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lunedì 21 agosto 2017

DIFFERENZA TRA UOMO E ANIMALE

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“Non saranno Einstein, ma- scrive Stanley Coren- sono di sicuro molto più del previsto simile a noi”. “Più conosco gli uomini, più amo i cani” (M.de Savignè).


Nel XVII secolo Cartesio, iniziatore del razionalismo moderno, stabilì che solo l’uomo è un essere razionale, ponendo come principio del sapere il “cogito ergo sum”, cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza. Decretò poi un netto dualismo tra pensiero -“res cogitans”- e materia- “res extensa”. Gli animali, per il filosofo francese, non agiscono “per conoscenza, ma soltanto per la disposizione dei loro organi”.

Il comportamento animale sembra riecheggiare il nostro. L’uomo però è l’unico animale ad arrossire e a vergognarsi. Ed è pure- rileva Mark Twain- l’unico “che ne ha bisogno”.

Il cervello e il sapere scientifico tuttavia sono una lama a doppio taglio. Possono essere usati per propositi nobili o per propositi meschini, personali o ignobili. Di qui, l’esigenza di un nuovo umanesimo, il cui fine è quello di realizzare il benessere mentale e fisico della persona, che è il motore che traina l’evoluzione della civiltà. Una civiltà più umana e umanizzante. Che possa affermare il primato dell’empatia, della solidarietà e del bene rispetto all’egoismo e alla malvagità.
Un prezioso contributo alla costruzione di questo processo può essere offerto dalla capacità dell’essere umano di riuscire a conoscere, apprendere e tesaurizzare lo straordinario dono di affezione, dedizione e tenerezza del nostro cucciolo. Sentimenti che purtroppo non albergano in tutti gli uomini. In molti prevalgono l’odio e il rancore, l’insensibilità e un’arrogante ignoranza.

Superando la propria condizione biologica, l’uomo è chiamato ad aprirsi alla conoscenza di nuove dimensioni, ha ricordato Benedetto XVI in un’omelia del 9 marzo 2008. Anche gli animali conoscono – ha proseguito il Papa – “ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica”. A differenza degli animali, l’uomo invece “ha sete di una conoscenza dell’infinito”.

Queste parole del Papa rappresentano un orientamento per la cultura dei nostri giorni, rispetto alla scottante e non sempre chiara questione dell’uomo e dell’animale.

Un esempio di questa situazione di confusione, nel contesto spagnolo, è dato dalla mozione dell’11 aprile 2006 della Camera dei deputati spagnola, con la quale si invita il Governo ad aderire al progetto “gran simio” (“grande scimmia”), ideato dagli animalisti Peter Singer e Paola Cavalieri, per promuovere la parità di condizioni giuridiche tra tutti i componenti della “comunità dei simili”, composta dai grandi antropoidi e dagli esseri umani.

L’uomo vive in genere nelle grandi città, dove gli animali sono confinati negli zoo, nei circhi o tenuti nei salotti di casa. Solo in campagna possiamo ancora credere che gli animali aiutino l’uomo nel suo lavoro e siano per lui fonte di alimentazione, compagni di lavoro, amici. Quello che interessa all’uomo d’oggi è la tecnologia che egli stesso costruisce. 

Paradossalmente però, più l’uomo sembra allontanarsi dall’animale, più cerca di avvicinarselo : ed ecco allora l’invenzione di teorie che sostengono la completa - o quasi – identità tra l’uomo e l’animale, come la sociobiologia, e il sorgere, su un altro versante, dei movimenti ecologisti, le società protettrici degli animali, le lotte contro la vivisezione ecc. 

Nel mondo greco  Aristotele (384-322 a.C.) dedicò diverse opere agli animali ed esse sono il primo grandioso tentativo sistematico e scientifico, nel senso moderno del termine, di dire qualcosa di valido “oggettivamente” su di essi e sull’uomo. 
Aristotele divise gli animali in due grandi gruppi : i sanguigni (che corrispondono più o meno ai nostri vertebrati) e i non sanguigni (i nostri invertebrati). I sanguigni si dividono a loro volta in vivipari (= mammiferi), ovipari (= rettili e uccelli) e ovovivipari (= pesci), mentre i non sanguigni si dividono in cefalopodi, crostacei, insetti e gasteropodi. 
In quanto poi alla distinzione tra l’uomo e l’animale, Aristotele ritiene che vi siano parecchie differenze: ad esempio l’uomo è l’unico ad avere posizione eretta, l’uomo è l’unico che ride, che ha la capacità di deliberare, che ha il linguaggio, che ha, in ultimo, la capacità di essere felice. 

Dopo i Greci, nel pensiero ebraico-cristiano è ulteriormente ribadita la distinzione tra uomo e animale. Comunque per la Bibbia il destino degli animali e dell’uomo è strettamente legato. Gli animali hanno una propria dignità che la Scrittura sottolinea più volte (ad es. il sabato tutti gli animali hanno diritto di riposare). Pur essendo solo l’uomo “ad immagine e somiglianza di Dio”, l’uomo non deve trattare gli animali con disprezzo : è anzi responsabile di ogni malvagità commessa nei confronti degli animali e del mondo che lo circonda.  

Tutto ciò che è seguito, nella storia dell’Occidente, è stato influenzato, direttamente o indirettamente, da queste concezioni. Nell’Ottocento, con Darwin, viene avanzato l’ipotesi dell’origine dell’uomo da forme di vita più semplici. Per alcuni poi tra l’uomo e l’animale vi è solo una differenza di quantità e non di qualità. Fino a quasi tutto l’Ottocento si è comunque cercato di spiegare l’animale e l’uomo guardando all’indietro, cercando qualcosa di più semplice a cui l’uomo potesse essere ricondotto o addirittura ridotto. Verso la fine dell’Ottocento si fa invece strada un’ipotesi del tutto diversa, e cioè che l’uomo e l’animale siano degli abbozzi di essere, cioè che essi siano soltanto una tappa verso una forma diversa di essere a cui tendono in futuro (Bergson, Blondel ecc.).  

Alcuni autori considerano l’animale umano come parte di un “continuum” con gli altri animali, mentre altri riconoscono una “netta divisione” fra umani e animali. Gli studi finora riconoscono le enormi differenze presenti tra la mente e il cervello dell’uomo e le strutture cerebrali dei non umani.
Invero, per lungo tempo gli animali sono stati considerati come misteriose entità, assumendo il significato di simboli religiosi (per gli Egizi), simboli moralistici (favole di Esopo), espressione della creazione divina (S. Francesco), oggetto di divertimento venatorio (Federico II di Svevia), macchine insensibili (Cartesio).
Con Darwin, il comportamento viene per la prima volta considerato un carattere della specie, che si è affermato a seguito di un processo evolutivo. Egli fu anche il primo a dare importanza alle attività psichiche degli animali e ad affrontare scientificamente il problema dell’istinto e dell’apprendimento.
Gli esseri umani hanno una capacità “innata” di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, intuizioni, credenze e stati mentali diversi. Questa capacità è stata chiamata per la prima volta “teoria della mente” (TOM) nel 1978 da David Premack. La qualità di osservare il comportamento altrui e inferire gli stati mentali interiori è già presente nei bambini di quattro-cinque anni di età. Ci sono addirittura indici della presenza della TOM persino prima dei due anni di età (Striedter). I soggetti che presentano sindrome di autismo hanno deficit legati alla teoria della mente e ai neuroni specchio.
Oggi la più grande sfida della nuova scienza del cervello è quella di scoprire in che modo funziona la mente. La maggior parte dei processi cerebrali ha luogo senza che noi ne siamo consapevoli (Posner). La funzione del cervello, infatti, presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade a livello cosciente e ciò che accade a livello non cosciente.
In realtà, la coscienza è un fenomeno che riguarda la dimensione soggettiva, introspettiva dell’essere umano, riguarda i suoi stati d’animo. I quali purtroppo non ci possono dare una risposta certa, poiché gli stati d’animo- chiamati “qualia” dai neuro scienziati- “non sono misurabili in maniera oggettiva” (Dehaene).
Ci sono dunque autori che affermano che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione scientifica, ossia che è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso i neuroni, le sinapsi o i neurotrasmettitori. “Ignoramus ignorabimus”: siamo condannati all’ignoranza eterna? Non è assolutamente così. Ci sono in effetti altri studiosi che ritengono che possa essere possibile decifrare quell’elemento così “unico” che chiamiamo coscienza. Tentare allora di avvicinarci alla mente e alla coscienza con i metodi scientifici rappresenta un’impresa persino più fantastica e affascinante.
In questi ultimi anni, le nostre conoscenze sul cervello sono progredite enormemente, soprattutto in virtù degli eccezionali avanzamenti delle metodiche di neuro imaging funzionale. Prima gli studi negli anni Ottanta del secolo scorso di Francis Crick con l’opera “La scienza e l’anima” poi le ricerche di Edelman, Kandel, Damasio, Gazzaniga e tanti altri, hanno definitivamente sancito che lo studio scientifico delle basi neurali della coscienza e della mente è “empiricamente possibile sul piano teorico e sperimentale” (Gazzaniga).



Gli esperimenti condotti sugli animali dunque rappresentano il miglior modo di studiare il cervello e la mente umana. Le ricerche mostrano che esistono molti livelli di coscienza. E’ generalmente accettato- scrive Gazzaniga- che i mammiferi “siano coscienti del qui e adesso”. La questione principale tuttavia è che non siamo in grado di elaborare un esperimento che possa valutare il grado di coscienza di un animale non verbale. Anche se non possiamo fare esperienza della coscienza dei membri di altre specie, possiamo inferire che animali come i cani “siano coscienti” (Edelman). Questa affermazione si basa sul loro comportamento e sulla “stretta somiglianza tra il loro cervello e il nostro”.
I cani e altri mammiferi sono dotati di “coscienza primaria”, che è consapevolezza delle cose del mondo “hic et nunc”. Un po’ come l’illuminazione di una stanza buia da parte di un raggio di luce. Non sono “coscienti di essere coscienti”. Non sono dotati cioè di coscienza di “ordine superiore” come noi. Gli scimpanzé possono usare simboli, facoltà che potrebbe rivelare l’esistenza di un segno di “coscienza superiore” (coscienza di coscienza).
Per coscienza intendiamo la capacità di possedere un certo livello di autoconsapevolezza. Ciò significa essere oggetto della propria attenzione. Si va dal semplice essere consapevoli degli stimoli ambientali- “Io sento la musica delle onde del mare”- sino alla possibilità di “concettualizzare” le informazioni su di sé che necessitano di essere determinate in maniera astratta- “Io sono un soggetto romantico”-. Gli studiosi si sono concentrati su due ambiti: l’autoconsapevolezza animale e la metacognizione animale, cioè pensare di pensare.
Analizzando l’autoconsapevolezza animale, Marc Hauser scrive che “tutti gli organismi sociali che si riproducono sessualmente sembrano essere dotati di meccanismi neurali per discriminare i maschi dalle femmine, i cuccioli dagli adulti e i parenti dagli estranei”.
Molti sistemi differenti si sono evoluti per aiutarci- chiarisce Gazzaniga- a identificare i parenti dagli estranei. Un sistema che molti uccelli possiedono è l’imprinting. Il primo individuo che vedono è la madre. Le api e le vespe riconoscono la loro colonia dall’odore, gli scoiattoli utilizzano l’odore per il riconoscimento e i pipistrelli riconoscono i loro piccoli tra migliaia di altri attraverso la comunicazione vocale e olfattiva (J.M.Mateo).
Gli esperimenti attuali mostrano che gli animali non hanno memoria episodica e non sono in grado di “viaggiare nel tempo” con l’immaginazione. Di recente, alcuni studi hanno cercato prove dell’esistenza di forme di metacognizione animale nei ratti. Le prospettive sono attraenti, ma necessitano di ulteriori verifiche.
Invero, dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali si sta rivelando un compito complesso, delicato e difficile. Attribuire agli animali azioni coscienti costituisce una forte tentazione, è qualcosa che affascina.
Finora, il problema è stato affrontato da due prospettive diverse. Una si basa sull’auto riconoscimento allo specchio, l’altra sull’imitazione. Lo scienziato Gordon Gallup ha esaminato il problema, realizzando un test durante il quale anestetizzava alcuni scimpanzé, metteva loro un segno rosso su di un orecchio e sul sopracciglio e poi, quando si erano ripresi dall’anestesia, li metteva davanti a uno specchio. Prima non toccavano i loro segni rossi, ma una volta che veniva presentato loro lo specchio gli scimpanzé lo facevano. Lasciati davanti allo specchio, dopo un po’ cominciavano a osservare parti del loro corpo. Non tutti gli scimpanzé manifestavano tuttavia la capacità di riconoscersi allo specchio (MSR). Due delfini e uno su cinque elefanti, testati in due studi diversi, hanno anch’essi superato il test del segno rosso (Povinelli).
La capacità di auto riconoscersi nei primati, nei delfini e negli elefanti denota un’evoluzione convergente dovuta all’interazione di fattori biologici con fattori ambientali (Gallup). Essa implica altresì che il soggetto è in grado di compiere un’astrazione. E’ capace di “razionalizzare” (Anderson).
Altre specie animali che dimostrino di possedere una MSR finora non sono state trovate. Questo è il motivo per cui il nostro cucciolo Kimi non sembra affatto interessato quando cerchiamo di farlo guardare allo specchio. L’ipotesi di Gallup è che l’auto riconoscimento allo specchio implica la presenza di un concetto di sé e un’autoconsapevolezza. I bambini superano il test del segno rosso all’età di due anni, dimostrando di avere la MSR.
L’altra prospettiva per dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali è l’imitazione. Se si è capaci di imitare le azioni altrui, allora- sostiene Joseph Call, che ha analizzato lo stato attuale della ricerca in questo campo- si è anche capaci di distinguere tra le proprie azioni e quelle dell’altro.
Esistono evidenze di imitazione nel mondo animale. La maggior parte delle prove nei primati tuttavia indica una capacità di “riprodurre” il risultato di un’azione, non di “imitare” l’azione in sé. Alcune ricerche rivelano la presenza di un comportamento di “pianificazione” negli oranghi, nei bonobo (Mulcahy,Call) e nelle ghiandaie (Clayton). Le quali nascondono diversi tipi di cibo in luoghi differenti, in momenti diversi e vanno poi a ricercare il cibo in maniera selettiva, cercando prima il cibo che deperisce, e mangiandolo, rispetto al cibo che si conserva meglio. I risultati di questi studi suggeriscono che la pianificazione “non è una capacità unicamente umana”.
Al centro della ricerca neuro scientifica c’è l’esigenza di capire in che modo la coscienza si sviluppa e da dove viene, quali sono cioè le sue origini filogenetiche. Gli studi sperimentali degli istinti animali mostrano che i primi “segni” di coscienza si manifestano nel regno animale, a partire dalle “emozioni primordiali” come la sete, la fame, il bisogno d’aria, il desiderio sessuale, l’appetito per i soli minerali. Queste emozioni- rileva Denton- sono indispensabili alla sopravvivenza degli organismi viventi.
Le ricerche sugli animali- dagli insetti ai polpi, dai pesci ai vertebrati- dimostrano che l’emozione primordiale di questi bisogni e la loro gratificazione costituiscono “una pietra miliare” sul percorso che porta alla nascita della coscienza. Le emozioni primordiali formerebbero una sorta di primo “Sé” per arrivare poi all’elaborazione di quella che Denton chiama una “scena interiore” della coscienza. La quale è la capacità di riconoscere la “differenza” tra i propri pensieri e le informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno (Brentano).
L’idea avanzata da molti scienziati è che le emozioni primordiali costituiscano la prima comparsa della coscienza (Damasio). Questo assunto mostra che la coscienza non è una facoltà esclusivamente umana.
Le dimostrazioni condotte da Derek Denton ci offrono un’analisi precisa dei diversi comportamenti osservati negli animali. Comportamenti che hanno portato gli scienziati a formulare stupefacenti domande. Le api, per esempio, possiedono una coscienza collettiva? Il pesce può soffrire? Qual è la differenza tra la coscienza di un polpo e quella di un mammifero? Che cosa succede nel nostro cervello quando proviamo la sensazione di avere sete, quando beviamo e quando ci siamo dissetati? E che cosa accade con l’orgasmo? Presenta tratti in comune con la soddisfazione della sete?
Il neuroscienziato Denton riporta un caso illuminante. Una rana in stato di disidratazione viene collocata a pochi centimetri da una vasca d’acqua. Non farà nulla per cercarla e si lascerà morire. Posta nelle stesse condizioni, una lucertola invece cercherà l’acqua, la scoprirà e la berrà. Le strategie elaborate poi da un piccolo mammifero saranno ancora più sofisticate di quelle della lucertola.
La ricerca di una fonte d’acqua, in realtà, richiede molteplici conoscenze: la mappa dell’ambiente, il punto in cui si trova l’acqua, il tragitto da compiere, l’eventuale presenza di predatori. Queste operazioni sono attivate dalle connessioni neurali, le quali contribuiscono a “collegare” le molte aree cerebrali implicate. Si sviluppa così un sistema di “integrazione” che centralizza le informazioni, creando uno spazio nel quale- grazie alla corteccia cerebrale- si elabora una “pianificazione cosciente” dei comportamenti a venire. Le emozioni primordiali dunque svolgono un ruolo cruciale negli stati di coscienza.
Una delle qualità essenziali della mente è il possesso della facoltà di utilizzare “simboli” (Kenny). A questo proposito Donald Griffin, un autore che ha un ruolo fondamentale nell’aver posto in primo piano il tema della coscienza negli animali, cita il simbolismo insito nella danza delle api- “waggle dance”. E’ l’attività dell’ape a fare della sua danza un mezzo di comunicazione simbolica, come la ricerca di una nuova dimora, la ricognizione di luoghi e fonti di cibo o la ricerca di informazioni sulla qualità, la direzione e la distanza del luogo. Questi comportamenti evidenziano che le api sono in grado di esprimere “pensieri semplici”.
Le informazioni sensoriali e la categorizzazione percettiva di segnali visivi portano in sostanza alla definizione di coscienza, che è la capacità di costruire- secondo Edelman- una “scena mentale integrata” nel presente. Circa i processi cognitivi di apprendimento e memoria, esperimenti condotti sulle attitudini cognitive dei piccioni hanno rivelato che questi uccelli sono capaci di distinguere i colori e a riconoscere, tra decine di fotografie, quelle che ritraggono figure umane, alberi o palazzi (Herrnstein). I pulcini invece imparano ad evitare di ingerire cibo o di bere un liquido dal sapore amaro.
L’idea che nei pesci possa esistere qualche forma di coscienza è contestata da J.D.Rose, il quale basa il suo pensiero sul fatto che i pesci non possono provare dolore. E’ valutazione condivisa che per esprimere il dolore occorre essere coscienti. La consapevolezza del dolore dipende da specifiche regioni cerebrali. Nei pesci queste regioni mancano, ragione per cui mancano i requisiti neurali necessari per sentire il dolore.



L’argomento dei fenomeni mentali nei rettili, animali che costituiscono la derivazione di un ceppo ancestrale da cui sono discesi sia i mammiferi sia gli uccelli, è stato affrontato in particolare da Gordon Burghardt, il quale sostiene che i rettili dovrebbero essere studiati quali “precursori filogenetici” di tutti gli animali dotati di comportamenti complessi. E’ stato lo studioso G.G.Romanes, amico di Darwin, ad attribuire ai rettili “emozioni e intelletto”. Quando avverte la presenza di un predatore, il serpente “Heterodon nasicu”, ha osservato Burghardt, simula la morte, resta immobile, la bocca aperta, la lingua stesa in fuori e la sua respirazione sembrerà cessata. Risposte di immobilità sono state osservate anche in molti mammiferi e in uccelli. Con la simulazione della morte nel serpente, si ottengono dati sperimentali che “concordano” con le ipotesi di Griffin di uno stato di coscienza negli animali.
Gli esperimenti compiuti da J.S.Beritoff sulla memoria delle immagini nel cane e sui comportamenti di lucertole, tartarughe, uccelli, babbuini e gatti mostrano che i loro atteggiamenti intenzionali sono indice di “una immagine mentale” e dunque sono espressione di una “coscienza”.
L’idea di intenzione, così come l’idea di obiettivo, è per Longuet-Higgins “parte integrante del concetto di mente”. Si può quindi ritenere che un organismo capace di avere “intenzioni” possegga “una mente” per elaborare un piano e prendere una decisione.
Oggi, è abbastanza comune fra gli scienziati- Young, Hebb e Hoch- considerare le risposte di un animale “il possibile prodotto di processi coscienti e di processi mentali”.
Già Darwin aveva osservato molti aspetti del comportamento animale, in particolare le emozioni, come riflessi di “stati coscienti”. Come osserva Miriam Rothschild, chiunque metta in dubbio la capacità degli animali di provare emozioni dovrebbe provare a portare un cane dal veterinario dopo che ci è già stato una prima volta. 
I dati ottenuti da Changeux e colleghi fanno inoltre ritenere che anche i topi dimostrano un comportamento complesso volto al raggiungimento di un obiettivo. Il concetto di Griffin, forse il massimo esponente in materia, è di una coscienza negli animali (rectius: in molti animali c’è un certo livello di coscienza) sia l’idea di altri autori come Longuett-Higgins sul comportamento intenzionale quale espressione di “un’immagine mentale”.
Per comprendere in maniera ancora più chiara la questione, diciamo che la funzione della coscienza è subordinata al fatto di essere “innestata” in un corpo, cioè alla consapevolezza del proprio stato corporeo in relazione a ciò che ci succede intorno. E’ lo stato corporeo che genera sensazioni e sentimenti. E la coscienza è costituita da sensazioni. Ciò fa ritenere che qualsiasi animale dotato di un tronco encefalico sia in grado di servirsi della coscienza.
Tutti i mammiferi hanno un tronco con nuclei e connessioni strutturati pressappoco come i nuclei umani (Solms, Turnbull). Vi sono buoni motivi per stimare che cani, gatti pinguini, balene, ratti e topolini possiedano una coscienza. Le stesse strutture elementari rendono un topo e un essere umano egualmente capaci di distinguere tra ciò che è “buono” e ciò che è “cattivo”. I topi, ad esempio, possono sentire un eccitante piacere quando si aspettano il soddisfacimento di un bisogno; provano paura in presenza di un nemico; sentono rabbia quando viene loro impedito il raggiungimento di una meta desiderata; soffrono se vengono separati dalla madre o dai propri simili, e così via.
Esistono, al riguardo, percezioni e reazioni affettive in larga parte di tipo innato e universale. Queste reazioni affettive vengono chiamate “emozioni di base”. La vista di un serpente, per esempio, determina sia nell’uomo che nel cane un sentimento di paura.
Noi condividiamo con tutti gli altri mammiferi tali “emozioni di base”. I cani, i gatti, i delfini, le balene, i ratti, i topi: tutti possiedono i meccanismi adattativi, cioè le “emozioni di base”. Le quali sono per l’appunto gli elementi costitutivi della coscienza. 
Vi sono tuttavia livelli “superiori” di coscienza, come “coscienza di coscienza”, che non condividiamo con gli altri mammiferi.
Oggi, gli studi più recenti che cercano prove di una qualche forma di metacognizione animale sono attraenti, ma necessitano di ulteriori approfondimenti prima che se ne possano trarre conclusioni definitive. Il fatto è che il nostro cervello- per usare una bella immagine di Gazzaniga- è simile a “un organo a canne, che suona la sua musica tutto il giorno e ha molte melodie da suonare”, mentre il cervello dell’animale ne ha poche. Più cose allora sappiamo, migliore è “il concerto”.
Le scimmie- è una grande scoperta di questi anni- possiedono i neuroni specchio. I quali sono stati localizzati per la prima volta proprio nel cervello delle scimmie. Essi si attivano quando, ad esempio, una scimmia afferra un attrezzo; ma si attivano anche quando la scimmia guarda un’altra scimmia afferrare l’oggetto. Il sistema dei neuroni specchio è alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui, rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione.
Gli animali perciò apprendono la cultura. Uno studio ha mostrato che almeno 39 tipi di comportamenti diversi negli scimpanzé sono effetti della cultura.
Il colore, definito da Kandinsky “un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, ha un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle sue ricerche, Humphrey ha scoperto che le scimmie “rhesus” di fronte alla luce rossa hanno “forti risposte emozionali”: diventano ” ansiose, irrequiete e agitate”, mentre quando la luce è blu divengono tranquille. Nell’ordine, esse preferivano il blu al verde, il verde al giallo. il giallo al rosso. In genere, anche gli esseri umani mostrano gli stessi comportamenti. Descrivono la sensazione del rosso come “forte, calda, eccitante e disturbante”. Si è scoperto altresì che la luce rossa suscita comportamenti aggressivi e litigiosi (Porter), nonché sintomi fisiologici dell’eccitazione sessuale.
A livello generale, i nostri cervelli e quelli degli scimpanzé sono strutturati in maniera quasi “identica” (Marcus). Entrambi hanno cortecce occipitali nel retro del capo, dove analizzano le informazioni. Entrambi poi hanno i cervelli suddivisi in emisfero destro e sinistro.
Dal punto di vista evolutivo, ci siamo separati dagli scimpanzé solo di recente, forse solo dai 4 ai 7 milioni di anni fa (Brunet) rispetto ai circa 85 milioni di anni da quando esistono i primati (Tavare e Martin). Il linguaggio e la mente umana vengono da quell’1,5 per cento di materiale genetico che ci separa dagli scimpanzé, ma anche dal 98,5 per cento che è condiviso.
Gli umani e le grandi scimmie, come gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, si sono evoluti tutti – afferma Gazzaniga- da “un antenato comune”. L’essere umano è l’unico ominide sopravvissuto del ramo originario separatosi dall’antenato comune con lo scimpanzé. E’ il caso di Lucy, fossile trovato nel 1974 che sconvolse il mondo della scienza in quanto bipede, ma priva di un cervello di grandi dimensioni.
Nel tempo, la nostra anatomia corporea è cambiata, fornendo le basi necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche che ci rendono unici. Il bipedismo ha reso le mani libere di agire. I nostri pollici arcuabili e opponibili ci hanno permesso di sviluppare la migliore coordinazione motoria tra le specie. La nostra laringe poi ci ha permesso di emettere un numero infinito di suoni che noi utilizziamo nel linguaggio. Altri cambiamenti sono avvenuti inoltre nel nostro cervello, cambiamenti che ci hanno permesso di comprendere che gli altri hanno pensieri, credenze e desideri.
Anche gli uccelli, come le api e gli altri animali, mostrano attitudini all’apprendimento. Nei loro cervelli vi sono regioni associate al rilevamento del gusto, dell’odore e del suono, al movimento, alla memoria spaziale e all’apprendimento del canto. Alcuni uccelli come i canarini possono imparare un numero di canti sottilmente differenti. Altre specie- le cince e le ghiandaie- sono capaci di fare scorta di centinaia di alimenti differenti durante l’estate per poi farne uso durante l’inverno. Sembra che imparare una canzone richieda sistemi neurali diversi nell’uccello canoro.
I castori costruiscono dighe e proteggono il loro confine con ramoscelli e fango, mentre i ragni filano le ragnatele. La lumaca raccoglie il calcio dal suo cibo e lo usa per secernere una conchiglia. A sua volta, il paguro si procura una conchiglia di calcio già fatta. L’organizzazione di una colonia di termiti è così meravigliosa che alcuni osservatori hanno pensato che ogni colonia deve avere un’anima (Marais).
Ci sono specie che riescono a colpirci per la loro capacità di “godersi la vita e divertirsi”. Pensiamo alle lontre, le quali si rotolano gaie nella neve, ai leoncini che si danno la caccia e ai nostri cani e gatti.
Con gli altri animali condividiamo inoltre la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del nostro cervello. Affermare- come fa il neuroscienziato Gazzaniga- che siamo “differenti” e unici nel regno animale, è una cosa ovvia, quasi banale.
Sta di fatto che gli animali presentano sin dalla loro comparsa istinti innati. I pulcini, ad esempio, appena usciti dal guscio sembrano avere la “permanenza” degli oggetti (Regolin). Piccoli cuccioli di Labrador possono seguire lo sguardo dei loro padroni (Coppinger). I cavalli sanno controllare i propri muscoli abbastanza bene da saper camminare già pochi minuti dopo la nascita. Anche i comportamenti più complessi sembrano innati. Nella danza di corteggiamento del maschio di un moscerino della frutta, per esempio, il piccolo animale esegue una sequenza di eventi che non ha mai visto prima.
I riflessi di auto-igiene di molti animali obbediscono spesso a comportamenti prefissati. Un topo inizia con il capo, procede verso il tronco e la regione ano-genitale e finisce con la coda (Sachs). Molti, forse tutti, gli animali non solo nascono con la capacità di percepire e agire, ma anche con la capacità di imparare e di utilizzare le esperienze passate per migliorare i comportamenti futuri (Marcus). Un comportamento che Marler ha definito “l’istinto a imparare”.
Il mondo animale- afferma Gallistel- è pieno di attitudini all’apprendimento. Pensiamo al comportamento di un uccello chiamato “ministro”, il quale usa le stelle come una carta nautica per trascorrere l’estate negli Stati Uniti e svernare alle Bahamas. Le api a loro volta utilizzano un meccanismo di apprendimento per aiutarsi a comprendere dove stiano andando, basandosi sulla traiettoria del sole. Due studiosi dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di riflettere sui propri pensieri. Capacità che viene chiamata metacognizione.Gli studi di Kandel sulla lumaca marina “Aplysia” sono stati fondamentali per indagare le basi neurali dell’apprendimento e della memoria. Anche la ricerca sul Moscerino della frutta “Drosophila” è stata determinante ai fini della conoscenza del comportamento e del funzionamento del cervello.



Ci sono comportamenti comuni che condividiamo con altre specie. Ci arrabbiamo di fronte alle violazioni di proprietà o agli attacchi alla nostra coalizione intenta a raccogliere cibo, proprio come fanno i cani e gli scimpanzé. In questo senso, noi diciamo che alcuni animali possiedono una “moralità imitativa” (Gazzaniga). La principale differenza consiste nel fatto che gli esseri umani possiedono una maggiore qualità, quantità e varietà di emozioni morali, come per esempio, la vergogna, il senso di colpa, il disgusto, il disprezzo, l’empatia, la compassione, nonché una maggiore varietà di comportamenti.
La ricerca mostra che in realtà esiste la possibilità che alcune capacità che sottendono la nostra facoltà morale siano presenti in animali non umani. Gli animali provano emozioni che motivano azioni che “possiedono una specificità morale”, come aiutare, danneggiare gli altri, così come riconciliare le differenze allo scopo di “ottenere un po’ di pace” (Hauser).
Intendiamo per empatia un sistema simile a quello dei neuroni specchio, che implica la capacità di provare la stessa cosa che prova qualcun altro. L’evidenza di forme di auto riconoscimento nei delfini denota un nesso tra imitazione, empatia e senso del sé. Anche agli elefanti vengono associati comportamenti sociali e comportamenti empatici.

Alcuni esperimenti condotti hanno riscontrato che se provvisti di matite o colori, gli scimpanzé si appassionavano nell’utilizzarli, fino al punto di trascurare addirittura “i loro cibi preferiti”. Ad alcuni di essi piace disegnare. Una serie di dipinti fatti da uno scimpanzé è stata venduta all’asta per “dodicimila sterline” (Gazzaniga). In letteratura scientifica c’è anche il caso dell’uccello giardiniere, che ha “eccellenti doti” di architetto e artista, in quanto per attirare la femmina costruisce grandi giardini multicolori di steli intrecciati (Ramachandran).

Per ansia, intendiamo una normale risposta innata a una minaccia o all’assenza di persone o di oggetti che assicurino o trasmettano sicurezza. Essa si manifesta in forma sia soggettiva- che va da un accentuato stato di vigilanza al senso di catastrofe imminente- che oggettiva come marcata reattività, stato di irrequietezza, modificazioni neurovegetative (variazione della frequenza cardiaca e della pressione del sangue).
L’ansia può avere un valore di adattamento, preparandoci ad affrontare un potenziale pericolo e a farci superare circostanze difficili. Quando diventa forte e persistente, l’ansia è patologica. Questa patologia inoltre è una componente dei disturbi psicotici e nevrotici.
Il disturbo d’ansia è stato studiato, impiegando modelli animali. L’ansia è una condizione tipicamente umana, ma è stato scoperto che anche animali meno complessi possono apprendere una risposta ansiosa. Forme d’ansia sono state studiate in animali come i ratti e le scimmie. Quello che è sorprendente è la scoperta di Kandel, neuro scienziato e premio Nobel, che anche animali più semplici, come la lumaca marina, “Aplysia”, vanno incontro a modificazioni comportamentali.
In modo simile a quanto avviene nell’uomo, gli animali mostrano comportamenti che evocano l’ansia anticipatoria (la paura). Recenti scoperte mostrano che “qualunque” forma di ansia si manifesta in “qualunque” animale (Kendal). Grande rilievo assumono gli esperimenti condotti sui roditori. Si è scoperto che i cuccioli di topo manifestano comportamenti reattivi alla separazione, consistenti in ripetuti richiami, in un comportamento agitato e di disperazione, nella tendenza a pulirsi compulsivamente il pelo, nella perdita di calore, nella perdita di cibo e nella perdita di stimolazione tattile (Hofer).
Gli esperimenti hanno poi dimostrato che la maggior parte degli animali, tra cui l’uomo, possiede un repertorio di comportamenti difensivi innati. Prima Pavlov poi Freud hanno riconosciuto che l’ansia può essere appresa e acquisita, e conservata tramite la memoria, senza tuttavia escludere il contributo di una predisposizione genetica. Gli animali dunque possono imparare varie forme di ansia come l’ansia anticipatoria e l’ansia cronica.
Non solo il cane e l’uomo, ma la maggior parte dei primati mostrano sintomi di paura e di disgusto nei confronti dei serpenti. L’odio verso i rettili ha un’origine biologica. Questa avversione viene motivata dal fatto che i serpenti evocano una particolare e intrinseca sensazione di repulsione attivata dai sistemi cerebrali di predisposizioni innate. Queste producono ansietà e paura, presentano varie implicazioni di pericolo e di violenza e favoriscono il rilascio di adrenalina, dando l’avvio a comportamenti di fuga o di combattimento.

Sull’ intelligenza e sul processo di apprendimento degli animali in generale, e del cane in particolare, importanza fondamentale assume la scoperta di Pavlov della “reazione condizionata”, cioè dei riflessi psichici. Con questa scoperta, consistente nell’apprendimento di un’associazione da parte del cane tra il suono di una campanella e la comparsa del cibo, aspettandosi il cibo ogni volta che sentiva la campanella, Pavlov diede la spinta allo sviluppo della moderna teoria dell’apprendimento e al movimento behavioristico in psicologia. Egli è perciò considerato lo studioso che dopo Freud ha maggiormente influenzato la psicologia contemporanea.
Gli esperimenti successivi di Tinkelpaugh mostrano che il cervello del primate si è evoluto per fissare “aspettative”. Molti scienziati poi hanno cercato di “decodificare” cosa dicono e cosa provano gli animali quando comunicano. Fin dai tempi di Darwin sappiamo che gli animali provano emozioni. Il cane che abbaia, il gatto che fa le fusa, o una scimmia che urla esprimono emozioni.
Il problema è sapere tuttavia se le nostre interpretazioni riflettono veramente le esperienze soggettive dell’animale. La paura ad esempio è uno stato emotivo che provano molti animali, forse a causa del ruolo “adattativo” nell’evitare i predatori e i rivali (Hagan).
Diversamente dagli esseri umani e dalle scimmie, i topi non possiedono un’espressione del viso tipica della paura. Rispondono immobilizzandosi. Nel processo di addomesticamento, gli animali devono perdere sia la paura degli uomini sia la propria tendenza a essere aggressivi. Osservando gli animali addomesticati come i cani, i gatti e molti animali che vivono nelle fattorie, è emersa una generale riduzione dell’aggressività.
I cani sono creature giocose e nel corso dell’evoluzione hanno utilizzato gesti ludici che guidano il gioco, compresi gli inviti a giocare e il segnale che l’intenzione è amichevole e non aggressiva.
La fiorente ricerca sulla lettura della mente negli animali presenta in proposito un quadro sempre più simile ai comportamenti dei bambini. Esistono analogie sorprendenti nel modo in cui gli animali elaborano come i bambini le azioni e le emozioni.
Cani e uccelli e le specie più vicine come le scimmie mostrano un’attenzione condivisa, una lettura degli scopi e delle intenzioni, nonché dell’uso della vista per tracciare inferenze sulla conoscenza.

Sono stati riscontrati comportamenti intelligenti negli animali, anche se non possono essere assimilati a quelli dell’uomo.
Nelle sue ricerche sui cani, Stanley Coren collega i comportamenti intelligenti dei cani alla lunga convivenza con l’uomo, cioè ad una forma di adattamento funzionale del cane all’uomo.
Si riconosce che forme di ragionamento elementare sono presenti in altri esseri viventi non umani e che forme di comunicazione sono ugualmente presenti in altri esseri viventi non umani. Da ricerche effettuate e da osservazioni empiriche si hanno riscontri precisi su comportamenti, circa intelligenti, diffusi un po’ dovunque nel mondo animale. Questi comportamenti presuppongono una qualche forma di attività da parte di un organo cerebrale che nell’uomo assume il nome di mente.
Oggi, la concezione di molti autori è orientata sulle simmetrie esistenti tra gli esseri viventi più che sulle asimmetrie. Tutti i processi di vita vengono, infatti, assunti come il risultato dell’evoluzione. La quale ha interessato tutti gli esseri del mondo, una linea di continuità che lega e attraversa tutti gli esseri viventi.
Riconoscere tuttavia comportamenti tipicamente “umani” nel mondo animale non deve significare misconoscere ciò che costituisce lo specifico dell’essere dell’uomo. La differenza tra gli esseri del mondo animale è determinata dalla presenza nell’uomo della capacità di pensare e parlare. Capacità che è all’origine del passaggio dell’uomo dall’animalità all’umanità. Una condizione assente nel mondo animale non umano o, se presente, del tutto diversa quanto a modalità di espressione e di apprendimento.
Esistono poi anche notevoli differenze comportamentali e intellettive tra le diverse razze di cani. Alcuni reperti ossei inoltre rinvenuti negli Usa indicano che la convivenza tra umani e cani risale a circa 11 mila anni orsono.
Sussistono diversi livelli di intelligenza nei cani. Coren suddivide l’intelligenza canina in tre categorie: quella istintiva, che il cane possiede dalla nascita; quella di adattamento, che dipende dalla capacità di imparare dall’ambiente e quella di ubbidienza, che è l’equivalente dell’apprendimento scolastico. Esiste anche un altro livello di intelligenza nei cani: la loro abilità a farsi capire e a capirci.
Cè una sterminata letteratura in materia di intelligenza: intendiamo la facoltà di comprendere prontamente, ovvero l’atto di capire, distinguere e risolvere problemi.
Il primo a porsi il problema sull’intelligenza dei cani fu Aristotele, il quale sosteneva che essi differiscono dall’uomo solo nel grado di possesso delle doti mentali, ammettendone così l’intelligenza. Il filosofo greco descrisse fra l’altro il comportamento alimentare delle api e il comportamento riproduttivo dei cefalopodi.
Darwin ha sostenuto che “i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà delle quali l’uomo va fiero, come amore, memoria, attenzione, curiosità, imitazione, ragione eccetera possono essere riscontrate in una fase incipiente e talora persino sviluppata negli animali inferiori”.
Secondo alcuni ricercatori, l’intelligenza del cane non è altro che un insieme di abilità mentali primarie ciascuna delle quali viene considerata come una facoltà a se stante.
Lo psicologo Howard Gardner, a sua volta, distingue sette intelligenze di cui alcune sono possedute anche dal cane.
L’intelligenza spaziale, che consiste nella capacità di avere presente l’organizzazione di quanto ci circonda, come ad esempio, il luogo in cui si trovano gli oggetti o la distanza fra due punti. Il cane sa localizzare oggetti, evitare luoghi pericolosi, trovare la via più breve verso la cuccia, aprire un chiavistello, rammentare dove si trova il suo giocattolo o il guinzaglio.
L’intelligenza corporeo-cinestetica corrisponde alla capacità di muovere il corpo in risposta alle varie situazioni: scrivere, fare sport, cacciare o per quanto riguarda il cane, entrare nei cespugli, salire sulle scale a pioli, partecipare a gare di agilità, ecc.
L’intelligenza interpersonale svolge determinati compiti o ruoli, come per esempio quello di capobranco. Essa si rivela anche quando il cane inizia a socializzare con altri o tenta di comunicare i propri bisogni.
L’intelligenza linguistica. Quando si chiama il cane o gli si dà determinati ordini ci accorgiamo che il nostro cucciolo possiede proprio tale capacità linguistica. Il cane poi riconosce il linguaggio del corpo anche in relazione alle emozioni e alle diverse situazioni sociali. Di fronte a un individuo arrabbiato, si mette quieto o addirittura se ne va.
Le ricerche hanno dimostrato inoltre che le capacità mentali dei cani equivalgono a quelle di un bambino di 2-2,5 anni. I più intelligenti sono considerati i Border Collie, al secondo posto c’è il barboncino e solo al terzo posto il pastore tedesco. Il Doberman occupa la quinta posizione, mentre al Labrador viene assegnato il settimo posto.
I cani possono imparare 165 parole, sono capaci di cantare e di imbrogliare deliberatamente i loro simili e gli umani.
Essi si interessano a quello che pensano gli uomini, sono capaci di osservare un individuo, prestando attenzione a dove sta guardando (Hare). I cani infine hanno senza dubbio capacità sociali migliori di altri animali e sono in grado di capire gli sguardi meglio degli scimpanzé.

Dai tempi della domesticazione, il cane ha servito l’uomo, mettendogli al servizio le sue innumerevoli doti fisiche, psichiche e soprattutto la fedeltà, che rimane un po’ il tratto caratteristico di questa specie.
Il più antico caso di domesticazione degli animali che si conosca risale a oltre 10 mila anni fa, quando resti umani e di cane compaiono per la prima volta nello stesso luogo di sepoltura. La domesticazione presenta una serie di caratteristiche come tendenza ad avere orecchie più flosce, il pelo ondulato o riccio e la coda più corta dei loro simili selvatici. Un’altra sua rilevante conseguenza è la diminuzione delle dimensioni del cervello.
Tutte le questioni esaminate nel presente lavoro confermano dunque che nella ricostruzione del cammino percorso negli ultimi anni le neuroscienze ci forniscono risposte chiare e convincenti, comunque scientificamente verificabili.
Così, sappiamo che ogni animale, come ogni essere umano, ha una sua personalità. Una scoperta sensazionale è che non solo gli animali presentano tratti individuali nel comportamento, ma le variabili caratteriali nel tempo possono mutare. Si assume inoltre che le caratteristiche di personalità- l’individualità- sono modellate e rimodellate da fattori poligenici, dallo sviluppo e dall’esperienza e costituiscono altresì una condizione essenziale per la sopravvivenza di ciascuna specie (Aamodt e Wang).

Riguardo all’amore e al sesso negli animali, gli studiosi parlano di “legame di coppia”, non di amore. Una ricerca tuttavia ha scoperto che l’arvicola della prateria, un piccolo roditore, rimane con lo stesso compagno tutta la vita. Un fatto inconsueto, poiché solo il 3-5 per cento dei mammiferi è monogamo. Entrambi i genitori si occupano della prole e quando un’arvicola rimane sola, di solito rifiuta di prendere un altro compagno.
Il legame di coppia è controllato da due neurotrasmettitori, l’ossitocina e la vasopressina, e si forma anche per mezzo dell’apprendimento condizionato, come ad esempio l’odore del partner. Esistono poi evidenze che mostrano come gli stessi circuiti neurali coinvolti nella creazione del rapporto di coppia siano alla base anche dell’attaccamento delle madri ai figli. Per il legame tra madre e figlio è, infatti, necessaria l’ossitocina.
Le scoperte in questo campo rivelano che oltre all’ossitocina anche i circuiti cerebrali della gratificazione sono elementi importanti sia per il legame di coppia sia nell’innamoramento. Secondo gli studi di Insel sembra che anche le pecore abbiano bisogno di ossitocina per formare l’attaccamento fra madre e prole, mentre i topi no. Fra gli scimpanzé, i legami di coppia sono sconosciuti probabilmente perché le regioni del loro cervello contengono meno recettori per l’ossitocina.
Nel 1992 William Jankowiak studiò 168 diverse culture etnografiche e non trovò nessuna che non conoscesse “l’amore romantico”. Queste ricerche confermano in sostanza quanto sostenuto da William Janes, e cioè che l’amore sia un istinto evoluto per selezione naturale e faccia parte del patrimonio della nostra specie proprio come “il possesso di quattro arti e di una mano con cinque dita”. I dati della ricerca poi provano che sebbene la poligamia sia ammessa nella maggior parte delle società, a prevalere siano le relazioni monogame, e nel fatto che gli esseri umani praticano “cure parentali”.
Nella ricerca delle differenze sessuali le più studiate sono quelle che hanno a che fare con la formazione della coppia. Sono emerse molte somiglianze. Entrambi i sessi desideravano partner intelligenti, onesti, degni di fiducia e cooperativi. Ma sono emerse anche alcune differenze. Le donne preferivano uomini più vecchi di loro, ambiziosi e con uno status alto. Agli uomini piacevano donne belle, giovani e fedeli. Questi studi provano che le somiglianze e le differenze fra i sessi siano universali (Buss). In una indagine sui fattori che determinano il comportamento sessuale negli esseri umani e negli animali, lo psicologo Diamond ha rilevato che i ruoli sessuali non sono il frutto di esperienze precoci, come sostenuto dal suo collega Money, ma innati. “Il più grande organo sessuale si trova- sostiene Diamond- in mezzo alle orecchie e non fra le gambe”. Nello storico e dibattuto confitto eredità-ambiente, la nostra concezione è per il superamento di entrambe le posizioni. Noi sosteniamo che l’identità sessuale è determinata sia da influenze ambientali e socio-culturali che da una base innata, istintiva, genetica.
Il comportamento sessuale è controllato dall’ipotalamo, un’area del cervello importante anche per altre funzioni fondamentali come mangiare, bere e regolare la temperatura corporea. Sembra inoltre che l’attivazione del comportamento sessuale in età adulta dipenda dal testosterone, l’ormone associato alla libido sia nei maschi che nelle femmine, nonché da tutta una serie di modelli comportamentali e di rapporti sociali.
Una ricerca effettuata da scienziati olandesi ha studiato l’attività del cervello durante l’orgasmo con i metodi di neuro imaging. Si è scoperto che in entrambi i sessi durante l’orgasmo si attivava il sistema di gratificazione del cervello e aumentava l’attività nel cervelletto, che di recente è stato collegato “all’eccitazione emotiva e alla sorpresa sensoriale” (Aamodt e Wang).




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venerdì 30 ottobre 2015

L'INFINITO

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« Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima. »
(Albert Einstein)

Il senso dell'infinito si può già comprendere guardando anche solo il cielo immaginando che lo spazio del cosmo non finisca mai. Alcune illusioni ottiche possono far pensare, per un errore dei sensi o di traduzione del cervello, che ciò che si sta osservando sia infinito, anche la religione ha avuto a che fare con il concetto di infinito fin dai tempi antichi.

Il simbolo dell'infinito rappresenta l'anello di congiunzione spazio-temporale che unisce i vari punti dell'esistenza in un continuo evolversi senza fine, due cerchi (il cerchio rappresenta lo spirito ma anche i cicli della vita come anche il tempo senza fine, come il segno dell'inifinito matematico) che si susseguono senza sosta uno dopo l'altro, a rappresentare la materia che segue lo spirito, lo spirito che segue la materia, generazione dopo generazione. L'otto rappresenta la materia sublimata, formato da 4+4 (il quattro rappresenta simbolicamente la materia poiché indicato dal quadrato che rimane sempre uguale a sé stesso, anche cambiando lato di appoggio, esattamente come la materia è sempre uguale, seppure differente sotto certi aspetti, a sé stessa). Il due volte 4 indica che la materia si ripete anche nel mondo spirituale nel quale trova la sua sublimazione elevata per raggiungere la perfezione.

La grande tradizione della cultura occidentale è caratterizzata fino al Seicento da una visione finitistica: l'universo è finito, ha un diametro molto grande, però è finito.

Una prima rivalutazione dell'infinito si ha con il Romanticismo. Il Romanticismo intese il concetto di ragione come una forza infinita (cioè onnipotente), che abita il mondo e lo domina, e perciò costituisce la sostanza stessa dei mondo. Fichte per la prima volta identificò la ragione con l'Io infinito o Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l'intero mondo è prodotto. L'infinità in questo senso era una infinità di coscienza o di potenza, non un'infinità di estensione o di durata. Hegel, invece, contrapponeva al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito cioè dalla realtà e si contrappone ad esso e cerca di trasformarlo o di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un principio spirituale creativo: quello che Fichte chiamò “Io”, Schelling “Assoluto”, e Hegel “Idea”. Comunque lo si chiami, tuttavia, il principio infinito è unanimemente considerato dai romantici come coscienza, attività, spontaneità, libertà, capacità di creazione incessante. D'altro lato tuttavia può essere inteso in due modi.



L'infinito fu inteso come attività libera amorfa, tale che si pone continuamente al di là di ogni sua determinazione. In questo senso l'infinito viene inteso come sentimento. Schlegel infatti interpretava l'infinito come al di fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Ma se l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell'arte che nella filosofia: giacché la filosofia è razionalità e l'arte appare invece ai romantici come espressione del sentimento. Schelling ritenne appunto che la migliore manifestazione dell'Assoluto, si avesse nell'arte e che perciò l'esperienza artistica fosse per l'uomo a solo mezzo efficace per avvicinarsi all'Assoluto.

Per i romantici, dunque, l'oggetto della conoscenza filosofica è il principio che essi chiamano Assoluto, ossia ciò che esiste incondizionatamente, fondamento del divenire cosmico; tutta la filosofia romantica si preoccupa di fornire le modalità attraverso cui giungere alla conoscenza di questo principio. L'uomo arriva alla comprensione dell'Assoluto attraverso la comunione empatica, una modalità conoscitiva secondo cui è possibile conoscere una determinata cosa perché siamo fatti della stessa sostanza. Tanto noi, quanto la Natura siamo fatti di Assoluto: lo possiamo cercare in noi, come un qualche cosa che ci appartiene, oppure lo si può ritrovare nella Natura: il filosofo romantico scorge in essa i segni, li interpreta con l'aiuto della sua emotività, facendosi guidare dal sentimento dello Streben, un perenne tendere, una tensione che lo spinge a trascendere se stesso, i suoi limiti derivanti dall'essere fisico, ma che non approda ad alcuno sbocco, perché le esperienze umane sono tutte finite. Da qui la Sehnsucht, lo struggimento, il "desiderio dei desiderio": "un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla, un desiderio irrealizzabile perché  indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo" (L. Mittner). Ogni romantico dunque ha sete di infinito; e quello struggimento, che è desiderio irrealizzabile lo è proprio perché ciò che in realtà brama è l'Infinito. Ora, la filosofia deve cogliere e mostrare il nesso dell'infinito coi finito, l'arte lo deve realizzare: l'opera d'arte è l'Infinito che si manifesta nel finito.

Tutte le filosofie romantiche pongono l'Assoluto come un movimento dinamico, un flusso: è il movimento che dà origine alle cose, che ci fa esistere. Tutto dunque nasce da un movimento illimitato a limitato, nasce perché l'infinito si limita: è da questa infinita limitazione che nasce il movimento dell'Assoluto. L'Assoluto quindi attiva continuamente i suoi meccanismi per dirigersi verso il limite e superarlo.



I filosofi che aderirono all'idealismo tedesco, cioè alla tendenza che identifica la realtà con l'io, mentre il mondo esterno è qualificato come non-io, svilupparono notevolmente questo concetto. Fichte ha accentuato l'elemento della soggettività (io): l'atto fondamentale dell'io è la sua scissione in io e non-io, superando la quale l'io giunge di nuovo a sé. Scrive Fichte: "In quanto è Assoluto l'Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è” In questo senso Fichte esalta l'assoluta libertà dell'uomo (dell'io) e la sua capacità di dare forma e legge al mondo. L'agire morale dell'uomo è il suo incessante sforzo di superare il finito.

Schelling supera la concezione fichtiana della natura come limite che l'io pone a se stesso, nel processo del proprio autosuperamento: per lui la natura è invece un primo stadio della vita dell'Assoluto o Spirito. La natura si evolve a partire da uno stadio privo di consapevolezza, verso forme più complesse, fino a raggiungere la piena consapevolezza di sé. Essa è la preistoria dell'io, qualcosa che è in intima comunione con lo Spirito. Organo dell'Assoluto è l'arte: nell'arte, infatti, si rivela l'intima unione di ciò che appare erroneamente separato: natura e storia, azione e pensiero. Nell'opera l'artista rappresenta "un'infinità, che nessun intelletto finito è capace di sviluppare interamente".

Con Hegel il nodo centrale della filosofia diventa il problema di temporalizzare l'Assoluto, di farlo entrare nei processi storici. La storia è allora la progressiva ascesa dello Spirito verso la coscienza di sé, verso lo Spirito Assoluto. L'uomo può conoscere l'Assoluto, può innalzarsi fino ad esso: deve prima però superare le finitezze della coscienza, ed elevare in tal modo l'io empirico a lo trascendentale, a Ragione e Spirito. La Fenomenologia dello Spirito è stata concepita esattamente allo scopo di purificare la coscienza fenomenica e di innalzarla fino al Sapere assoluto. Essa è la via filosofica che conduce la coscienza finita all'Assoluto infinito, e coincide con la via che l'Assoluto stesso ha percorso per giungere fino a sé. Si può dire che nella Fenomenologia, intesa come la via che porta all’Assoluto, l'uomo risulta coinvolto non meno  dell'Assoluto medesimo. Infatti non esiste nell'orizzonte hegeliano il finito staccato dall'infinito, il particolare separato dall'universale, e quindi l'uomo non è staccato e separato dall'Assoluto, ma ne è parte strutturale e determinante, perché l'infinito hegeliano è l'infinito che si fa mediante il finito. L'Assoluto infatti si attua e si realizza come superamento del finito stesso. L'itinerario fenomenologico procede secondo una dialettica di progressiva negazione della fase precedente; tre sono le tappe di questo viaggio, che corrispondono ai tre momenti della tesi, antitesi e sintesi. Inizialmente la coscienza ha consapevolezza della sua sola esistenza; resasi conto dell'inadeguatezza di questa sua determinazione, la coscienza nega il suo essere tale e diventa autocoscienza: ora è in grado di percepire le altre coscienze. L'ultima fase è invece quella in cui l'autocoscienza arriva alla consapevolezza di essere Spirito; quest'ultimo passaggio è mediato dau'arte, dalla religione e finalmente dalla filosofia, che in quanto specchio dello Spirito, permette di giungere all'Assoluto.

Lo Spirito infinito di Hegel è come un circolo in cui il principio e la fine coincidono in maniera dinamica: il punto iniziale è la tesi, il movimento circolare è l'antitesi e i due momenti vengono unificati nella sintesi. L'inizio coincide con la fine perché riattraversa la tesi che è stata arricchita da una negazione, perciò il particolare è risolto nell'universale, l'essere nel dover-essere e il reale nel razionale. L'infinito di Fichte, che può essere visto come una retta in cui l'ostacolo viene spostato e non superato, è per Hegel un cattivo infinito o falso infinito, poiché resta un processo irrisolto, in quanto non raggiunge un fine, uno scopo e l'essere e il dover-essere rimangono scissi. Per questo Hegel affermò che Fichte fosse arrivato solo a una scissione tra lo e non-lo, tra Soggetto e Oggetto, tra finito e infinito; per Hegel invece il vero infinito è un infinito della ragione, non dell'intelletto, il quale non è una retta, ma un circolo, o meglio un processo circolare-. il processo dialettico. Tutta la dialettica di Hegel è continuamente il gioco di sfondare tutto ciò che è finito, di risolverlo in un orizzonte di infinitezza.



Marx muoverà inizialmente la sua filosofia sulla critica al concetto di Assoluto hegeliano: considerato una costruzione astratta che non tiene conto dei fatti in cui agisce l'uomo, Marx distrugge ogni fondamento metafisica. Per lui la storia è solo prassi, principio materiale che corrisponde all'azione degli uomini: venuta a cadere la giustificazione metafisica dell'Assoluto, gli eventi storici risultano frutto di meccanismi terreni, fisici.

Kierkegaard, invece, recupera il concetto di infinito, legandolo però a un ambito decisamente religioso. L'uomo, ente finito, è consapevole di questa sua finitezza e cerca di trascenderla, di superarla. La singola esistenza ha profonda coscienza di essere un'entità finita, destinata perciò a concludersi e a morire. Per sfuggire a questa condizione, il singolo segue l'esempio religioso. La religione, infatti, è la sola che può aprire uno spazio verso l'infinito, altrimenti lontanissimo e irraggiungibile dall'uomo. Mondo reale e mondo infinito non sono in comunicazione costante come in Hegel; sono invece separati, in quanto il primo è proprio dell'uomo, il secondo, invece, della Divinità. Proprio lo spazio dei religioso assume un senso tragico: l'uomo ricorre alla religione per sfuggire alla sua finitezza, per raggiungere l'infinito. Ma il rapporto con la divinità è un rapporto costantemente impari, perché mette l'uomo di fronte al suo essere finito. Ne nasce un sentimento di disperazione cui l'uomo cerca di porre rimedio. Prova dapprima ad accettare se stesso, e quindi la sua finitudine. Ma questo determina una contrapposizione con l'infinito, cioè con Dio, comporta l'eliminazione dei Divino-. l'uomo va allora verso il nulla, verso la morte, e la disperazione non cessa. L'alternativa è cercare di rinunciare a se stesso per coniugarsi con il divino; ma l'uomo non è in grado di sconfiggere la sua finitudine e di divenire infinito. La disperazione quindi non cessa.





mercoledì 7 ottobre 2015

IL lavoro dell'ASSISTENTE SOCIALE

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L'Assistente sociale lavora sulle situazioni di disagio e di emarginazione di singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie.

L'assistente sociale lavora a stretto contatto con persone o nuclei familiari in gravi situazioni di disagio. Le categorie che solitamente beneficiano di questa professionalità sono i minori, gli anziani, i tossicodipendenti, i portatori di handicap e gli immigrati. Risulta già ben chiaro come possano essere tantissimi i compiti di questi professionisti che devono essere in grado di relazionarsi con una moltitudine diversa di interlocutori.

Negli anni ’20, a Milano nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale in cui operano enti chiamati "segreterie sociali", con lo scopo di facilitare ai lavoratori l’accesso alle opere sociali. Padina Tarugi viene ricordata come una pioniera del servizio sociale italiano; ad essa viene riconosciuto il merito di aver favorito la fondazione della prima scuola di servizio sociale (Roma, 1928), che risentirà però a livello di impostazione del clima del tempo.

Nel 1944 a Milano il sacerdote don Paolo Liggeri e l’assistente sociale francese Odile Vallil danno avvio alla prima scuola per la preparazione di assistenti sociali e ciò segna l’effettiva nascita del servizio sociale in Italia.

Il Convegno degli studi di Tremezzo (Como) svoltosi dal 16 settembre al 6 ottobre del 1946 segna in maniera definitiva che nel contesto italiano vi fu un fermento generale per il riconoscimento di tale professione; l’ideazione e l’ effettiva creazione del CEPAS di Roma e della Scuola UNSAS di Milano sono da collocarsi proprio a Tremezzo.

Così, tra il 1945 e il 1949 nacquero sette scuole di servizio sociale, con il sostegno di privati e dell’A.A.I., diffondendosi poi in tutto il Paese. Dal 1946, numerose scuole si riunirono nei gruppi E.N.S.I.S.S., U.N.S.A.S. e O.N.A.R.M.O. per due motivi: per sostenersi nell’impostazione didattica e negli scambi culturali; per unirsi in base alla specifica impostazione filosofico - religiosa ( gli unici però a dare alla formazione degli assistenti sociali un’impostazione religiosa saranno i gruppi dell’O.N.A.R.M.O.).

La professione di assistente sociale ha sempre messo al centro del suo intervento la vita delle persone e le situazioni vengono affrontate con particolare dedizione, con un’alchimia di passione mista a conoscenza. I valori alla base del servizio sociale, infatti, possono essere sintetizzati nel valore di umanità dell’uomo, cioè nel riconoscere la dignità e la libertà di ciascuna persona.

L’assistente sociale ha sviluppato nel tempo la sua identità, basandosi sempre su valori e principi costanti, riuscendo a raggiungere un primo traguardo con il riconoscimento ufficiale della professione mediante l’istituzione dell’Ordine professionale degli Assistenti Sociali (L. 23 marzo 1994, n. 84). Questo ha rappresentato un momento di svolta, perché ha identificato il gruppo di appartenenza e ha dato la possibilità di rilanciare la professione stessa.

La successiva importante conquista dopo questa, è stata l’emanazione del Codice Deontologico professionale dell’Assistente Sociale nel 1998, che ha ufficializzato i principi guida e ha assunto la funzione di sostenere la categoria professionale. L’esistenza di tale codice non crea di per sé l’agire professionale, ma è un segno significativo dell’elevato livello di stabilità e di organizzazione raggiunto dalla professione. «Esso giustifica per molte ragioni, in quanto rende pubbliche e manifeste le norme interne di una professione, forma e stimola una coscienza deontologica, dirige l’azione in casi concreti, favorisce l’unità professionale e ne incrementa l’autonomia, protegge gli utenti e infine protegge la professionalità, in quanto offre le basi non solo per le sanzioni, ma anche per l’autodifesa».

In primo luogo è necessario nuovamente sottolineare che l’azione dell’assistente sociale viene fatta nel rispetto di tutti i diritti universalmente riconosciuti e sulle qualità originarie di ogni singolo soggetto. "Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore in quanto dotato di infinite potenzialità, capace di libertà e di autonomia, in grado di compiere scelte consapevoli e creative, di assumersi responsabilità e di prendersi cura degli altri, in grado di dominare le leggi della natura attraverso studi e attività che esprimono il suo infinito potere di ricerca".

Il rispetto verso la persona umana in quanto tale è legato al principio di accettazione di ogni persona per quello che è. Nel momento in cui si stabilisce un primo contatto con l’utente-cliente, infatti, è necessario che l’assistente sociale non esprima giudizi di valore in merito alla situazione che l’individuo si ritrova ad affrontare, per non fargli vivere quel momento come fallimento, facendo diminuire di conseguenza la sua autostima. Al contrario è essenziale che l’assistente sociale riesca a creare durante i colloqui un’atmosfera non intrinseca solo dell’odore istituzionale, ma soprattutto di disponibilità all’ascolto e alla comprensione. Ciò sarebbe la base per creare un possibile rapporto di fiducia, in cui l’utente-cliente riesca ad acquisire una maggiore fiducia in se stesso, compiendo i primi passi verso un nuovo percorso di vita e diventando sempre più consapevole delle sue effettive potenzialità. Il non giudicare dell’assistente sociale nella relazione di aiuto indica una visione del bisogno non come fatto morale ma come fatto scientifico, quindi da studiare e comprendere.

L’unicità e la soggettività di ciascun utente-cliente deve essere riconosciuta dall’assistente sociale per poter effettuare un intervento adatto al soggetto. Le azioni dell’assistente sociale devono cioè essere rivolte ad un soggetto che ha un pensiero, una sensibilità, delle emozioni e delle potenzialità proprie dalle quali non si può assolutamente prescindere nel momento dell’intervento, che anzi sarà costruito proprio tenendo conto della specificità delle persone cui ci si riferisce.

Una formulazione di Kant sottolinea come "nella propria persona e in quella di qualsiasi altro non si veda unicamente uno strumento ma sempre anche un fine". Con ciò egli intende che noi dovremmo trattare gli altri come esseri che hanno mete (ossia scelte e desideri), e non soltanto come oggetti o strumenti per i nostri fini. Si viene ad affermare così il valore assoluto dell’uomo come unico e irripetibile, considerato quindi un sé, per un fine e mai un mezzo.

L’assistente sociale deve, perciò disporre di una conoscenza approfondita degli elementi teorici appartenenti a più aree scientifiche, necessari per l’interpretazione del comportamento umano. Ciò è essenziale per riuscire a mettere in atto una personalizzazione dell’intervento per promuovere autonomia e responsabilità.

L’assistente sociale deve considerare e accogliere la persona come "unica e distinta da altre analoghe situazioni" e deve saperla collocare "entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente". È essenziale tener presente, appunto, che la persona vive all’interno di una fitta rete di relazioni tra diversi sistemi e che è, quindi, in stretto contatto con concetti di interdipendenza e continuità. È proprio nei rapporti con l’esterno, però, che le persone possono incontrare delle difficoltà che le portano ad una condizione di "crisi", infatti spesso il problema è proprio la rottura, la mancata integrazione fra le parti di cui sono composte, che minaccia la loro autonomia e distorce le relazioni sociali.

Pertanto il compito dell’assistente sociale è quello di cercare di ricostruire tali legami per ricomporre prima di tutto l’unitarietà della persona. Il professionista deve tendere a riconoscere e valorizzare l’utente-cliente e presuppone una nuova visione dell’intervento che non si incentra sulla cura della patologia, ma sul potenziamento di funzioni - individuali e sociali - di apprendimento sociale, sostenendolo nell’uso delle risorse proprie e della società. In tal caso l’assistente sociale si ritrova a dover svolgere una funzione di raccordo e connessione di risorse.

Riportando la definizione, data da un dizionario di lingua italiana, l’autodeterminazione è "l’atto secondo cui l’uomo si determina secondo la propria legge: espressione della libertà positiva dell’uomo, e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione".

Tale principio può essere considerato quello che maggiormente identifica l’operato dell’assistente sociale e che lo contraddistingue principalmente dagli altri operatori. Poiché il servizio sociale valorizza la libertà come risorsa fondamentale, che deriva dal rispetto che va garantito ed assicurato alla persona, tale principio dovrà essere presente in ogni momento del processo di aiuto e in ogni relazione instaurata dall’assistente sociale.

L’utente-cliente, infatti, non è attore passivo nella relazione e nel processo di aiuto, ma ne deve essere il principale attore che si impegna attivamente, una volta consapevole delle proprie risorse, nel portare avanti, fase per fase, il proprio progetto personale per liberarsi dal suo bisogno. In questo progetto l’assistente sociale deve aiutare l’utente-cliente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, ma non si deve sostituire a lui, per permettergli di prendere le sue decisioni in libertà e con responsabilità.

Tale progetto, infatti, non può essere chiaro e definito fin dall’inizio, ma è compito dell’assistente sociale, prima di tutto, portare l’utente ad avere consapevolezza della situazione in cui si trova, per poi poter realizzare man mano ciascuna fase progettuale. Saranno necessarie delle fasi intermedie di rivisitazione degli obiettivi, che possono variare in base sia ai passi compiuti dall’utente, che anche da cause esterne, e quindi dai rapporti che magari vengono a instaurarsi nuovamente con l’esterno.

Una maggiore presa di coscienza dell’utente, lo porta a crescere, a raggiungere la propria autonomia e anche a riconoscere le proprie responsabilità, in quanto cercherebbe di prendersi carico delle proprie problematiche e di affrontarle una per una con calma e consapevolezza dei propri limiti.

L’assistente sociale, nella relazione di aiuto, deve promuovere le condizioni favorevoli per una riabilitazione con l’utente-cliente. Il processo di cambiamento non dipende solo dalla volontà della persona di intraprenderlo e quindi dalla maggior consapevolezza, ma è ottenuto da quel percorso da cui si è partiti, dal suo sistema di valori, per individuare ed attivare tutte le risorse possibili nel processo di cambiamento. Questo è un processo lento che richiede enorme pazienza, in cui l’assistente sociale si deve adattare possibilmente ai tempi degli utenti senza forzarli o affrettarli, riconoscendo i ritmi di ciascuno.

Il Principio del Rispetto e della Promozione dell’Uguaglianza deriva dal valore che ogni uomo è uguale ad un altro in quanto a dignità e a godimento dei diritti fondamentali, che porta l’assistente sociale a svolgere la sua azione professionale senza alcuna discriminazione di alcun genere ("di età, di sesso, di stato civile, di razza, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione mentale o fisica, o di qualsiasi differenza o caratteristica personale").

Questo principio, che si rifà sia agli articoli 1 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 3 della Costituzione della repubblica Italiana, "non solo non nega le differenze, ma anzi da un’appropriata constatazione delle differenze, impone attività differenziate in modo che tutti possano disporre di pari opportunità e godere effettivamente di uguali diritti, in un’ottica di giustizia ed equità sociale".

Il Capo III del Titolo III del Codice Deontologico è interamente dedicato alla riservatezza e al segreto professionale. Temi molto importanti nella relazione che si instaura tra assistente sociale ed utente o cliente. Si sottolinea, infatti, che per la particolare natura del rapporto professionale, e cioè di fiducia che si viene a creare, l’assistente sociale deve trattare con riservatezza "le informazioni e i dati riguardanti" gli utenti e clienti, e "deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge" per l’uso o per la trasmissione di questi.

Come prima prerogativa si sottolinea che la riservatezza e il segreto professionale sono diritto dell’utente e del cliente e dovere dell’assistente sociale. Inoltre, si può ricordare che il "carattere fiduciario che viene instaurato con gli utenti", rappresenta da sempre, per gli assistenti sociali, un valore professionale prima che un obbligo, un dovere etico prima che giuridico. È importante, quindi, nell’ambito del rapporto fiduciario, la capacità di coinvolgere al massimo gli utenti nella scelta dei contenuti per le comunicazioni ad altri delle informazioni che li riguardano.

Il Servizio Sociale ha come obiettivo quello di aiutare la persona o la collettività a risolvere i problemi attraverso il cambiamento delle situazioni usando le capacità delle persone coinvolte e le risorse disponibili.
Gli obiettivi vengono scelti in base ai mezzi, alle risorse, in base alle conoscenze teoriche sull’uomo e sulla società, in base ad alcuni valori guida.
Gli obiettivi possono essere generali o specifici, tesi ad un cambiamento a livello individuale, collettivo, istituzionale e delle politiche sociali.

Creare raccordi tra bisogni e risorse:
attivando un sistema di aiuto intorno ai problemi del singolo e della collettività
favorendo e migliorando i rapporti e le relazioni tra gli individui e fra gli individui e i sistemi di risorse
rendendo l’ambiente di vita delle persone promozionale ed educativo per persone e gruppi
Aiutare le persone a sviluppare conoscenze e capacità per affrontare e risolvere i propri problemi assistenziali con senso di responsabilità e autonomia attraverso l’attivazione delle proprie risorse personali, familiari e con quelle predisposte dalla società
Aiutare la collettività a:
individuare i propri bisogni
attivare le reti di solidarietà naturali, i processi di partecipazione, il volontariato organizzato al fine di creare nuove risorse per la soluzione di problemi individuali e collettivi
Progettare, organizzare, gestire i servizi e le risorse in mdo personalizzato e non emarginante, perchè siano veramente corrispondenti i bisogni individuali e collettivi
Evidenziare, studiare e analizzare i problemi collettivi al fine di contribuire alla progettazione e alla realizzazione di un adeguato sistema di servizi nell’ambito delle linee guida delle politiche sociali nazionali e locali
Lavorare per l’uguaglianza delle opportunità per ogni utente

La funzione curativo-riparitiva viene attivata con persone o gruppi che chiedono aiuto a causa di bisogni complessi, sotto il profilo fisico, psichico e sociale.
E’ prevista l’attivazione le risorse personali, istituzionali e comunitarie al fine di avviare il processo di cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia.

ORGANIZZATIVA-GESTIONALE è  una funzione propria delle organizzazioni che devono adeguare i servizi e le prestazioni attraverso la lettura dei bisogni e della domanda sociale, nell’ottica del potenziamento delle risorse.

PREVENTIVO PROMOZIONALE è proiettata verso l’esterno dell’organizzazione, e vuole favorire i processi di integrazione tra servizi, la cooperazione, lo scambio sistematico delle informazioni, il cambiamento delle politiche sociali in base all’evoluzione dei bisogni, la crescita della solidarietà comunitaria, l’analisi costante e il monitoraggio dei fenomeni sociali. E’ una funzione importante perchè consente di raccogliere le informazioni indispensabili per operare scelte programmatiche dei servizi e del sistema istituzionale.

Poi ci sono delle funzioni condivise con altre professioni:

programmazione, organizzazione e gestione di servizi sociali;
attività di indagine, studio, ricerca, monitoraggio e documentazione.

Il sistema di sicurezza sociale italiano è stato interessato, a partire dagli ultimi 30-40 anni, da un processo di rinnovamento che ha interessato sia il livello delle competenze amministrative che quello delle modalità di intervento degli attori chiamati in causa nella gestione ed erogazione dei servizi. Tale processo ha avuto inizio negli anni ’70 con l’istituzione delle Regioni. Successivamente con il D.P.R. 616 del 1977 si realizzò il decentramento cioè il trasferimento, alle Regioni, delle funzioni amministrative e in particolare con l’attribuzione, ai Comuni, delle funzioni di organizzazione dei servizi sociali. Ulteriori innovazioni vennero introdotte negli anni 90 e in particolare con la prima legge Bassanini (L. n°59 del 1997) che introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni vengono prese dall’organo di governo più vicino ai cittadini (il Comune) e cioè da quello che è maggiormente in grado di interpretare i bisogni e le risorse della comunità territoriale di riferimento. Tale principio ha portato allo sviluppo di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative riguardanti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato. Questo quadro di ridefinizione del rapporto Stato-Regioni- Enti locali è stato completato attraverso l’introduzione della Legge Quadro di Riforma dell’assistenza, la L. 328 del 2000 e dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3 del 2001).

La legge n° 328 del 2000 –“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima della 328, infatti, solo la Legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario valido per l’intero territorio nazionale.

Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di rimozione delle cause di disagio ma soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità.

L’attenzione con tale legge si è spostata poi:

dalla prestazione disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato;
dalle prestazioni monetarie volte a risolvere problemi di natura esclusivamente economica a interventi complessi che intendono rispondere ad una molteplicità di bisogni;
dall’azione esclusiva dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali quelli del terzo settore.



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sabato 11 luglio 2015

UMANI E UMANITA'


Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco.



Tralasciando l'umanità come l'essere umano e l'insieme degli esseri umani, concentriamoci sull'umanità come atteggiamento, come sentimento.
Le parole negative sono un sacco, più di quelle positive. E tante volte dispiace vedere come una parola neutra, col tempo, possa volgersi verso significati scuri: ma non è questo il caso.
Di rado capita di imbattersi in parole così cruciali, dai cui sensi dipende il modo di concepire noi stessi. Dai significati che attribuiamo all'umanità, intesa come dote, come sentire, dipende l'immagine ideale che abbiamo dell'essere umano. Se questa parola indicasse meschinità, ingordigia, odio, dentro la nostra mente germinerebbe inevitabile un'idea di umano vile, senza speranza - e tale sarebbe l'idea di noi. Ma non è così. Gli umani, tanto divisi, quando sono chiamati a dire chi sono con la lingua che parlano, non hanno dubbi su che cosa l'umanità sia.
L'umanità è un poderoso combinato di solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza. Tanto grande da avere contorni nebulosi, ma tanto chiaro da non recare in sé la più microscopica traccia di male. Sembra un po' esagerato, non è vero? Ma è un sintomo forte rispondere alla domanda "Chi vorresti essere?" quando ti domandano "Chi sei?". Chi, secoli fa, ha iniziato ad usare questa parola in un senso così positivo, come noi, ha riconosciuto in quei sentimenti, in quegli atteggiamenti la parte migliore di sé, quella da scrivere nel curriculum, nella presentazione - quella radice che se non ci fosse lo scuro dei giorni farebbe un fusto tutto fiori.

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Il nostro tempo ci fa constatare quotidianamente una forma di schizofrenia culturale, dove accanto a proclami di diverso tipo sulla difesa della dignità degli esseri umani e delle figure più deboli sul piano psico-sociale troviamo altrettanti proclami e battaglie in favore della libertà incondizionata e individuale di ogni scelta, spesso accompagnata da una assoluta indifferenza dinanzi alla vita debole e alla sua sacralità.
In un periodo storico della società italiana e della cultura pre-natale in genere, in cui il valore vita in tutte le sue espressioni viene fortemente colpito, proporre un linguaggio culturale basato sulle ragioni della ragione scientifica e sulle ragioni della ragione filosofica, giuridica, antropologica, significa proporre un linguaggio di riflessione sulla dignità della persona umana, accettabile da credenti e non credenti perché fondato sull'evidenza.
La grande emergenza educativa quindi, si pone come obiettivo il passaggio che porti le coscienze dal livello “informazione”, spesso superficiale, al livello “conoscenza” con metodologie rigorose e scientificamente corrette.
Ecco perché è la forza della verità sulla persona umana la grande sfida culturale da affrontare, non per agitare un vessillo di vittoria o di supremazia ideologica ma per
fare un servizio di chiarificazione del pensiero e di promozione del discernimento; non per alzare muri o steccati d'incomprensione ma per costruire ponti di condivisione
con la finalità di essere più consapevoli e più liberi e riappropriarci così del vero significato di “umanità”.








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