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venerdì 28 agosto 2015

LO SBADIGLIO

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Uno sbadiglio è un riflesso di una profonda inalazione ed espirazione del respiro. Pandiculazione è il termine utilizzato per definire l'insieme delle contrazioni muscolari che di solito accompagnano lo sbadiglio, e che portano a "sgranchirsi".

Lo sbadiglio spontaneo è un comportamento molto antico, ampiamente presente nei vertebrati, dai pesci all'uomo. A seconda del gruppo animale nel quale lo si ritrova, incluso l'uomo, lo sbadiglio può essere associato a stanchezza, stress, noia, fame ecc.

Le esatte cause che provocano uno sbadiglio non sono state completamente chiarite. Alcuni studiosi sostengono che lo sbadigliare non può essere causato da una mancanza di ossigeno, come ipotizzato da altri, semplicemente perché l'atto dello sbadiglio in sé riduce sensibilmente la quantità di ossigeno immessa nei polmoni tramite il normale processo respiratorio.

Lo sbadiglio negli umani è contagioso; questo significa che, in generale, è più probabile che una persona sbadigli dopo aver percepito (con la vista, l'udito, o entrambi i sensi) lo sbadiglio emesso da un'altra persona. La frequenza di contagio varia durante il giorno, con un picco a mattina presto e in tarda serata. Un recente studio condotto da Ivan Norscia ed Elisabetta Palagi (Università di Pisa) ha fornito la prima evidenza comportamentale che il contagio dello sbadiglio è associato al legame empatico tra le persone. Lo studio ha dimostrato che il contagio segue lo stesso gradiente dell'empatia: è massimo nei parenti stretti (genitori/figli/nipoti, fratelli, coppie stabili), decresce negli amici, poi nei conoscenti (persone legate solo da un terzo elemento esterno, cioè il lavoro o un amico in comune) e raggiunge il minimo negli sconosciuti. Lo studio rivela che anche la risposta allo sbadiglio (misurata in termini di tempo di latenza) è più rapida tra parenti stretti, amanti e amici. Vari studi di tipo clinico, psicologico e neurobiologico suggeriscono e supportano il legame tra contagio dello sbadiglio e empatia. Ad esempio, il contagio inizia a manifestarsi a 4-5 anni di età, quando i bambini sviluppano la capacità di identificare, in modo corretto, le emozioni altrui. Inoltre, il contagio è ridotto o assente in soggetti che presentano disturbi legati all'empatia, come gli autistici ed è positivamente legato ai punteggi soggettivi di empatia basati su test di tipo psicologico. Infine, le aree del cervello legate alla sfera emotiva si sovrappongono, in parte, con quelle coinvolte nella risposta allo sbadiglio, con un possibile coinvolgimento dei neuroni specchio.




Al di là dell'uomo, il contagio dello sbadiglio, con possibili implicazioni empatiche, è stato finora dimostrato negli scimpanzé e nei babbuini gelada. La presenza di contagio tra uomo e cane domestico, considerato capace di un legame empatico con gli umani, è stata ipotizzata, ma i risultati sono controversi.

Studi precedenti avevano provato a spiegare la tendenza a sbadigliare se qualcun altro sbadiglia con l'empatia, la capacità di sintonizzarsi con le emozioni altrui, ma anche con la stanchezza (di entrambi), l'intelligenza, i livelli di energia o l'ora del giorno.

I risultati della ricerca sono andati in una diversa direzione. Gli scienziati hanno chiesto a 328 persone di compilare un questionario per misurare l'empatia, il livello di sonno e le energie di ciascuno. I volontari hanno quindi guardato un video di 3 minuti di persone intente a sbadigliare, e hanno registrato quante volte finivano per ripetere il gesto a loro volta .

222 persone hanno sbadigliato almeno una volta, alcuni neanche una e altri fino a 15 in tre minuti. Ripetendo le prove, il numero di sbadigli è rimasto pressoché costante. Ma non sono state l'empatia, o la stanchezza a determinare la frequenza di "contagio". Bensì l'età: i partecipanti più vecchi sono stati anche quelli a sbadigliare meno di riflesso.

In ogni caso, anche l'età, il fattore statisticamente più rilevante, ha influito soltanto per l'8% sulla frequenza di sbadigli contagiosi. Gli altri fattori che li determinano sono ancora tutti da chiarire. Capire se - per esempio - esistano componenti genetiche legate al fenomeno, potrebbe aiutare a comprendere meglio anche le malattie che rendono quasi "immuni" agli sbadigli contagiosi.



Dura mediamente, circa sei secondi, attiva la circolazione e rilassa i muscoli. Lo sbadiglio è uno stiramento che risveglia la totalità del nostro essere e libera un po’ di tensione dal corpo. Le circostanze in cui si sbadiglia sono diverse. In parte è involontario, ma può essere anche volontario, ed è possibile indurlo o modularlo.

Uno dei motivi per cui si sbadiglia è legato alla possibilità di addormentarsi, quando ciò viene considerato fisicamente o socialmente pericoloso. Il sonno diventa un nemico da combattere e lo sbadiglio, al contrario di quello che si pensa, aggredisce e avverte. E’ un riflesso del nostro organismo per resistere alla fatica e alla fame. Sbadigliare vuol dire aumentare la quantità di ossigeno nell’organismo, favorisce la circolazione e lo scambio respiratorio tra il corpo e l’ambiente. Attraverso lo sbadiglio inghiottiamo una grande quantità di aria in un solo colpo, apportando ossigeno al sangue e stimolando l’attività delle nostre cellule, così da produrre energia da usare come carburante, per compensare una carenza energetica. Non abbiate paura di sbadigliare spesso durante il giorno, anzi datevi l’opportunità per farlo, eseguirete uno stiramento rapido, ma di fondamentale importanza per l’equilibrio energetico dell’organismo.

Sbadigliare aiuta anche a lenire il dolore: l’aumento dell’ossigeno nel sangue spegne la mente “razionale”, ci si distrae e le energie risparmiate si usano per produrre sostanze che il nostro organismo produce per calmare il dolore. E non solo! L’inibizione della mente razionale libera le capacità più intuitive e creative che stanno dietro a ogni colpo di genio. Infine, ma non meno interessante, è sapere che lo sbadiglio aumenta le capacità percettive e galvanizza i sensori del piacere…





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mercoledì 22 aprile 2015

PERSONE DI LUINO : PIERO CHIARA

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Nacque il 23 marzo 1913 a Luino, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Figlio unico di Eugenio, doganiere, nato nel 1867 a Resuttano, nel cuore della Sicilia, e di Virginia Maffei, originaria del Vergante, che a Luino gestiva con il fratello Pietro un negozio di cesti e ombrelli, venne battezzato Pierino Angelo Carmelo.

Trascorse l’infanzia in una casa situata nei pressi del porto di Luino. In ambito scolastico manifestò presto gravi difficoltà, che in terza elementare si tradussero in una bocciatura, dovuta all’abitudine di evadere l’obbligo per bighellonare in campagna, sulle rive del lago o tra i banchi dell’animato mercato locale. L’anno successivo ottenne la promozione a patto che si ritirasse dalla scuola pubblica. Nell’autunno del 1923 entrò dunque nel severo collegio salesiano S. Luigi di Intra, dove resistette sino alla quinta, quando i genitori lo trasferirono al collegio De Filippi di Arona. Di nuovo respinto in seconda ginnasio, si impiegò come apprendista nella bottega di un fotografo luinese. Fallito quest’ultimo, si iscrisse all’istituto Omar di Novara, per diplomarsi perito meccanico. Abbandonò tuttavia il proposito e fece ritorno al paese natale, dove preparò da privatista gli esami per la licenza complementare, che ottenne nel giugno 1929. Maturava intanto un’avida passione per la letteratura, che lo portava ad alternare le biblioteche alle palestre, dove praticava pugilato e lotta per tonificare il fisico minuto.

Dopo aver soggiornato a Roma e a Napoli, ancora minorenne decise di emigrare in Francia. Abitò a Nizza e poi a Parigi, esercitando svariati mestieri. Rientrato nel 1931 a Luino, fu esentato dal servizio militare a causa della forte miopia. Si diede a una vita scioperata, fra carte e biliardo, con lunghi soggiorni a Milano, dove – oltre ai caffè – era solito frequentare le sale di lettura dell’Ambrosiana e di Brera.

Vinto un concorso nell’amministrazione della Giustizia per un posto di aiutante di cancelleria, nell’ottobre 1932 venne assegnato alla pretura di Pontebba; subito spostato ad Aidùssina, al confine iugoslavo, vi trascorse un duro inverno. Nell’aprile 1933 fu trasferito a Cividale del Friuli, dove trovò un ambiente stimolante, che lo spinse a ragionare criticamente sui precetti fascisti assimilati in precedenza. Sorpreso in piacevole compagnia sul luogo di lavoro, se la cavò con un periodo di aspettativa per motivi di salute, cui fece seguito nella primavera del 1934 la destinazione alla pretura di Varese.

In questa fase irrobustì con l’entusiasmo dell’autodidatta la sua preparazione culturale. Lesse Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, i romanzieri francesi e russi dell’Ottocento, ma anche Boccaccio e il Lazarillo de Tormes. Favorito dal tempo libero a disposizione, avviò qualche collaborazione con periodici locali, scrivendo soprattutto di arte.

Collezionò intanto avventure sentimentali, fino a che si invaghì, corrisposto, della giovanissima Jula Scherb, figlia di un illustre medico zurighese. La coppia regolarizzò la propria unione il 20 ottobre 1936 nella basilica di S. Ambrogio, a Milano, e si stabilì a Varese. Presto montò un crescendo di incomprensioni reciproche, che neppure la nascita del figlio Marco, nel luglio 1937, riuscì a interrompere. Chiara auspicava un radicale cambiamento di vita, che parve prender forma nell’estate del 1939, quando – ottenuto un visto per la Bolivia – si apprestò alla partenza per il Sudamerica. Ma lo scoppio della guerra lo costrinse a rinunciare al viaggio.

Dopo la breve chiamata alle armi, nonostante il suo disinteressamento alla politica, fu costretto a fuggire in Svizzera (1944) in seguito a un ordine di cattura emesso dal Tribunale Speciale Fascista per aver messo, il 25 luglio 1943 alla caduta del Fascismo, il busto di Mussolini nella gabbia degli imputati del tribunale in cui lavorava. In Svizzera visse in alcuni campi in cui venivano internati i rifugiati italiani. Finita la guerra, insegnò lettere al liceo italiano dello Zugerberg e l'anno dopo tornò in Italia.

Inizia un periodo di fervida inventiva e continua creatività.

Nel 1970 Piero Chiara ha un ruolo di attore in Venga a prendere il caffè da noi, film diretto da Alberto Lattuada e interpretato da Ugo Tognazzi, tratto dal suo romanzo del 1964 La spartizione, per il quale collabora anche alla sceneggiatura. Nello stesso anno prese parte sempre come attore allo sceneggiato Rai I giovedì della signora Giulia, tratto dal suo omonimo romanzo (parzialmente modificato nel finale), interpretando la parte del Pretore.

Il suo successo culmina nel 1976 con il capolavoro La stanza del vescovo che diventerà immediatamente un film di grande successo diretto da Dino Risi e interpretato anch'esso da Ugo Tognazzi, insieme a Ornella Muti.

Spesso appare come comparsa o recitando in piccole parti nei film tratti dai suoi romanzi, per esempio proprio come cancelliere del tribunale in La stanza del vescovo.

Morirà dieci anni dopo, a Varese, dopo aver anche ricoperto numerosi incarichi nel Partito Liberale Italiano anche a livello nazionale. Lo scrittore fu inoltre affiliato alla Massoneria nelle logge di Varese, Milano e Como.

Tre anni dopo la sua morte, un gruppo di amici, con il supporto degli enti locali del Varesotto, onorerà la sua memoria istituendo il Premio Chiara, un premio letterario rivolto a raccolte di racconti pubblicate in Italia e Svizzera italiana, cui saranno via via affiancate numerose iniziative a sfondo culturale.

Piero Chiara è il poeta delle piccole storie del "grande lago" che spesso fa da palcoscenico ai suoi brevi ed illuminanti racconti. Narra le piccolezze della vita di provincia con quello stile mai insipido, sempre venato di arguzia, di ironia, a tratti di un sottile e malinconico umorismo, e sempre capace di cogliere nel quotidiano l'essenza, ormai dimenticata, della vita.

Chiara dipinge i tratti della vita dell'alta Lombardia e dei cantoni svizzeri: una vita di frontiera, fatta di spalloni e contrabbandieri, briganti e fuggiaschi, ma soprattutto della piccola borghesia e di personaggi quotidiani.

Amante del biliardo e dell'ozio, molti personaggi saranno in parte autobiografici. Così scopriremo gli altarini del pretore di provincia o della moglie del commercialista che si fa curare dal medico del paese. Storielle ben narrate, che scorrono veloci tra le righe, talmente ben congegnate, che non ci persuadono non esser vere. Nei suoi libri non è importante solo la descrizione dei luoghi ma anche (e soprattutto) l'indagine psicologica dei personaggi, la capacità di metterne in evidenza vizi e virtù con un sorriso ironico, spregiudicato ma mai irrispettoso. Il segreto di Chiara è nella sua capacità di raccontare, nella scelta di argomenti anche "scabrosi" (l'omicidio, l'adulterio, l'ossessione erotica) senza mai cedere a compiacimenti volgari: Chiara descrive caratteri e situazioni, non indulge a cedimenti morbosi. Traspare dalle sue pagine un senso di nostalgia, ma anche la disincantata consapevolezza che il ritorno al passato non è realizzabile. L'amarezza dello scrittore emerge soprattutto nelle ultime opere, da "Il cappotto di astrakan" a "Vedrò Singapore?", fino al postumo "Saluti notturni dal Passo della Cisa", disillusa storia di provincia ispirata a un fatto di cronaca.

Chiara, oltre che uno scrittore di grande successo, fu uno dei più noti studiosi della vita e delle opere dello scrittore e avventuriero Giacomo Casanova. Pubblicò molti scritti sull'argomento che raccolse poi nel libro “Il vero Casanova” (1977). Curò, per Mondadori, la prima edizione integrale, basata sul manoscritto originale, dell'opera autobiografica del Casanova: Histoire de ma vie. Scrisse anche la sceneggiatura dell'edizione televisiva (1980) dell'opera di Arthur Schnitzler Il ritorno di Casanova.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-luino.html




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martedì 21 aprile 2015

PERSONE DI BESOZZO : BEATO ALBERTO DA BESOZZO

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Le vicende di Alberto Besozzi ci sono state trasmesse dagli studiosi di storia locale e da antiche cronache che, nei secoli, hanno raccolto quanto, a partire dalla fine del XII secolo, oralmente si tramandava in tutta la zona del Lago Maggiore. Alberto nacque ad Arolo, da illustre famiglia milanese, ma rimase orfano di padre in tenera età. Aveva una posizione sociale agiata, l’avidità però lo portò a praticare l’usura e commerci poco leciti fino a quando, intorno al 1170, un incidente diede una svolta alla sua vita. Mentre con alcuni compagni si trovava in barca sul lago, viveva infatti commerciando da una costa all’altra del Verbano, tornando dal mercato di Lesa (il più antico della zona), venne sorpreso da una terribile tempesta. Credendo di essere ormai spacciato, preso da gran paura, invocò l’aiuto divino e promise di cambiar vita. In particolare, si rivolse a S. Caterina d’Alessandria di cui era molto devoto (il culto era vivo nella zona grazie all’influsso di quanti tornavano dalle crociate). Morirono tutti i suoi compagni, mentre lui approdò su una piccola insenatura nei pressi di Leggiuno, tra Ispra e Laveno, dov’era un sasso attaccato alla costa chiamato “Bàllarò", quasi a indicarne l’instabilità. Alberto, miracolato, dopo la terribile esperienza divenne riflessivo. Ne parlò con parenti e amici: voleva mantenere il voto e iniziò col porre rimedio alle sue malefatte. La moglie, anch’essa una nobile milanese molto pia, non solo l’assecondò, ma, di comune accordo, entrò in monastero. Alberto decise di ritirarsi, povero e solo, dove le onde durante la tempesta l’avevano gettato. Imitando Giovanni Battista, si sarebbe cibato di quanto la natura gli offriva e del pane che i naviganti ponevano nel cesto che calava dall’alto. A poco a poco crebbe la fama di santità dell’eremita dalla lunga barba e dai capelli bianchi. In molti si avventuravano fino alla sua grotta per riceverne consiglio. Persino una rappresentanza ufficiale dei vari paesi vicini, nel 1195, gli chiese di intercedere per la fine di una terribile pestilenza. Alberto, dopo otto giorni di ardenti orazioni, ottenne la grazia e, come segno di gratitudine, disse di costruire a fianco della grotta un piccolo tempio a modello di quello che era dedicato a Santa Caterina sul lontano Monte Sinai. Alla sua morte, nel 1205, ebbe sepoltura nella chiesetta e fu acclamato beato da tutti gli abitanti del Verbano, anche se il culto non fu mai ufficialmente approvato. Paolo Morigia, gesuita ed eminente storico vissuto nel XVI secolo, posticipa la vita del Besozzi di un secolo e mezzo.
Intorno al 1250 i domenicani giunsero a Sasso Bàllarò per assistere i pellegrini che in numero sempre maggiore visitavano la tomba di Alberto. Il corpo fu trovato incorrotto dopo circa un secolo e ancora oggi così si conserva. Nella cappella furono in poco tempo collocati numerosi ex-voto. Nel 1270 venne costruita dai nobili di Ispra la cappella di S. Maria Nova dopo che la zona fu liberata, per intercessione del beato, da branchi di lupi. Gli abitanti di Intra, nel 1310, costruirono la Chiesa di S. Nicolao, impreziosita da un ciclo di affreschi. Nel 1379 ai domenicani subentrarono gli eremitani di Sant’Agostino, poi arrivarono i religiosi di Sant’Ambrogio ad Nemus di Milano. Verso la metà del '400 i tre edifici furono conglobati in un solo Santuario, al quale venne affiancato un piccolo chiostro. Nel 1574 però una frana interruppe il sentiero che portava a Reno. Nel 1612 fu eseguita da Giovanni Battista De Advocatis una tela raffigurante l’eremita, oggi posta sull'altare maggiore. Intorno al 1640 avvenne un fatto straordinario che ne accrebbe la fama: alcuni massi caddero dalla parete rocciosa, sfondando la volta della cappella del Besozzi, arrestandosi però a breve distanza dalla tomba. Nonostante ciò, Papa Urbano VIII nel 1643 emise una bolla con la quale l’eremo venne soppresso, ma dal 1670, grazie ai Carmelitani di Mantova, vi fu una rinascita fino a quando, nel 1770, gli Asburgo ne ordinarono la chiusura, essendovi pochi religiosi. Per Santa Caterina del Sasso iniziò la fase di decadimento e in seguito il complesso fu ceduto alla parrocchia di Leggiuno. Il complesso nel 1914 fu dichiarato monumento nazionale, nel 1970 venne acquistato dalla Provincia di Varese che lo restaurò. Oggi se ne prendono cura gli Oblati Benedettini. I massi “miracolosi” furono rimossi solo nel 1983. Oasi di pace e preghiera, raggiungibile attraverso una lunga scalinata, il monastero, aggrappato ad un costone di roccia alto circa sessanta metri a strapiombo a 15 metri dall’acqua, offre una vista sul lago di straordinaria bellezza.



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