di altre specie, possiamo inferire che animali come i cani “siano coscienti” (Edelman). Questa affermazione si basa sul loro comportamento e sulla “stretta somiglianza tra il loro cervello e il nostro”.
I cani e altri mammiferi sono dotati di “coscienza primaria”, che è consapevolezza delle cose del mondo “hic et nunc”. Un po’ come l’illuminazione di una stanza buia da parte di un raggio di luce. Non sono “coscienti di essere coscienti”. Non sono dotati cioè di coscienza di “ordine superiore” come noi. Gli scimpanzé possono usare simboli, facoltà che potrebbe rivelare l’esistenza di un segno di “coscienza superiore” (coscienza di coscienza).
Per coscienza intendiamo la capacità di possedere un certo livello di autoconsapevolezza. Ciò significa essere oggetto della propria attenzione. Si va dal semplice essere consapevoli degli stimoli ambientali- “Io sento la musica delle onde del mare”- sino alla possibilità di “concettualizzare” le informazioni su di sé che necessitano di essere determinate in maniera astratta- “Io sono un soggetto romantico”-. Gli studiosi si sono concentrati su due ambiti: l’autoconsapevolezza animale e la metacognizione animale, cioè pensare di pensare.
Analizzando l’autoconsapevolezza animale, Marc Hauser scrive che “tutti gli organismi sociali che si riproducono sessualmente sembrano essere dotati di meccanismi neurali per discriminare i maschi dalle femmine, i cuccioli dagli adulti e i parenti dagli estranei”.
Molti sistemi differenti si sono evoluti per aiutarci- chiarisce Gazzaniga- a identificare i parenti dagli estranei. Un sistema che molti uccelli possiedono è l’imprinting. Il primo individuo che vedono è la madre. Le api e le vespe riconoscono la loro colonia dall’odore, gli scoiattoli utilizzano l’odore per il riconoscimento e i pipistrelli riconoscono i loro piccoli tra migliaia di altri attraverso la comunicazione vocale e olfattiva (J.M.Mateo).
Gli esperimenti attuali mostrano che gli animali non hanno memoria episodica e non sono in grado di “viaggiare nel tempo” con l’immaginazione. Di recente, alcuni studi hanno cercato prove dell’esistenza di forme di metacognizione animale nei ratti. Le prospettive sono attraenti, ma necessitano di ulteriori verifiche.
Invero, dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali si sta rivelando un compito complesso, delicato e difficile. Attribuire agli animali azioni coscienti costituisce una forte tentazione, è qualcosa che affascina.
Finora, il problema è stato affrontato da due prospettive diverse. Una si basa sull’auto riconoscimento allo specchio, l’altra sull’imitazione. Lo scienziato Gordon Gallup ha esaminato il problema, realizzando un test durante il quale anestetizzava alcuni scimpanzé, metteva loro un segno rosso su di un orecchio e sul sopracciglio e poi, quando si erano ripresi dall’anestesia, li metteva davanti a uno specchio. Prima non toccavano i loro segni rossi, ma una volta che veniva presentato loro lo specchio gli scimpanzé lo facevano. Lasciati davanti allo specchio, dopo un po’ cominciavano a osservare parti del loro corpo. Non tutti gli scimpanzé manifestavano tuttavia la capacità di riconoscersi allo specchio (MSR). Due delfini e uno su cinque elefanti, testati in due studi diversi, hanno anch’essi superato il test del segno rosso (Povinelli).
La capacità di auto riconoscersi nei primati, nei delfini e negli elefanti denota un’evoluzione convergente dovuta all’interazione di fattori biologici con fattori ambientali (Gallup). Essa implica altresì che il soggetto è in grado di compiere un’astrazione. E’ capace di “razionalizzare” (Anderson).
Altre specie animali che dimostrino di possedere una MSR finora non sono state trovate. Questo è il motivo per cui il nostro cucciolo Kimi non sembra affatto interessato quando cerchiamo di farlo guardare allo specchio. L’ipotesi di Gallup è che l’auto riconoscimento allo specchio implica la presenza di un concetto di sé e un’autoconsapevolezza. I bambini superano il test del segno rosso all’età di due anni, dimostrando di avere la MSR.
L’altra prospettiva per dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali è l’imitazione. Se si è capaci di imitare le azioni altrui, allora- sostiene Joseph Call, che ha analizzato lo stato attuale della ricerca in questo campo- si è anche capaci di distinguere tra le proprie azioni e quelle dell’altro.
Esistono evidenze di imitazione nel mondo animale. La maggior parte delle prove nei primati tuttavia indica una capacità di “riprodurre” il risultato di un’azione, non di “imitare” l’azione in sé. Alcune ricerche rivelano la presenza di un comportamento di “pianificazione” negli oranghi, nei bonobo (Mulcahy,Call) e nelle ghiandaie (Clayton). Le quali nascondono diversi tipi di cibo in luoghi differenti, in momenti diversi e vanno poi a ricercare il cibo in maniera selettiva, cercando prima il cibo che deperisce, e mangiandolo, rispetto al cibo che si conserva meglio. I risultati di questi studi suggeriscono che la pianificazione “non è una capacità unicamente umana”.
Al centro della ricerca neuro scientifica c’è l’esigenza di capire in che modo la coscienza si sviluppa e da dove viene, quali sono cioè le sue origini filogenetiche. Gli studi sperimentali degli istinti animali mostrano che i primi “segni” di coscienza si manifestano nel regno animale, a partire dalle “emozioni primordiali” come la sete, la fame, il bisogno d’aria, il desiderio sessuale, l’appetito per i soli minerali. Queste emozioni- rileva Denton- sono indispensabili alla sopravvivenza degli organismi viventi.
Le ricerche sugli animali- dagli insetti ai polpi, dai pesci ai vertebrati- dimostrano che l’emozione primordiale di questi bisogni e la loro gratificazione costituiscono “una pietra miliare” sul percorso che porta alla nascita della coscienza. Le emozioni primordiali formerebbero una sorta di primo “Sé” per arrivare poi all’elaborazione di quella che Denton chiama una “scena interiore” della coscienza. La quale è la capacità di riconoscere la “differenza” tra i propri pensieri e le informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno (Brentano).
L’idea avanzata da molti scienziati è che le emozioni primordiali costituiscano la prima comparsa della coscienza (Damasio). Questo assunto mostra che la coscienza non è una facoltà esclusivamente umana.
Le dimostrazioni condotte da Derek Denton ci offrono un’analisi precisa dei diversi comportamenti osservati negli animali. Comportamenti che hanno portato gli scienziati a formulare stupefacenti domande. Le api, per esempio, possiedono una coscienza collettiva? Il pesce può soffrire? Qual è la differenza tra la coscienza di un polpo e quella di un mammifero? Che cosa succede nel nostro cervello quando proviamo la sensazione di avere sete, quando beviamo e quando ci siamo dissetati? E che cosa accade con l’orgasmo? Presenta tratti in comune con la soddisfazione della sete?
Il neuroscienziato Denton riporta un caso illuminante. Una rana in stato di disidratazione viene collocata a pochi centimetri da una vasca d’acqua. Non farà nulla per cercarla e si lascerà morire. Posta nelle stesse condizioni, una lucertola invece cercherà l’acqua, la scoprirà e la berrà. Le strategie elaborate poi da un piccolo mammifero saranno ancora più sofisticate di quelle della lucertola.
La ricerca di una fonte d’acqua, in realtà, richiede molteplici conoscenze: la mappa dell’ambiente, il punto in cui si trova l’acqua, il tragitto da compiere, l’eventuale presenza di predatori. Queste operazioni sono attivate dalle connessioni neurali, le quali contribuiscono a “collegare” le molte aree cerebrali implicate. Si sviluppa così un sistema di “integrazione” che centralizza le informazioni, creando uno spazio nel quale- grazie alla corteccia cerebrale- si elabora una “pianificazione cosciente” dei comportamenti a venire. Le emozioni primordiali dunque svolgono un ruolo cruciale negli stati di coscienza.
Una delle qualità essenziali della mente è il possesso della facoltà di utilizzare “simboli” (Kenny). A questo proposito Donald Griffin, un autore che ha un ruolo fondamentale nell’aver posto in primo piano il tema della coscienza negli animali, cita il simbolismo insito nella danza delle api- “waggle dance”. E’ l’attività dell’ape a fare della sua danza un mezzo di comunicazione simbolica, come la ricerca di una nuova dimora, la ricognizione di luoghi e fonti di cibo o la ricerca di informazioni sulla qualità, la direzione e la distanza del luogo. Questi comportamenti evidenziano che le api sono in grado di esprimere “pensieri semplici”.
Le informazioni sensoriali e la categorizzazione percettiva di segnali visivi portano in sostanza alla definizione di coscienza, che è la capacità di costruire- secondo Edelman- una “scena mentale integrata” nel presente. Circa i processi cognitivi di apprendimento e memoria, esperimenti condotti sulle attitudini cognitive dei piccioni hanno rivelato che questi uccelli sono capaci di distinguere i colori e a riconoscere, tra decine di fotografie, quelle che ritraggono figure umane, alberi o palazzi (Herrnstein). I pulcini invece imparano ad evitare di ingerire cibo o di bere un liquido dal sapore amaro.
L’idea che nei pesci possa esistere qualche forma di coscienza è contestata da J.D.Rose, il quale basa il suo pensiero sul fatto che i pesci non possono provare dolore. E’ valutazione condivisa che per esprimere il dolore occorre essere coscienti. La consapevolezza del dolore dipende da specifiche regioni cerebrali. Nei pesci queste regioni mancano, ragione per cui mancano i requisiti neurali necessari per sentire il dolore.



L’argomento dei fenomeni mentali nei rettili, animali che costituiscono la derivazione di un ceppo ancestrale da cui sono discesi sia i mammiferi sia gli uccelli, è stato affrontato in particolare da Gordon Burghardt, il quale sostiene che i rettili dovrebbero essere studiati quali “precursori filogenetici” di tutti gli animali dotati di comportamenti complessi. E’ stato lo studioso G.G.Romanes, amico di Darwin, ad attribuire ai rettili “emozioni e intelletto”. Quando avverte la presenza di un predatore, il serpente “Heterodon nasicu”, ha osservato Burghardt, simula la morte, resta immobile, la bocca aperta, la lingua stesa in fuori e la sua respirazione sembrerà cessata. Risposte di immobilità sono state osservate anche in molti mammiferi e in uccelli. Con la simulazione della morte nel serpente, si ottengono dati sperimentali che “concordano” con le ipotesi di Griffin di uno stato di coscienza negli animali.
Gli esperimenti compiuti da J.S.Beritoff sulla memoria delle immagini nel cane e sui comportamenti di lucertole, tartarughe, uccelli, babbuini e gatti mostrano che i loro atteggiamenti intenzionali sono indice di “una immagine mentale” e dunque sono espressione di una “coscienza”.
L’idea di intenzione, così come l’idea di obiettivo, è per Longuet-Higgins “parte integrante del concetto di mente”. Si può quindi ritenere che un organismo capace di avere “intenzioni” possegga “una mente” per elaborare un piano e prendere una decisione.
Oggi, è abbastanza comune fra gli scienziati- Young, Hebb e Hoch- considerare le risposte di un animale “il possibile prodotto di processi coscienti e di processi mentali”.
Già Darwin aveva osservato molti aspetti del comportamento animale, in particolare le emozioni, come riflessi di “stati coscienti”. Come osserva Miriam Rothschild, chiunque metta in dubbio la capacità degli animali di provare emozioni dovrebbe provare a portare un cane dal veterinario dopo che ci è già stato una prima volta. 
I dati ottenuti da Changeux e colleghi fanno inoltre ritenere che anche i topi dimostrano un comportamento complesso volto al raggiungimento di un obiettivo. Il concetto di Griffin, forse il massimo esponente in materia, è di una coscienza negli animali (rectius: in molti animali c’è un certo livello di coscienza) sia l’idea di altri autori come Longuett-Higgins sul comportamento intenzionale quale espressione di “un’immagine mentale”.
Per comprendere in maniera ancora più chiara la questione, diciamo che la funzione della coscienza è subordinata al fatto di essere “innestata” in un corpo, cioè alla consapevolezza del proprio stato corporeo in relazione a ciò che ci succede intorno. E’ lo stato corporeo che genera sensazioni e sentimenti. E la coscienza è costituita da sensazioni. Ciò fa ritenere che qualsiasi animale dotato di un tronco encefalico sia in grado di servirsi della coscienza.
Tutti i mammiferi hanno un tronco con nuclei e connessioni strutturati pressappoco come i nuclei umani (Solms, Turnbull). Vi sono buoni motivi per stimare che cani, gatti pinguini, balene, ratti e topolini possiedano una coscienza. Le stesse strutture elementari rendono un topo e un essere umano egualmente capaci di distinguere tra ciò che è “buono” e ciò che è “cattivo”. I topi, ad esempio, possono sentire un eccitante piacere quando si aspettano il soddisfacimento di un bisogno; provano paura in presenza di un nemico; sentono rabbia quando viene loro impedito il raggiungimento di una meta desiderata; soffrono se vengono separati dalla madre o dai propri simili, e così via.
Esistono, al riguardo, percezioni e reazioni affettive in larga parte di tipo innato e universale. Queste reazioni affettive vengono chiamate “emozioni di base”. La vista di un serpente, per esempio, determina sia nell’uomo che nel cane un sentimento di paura.
Noi condividiamo con tutti gli altri mammiferi tali “emozioni di base”. I cani, i gatti, i delfini, le balene, i ratti, i topi: tutti possiedono i meccanismi adattativi, cioè le “emozioni di base”. Le quali sono per l’appunto gli elementi costitutivi della coscienza. 
Vi sono tuttavia livelli “superiori” di coscienza, come “coscienza di coscienza”, che non condividiamo con gli altri mammiferi.
Oggi, gli studi più recenti che cercano prove di una qualche forma di metacognizione animale sono attraenti, ma necessitano di ulteriori approfondimenti prima che se ne possano trarre conclusioni definitive. Il fatto è che il nostro cervello- per usare una bella immagine di Gazzaniga- è simile a “un organo a canne, che suona la sua musica tutto il giorno e ha molte melodie da suonare”, mentre il cervello dell’animale ne ha poche. Più cose allora sappiamo, migliore è “il concerto”.
Le scimmie- è una grande scoperta di questi anni- possiedono i neuroni specchio. I quali sono stati localizzati per la prima volta proprio nel cervello delle scimmie. Essi si attivano quando, ad esempio, una scimmia afferra un attrezzo; ma si attivano anche quando la scimmia guarda un’altra scimmia afferrare l’oggetto. Il sistema dei neuroni specchio è alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui, rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione.
Gli animali perciò apprendono la cultura. Uno studio ha mostrato che almeno 39 tipi di comportamenti diversi negli scimpanzé sono effetti della cultura.
Il colore, definito da Kandinsky “un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, ha un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle sue ricerche, Humphrey ha scoperto che le scimmie “rhesus” di fronte alla luce rossa hanno “forti risposte emozionali”: diventano ” ansiose, irrequiete e agitate”, mentre quando la luce è blu divengono tranquille. Nell’ordine, esse preferivano il blu al verde, il verde al giallo. il giallo al rosso. In genere, anche gli esseri umani mostrano gli stessi comportamenti. Descrivono la sensazione del rosso come “forte, calda, eccitante e disturbante”. Si è scoperto altresì che la luce rossa suscita comportamenti aggressivi e litigiosi (Porter), nonché sintomi fisiologici dell’eccitazione sessuale.
A livello generale, i nostri cervelli e quelli degli scimpanzé sono strutturati in maniera quasi “identica” (Marcus). Entrambi hanno cortecce occipitali nel retro del capo, dove analizzano le informazioni. Entrambi poi hanno i cervelli suddivisi in emisfero destro e sinistro.
Dal punto di vista evolutivo, ci siamo separati dagli scimpanzé solo di recente, forse solo dai 4 ai 7 milioni di anni fa (Brunet) rispetto ai circa 85 milioni di anni da quando esistono i primati (Tavare e Martin). Il linguaggio e la mente umana vengono da quell’1,5 per cento di materiale genetico che ci separa dagli scimpanzé, ma anche dal 98,5 per cento che è condiviso.
Gli umani e le grandi scimmie, come gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, si sono evoluti tutti – afferma Gazzaniga- da “un antenato comune”. L’essere umano è l’unico ominide sopravvissuto del ramo originario separatosi dall’antenato comune con lo scimpanzé. E’ il caso di Lucy, fossile trovato nel 1974 che sconvolse il mondo della scienza in quanto bipede, ma priva di un cervello di grandi dimensioni.
Nel tempo, la nostra anatomia corporea è cambiata, fornendo le basi necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche che ci rendono unici. Il bipedismo ha reso le mani libere di agire. I nostri pollici arcuabili e opponibili ci hanno permesso di sviluppare la migliore coordinazione motoria tra le specie. La nostra laringe poi ci ha permesso di emettere un numero infinito di suoni che noi utilizziamo nel linguaggio. Altri cambiamenti sono avvenuti inoltre nel nostro cervello, cambiamenti che ci hanno permesso di comprendere che gli altri hanno pensieri, credenze e desideri.
Anche gli uccelli, come le api e gli altri animali, mostrano attitudini all’apprendimento. Nei loro cervelli vi sono regioni associate al rilevamento del gusto, dell’odore e del suono, al movimento, alla memoria spaziale e all’apprendimento del canto. Alcuni uccelli come i canarini possono imparare un numero di canti sottilmente differenti. Altre specie- le cince e le ghiandaie- sono capaci di fare scorta di centinaia di alimenti differenti durante l’estate per poi farne uso durante l’inverno. Sembra che imparare una canzone richieda sistemi neurali diversi nell’uccello canoro.
I castori costruiscono dighe e proteggono il loro confine con ramoscelli e fango, mentre i ragni filano le ragnatele. La lumaca raccoglie il calcio dal suo cibo e lo usa per secernere una conchiglia. A sua volta, il paguro si procura una conchiglia di calcio già fatta. L’organizzazione di una colonia di termiti è così meravigliosa che alcuni osservatori hanno pensato che ogni colonia deve avere un’anima (Marais).
Ci sono specie che riescono a colpirci per la loro capacità di “godersi la vita e divertirsi”. Pensiamo alle lontre, le quali si rotolano gaie nella neve, ai leoncini che si danno la caccia e ai nostri cani e gatti.
Con gli altri animali condividiamo inoltre la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del nostro cervello. Affermare- come fa il neuroscienziato Gazzaniga- che siamo “differenti” e unici nel regno animale, è una cosa ovvia, quasi banale.
Sta di fatto che gli animali presentano sin dalla loro comparsa istinti innati. I pulcini, ad esempio, appena usciti dal guscio sembrano avere la “permanenza” degli oggetti (Regolin). Piccoli cuccioli di Labrador possono seguire lo sguardo dei loro padroni (Coppinger). I cavalli sanno controllare i propri muscoli abbastanza bene da saper camminare già pochi minuti dopo la nascita. Anche i comportamenti più complessi sembrano innati. Nella danza di corteggiamento del maschio di un moscerino della frutta, per esempio, il piccolo animale esegue una sequenza di eventi che non ha mai visto prima.
I riflessi di auto-igiene di molti animali obbediscono spesso a comportamenti prefissati. Un topo inizia con il capo, procede verso il tronco e la regione ano-genitale e finisce con la coda (Sachs). Molti, forse tutti, gli animali non solo nascono con la capacità di percepire e agire, ma anche con la capacità di imparare e di utilizzare le esperienze passate per migliorare i comportamenti futuri (Marcus). Un comportamento che Marler ha definito “l’istinto a imparare”.
Il mondo animale- afferma Gallistel- è pieno di attitudini all’apprendimento. Pensiamo al comportamento di un uccello chiamato “ministro”, il quale usa le stelle come una carta nautica per trascorrere l’estate negli Stati Uniti e svernare alle Bahamas. Le api a loro volta utilizzano un meccanismo di apprendimento per aiutarsi a comprendere dove stiano andando, basandosi sulla traiettoria del sole. Due studiosi dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di riflettere sui propri pensieri. Capacità che viene chiamata metacognizione.Gli studi di Kandel sulla lumaca marina “Aplysia” sono stati fondamentali per indagare le basi neurali dell’apprendimento e della memoria. Anche la ricerca sul Moscerino della frutta “Drosophila” è stata determinante ai fini della conoscenza del comportamento e del funzionamento del cervello.



Ci sono comportamenti comuni che condividiamo con altre specie. Ci arrabbiamo di fronte alle violazioni di proprietà o agli attacchi alla nostra coalizione intenta a raccogliere cibo, proprio come fanno i cani e gli scimpanzé. In questo senso, noi diciamo che alcuni animali possiedono una “moralità imitativa” (Gazzaniga). La principale differenza consiste nel fatto che gli esseri umani possiedono una maggiore qualità, quantità e varietà di emozioni morali, come per esempio, la vergogna, il senso di colpa, il disgusto, il disprezzo, l’empatia, la compassione, nonché una maggiore varietà di comportamenti.
La ricerca mostra che in realtà esiste la possibilità che alcune capacità che sottendono la nostra facoltà morale siano presenti in animali non umani. Gli animali provano emozioni che motivano azioni che “possiedono una specificità morale”, come aiutare, danneggiare gli altri, così come riconciliare le differenze allo scopo di “ottenere un po’ di pace” (Hauser).
Intendiamo per empatia un sistema simile a quello dei neuroni specchio, che implica la capacità di provare la stessa cosa che prova qualcun altro. L’evidenza di forme di auto riconoscimento nei delfini denota un nesso tra imitazione, empatia e senso del sé. Anche agli elefanti vengono associati comportamenti sociali e comportamenti empatici.

Alcuni esperimenti condotti hanno riscontrato che se provvisti di matite o colori, gli scimpanzé si appassionavano nell’utilizzarli, fino al punto di trascurare addirittura “i loro cibi preferiti”. Ad alcuni di essi piace disegnare. Una serie di dipinti fatti da uno scimpanzé è stata venduta all’asta per “dodicimila sterline” (Gazzaniga). In letteratura scientifica c’è anche il caso dell’uccello giardiniere, che ha “eccellenti doti” di architetto e artista, in quanto per attirare la femmina costruisce grandi giardini multicolori di steli intrecciati (Ramachandran).

Per ansia, intendiamo una normale risposta innata a una minaccia o all’assenza di persone o di oggetti che assicurino o trasmettano sicurezza. Essa si manifesta in forma sia soggettiva- che va da un accentuato stato di vigilanza al senso di catastrofe imminente- che oggettiva come marcata reattività, stato di irrequietezza, modificazioni neurovegetative (variazione della frequenza cardiaca e della pressione del sangue).
L’ansia può avere un valore di adattamento, preparandoci ad affrontare un potenziale pericolo e a farci superare circostanze difficili. Quando diventa forte e persistente, l’ansia è patologica. Questa patologia inoltre è una componente dei disturbi psicotici e nevrotici.
Il disturbo d’ansia è stato studiato, impiegando modelli animali. L’ansia è una condizione tipicamente umana, ma è stato scoperto che anche animali meno complessi possono apprendere una risposta ansiosa. Forme d’ansia sono state studiate in animali come i ratti e le scimmie. Quello che è sorprendente è la scoperta di Kandel, neuro scienziato e premio Nobel, che anche animali più semplici, come la lumaca marina, “Aplysia”, vanno incontro a modificazioni comportamentali.
In modo simile a quanto avviene nell’uomo, gli animali mostrano comportamenti che evocano l’ansia anticipatoria (la paura). Recenti scoperte mostrano che “qualunque” forma di ansia si manifesta in “qualunque” animale (Kendal). Grande rilievo assumono gli esperimenti condotti sui roditori. Si è scoperto che i cuccioli di topo manifestano comportamenti reattivi alla separazione, consistenti in ripetuti richiami, in un comportamento agitato e di disperazione, nella tendenza a pulirsi compulsivamente il pelo, nella perdita di calore, nella perdita di cibo e nella perdita di stimolazione tattile (Hofer).
Gli esperimenti hanno poi dimostrato che la maggior parte degli animali, tra cui l’uomo, possiede un repertorio di comportamenti difensivi innati. Prima Pavlov poi Freud hanno riconosciuto che l’ansia può essere appresa e acquisita, e conservata tramite la memoria, senza tuttavia escludere il contributo di una predisposizione genetica. Gli animali dunque possono imparare varie forme di ansia come l’ansia anticipatoria e l’ansia cronica.
Non solo il cane e l’uomo, ma la maggior parte dei primati mostrano sintomi di paura e di disgusto nei confronti dei serpenti. L’odio verso i rettili ha un’origine biologica. Questa avversione viene motivata dal fatto che i serpenti evocano una particolare e intrinseca sensazione di repulsione attivata dai sistemi cerebrali di predisposizioni innate. Queste producono ansietà e paura, presentano varie implicazioni di pericolo e di violenza e favoriscono il rilascio di adrenalina, dando l’avvio a comportamenti di fuga o di combattimento.

Sull’ intelligenza e sul processo di apprendimento degli animali in generale, e del cane in particolare, importanza fondamentale assume la scoperta di Pavlov della “reazione condizionata”, cioè dei riflessi psichici. Con questa scoperta, consistente nell’apprendimento di un’associazione da parte del cane tra il suono di una campanella e la comparsa del cibo, aspettandosi il cibo ogni volta che sentiva la campanella, Pavlov diede la spinta allo sviluppo della moderna teoria dell’apprendimento e al movimento behavioristico in psicologia. Egli è perciò considerato lo studioso che dopo Freud ha maggiormente influenzato la psicologia contemporanea.
Gli esperimenti successivi di Tinkelpaugh mostrano che il cervello del primate si è evoluto per fissare “aspettative”. Molti scienziati poi hanno cercato di “decodificare” cosa dicono e cosa provano gli animali quando comunicano. Fin dai tempi di Darwin sappiamo che gli animali provano emozioni. Il cane che abbaia, il gatto che fa le fusa, o una scimmia che urla esprimono emozioni.
Il problema è sapere tuttavia se le nostre interpretazioni riflettono veramente le esperienze soggettive dell’animale. La paura ad esempio è uno stato emotivo che provano molti animali, forse a causa del ruolo “adattativo” nell’evitare i predatori e i rivali (Hagan).
Diversamente dagli esseri umani e dalle scimmie, i topi non possiedono un’espressione del viso tipica della paura. Rispondono immobilizzandosi. Nel processo di addomesticamento, gli animali devono perdere sia la paura degli uomini sia la propria tendenza a essere aggressivi. Osservando gli animali addomesticati come i cani, i gatti e molti animali che vivono nelle fattorie, è emersa una generale riduzione dell’aggressività.
I cani sono creature giocose e nel corso dell’evoluzione hanno utilizzato gesti ludici che guidano il gioco, compresi gli inviti a giocare e il segnale che l’intenzione è amichevole e non aggressiva.
La fiorente ricerca sulla lettura della mente negli animali presenta in proposito un quadro sempre più simile ai comportamenti dei bambini. Esistono analogie sorprendenti nel modo in cui gli animali elaborano come i bambini le azioni e le emozioni.
Cani e uccelli e le specie più vicine come le scimmie mostrano un’attenzione condivisa, una lettura degli scopi e delle intenzioni, nonché dell’uso della vista per tracciare inferenze sulla conoscenza.

Sono stati riscontrati comportamenti intelligenti negli animali, anche se non possono essere assimilati a quelli dell’uomo.
Nelle sue ricerche sui cani, Stanley Coren collega i comportamenti intelligenti dei cani alla lunga convivenza con l’uomo, cioè ad una forma di adattamento funzionale del cane all’uomo.
Si riconosce che forme di ragionamento elementare sono presenti in altri esseri viventi non umani e che forme di comunicazione sono ugualmente presenti in altri esseri viventi non umani. Da ricerche effettuate e da osservazioni empiriche si hanno riscontri precisi su comportamenti, circa intelligenti, diffusi un po’ dovunque nel mondo animale. Questi comportamenti presuppongono una qualche forma di attività da parte di un organo cerebrale che nell’uomo assume il nome di mente.
Oggi, la concezione di molti autori è orientata sulle simmetrie esistenti tra gli esseri viventi più che sulle asimmetrie. Tutti i processi di vita vengono, infatti, assunti come il risultato dell’evoluzione. La quale ha interessato tutti gli esseri del mondo, una linea di continuità che lega e attraversa tutti gli esseri viventi.
Riconoscere tuttavia comportamenti tipicamente “umani” nel mondo animale non deve significare misconoscere ciò che costituisce lo specifico dell’essere dell’uomo. La differenza tra gli esseri del mondo animale è determinata dalla presenza nell’uomo della capacità di pensare e parlare. Capacità che è all’origine del passaggio dell’uomo dall’animalità all’umanità. Una condizione assente nel mondo animale non umano o, se presente, del tutto diversa quanto a modalità di espressione e di apprendimento.
Esistono poi anche notevoli differenze comportamentali e intellettive tra le diverse razze di cani. Alcuni reperti ossei inoltre rinvenuti negli Usa indicano che la convivenza tra umani e cani risale a circa 11 mila anni orsono.
Sussistono diversi livelli di intelligenza nei cani. Coren suddivide l’intelligenza canina in tre categorie: quella istintiva, che il cane possiede dalla nascita; quella di adattamento, che dipende dalla capacità di imparare dall’ambiente e quella di ubbidienza, che è l’equivalente dell’apprendimento scolastico. Esiste anche un altro livello di intelligenza nei cani: la loro abilità a farsi capire e a capirci.
Cè una sterminata letteratura in materia di intelligenza: intendiamo la facoltà di comprendere prontamente, ovvero l’atto di capire, distinguere e risolvere problemi.
Il primo a porsi il problema sull’intelligenza dei cani fu Aristotele, il quale sosteneva che essi differiscono dall’uomo solo nel grado di possesso delle doti mentali, ammettendone così l’intelligenza. Il filosofo greco descrisse fra l’altro il comportamento alimentare delle api e il comportamento riproduttivo dei cefalopodi.
Darwin ha sostenuto che “i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà delle quali l’uomo va fiero, come amore, memoria, attenzione, curiosità, imitazione, ragione eccetera possono essere riscontrate in una fase incipiente e talora persino sviluppata negli animali inferiori”.
Secondo alcuni ricercatori, l’intelligenza del cane non è altro che un insieme di abilità mentali primarie ciascuna delle quali viene considerata come una facoltà a se stante.
Lo psicologo Howard Gardner, a sua volta, distingue sette intelligenze di cui alcune sono possedute anche dal cane.
L’intelligenza spaziale, che consiste nella capacità di avere presente l’organizzazione di quanto ci circonda, come ad esempio, il luogo in cui si trovano gli oggetti o la distanza fra due punti. Il cane sa localizzare oggetti, evitare luoghi pericolosi, trovare la via più breve verso la cuccia, aprire un chiavistello, rammentare dove si trova il suo giocattolo o il guinzaglio.
L’intelligenza corporeo-cinestetica corrisponde alla capacità di muovere il corpo in risposta alle varie situazioni: scrivere, fare sport, cacciare o per quanto riguarda il cane, entrare nei cespugli, salire sulle scale a pioli, partecipare a gare di agilità, ecc.
L’intelligenza interpersonale svolge determinati compiti o ruoli, come per esempio quello di capobranco. Essa si rivela anche quando il cane inizia a socializzare con altri o tenta di comunicare i propri bisogni.
L’intelligenza linguistica. Quando si chiama il cane o gli si dà determinati ordini ci accorgiamo che il nostro cucciolo possiede proprio tale capacità linguistica. Il cane poi riconosce il linguaggio del corpo anche in relazione alle emozioni e alle diverse situazioni sociali. Di fronte a un individuo arrabbiato, si mette quieto o addirittura se ne va.
Le ricerche hanno dimostrato inoltre che le capacità mentali dei cani equivalgono a quelle di un bambino di 2-2,5 anni. I più intelligenti sono considerati i Border Collie, al secondo posto c’è il barboncino e solo al terzo posto il pastore tedesco. Il Doberman occupa la quinta posizione, mentre al Labrador viene assegnato il settimo posto.
I cani possono imparare 165 parole, sono capaci di cantare e di imbrogliare deliberatamente i loro simili e gli umani.
Essi si interessano a quello che pensano gli uomini, sono capaci di osservare un individuo, prestando attenzione a dove sta guardando (Hare). I cani infine hanno senza dubbio capacità sociali migliori di altri animali e sono in grado di capire gli sguardi meglio degli scimpanzé.

Dai tempi della domesticazione, il cane ha servito l’uomo, mettendogli al servizio le sue innumerevoli doti fisiche, psichiche e soprattutto la fedeltà, che rimane un po’ il tratto caratteristico di questa specie.
Il più antico caso di domesticazione degli animali che si conosca risale a oltre 10 mila anni fa, quando resti umani e di cane compaiono per la prima volta nello stesso luogo di sepoltura. La domesticazione presenta una serie di caratteristiche come tendenza ad avere orecchie più flosce, il pelo ondulato o riccio e la coda più corta dei loro simili selvatici. Un’altra sua rilevante conseguenza è la diminuzione delle dimensioni del cervello.
Tutte le questioni esaminate nel presente lavoro confermano dunque che nella ricostruzione del cammino percorso negli ultimi anni le neuroscienze ci forniscono risposte chiare e convincenti, comunque scientificamente verificabili.
Così, sappiamo che ogni animale, come ogni essere umano, ha una sua personalità. Una scoperta sensazionale è che non solo gli animali presentano tratti individuali nel comportamento, ma le variabili caratteriali nel tempo possono mutare. Si assume inoltre che le caratteristiche di personalità- l’individualità- sono modellate e rimodellate da fattori poligenici, dallo sviluppo e dall’esperienza e costituiscono altresì una condizione essenziale per la sopravvivenza di ciascuna specie (Aamodt e Wang).

Riguardo all’amore e al sesso negli animali, gli studiosi parlano di “legame di coppia”, non di amore. Una ricerca tuttavia ha scoperto che l’arvicola della prateria, un piccolo roditore, rimane con lo stesso compagno tutta la vita. Un fatto inconsueto, poiché solo il 3-5 per cento dei mammiferi è monogamo. Entrambi i genitori si occupano della prole e quando un’arvicola rimane sola, di solito rifiuta di prendere un altro compagno.
Il legame di coppia è controllato da due neurotrasmettitori, l’ossitocina e la vasopressina, e si forma anche per mezzo dell’apprendimento condizionato, come ad esempio l’odore del partner. Esistono poi evidenze che mostrano come gli stessi circuiti neurali coinvolti nella creazione del rapporto di coppia siano alla base anche dell’attaccamento delle madri ai figli. Per il legame tra madre e figlio è, infatti, necessaria l’ossitocina.
Le scoperte in questo campo rivelano che oltre all’ossitocina anche i circuiti cerebrali della gratificazione sono elementi importanti sia per il legame di coppia sia nell’innamoramento. Secondo gli studi di Insel sembra che anche le pecore abbiano bisogno di ossitocina per formare l’attaccamento fra madre e prole, mentre i topi no. Fra gli scimpanzé, i legami di coppia sono sconosciuti probabilmente perché le regioni del loro cervello contengono meno recettori per l’ossitocina.
Nel 1992 William Jankowiak studiò 168 diverse culture etnografiche e non trovò nessuna che non conoscesse “l’amore romantico”. Queste ricerche confermano in sostanza quanto sostenuto da William Janes, e cioè che l’amore sia un istinto evoluto per selezione naturale e faccia parte del patrimonio della nostra specie proprio come “il possesso di quattro arti e di una mano con cinque dita”. I dati della ricerca poi provano che sebbene la poligamia sia ammessa nella maggior parte delle società, a prevalere siano le relazioni monogame, e nel fatto che gli esseri umani praticano “cure parentali”.
Nella ricerca delle differenze sessuali le più studiate sono quelle che hanno a che fare con la formazione della coppia. Sono emerse molte somiglianze. Entrambi i sessi desideravano partner intelligenti, onesti, degni di fiducia e cooperativi. Ma sono emerse anche alcune differenze. Le donne preferivano uomini più vecchi di loro, ambiziosi e con uno status alto. Agli uomini piacevano donne belle, giovani e fedeli. Questi studi provano che le somiglianze e le differenze fra i sessi siano universali (Buss). In una indagine sui fattori che determinano il comportamento sessuale negli esseri umani e negli animali, lo psicologo Diamond ha rilevato che i ruoli sessuali non sono il frutto di esperienze precoci, come sostenuto dal suo collega Money, ma innati. “Il più grande organo sessuale si trova- sostiene Diamond- in mezzo alle orecchie e non fra le gambe”. Nello storico e dibattuto confitto eredità-ambiente, la nostra concezione è per il superamento di entrambe le posizioni. Noi sosteniamo che l’identità sessuale è determinata sia da influenze ambientali e socio-culturali che da una base innata, istintiva, genetica.
Il comportamento sessuale è controllato dall’ipotalamo, un’area del cervello importante anche per altre funzioni fondamentali come mangiare, bere e regolare la temperatura corporea. Sembra inoltre che l’attivazione del comportamento sessuale in età adulta dipenda dal testosterone, l’ormone associato alla libido sia nei maschi che nelle femmine, nonché da tutta una serie di modelli comportamentali e di rapporti sociali.
Una ricerca effettuata da scienziati olandesi ha studiato l’attività del cervello durante l’orgasmo con i metodi di neuro imaging. Si è scoperto che in entrambi i sessi durante l’orgasmo si attivava il sistema di gratificazione del cervello e aumentava l’attività nel cervelletto, che di recente è stato collegato “all’eccitazione emotiva e alla sorpresa sensoriale” (Aamodt e Wang).




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mercoledì 29 marzo 2017

L'EMPATIA DEL CANE



Il miglior amico dell’uomo è in grado di provare empatia e di cambiare umore entrando in sintonia con quello del suo padrone. Non è più solo una mera constatazione, lo conferma la scienza.

Ricercatori dell’Università di Pisa, guidati dalla dottoressa Elisabetta Palagi, hanno  condotto uno studio che dimostra come i cani riescono a mostrare empatia: di fronte a qualcuno che si sente afflitto tendono istintivamente a mutare l’espressione del volto uniformandosi al suo stato d’animo.

C'è un ipotesi che la capacità di percepire sentimenti altrui derivi direttamente dai loro antenati.

Nei lupi, da cui discendono i cani, l’attitudine di capirsi al volo e di imitare il comportamento dei simili è fondamentale per la loro sopravvivenza: basti pensare a come cacciano in branco in modo organizzato.

“I canidi sono specie sociali mentre invece i felini sono animali solitari e non hanno bisogno di interazioni così intense per sopravvivere: ecco perché non ci aspettiamo di trovare lo stesso comportamento empatico nei gatti domestici” sostiene Palagi.
Non solo gli esseri umani e le scimmie antropomorfe, dunque, hanno una reazione involontaria, automatica e rapidissima alla mimica facciale dei propri simili.



Empatia è la capacità umana, innata, di comprendere i processi psichici e quindi anche i sentimenti altrui.
Lo studio della University of London Goldsmiths College, condotto da D. Custance e J. Mayer, ha dimostrato che i cani sono gli animali domestici più in grado di comprende le emozioni degli esseri umani e quindi provare empatia.

La ricercatrice Custance spiega: «Dai nostri test effettuati emerge che i cani hanno una marcata propensione a registrare la tristezza nei padroni e a offrire per istinto conforto e vicinanza.».

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domenica 1 novembre 2015

LE FAMIGLIE ALLARGATE

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Il padre, la madre e i figli sotto lo stesso tetto: per molto tempo è stato il modello classico di famiglia. Ma oggi, disorientati dagli obblighi imposti dalla genitorialità o temendo di lasciarsi sfuggire occasioni importanti nella vita, sono molte le coppie con figli che ritengono di essere incompatibili e di separarsi. In oltre il 67% dei casi, i figli restano con la madre. Quando i genitori "si rifanno una vita", ovvero quando decidono di vivere con un nuovo/una nuova partner, il figlio si trova ad avere a che fare non più con due genitori uniti e poi separati, ma con quattro persone adulte che esercitano su di lui la loro autorità. Davanti a una situazione talvolta confusa, il figlio si ribella rendendo difficili le relazioni delle nuove coppie.

C’è chi- da adulto- mantiene in vita una  condizione da “single ad oltranza”, chi invece transita da un partner all’altro, adottando meccanismi di difesa a causa di un paura importante dell’ intimità, chi ancora fa  le “prove generali” con la convivenza, perché letta e vissuta come una possibile via di fuga dalle catene matrimoniali.
I sentimenti di oggi, sembrano avere caratteristiche di provvisorietà, sono a termine, part time e la dimensione di coppia non è più una speranza, ma una minaccia.
Molti coniugi, pur vivendo all’interno di un matrimonio naufragato, vedono la separazione come un trauma da dover evitare ai loro figli e rimangono intrappolati in una coppia dove non sono ne felici ne tristi, ne se stessi ne liberi, mantenendo in vita coppie/famiglie con un tasso elevato di infelicità cronica.
Altri protagonisti di amori infelici, temono per eventuali crolli economici, estorsioni e salatissimi alimenti, vivendo in una condizione di indigenza affettiva, ma di libertà economica.

Entrare in una vita familiare e scombinare certi equilibri rischia di far sentire chi arriva come un intruso. A volte l’incontro improvviso con dei bambini è già di per sé scombussolante, se si viene da esperienze da single senza figli.  

La difficoltà per il “nuovo arrivato” è anche quella di non sapersi collocare, non darsi un ruolo, aver paura di eccedere o di tenersi troppo in disparte. Sentirsi, per il partner, in secondo piano rispetto ai figli. Qualche volta anche rispetto all’ex coniuge. Possono smuoversi tutta una serie di fantasie, di aspettative, di ansie da rendere tutto più complicato. 
In un certo senso, infatti, si deve inventare un nuovo rapporto con i “figli dell’altro”, che non è quello del padre o della madre, né dell’amico/a. La relazione non è solo di coppia ma anche con i bambini e richiede impegno a livelli affettivi diversi. Ma se c’è accordo nella coppia nascente, non c’è rivalità con il genitore naturale e non si tenta di prendere il suo posto, possono nascere rapporti gratificanti e profondi, alle volte addirittura meno opprimenti dei comuni rapporti tra genitori e figli.



Certo, non è facile, immediato o scontato e diversi aspetti sono da tenere in considerazione: mettersi dalla parte del bambino, cercare di capire quanto andiamo ad impattare la sua vita, considerare le sue esigenze. Ed essere consapevoli che per elaborare esperienze esistenziali di questo tipo, ci può essere bisogno di tempo. Il bambino o ragazzo può avvertire il nuovo legame come un tradimento con il genitore che non è più in casa, aver paura di nuovi separazioni, sentirsi rivale, avvertire contrasto tra il nuovo arrivato e il padre (o la madre), avvertire nuove responsabilità, non voler deludere il genitore con il quale vive né l’altro. Autenticità, disponibilità, empatia sono gli ingredienti necessari per avvicinarsi ed entrare in contatto con questa persona. 

Essere empatici, cercare di mettersi dalla parte del bimbo o ragazzo, capire cosa sta provando e quali sono le sue esigenze.
Non stare sulla difensiva, non agitarsi di fronte alle provocazioni del bambino. Il tenersi alla larga del bambino può significare il volersi difendere da possibili separazioni, rifiuti, abbandoni.
Evitare di giudicare. Non fare paragoni, non criticare quello che fa il bambino, trattenersi soprattutto nei primi periodi.
Accettare il bambino per quello che è. Non è come lo vorremmo, non può fare quello che vorremmo, bisogna rispettare la sua storia familiare.
Non irrigidirsi in comportamenti ostili, impuntandosi su chi ha ragione e chi no, essere elastici nei rapporti.
Essere disposti al cambiamento, a modificare qualcosa di se stessi, fondamentale per entrare in un processo di relazioni nuove.
Non assumersi responsabilità che non competono. Si entra in relazioni già consolidate, si incontrano bambini in un certo momento della loro vita con abitudini e comportamenti acquisiti che possono anche non cambiare mai.
Non fingere amore nei confronti del figlio se fin dall'inizio non riuscite ad andare d'accordo: il figlio avvertirà la menzogna e perderà la fiducia nell'adulto appena entrato nella sua vita. Meglio aspettare di abituarsi l'uno all'altro.



Insomma, è consigliabile parlare molto con il figlio: questo aiuterà il genitore presente a imporre la sua scelta di un nuovo compagno (o compagna). Ovviamente, questo non impedisce che il figlio provi dei moti di rivolta contro questa situazione: di fatto, non è lui la causa dello scompiglio familiare. Inutile quindi mettere mano all'ascia di guerra: la calma e la fermezza sono le armi più efficaci per riuscire a superare insieme gli ostacoli.

I confini della famiglia non chiari, la mancanza di modelli, la presenza di stili e valori diversi così come fratelli di età differenti, possono diventare punti di forza. Permettendo ad ognuno di essere più creativo, meno legato a ruoli prefissati nei rapporti con gli altri, libero di scegliere chi amare e con chi avere rapporti più stretti. In sostanza, si possono avere maggiori risorse rispetto alla famiglia nucleare. Se ci concentriamo sulla realtà psicologica invece che su quella istituzionale, è la qualità dei rapporti che regge il sistema familiare, più le relazioni sono buone tra tutti, più si vive in una dimensione di Famiglia, di casa, si sente di appartenere, al di là di membri non consanguinei, non conviventi, non riconosciuti giuridicamente.

Il nuovo compagno o compagna non gode di alcuno statuto giuridico agli occhi del figlio del partner. Al contrario, ha una serie di responsabilità e di doveri nei confronti del figlio del compagno (o compagna). Ed è proprio questa ambiguità a riaccendere spesso lo scontro tra gli ex: il genitore biologico infatti mal sopporta le scelte, in particolare scolastiche, del nuovo compagno o compagna dell'ex-coniuge. Il figlio si ritrova quindi in ostaggio, prigioniero delle liti tra adulti: nessuno di loro riesce più a imporre la propria autorità e il figlio approfitta di questo malessere, sbottando con frasi del tipo: "Non sei mio padre per cui non mi dai ordini", che contengono anche un rimprovero al padre biologico per la sua assenza. Nonostante gli sforzi messi in atto, il nuovo compagno (o compagna) si sente preso in giro; la storia d'amore tra i due adulti si trasforma nello scontro di influenze che può talvolta portare alla rottura della relazione sentimentale.

Il figlio percepisce l'arrivo del nuovo compagno della madre o della nuova convivente del padre come un intruso che viene a rompere l'intimità conquistata a prezzo della separazione dei suoi genitori. Volontariamente o inconsapevolmente, può tentare di sabotare questa nuova relazione, tanto più se non ha rinunciato a voler "ricucire" il rapporto tra i suoi genitori. Quindi, non è solo rendendosi simpatici ai suoi occhi, sorridendogli, coprendolo di regali o assecondando tutti i suoi capricci che il nuovo arrivato riuscirà a vivere serenamente con lui.




venerdì 30 ottobre 2015

L'INFINITO

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« Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima. »
(Albert Einstein)

Il senso dell'infinito si può già comprendere guardando anche solo il cielo immaginando che lo spazio del cosmo non finisca mai. Alcune illusioni ottiche possono far pensare, per un errore dei sensi o di traduzione del cervello, che ciò che si sta osservando sia infinito, anche la religione ha avuto a che fare con il concetto di infinito fin dai tempi antichi.

Il simbolo dell'infinito rappresenta l'anello di congiunzione spazio-temporale che unisce i vari punti dell'esistenza in un continuo evolversi senza fine, due cerchi (il cerchio rappresenta lo spirito ma anche i cicli della vita come anche il tempo senza fine, come il segno dell'inifinito matematico) che si susseguono senza sosta uno dopo l'altro, a rappresentare la materia che segue lo spirito, lo spirito che segue la materia, generazione dopo generazione. L'otto rappresenta la materia sublimata, formato da 4+4 (il quattro rappresenta simbolicamente la materia poiché indicato dal quadrato che rimane sempre uguale a sé stesso, anche cambiando lato di appoggio, esattamente come la materia è sempre uguale, seppure differente sotto certi aspetti, a sé stessa). Il due volte 4 indica che la materia si ripete anche nel mondo spirituale nel quale trova la sua sublimazione elevata per raggiungere la perfezione.

La grande tradizione della cultura occidentale è caratterizzata fino al Seicento da una visione finitistica: l'universo è finito, ha un diametro molto grande, però è finito.

Una prima rivalutazione dell'infinito si ha con il Romanticismo. Il Romanticismo intese il concetto di ragione come una forza infinita (cioè onnipotente), che abita il mondo e lo domina, e perciò costituisce la sostanza stessa dei mondo. Fichte per la prima volta identificò la ragione con l'Io infinito o Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l'intero mondo è prodotto. L'infinità in questo senso era una infinità di coscienza o di potenza, non un'infinità di estensione o di durata. Hegel, invece, contrapponeva al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito cioè dalla realtà e si contrappone ad esso e cerca di trasformarlo o di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un principio spirituale creativo: quello che Fichte chiamò “Io”, Schelling “Assoluto”, e Hegel “Idea”. Comunque lo si chiami, tuttavia, il principio infinito è unanimemente considerato dai romantici come coscienza, attività, spontaneità, libertà, capacità di creazione incessante. D'altro lato tuttavia può essere inteso in due modi.



L'infinito fu inteso come attività libera amorfa, tale che si pone continuamente al di là di ogni sua determinazione. In questo senso l'infinito viene inteso come sentimento. Schlegel infatti interpretava l'infinito come al di fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Ma se l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell'arte che nella filosofia: giacché la filosofia è razionalità e l'arte appare invece ai romantici come espressione del sentimento. Schelling ritenne appunto che la migliore manifestazione dell'Assoluto, si avesse nell'arte e che perciò l'esperienza artistica fosse per l'uomo a solo mezzo efficace per avvicinarsi all'Assoluto.

Per i romantici, dunque, l'oggetto della conoscenza filosofica è il principio che essi chiamano Assoluto, ossia ciò che esiste incondizionatamente, fondamento del divenire cosmico; tutta la filosofia romantica si preoccupa di fornire le modalità attraverso cui giungere alla conoscenza di questo principio. L'uomo arriva alla comprensione dell'Assoluto attraverso la comunione empatica, una modalità conoscitiva secondo cui è possibile conoscere una determinata cosa perché siamo fatti della stessa sostanza. Tanto noi, quanto la Natura siamo fatti di Assoluto: lo possiamo cercare in noi, come un qualche cosa che ci appartiene, oppure lo si può ritrovare nella Natura: il filosofo romantico scorge in essa i segni, li interpreta con l'aiuto della sua emotività, facendosi guidare dal sentimento dello Streben, un perenne tendere, una tensione che lo spinge a trascendere se stesso, i suoi limiti derivanti dall'essere fisico, ma che non approda ad alcuno sbocco, perché le esperienze umane sono tutte finite. Da qui la Sehnsucht, lo struggimento, il "desiderio dei desiderio": "un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla, un desiderio irrealizzabile perché  indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo" (L. Mittner). Ogni romantico dunque ha sete di infinito; e quello struggimento, che è desiderio irrealizzabile lo è proprio perché ciò che in realtà brama è l'Infinito. Ora, la filosofia deve cogliere e mostrare il nesso dell'infinito coi finito, l'arte lo deve realizzare: l'opera d'arte è l'Infinito che si manifesta nel finito.

Tutte le filosofie romantiche pongono l'Assoluto come un movimento dinamico, un flusso: è il movimento che dà origine alle cose, che ci fa esistere. Tutto dunque nasce da un movimento illimitato a limitato, nasce perché l'infinito si limita: è da questa infinita limitazione che nasce il movimento dell'Assoluto. L'Assoluto quindi attiva continuamente i suoi meccanismi per dirigersi verso il limite e superarlo.



I filosofi che aderirono all'idealismo tedesco, cioè alla tendenza che identifica la realtà con l'io, mentre il mondo esterno è qualificato come non-io, svilupparono notevolmente questo concetto. Fichte ha accentuato l'elemento della soggettività (io): l'atto fondamentale dell'io è la sua scissione in io e non-io, superando la quale l'io giunge di nuovo a sé. Scrive Fichte: "In quanto è Assoluto l'Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è” In questo senso Fichte esalta l'assoluta libertà dell'uomo (dell'io) e la sua capacità di dare forma e legge al mondo. L'agire morale dell'uomo è il suo incessante sforzo di superare il finito.

Schelling supera la concezione fichtiana della natura come limite che l'io pone a se stesso, nel processo del proprio autosuperamento: per lui la natura è invece un primo stadio della vita dell'Assoluto o Spirito. La natura si evolve a partire da uno stadio privo di consapevolezza, verso forme più complesse, fino a raggiungere la piena consapevolezza di sé. Essa è la preistoria dell'io, qualcosa che è in intima comunione con lo Spirito. Organo dell'Assoluto è l'arte: nell'arte, infatti, si rivela l'intima unione di ciò che appare erroneamente separato: natura e storia, azione e pensiero. Nell'opera l'artista rappresenta "un'infinità, che nessun intelletto finito è capace di sviluppare interamente".

Con Hegel il nodo centrale della filosofia diventa il problema di temporalizzare l'Assoluto, di farlo entrare nei processi storici. La storia è allora la progressiva ascesa dello Spirito verso la coscienza di sé, verso lo Spirito Assoluto. L'uomo può conoscere l'Assoluto, può innalzarsi fino ad esso: deve prima però superare le finitezze della coscienza, ed elevare in tal modo l'io empirico a lo trascendentale, a Ragione e Spirito. La Fenomenologia dello Spirito è stata concepita esattamente allo scopo di purificare la coscienza fenomenica e di innalzarla fino al Sapere assoluto. Essa è la via filosofica che conduce la coscienza finita all'Assoluto infinito, e coincide con la via che l'Assoluto stesso ha percorso per giungere fino a sé. Si può dire che nella Fenomenologia, intesa come la via che porta all’Assoluto, l'uomo risulta coinvolto non meno  dell'Assoluto medesimo. Infatti non esiste nell'orizzonte hegeliano il finito staccato dall'infinito, il particolare separato dall'universale, e quindi l'uomo non è staccato e separato dall'Assoluto, ma ne è parte strutturale e determinante, perché l'infinito hegeliano è l'infinito che si fa mediante il finito. L'Assoluto infatti si attua e si realizza come superamento del finito stesso. L'itinerario fenomenologico procede secondo una dialettica di progressiva negazione della fase precedente; tre sono le tappe di questo viaggio, che corrispondono ai tre momenti della tesi, antitesi e sintesi. Inizialmente la coscienza ha consapevolezza della sua sola esistenza; resasi conto dell'inadeguatezza di questa sua determinazione, la coscienza nega il suo essere tale e diventa autocoscienza: ora è in grado di percepire le altre coscienze. L'ultima fase è invece quella in cui l'autocoscienza arriva alla consapevolezza di essere Spirito; quest'ultimo passaggio è mediato dau'arte, dalla religione e finalmente dalla filosofia, che in quanto specchio dello Spirito, permette di giungere all'Assoluto.

Lo Spirito infinito di Hegel è come un circolo in cui il principio e la fine coincidono in maniera dinamica: il punto iniziale è la tesi, il movimento circolare è l'antitesi e i due momenti vengono unificati nella sintesi. L'inizio coincide con la fine perché riattraversa la tesi che è stata arricchita da una negazione, perciò il particolare è risolto nell'universale, l'essere nel dover-essere e il reale nel razionale. L'infinito di Fichte, che può essere visto come una retta in cui l'ostacolo viene spostato e non superato, è per Hegel un cattivo infinito o falso infinito, poiché resta un processo irrisolto, in quanto non raggiunge un fine, uno scopo e l'essere e il dover-essere rimangono scissi. Per questo Hegel affermò che Fichte fosse arrivato solo a una scissione tra lo e non-lo, tra Soggetto e Oggetto, tra finito e infinito; per Hegel invece il vero infinito è un infinito della ragione, non dell'intelletto, il quale non è una retta, ma un circolo, o meglio un processo circolare-. il processo dialettico. Tutta la dialettica di Hegel è continuamente il gioco di sfondare tutto ciò che è finito, di risolverlo in un orizzonte di infinitezza.



Marx muoverà inizialmente la sua filosofia sulla critica al concetto di Assoluto hegeliano: considerato una costruzione astratta che non tiene conto dei fatti in cui agisce l'uomo, Marx distrugge ogni fondamento metafisica. Per lui la storia è solo prassi, principio materiale che corrisponde all'azione degli uomini: venuta a cadere la giustificazione metafisica dell'Assoluto, gli eventi storici risultano frutto di meccanismi terreni, fisici.

Kierkegaard, invece, recupera il concetto di infinito, legandolo però a un ambito decisamente religioso. L'uomo, ente finito, è consapevole di questa sua finitezza e cerca di trascenderla, di superarla. La singola esistenza ha profonda coscienza di essere un'entità finita, destinata perciò a concludersi e a morire. Per sfuggire a questa condizione, il singolo segue l'esempio religioso. La religione, infatti, è la sola che può aprire uno spazio verso l'infinito, altrimenti lontanissimo e irraggiungibile dall'uomo. Mondo reale e mondo infinito non sono in comunicazione costante come in Hegel; sono invece separati, in quanto il primo è proprio dell'uomo, il secondo, invece, della Divinità. Proprio lo spazio dei religioso assume un senso tragico: l'uomo ricorre alla religione per sfuggire alla sua finitezza, per raggiungere l'infinito. Ma il rapporto con la divinità è un rapporto costantemente impari, perché mette l'uomo di fronte al suo essere finito. Ne nasce un sentimento di disperazione cui l'uomo cerca di porre rimedio. Prova dapprima ad accettare se stesso, e quindi la sua finitudine. Ma questo determina una contrapposizione con l'infinito, cioè con Dio, comporta l'eliminazione dei Divino-. l'uomo va allora verso il nulla, verso la morte, e la disperazione non cessa. L'alternativa è cercare di rinunciare a se stesso per coniugarsi con il divino; ma l'uomo non è in grado di sconfiggere la sua finitudine e di divenire infinito. La disperazione quindi non cessa.





venerdì 28 agosto 2015

LO SBADIGLIO

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Uno sbadiglio è un riflesso di una profonda inalazione ed espirazione del respiro. Pandiculazione è il termine utilizzato per definire l'insieme delle contrazioni muscolari che di solito accompagnano lo sbadiglio, e che portano a "sgranchirsi".

Lo sbadiglio spontaneo è un comportamento molto antico, ampiamente presente nei vertebrati, dai pesci all'uomo. A seconda del gruppo animale nel quale lo si ritrova, incluso l'uomo, lo sbadiglio può essere associato a stanchezza, stress, noia, fame ecc.

Le esatte cause che provocano uno sbadiglio non sono state completamente chiarite. Alcuni studiosi sostengono che lo sbadigliare non può essere causato da una mancanza di ossigeno, come ipotizzato da altri, semplicemente perché l'atto dello sbadiglio in sé riduce sensibilmente la quantità di ossigeno immessa nei polmoni tramite il normale processo respiratorio.

Lo sbadiglio negli umani è contagioso; questo significa che, in generale, è più probabile che una persona sbadigli dopo aver percepito (con la vista, l'udito, o entrambi i sensi) lo sbadiglio emesso da un'altra persona. La frequenza di contagio varia durante il giorno, con un picco a mattina presto e in tarda serata. Un recente studio condotto da Ivan Norscia ed Elisabetta Palagi (Università di Pisa) ha fornito la prima evidenza comportamentale che il contagio dello sbadiglio è associato al legame empatico tra le persone. Lo studio ha dimostrato che il contagio segue lo stesso gradiente dell'empatia: è massimo nei parenti stretti (genitori/figli/nipoti, fratelli, coppie stabili), decresce negli amici, poi nei conoscenti (persone legate solo da un terzo elemento esterno, cioè il lavoro o un amico in comune) e raggiunge il minimo negli sconosciuti. Lo studio rivela che anche la risposta allo sbadiglio (misurata in termini di tempo di latenza) è più rapida tra parenti stretti, amanti e amici. Vari studi di tipo clinico, psicologico e neurobiologico suggeriscono e supportano il legame tra contagio dello sbadiglio e empatia. Ad esempio, il contagio inizia a manifestarsi a 4-5 anni di età, quando i bambini sviluppano la capacità di identificare, in modo corretto, le emozioni altrui. Inoltre, il contagio è ridotto o assente in soggetti che presentano disturbi legati all'empatia, come gli autistici ed è positivamente legato ai punteggi soggettivi di empatia basati su test di tipo psicologico. Infine, le aree del cervello legate alla sfera emotiva si sovrappongono, in parte, con quelle coinvolte nella risposta allo sbadiglio, con un possibile coinvolgimento dei neuroni specchio.




Al di là dell'uomo, il contagio dello sbadiglio, con possibili implicazioni empatiche, è stato finora dimostrato negli scimpanzé e nei babbuini gelada. La presenza di contagio tra uomo e cane domestico, considerato capace di un legame empatico con gli umani, è stata ipotizzata, ma i risultati sono controversi.

Studi precedenti avevano provato a spiegare la tendenza a sbadigliare se qualcun altro sbadiglia con l'empatia, la capacità di sintonizzarsi con le emozioni altrui, ma anche con la stanchezza (di entrambi), l'intelligenza, i livelli di energia o l'ora del giorno.

I risultati della ricerca sono andati in una diversa direzione. Gli scienziati hanno chiesto a 328 persone di compilare un questionario per misurare l'empatia, il livello di sonno e le energie di ciascuno. I volontari hanno quindi guardato un video di 3 minuti di persone intente a sbadigliare, e hanno registrato quante volte finivano per ripetere il gesto a loro volta .

222 persone hanno sbadigliato almeno una volta, alcuni neanche una e altri fino a 15 in tre minuti. Ripetendo le prove, il numero di sbadigli è rimasto pressoché costante. Ma non sono state l'empatia, o la stanchezza a determinare la frequenza di "contagio". Bensì l'età: i partecipanti più vecchi sono stati anche quelli a sbadigliare meno di riflesso.

In ogni caso, anche l'età, il fattore statisticamente più rilevante, ha influito soltanto per l'8% sulla frequenza di sbadigli contagiosi. Gli altri fattori che li determinano sono ancora tutti da chiarire. Capire se - per esempio - esistano componenti genetiche legate al fenomeno, potrebbe aiutare a comprendere meglio anche le malattie che rendono quasi "immuni" agli sbadigli contagiosi.



Dura mediamente, circa sei secondi, attiva la circolazione e rilassa i muscoli. Lo sbadiglio è uno stiramento che risveglia la totalità del nostro essere e libera un po’ di tensione dal corpo. Le circostanze in cui si sbadiglia sono diverse. In parte è involontario, ma può essere anche volontario, ed è possibile indurlo o modularlo.

Uno dei motivi per cui si sbadiglia è legato alla possibilità di addormentarsi, quando ciò viene considerato fisicamente o socialmente pericoloso. Il sonno diventa un nemico da combattere e lo sbadiglio, al contrario di quello che si pensa, aggredisce e avverte. E’ un riflesso del nostro organismo per resistere alla fatica e alla fame. Sbadigliare vuol dire aumentare la quantità di ossigeno nell’organismo, favorisce la circolazione e lo scambio respiratorio tra il corpo e l’ambiente. Attraverso lo sbadiglio inghiottiamo una grande quantità di aria in un solo colpo, apportando ossigeno al sangue e stimolando l’attività delle nostre cellule, così da produrre energia da usare come carburante, per compensare una carenza energetica. Non abbiate paura di sbadigliare spesso durante il giorno, anzi datevi l’opportunità per farlo, eseguirete uno stiramento rapido, ma di fondamentale importanza per l’equilibrio energetico dell’organismo.

Sbadigliare aiuta anche a lenire il dolore: l’aumento dell’ossigeno nel sangue spegne la mente “razionale”, ci si distrae e le energie risparmiate si usano per produrre sostanze che il nostro organismo produce per calmare il dolore. E non solo! L’inibizione della mente razionale libera le capacità più intuitive e creative che stanno dietro a ogni colpo di genio. Infine, ma non meno interessante, è sapere che lo sbadiglio aumenta le capacità percettive e galvanizza i sensori del piacere…





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