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giovedì 21 aprile 2016

L'INSEGNANTE DI SOSTEGNO



È un docente specializzato nella didattica speciale per l'integrazione di alunni diversamente abili (comunque certificati "in situazione di handicap" nei modi e nei termini previsti dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104). Gli insegnanti di sostegno sono di norma presenti nelle scuole dell'ordinamento scolastico italiano, nelle classi ove sia presente uno o più alunni "certificati".

Essi assumono la contitolarità della classe e pertanto firmano i documenti di valutazione di tutti gli alunni. Predispongono il Piano Educativo Individualizzato per ciascun alunno diversamente abile presente nella classe in sintonia con gli Operatori Socio Sanitari, la famiglia, i docenti contitolari. In esso si definiscono i criteri di verifica e valutazione. Può succedere che, a seguito di carenza di insegnanti di sostegno specializzati, il posto venga ricoperto da insegnanti senza l'esperienza e la formazione necessaria.

L'insegnante di sostegno è assegnato alla classe e non all'alunno come erroneamente si pensa. La risorsa è finalizzata ad attuare interventi di integrazione attraverso strategie didattico metodologiche specifiche, con agli insegnanti curricolari poiché insieme hanno la responsabilità della realizzazione del processo di integrazione scolastica. “Com'è noto, la funzione del docente di sostegno rappresenta la fondamentale risorsa attraverso cui l'integrazione scolastica si concretizza. All'inserimento dei diversamente abili nelle classi corrisponde la pari dignità professionale tra i docenti all'interno degli organi collegiali della scuola a cui si aggiunge, per la categoria dei professori (di sostegno), il riconoscimento di una responsabilità tecnica piuttosto articolata rispetto alla gestione delle classi in cui operano in qualità di specialisti. È appena il caso di sottolineare che il docente specializzato deve essere, anche e soprattutto un mediatore pedagogico, deve avere conoscenza e consapevolezza del principio ermeneutico e possedere abilità comunicative” (Giovanni Bocchieri, capo segreteria tecnica del Ministro Gelmini, 2010).

Il tema dell’inclusione scolastica in questo momento storico diventa un argomento importante per gli insegnanti, gli attori istituzionali e anche le famiglie. Oggi nel processo di inclusione i genitori hanno spostato il fulcro della loro attenzione non più sulla rivendicazione delle ore di copertura per il sostegno, ma sul progetto educativo da costruire in collaborazione con tutti gli attori della comunità scolastica vista come comunità educante e inclusiva. Le buone pratiche scolastiche devono, in effetti, veder coinvolte tutte le componenti scolastiche, come previsto dai Principi Guida per promuovere la qualità dell’inclusione nella Scuola Inclusiva (Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili 2003). L’ obiettivo fondamentale è quindi lo sviluppo delle competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione e nella relazione, nonché nella socializzazione; ma questi obiettivi sono raggiungibili solo attraverso la collaborazione e il coordinamento di tutte le componenti in questione nonché grazie alla presenza di una co-progettazione pedagogica e una programmazione puntuale e logica degli interventi educativi, formativi, riabilitativi, come previsto dal P.E.I.

La progettazione per la realizzazione del processo di inclusione riguarda tutti gli insegnanti, perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i curricoli in funzione dei diversi stili di apprendimento, a promuovere le diverse attitudini, a costruire in modo alternativo i luoghi di apprendimento, a favorire e potenziare gli stili cognitivi e ad adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni e alla capacità specifiche degli alunni. Solo con un approccio pedagogico attivo e aperto diventa possibile che gli alunni esercitino effettivamente il proprio diritto allo studio, inteso come successo formativo per tutti. Si può anche affermare che la mancanza di interventi didattici non differenziati crea una disparità di trattamento che produce diseguaglianza nell’accesso ai saperi e alle conoscenze.

Nella classe, la presenza di alunni con disabilità certificata è una realtà variegata ed eterogenea, inoltre a fianco a questi abbiamo degli alunni con disturbi specifici di apprendimento, delle situazioni psicosociali problematiche, delle situazioni famigliari difficili e anche degli alunni che presentano dei comportamenti complessi da gestire; a questo aggiungiamo gli alunni figli di migranti. L’alunno non è più il ricevente passivo in un processo di comunicazione ma un soggetto che porta le sue istanze: questo può essere visto come un problema oppure come una opportunità per la scuola. Se vogliamo favorire il successo formativo di tutti occorre partire dalle risorse degli alunni. Le esperienze scolastiche dimostrano come la diversità deve essere accolta positivamente nel processo di apprendimento, la scuola inclusiva deve accogliere tutti gli alunni rendendoli partecipi sui piani cognitivo, relazionale e psicologico. Ma spesso l’insegnante di sostegno si trova in una situazione di grosso disagio, perché da un lato vive un atteggiamento di delega da parte dei suoi colleghi disciplinari, e dall’altro lato diventa l’unico docente responsabile dell’intera azione didattica-educativa per l’alunno segnalato e certificato; questo ha delle ricadute sulla gestione pedagogica dell’attività didattica con il gruppo classe.

Questo atteggiamento ha generato una confusione tra il ruolo, la funzione dell’insegnante di sostegno e il suo intervento nella classe. Il punto di forza sia individuabile nel mettere al centro del processo di inclusione scolastica il ruolo dei docenti curriculari/disciplinari come attori, con l’insegnante di sostegno, di una progettazione educativa aperta. Sicuramente negli ultimi anni la silenziosa consuetudine di delega all’insegnante di sostegno dell’alunno disabile ha distorto la funzione che tale figura avrebbe dovuto assumere negli intenti della Legge 104/1992: gli insegnanti di sostegno assumono la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano. Gli effetti di questa sono costanti ed evidenti nelle nostre scuole: accanto ad alcune significative esperienze di «buone prassi», infatti, molte di più sono le realtà in cui la presenza del docente di sostegno funge più da elemento «di difesa», un monoblocco inscindibile tra il docente e l’alunno certificato e «di conservazione» del sistema scuola, piuttosto che come risorsa aggiuntiva per favorire l’inclusione.

Nella collaborazione pedagogica tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno i due principali pericoli da evitare sono:  Il sostegno come attività prevalentemente individuale centrata sui soggetti certificati. Spesso gli insegnanti di sostegno escono dall’aula con l’alunno con disabilità e passano buona parte del tempo in un rapporto di reciproca dipendenza didattica. In questo modo non lavorano più con il gruppo e finiscono anche per produrre una marginalizzazione dell’alunno disabile. La «personalizzazione» dell’azione educativa e didattica in questo caso non va disgiunta dal processo di «socializzazione» con tutte le conseguenti facilitazioni e mediazioni didattiche nel lavoro di gruppo. L’intervento didattico del sostegno concepito come centrato unicamente sull’alunno disabile rimane marginale e la sua presenza rischia di assumere un carattere prevalentemente assistenziale. Perciò la responsabilità pedagogica dell’azione inclusiva è sia dei docenti di sostegno che dei docenti curricolari, è anche una responsabilità della comunità scolastica globale.

Un punto critico nell’organizzazione scolastica attuale è riconducibile a come noi percepiamo gli «insegnanti specializzati»: per essere insegnanti di sostegno oggi si richiede una «specializzazione» che ha come oggetto di studio prevalentemente le materie pedagogiche e la didattica inclusiva, ma presuppone anche una formazione disciplinare precedentemente acquisita.

Essere un insegnante di sostegno non può essere una scelta dettata solo da una predisposizione naturale ad aiutare i più svantaggiati o da una vocazione nel sociale, ma è fondamentale possedere delle competenze specifiche.
Confrontarsi con un disabile non significa fare semplicemente “assistenzialismo”, ma significa rispetto per la persona, arricchimento umano oltre che professionale, desiderio di realizzare quegli obiettivi che le potenzialità e le risorse dell’alunno ci permetteranno di prefissarci.



L’insegnante di sostegno, oggi, viene ad assumere compiti nuovi, più specifici ed impegnativi, in quanto non è solo di sostegno al disabile ma lo è di tutto il gruppo - classe, contribuendo ad un’armonica integrazione e collaborazione reciproca.

Si tratta di una figura essenziale, significativa, sia all’interno del rapporto docente - alunno, sia all’interno del più vasto rapporto scuola - società, in quanto promotore di una scuola che sia tutta “integrante”, in grado di dare risposte adeguate ai bisogni apprenditivi e sociali di ciascuno alunno.

Impegnarsi per la dignità dell'alunno con situazione di disabilità significa lottare per una società migliore, nella quale ogni uomo possa cogliere in sé e negli altri un significato profondo che distingue e accomuna al tempo stesso: il valore persona.

L’approccio umanistico, centrato sulla persona, non pretende di imporre grandi sistemi teorici, ma semplicemente di proporre la crescita e la maturazione del singolo e dei gruppi attraverso una modificazione costruttiva e profonda dei rapporti interpersonali, basata sulla partecipazione affettiva (empatia), sull’abbandono dei ruoli stereotipati e sulla responsabilizzazione di ciascuno.
Genuinità, accettazione incondizionata ed empatia rappresentano alcuni tra i tratti più salienti della personalità dell’insegnante di sostegno.

La legge quadro n. 104/'92 e la normativa successiva a questa costituiscono il caposaldo legislativo dei processi di integrazione, culturale e sociale, per soggetti interessati da diverse situazioni di handicap, fissa per l’insegnante specializzato una serie di compiti che, almeno sulla carta, ne fanno una figura chiave nel così articolato e complesso mondo scolastico, di una scuola che pone sempre più al centro delle sue modalità operative la diversità, vista quale risorsa irrinunciabile per una scuola di qualità.

Teoricamente quindi l’integrazione diventa un fattore di qualità della scuola e dell’intera società, anche perché ne viene coinvolto tutto il contesto in cui è inserito l’alunno H, da quello familiare a quello sociale.

Un alunno disabile diventa con le sue problematiche e la ricchezza della sua diversità un patrimonio irrinunciabile; ma anche la diversità di ogni insegnante determina un dato positivo se inquadrata all’interno di un riferimento pedagogico preciso ed organico.

Al concetto basilare dell’integrazione si deve affiancare un altro concetto fondamentale affinché questa si realizzi pienamente, quello di collaborazione, una collaborazione che si deve compiere a diversi livelli.

In primo luogo, collaborazione come obiettivo educativo: gli insegnanti devono proporre agli alunni forme di collaborazione nel percorso educativo e didattico al fine di creare all’interno del gruppo classe il clima positivo ai processi integrativi.

In secondo luogo, collaborazione come metodologia operativa per gli insegnanti: la professionalità docente deve necessariamente mirare al lavoro di gruppo per conseguire gli obiettivi che in sede di programmazione generale vengono collegialmente definiti.

In terzo luogo collaborazione come progettualità e pianificazione, quali presupposti necessari per qualsiasi lavoro di rete.
Alla luce di tutto ciò l’insegnante di sostegno acquista sempre più un ruolo di leadership e di coordinamento consoni alla sua specializzazione; un ruolo di supervisione e di guida degli interventi inseriti nella circolarità del lavoro di rete consoni alle sue competenze specialistiche e metodologiche.

Acquista soprattutto valore di risorsa irrinunciabile per la scuola e per la società, poiché si pone quale mediatore necessario nei collegamenti fra i soggetti che devono rendere reale e consolidata l’integrazione, un’integrazione che deve allontanarsi sempre più da una dimensione teorica ed occasionale per diventare reale ed inserirsi sempre più in una dimensione di normalità.

Lo stile assertivo sia senz’altro adeguato ed efficace nel rapporto delicato e importante che un’insegnante di sostegno deve quotidianamente instaurare non solo con i soggetti con bisogni educativi e formativi speciali, ma anche con il gruppo - classe e nei confronti della comunità degli insegnanti verso i quali è volta la sua azione di coinvolgimento e di collaborazione.

La figura docente deve oggi possedere competenze relazionali ed affettive adeguate oltre che disciplinari.

Per ottenere buoni risultati bisogna stimolare interesse per l’apprendimento negli alunni con esempi, con riferimenti al loro vissuto esperienziale, dimostrando l’utilità degli insegnamenti nella vita pratica.

Bisogna, inoltre, sapersi rapportare con gli alunni sapendo ascoltare i loro bisogni; è necessario che il docente riesca a creare in classe un clima relazionale favorevole alla nascita di uno spirito di gruppo. Un docente che basa il suo lavoro sull’interattività, che non crea rivalità e che allo stesso tempo cerchi di tenere conto delle dinamiche di gruppo nella classe, limita al minimo le situazioni di disagio ed è in grado di fornire vere occasioni di crescita per gli allievi.

Il compito principale dell'insegnante di sostegno è proprio la creazione delle condizioni per socializzare e apprendere o, meglio, imparare a stare con gli altri, "imparare stando con gli altri e facendo con gli altri", nella convinzione condivisa che l'apprendimento non può prescindere ed essere avulso da un contesto relazionale, che si apprende per comunicare e che il rapporto con i pari è, a quest'epoca, determinante per la strutturazione della personalità al fine di agevolare il suo difficile rapporto con le discipline, traducendo l'insegnamento disciplinare in insegnamento unitario.

Ciò è possibile e auspicabile attraverso la mediazione didattica, ricercando e attivando le strategie più adatte. E' un lavoro che richiede una continua sperimentazione e una illuminata creatività seppure mai nulla deve cedere all'improvvisazione o ad una pratica di routine. È il lavoro dell'insegnante, il suo ruolo, o meglio, la sua "funzione", termine che ne sottolinea maggiormente gli aspetti dinamici.

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mercoledì 7 ottobre 2015

IL lavoro dell'ASSISTENTE SOCIALE

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L'Assistente sociale lavora sulle situazioni di disagio e di emarginazione di singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie.

L'assistente sociale lavora a stretto contatto con persone o nuclei familiari in gravi situazioni di disagio. Le categorie che solitamente beneficiano di questa professionalità sono i minori, gli anziani, i tossicodipendenti, i portatori di handicap e gli immigrati. Risulta già ben chiaro come possano essere tantissimi i compiti di questi professionisti che devono essere in grado di relazionarsi con una moltitudine diversa di interlocutori.

Negli anni ’20, a Milano nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale in cui operano enti chiamati "segreterie sociali", con lo scopo di facilitare ai lavoratori l’accesso alle opere sociali. Padina Tarugi viene ricordata come una pioniera del servizio sociale italiano; ad essa viene riconosciuto il merito di aver favorito la fondazione della prima scuola di servizio sociale (Roma, 1928), che risentirà però a livello di impostazione del clima del tempo.

Nel 1944 a Milano il sacerdote don Paolo Liggeri e l’assistente sociale francese Odile Vallil danno avvio alla prima scuola per la preparazione di assistenti sociali e ciò segna l’effettiva nascita del servizio sociale in Italia.

Il Convegno degli studi di Tremezzo (Como) svoltosi dal 16 settembre al 6 ottobre del 1946 segna in maniera definitiva che nel contesto italiano vi fu un fermento generale per il riconoscimento di tale professione; l’ideazione e l’ effettiva creazione del CEPAS di Roma e della Scuola UNSAS di Milano sono da collocarsi proprio a Tremezzo.

Così, tra il 1945 e il 1949 nacquero sette scuole di servizio sociale, con il sostegno di privati e dell’A.A.I., diffondendosi poi in tutto il Paese. Dal 1946, numerose scuole si riunirono nei gruppi E.N.S.I.S.S., U.N.S.A.S. e O.N.A.R.M.O. per due motivi: per sostenersi nell’impostazione didattica e negli scambi culturali; per unirsi in base alla specifica impostazione filosofico - religiosa ( gli unici però a dare alla formazione degli assistenti sociali un’impostazione religiosa saranno i gruppi dell’O.N.A.R.M.O.).

La professione di assistente sociale ha sempre messo al centro del suo intervento la vita delle persone e le situazioni vengono affrontate con particolare dedizione, con un’alchimia di passione mista a conoscenza. I valori alla base del servizio sociale, infatti, possono essere sintetizzati nel valore di umanità dell’uomo, cioè nel riconoscere la dignità e la libertà di ciascuna persona.

L’assistente sociale ha sviluppato nel tempo la sua identità, basandosi sempre su valori e principi costanti, riuscendo a raggiungere un primo traguardo con il riconoscimento ufficiale della professione mediante l’istituzione dell’Ordine professionale degli Assistenti Sociali (L. 23 marzo 1994, n. 84). Questo ha rappresentato un momento di svolta, perché ha identificato il gruppo di appartenenza e ha dato la possibilità di rilanciare la professione stessa.

La successiva importante conquista dopo questa, è stata l’emanazione del Codice Deontologico professionale dell’Assistente Sociale nel 1998, che ha ufficializzato i principi guida e ha assunto la funzione di sostenere la categoria professionale. L’esistenza di tale codice non crea di per sé l’agire professionale, ma è un segno significativo dell’elevato livello di stabilità e di organizzazione raggiunto dalla professione. «Esso giustifica per molte ragioni, in quanto rende pubbliche e manifeste le norme interne di una professione, forma e stimola una coscienza deontologica, dirige l’azione in casi concreti, favorisce l’unità professionale e ne incrementa l’autonomia, protegge gli utenti e infine protegge la professionalità, in quanto offre le basi non solo per le sanzioni, ma anche per l’autodifesa».

In primo luogo è necessario nuovamente sottolineare che l’azione dell’assistente sociale viene fatta nel rispetto di tutti i diritti universalmente riconosciuti e sulle qualità originarie di ogni singolo soggetto. "Il servizio sociale si basa sulla concezione che l’uomo è un valore in quanto dotato di infinite potenzialità, capace di libertà e di autonomia, in grado di compiere scelte consapevoli e creative, di assumersi responsabilità e di prendersi cura degli altri, in grado di dominare le leggi della natura attraverso studi e attività che esprimono il suo infinito potere di ricerca".

Il rispetto verso la persona umana in quanto tale è legato al principio di accettazione di ogni persona per quello che è. Nel momento in cui si stabilisce un primo contatto con l’utente-cliente, infatti, è necessario che l’assistente sociale non esprima giudizi di valore in merito alla situazione che l’individuo si ritrova ad affrontare, per non fargli vivere quel momento come fallimento, facendo diminuire di conseguenza la sua autostima. Al contrario è essenziale che l’assistente sociale riesca a creare durante i colloqui un’atmosfera non intrinseca solo dell’odore istituzionale, ma soprattutto di disponibilità all’ascolto e alla comprensione. Ciò sarebbe la base per creare un possibile rapporto di fiducia, in cui l’utente-cliente riesca ad acquisire una maggiore fiducia in se stesso, compiendo i primi passi verso un nuovo percorso di vita e diventando sempre più consapevole delle sue effettive potenzialità. Il non giudicare dell’assistente sociale nella relazione di aiuto indica una visione del bisogno non come fatto morale ma come fatto scientifico, quindi da studiare e comprendere.

L’unicità e la soggettività di ciascun utente-cliente deve essere riconosciuta dall’assistente sociale per poter effettuare un intervento adatto al soggetto. Le azioni dell’assistente sociale devono cioè essere rivolte ad un soggetto che ha un pensiero, una sensibilità, delle emozioni e delle potenzialità proprie dalle quali non si può assolutamente prescindere nel momento dell’intervento, che anzi sarà costruito proprio tenendo conto della specificità delle persone cui ci si riferisce.

Una formulazione di Kant sottolinea come "nella propria persona e in quella di qualsiasi altro non si veda unicamente uno strumento ma sempre anche un fine". Con ciò egli intende che noi dovremmo trattare gli altri come esseri che hanno mete (ossia scelte e desideri), e non soltanto come oggetti o strumenti per i nostri fini. Si viene ad affermare così il valore assoluto dell’uomo come unico e irripetibile, considerato quindi un sé, per un fine e mai un mezzo.

L’assistente sociale deve, perciò disporre di una conoscenza approfondita degli elementi teorici appartenenti a più aree scientifiche, necessari per l’interpretazione del comportamento umano. Ciò è essenziale per riuscire a mettere in atto una personalizzazione dell’intervento per promuovere autonomia e responsabilità.

L’assistente sociale deve considerare e accogliere la persona come "unica e distinta da altre analoghe situazioni" e deve saperla collocare "entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente". È essenziale tener presente, appunto, che la persona vive all’interno di una fitta rete di relazioni tra diversi sistemi e che è, quindi, in stretto contatto con concetti di interdipendenza e continuità. È proprio nei rapporti con l’esterno, però, che le persone possono incontrare delle difficoltà che le portano ad una condizione di "crisi", infatti spesso il problema è proprio la rottura, la mancata integrazione fra le parti di cui sono composte, che minaccia la loro autonomia e distorce le relazioni sociali.

Pertanto il compito dell’assistente sociale è quello di cercare di ricostruire tali legami per ricomporre prima di tutto l’unitarietà della persona. Il professionista deve tendere a riconoscere e valorizzare l’utente-cliente e presuppone una nuova visione dell’intervento che non si incentra sulla cura della patologia, ma sul potenziamento di funzioni - individuali e sociali - di apprendimento sociale, sostenendolo nell’uso delle risorse proprie e della società. In tal caso l’assistente sociale si ritrova a dover svolgere una funzione di raccordo e connessione di risorse.

Riportando la definizione, data da un dizionario di lingua italiana, l’autodeterminazione è "l’atto secondo cui l’uomo si determina secondo la propria legge: espressione della libertà positiva dell’uomo, e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione".

Tale principio può essere considerato quello che maggiormente identifica l’operato dell’assistente sociale e che lo contraddistingue principalmente dagli altri operatori. Poiché il servizio sociale valorizza la libertà come risorsa fondamentale, che deriva dal rispetto che va garantito ed assicurato alla persona, tale principio dovrà essere presente in ogni momento del processo di aiuto e in ogni relazione instaurata dall’assistente sociale.

L’utente-cliente, infatti, non è attore passivo nella relazione e nel processo di aiuto, ma ne deve essere il principale attore che si impegna attivamente, una volta consapevole delle proprie risorse, nel portare avanti, fase per fase, il proprio progetto personale per liberarsi dal suo bisogno. In questo progetto l’assistente sociale deve aiutare l’utente-cliente a procedere verso il raggiungimento degli obiettivi, ma non si deve sostituire a lui, per permettergli di prendere le sue decisioni in libertà e con responsabilità.

Tale progetto, infatti, non può essere chiaro e definito fin dall’inizio, ma è compito dell’assistente sociale, prima di tutto, portare l’utente ad avere consapevolezza della situazione in cui si trova, per poi poter realizzare man mano ciascuna fase progettuale. Saranno necessarie delle fasi intermedie di rivisitazione degli obiettivi, che possono variare in base sia ai passi compiuti dall’utente, che anche da cause esterne, e quindi dai rapporti che magari vengono a instaurarsi nuovamente con l’esterno.

Una maggiore presa di coscienza dell’utente, lo porta a crescere, a raggiungere la propria autonomia e anche a riconoscere le proprie responsabilità, in quanto cercherebbe di prendersi carico delle proprie problematiche e di affrontarle una per una con calma e consapevolezza dei propri limiti.

L’assistente sociale, nella relazione di aiuto, deve promuovere le condizioni favorevoli per una riabilitazione con l’utente-cliente. Il processo di cambiamento non dipende solo dalla volontà della persona di intraprenderlo e quindi dalla maggior consapevolezza, ma è ottenuto da quel percorso da cui si è partiti, dal suo sistema di valori, per individuare ed attivare tutte le risorse possibili nel processo di cambiamento. Questo è un processo lento che richiede enorme pazienza, in cui l’assistente sociale si deve adattare possibilmente ai tempi degli utenti senza forzarli o affrettarli, riconoscendo i ritmi di ciascuno.

Il Principio del Rispetto e della Promozione dell’Uguaglianza deriva dal valore che ogni uomo è uguale ad un altro in quanto a dignità e a godimento dei diritti fondamentali, che porta l’assistente sociale a svolgere la sua azione professionale senza alcuna discriminazione di alcun genere ("di età, di sesso, di stato civile, di razza, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione mentale o fisica, o di qualsiasi differenza o caratteristica personale").

Questo principio, che si rifà sia agli articoli 1 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 3 della Costituzione della repubblica Italiana, "non solo non nega le differenze, ma anzi da un’appropriata constatazione delle differenze, impone attività differenziate in modo che tutti possano disporre di pari opportunità e godere effettivamente di uguali diritti, in un’ottica di giustizia ed equità sociale".

Il Capo III del Titolo III del Codice Deontologico è interamente dedicato alla riservatezza e al segreto professionale. Temi molto importanti nella relazione che si instaura tra assistente sociale ed utente o cliente. Si sottolinea, infatti, che per la particolare natura del rapporto professionale, e cioè di fiducia che si viene a creare, l’assistente sociale deve trattare con riservatezza "le informazioni e i dati riguardanti" gli utenti e clienti, e "deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge" per l’uso o per la trasmissione di questi.

Come prima prerogativa si sottolinea che la riservatezza e il segreto professionale sono diritto dell’utente e del cliente e dovere dell’assistente sociale. Inoltre, si può ricordare che il "carattere fiduciario che viene instaurato con gli utenti", rappresenta da sempre, per gli assistenti sociali, un valore professionale prima che un obbligo, un dovere etico prima che giuridico. È importante, quindi, nell’ambito del rapporto fiduciario, la capacità di coinvolgere al massimo gli utenti nella scelta dei contenuti per le comunicazioni ad altri delle informazioni che li riguardano.

Il Servizio Sociale ha come obiettivo quello di aiutare la persona o la collettività a risolvere i problemi attraverso il cambiamento delle situazioni usando le capacità delle persone coinvolte e le risorse disponibili.
Gli obiettivi vengono scelti in base ai mezzi, alle risorse, in base alle conoscenze teoriche sull’uomo e sulla società, in base ad alcuni valori guida.
Gli obiettivi possono essere generali o specifici, tesi ad un cambiamento a livello individuale, collettivo, istituzionale e delle politiche sociali.

Creare raccordi tra bisogni e risorse:
attivando un sistema di aiuto intorno ai problemi del singolo e della collettività
favorendo e migliorando i rapporti e le relazioni tra gli individui e fra gli individui e i sistemi di risorse
rendendo l’ambiente di vita delle persone promozionale ed educativo per persone e gruppi
Aiutare le persone a sviluppare conoscenze e capacità per affrontare e risolvere i propri problemi assistenziali con senso di responsabilità e autonomia attraverso l’attivazione delle proprie risorse personali, familiari e con quelle predisposte dalla società
Aiutare la collettività a:
individuare i propri bisogni
attivare le reti di solidarietà naturali, i processi di partecipazione, il volontariato organizzato al fine di creare nuove risorse per la soluzione di problemi individuali e collettivi
Progettare, organizzare, gestire i servizi e le risorse in mdo personalizzato e non emarginante, perchè siano veramente corrispondenti i bisogni individuali e collettivi
Evidenziare, studiare e analizzare i problemi collettivi al fine di contribuire alla progettazione e alla realizzazione di un adeguato sistema di servizi nell’ambito delle linee guida delle politiche sociali nazionali e locali
Lavorare per l’uguaglianza delle opportunità per ogni utente

La funzione curativo-riparitiva viene attivata con persone o gruppi che chiedono aiuto a causa di bisogni complessi, sotto il profilo fisico, psichico e sociale.
E’ prevista l’attivazione le risorse personali, istituzionali e comunitarie al fine di avviare il processo di cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia.

ORGANIZZATIVA-GESTIONALE è  una funzione propria delle organizzazioni che devono adeguare i servizi e le prestazioni attraverso la lettura dei bisogni e della domanda sociale, nell’ottica del potenziamento delle risorse.

PREVENTIVO PROMOZIONALE è proiettata verso l’esterno dell’organizzazione, e vuole favorire i processi di integrazione tra servizi, la cooperazione, lo scambio sistematico delle informazioni, il cambiamento delle politiche sociali in base all’evoluzione dei bisogni, la crescita della solidarietà comunitaria, l’analisi costante e il monitoraggio dei fenomeni sociali. E’ una funzione importante perchè consente di raccogliere le informazioni indispensabili per operare scelte programmatiche dei servizi e del sistema istituzionale.

Poi ci sono delle funzioni condivise con altre professioni:

programmazione, organizzazione e gestione di servizi sociali;
attività di indagine, studio, ricerca, monitoraggio e documentazione.

Il sistema di sicurezza sociale italiano è stato interessato, a partire dagli ultimi 30-40 anni, da un processo di rinnovamento che ha interessato sia il livello delle competenze amministrative che quello delle modalità di intervento degli attori chiamati in causa nella gestione ed erogazione dei servizi. Tale processo ha avuto inizio negli anni ’70 con l’istituzione delle Regioni. Successivamente con il D.P.R. 616 del 1977 si realizzò il decentramento cioè il trasferimento, alle Regioni, delle funzioni amministrative e in particolare con l’attribuzione, ai Comuni, delle funzioni di organizzazione dei servizi sociali. Ulteriori innovazioni vennero introdotte negli anni 90 e in particolare con la prima legge Bassanini (L. n°59 del 1997) che introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni vengono prese dall’organo di governo più vicino ai cittadini (il Comune) e cioè da quello che è maggiormente in grado di interpretare i bisogni e le risorse della comunità territoriale di riferimento. Tale principio ha portato allo sviluppo di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative riguardanti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato. Questo quadro di ridefinizione del rapporto Stato-Regioni- Enti locali è stato completato attraverso l’introduzione della Legge Quadro di Riforma dell’assistenza, la L. 328 del 2000 e dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3 del 2001).

La legge n° 328 del 2000 –“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima della 328, infatti, solo la Legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario valido per l’intero territorio nazionale.

Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di rimozione delle cause di disagio ma soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità.

L’attenzione con tale legge si è spostata poi:

dalla prestazione disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato;
dalle prestazioni monetarie volte a risolvere problemi di natura esclusivamente economica a interventi complessi che intendono rispondere ad una molteplicità di bisogni;
dall’azione esclusiva dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali quelli del terzo settore.



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domenica 27 settembre 2015

TOSSICODIPENDENZA E INVALIDITA'

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La tossicodipendenza da ora mai oltre 10 anni è considerata malattia da OMS e come tale tabellata nell'invalidità civile.
Patologia cronica recidivante questo è stata definita .

Ci sono voluti quattro anni di carte bollate, denunce e ricorsi, perizie. Alla fine, l' ha spuntata: il pretore di Varese ha riconosciuto ad A. C., 47 anni, aiuto regista che fu il braccio destro di un famoso regista il diritto ad una regolare pensione per invalidità con i relativi arretrati calcolati a partire dal 1978. Il motivo: C., che è stato a lungo tossicodipendente, non è in grado di lavorare. Pensione di invalidità per droga, gli enti previdenziali costretti a farsi carico delle vittime dell' eroina? "Non è il caso di generalizzare, sostiene il magistrato che ha firmato il provvedimento,  perchè nel caso da me trattato il ricorrente è un uomo di 47 anni, tossicomane fin dal 1968, affetto da una psicopatia di base su cui ha trovato facile esca la tossicodipendenza che ha aggravato il suo stato mentale. In altre parole, la tossicodipendenza è stato un elemento marginale nel giudizio di invalidità, parificabile ad alcolismo o ad altre affezioni accessorie ad uno stato di alterazione mentale". Proprio l' elemento droga, tuttavia, pare sia stato quello che ha fatto affermare ai periti d' ufficio l' inabilità al lavoro dell' aiuto regista, e sulla tossicodipendenza avevano calcato gli stessi legali di A. C., nel corso della lunga battaglia condotta contro l' Enpals, l' istituto previdenziale dei lavoratori dello spettacolo. Inevitabile, dunque, che la sentenza emessa dal pretore varesino susciti discussioni e forse polemiche. A. C., nonostante fosse già malfermo di salute, fino al 1968 aveva potuto svolgere normalmente il suo lavoro, come disegnatore meccanico in un primo tempo, nel cinema più tardi. Poi, anche per reazione ai forti dolori provocati dalla malattia - soffriva di coliche renali - aveva cominciato a consumare sostanze stupefacenti. Per anni, l' aiuto regista ha fatto dentro e fuori da ospedali e centri di disintossicazione. Il suo stato di salute, a quel punto, secondo la perizia medico-legale, era però compromesso e le sue capacità lavorative conseguentemente ridotte del 75 per cento. Di qui, la dichiarazione di invalidità. L' ente previdenziale si è opposto al provvedimento, affermando che "non erano emerse invalidità tali da ridurre nei limiti di legge le capacità di guadagno" dell' aiuto regista.




Le conseguenze devastanti sul piano fisico e sociale della tossicodipendenza sono comprovate dalla presenza, nel 33% dei casi, di invalidità civile, riconosciuta, nella maggioranza dei pazienti, per cause fisiche, nonché dalla grande frequenza di problemi penali per reati connessi alla tossicodipendenza.

La dipendenza da sostanze si sta trasformando in patologia multifattoriale e cronica: è quanto emerge da un'indagine su 1200 persone dipendenti da sostanze, effettuata dal Dipartimento Dipendenze della ASL TO2.

"Nella fase della vita in cui l'individuo potrebbe esprimere la propria capacità lavorativa e avere piena autonomia - spiega il Dipartimento Dipendenze -, la condizione di dipendenza si somma alla fragilità sociale e alla compresenza di altra patologia, soprattutto psichiatrica (67%), infettivologica (46%), neurologica (33,9%)".

"Superato il rischio di mortalità precoce per overdose - aggiunge - avanza l'invalidità sociale: un paziente su 5, anche in condizione 'drug free', deve fare i conti con i danni correlati all'assunzione di sostanze e si ritrova, nella fascia d'età che dovrebbe essere di massima produttività, a dover assorbire grandi risorse assistenziali". Spesso alla tossicodipendenza si associa una patologia sanitaria, reddito insufficiente, mancanza di un'abitazione adeguata e assenza della rete familiare: si parla in questo caso di paziente multiproblematico.

"Nella maggioranza dei casi è maschio, di età compresa tra i 31 e i 50 anni, con licenza media inferiore", spiega Enrico De Vivo, responsabile Area Ricerca del Dipartimento Dipendenze 1. (Fonte Ansa)“





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martedì 15 settembre 2015

TOSSICODIPENDENZA E COSTI SOCIALI



La tossicodipendenza viene intesa come sistema comportamentale che si instaura in seguito all'uso cronico e compulsivo di sostanze (droghe illegali o legali come l'alcol, o farmaci a prescrizione medica). In particolare, secondo Koob e le Moal, la dipendenza da sostanze viene definita come disturbo cronico recidivante caratterizzato da:
compulsione alla ricerca e all'assunzione della sostanza.
perdita di controllo nel limitare l'assunzione della sostanza stessa.
comparsa di uno stato emozionale negativo (caratterizzato da disforia, irritabilità, ansia...) quando l'accesso alla sostanza è precluso.
La dipendenza da sostanze è un problema sociale e sanitario molto diffuso con conseguenze dirette e indirette sull'ordine pubblico e sulla spesa pubblica e in quanto tale è oggetto di interventi generici e specifici dello Stato. Gli effetti negativi sulla salute possono essere diretti e derivare quindi dagli effetti farmacologici della droga e dalla via di somministrazione (per esempio fumata o iniettata utilizzando aghi non sterili) e/o indiretti cioè conseguenti all'utilizzo delle sostanze da abuso come cancro, cirrosi epatica, epatite B e C, AIDS e depressione. Le fasce di popolazione più vulnerabili al fenomeno sono i giovani adolescenti, probabilmente a causa della maggior vulnerabilità dei circuiti neurali ancora in fase di sviluppo accompagnata da una maggior facilità nell'aver accesso (a differenza dei soggetti meno giovani) all'acquisto delle sostanze d'abuso.



Un danno talmente elevato, 31 miliardi di euro nel 2010 (784 euro annui per ciascun abitante tra i 15 e 64 anni, circa il 2% del Pil italiano), nel quale i costi sociali vengono suddivisi in tre macro categorie: costi del singolo individuo, costi della collettività e costi esterni.

Più nel dettaglio, abbiamo: costi derivanti dall’acquisto, quindi dal consumo, di sostanze stupefacenti, che nel 2010 ammontano a ben 22 miliardi di euro; costi per l’applicazione della legge, ovvero relativi agli interventi delle forze dell’ordine, ai Nuclei operativi tossicodipendenze delle prefetture, più spese processuali o costi per la detenzione, per un importo complessivo di 2 miliardi di euro; costi socio sanitari, di competenza delle Regioni e delle Province autonome, dipendenti dai finanziamenti erogati dagli enti per aiutare le strutture socio-sanitarie a fronteggiare il problema della tossicodipendenza, 1,7 miliardi di euro; e, infine, ciò che è più negli interessi di uno Stato capitalista, i costi derivanti dalle spese non rimborsate, ovvero il mancato pagamento delle imposte, a causa dell’improduttività lavorativa del soggetto, 4,7 miliardi di euro. Dove la perdita di produttività è calcolata sui dati forniti dai servizi di assistenza, i quali valutano la potenzialità dell’individuo di inserirsi nuovamente nel mondo del lavoro, tenendo presente l’attuale tasso di occupazione e una retribuzione media nei settori industriali e agricoli.

Il danno, per lo Stato, equivale quindi a una perdita in termini di soggetti consumatori, e a una perdita di soggetti produttori di tasse, utili a coprire le altre voci di spesa, da quelle legali a quelle socio-sanitarie..

Ma, sull’altro lato del bilancio, quali sarebbero i benefici, o meglio, i ricavi di questa chiave di lettura capitalistica del problema tossicodipendenza?
Innanzitutto la ricchezza derivante dalle attività correlate quali: reddito del personale che opera nel settore sanitario e nelle forze dell’ordine; poi i risparmi dovuti al mancato acquisto delle sostanze stupefacenti da parte dei soggetti in trattamento socio-riabilitativo; infine il reddito dei soggetti riabilitati, circa il 70% degli individui sottoposti a cura, reinseriti nel mercato del lavoro (quindi nel mondo del precariato e della disoccupazione...).
Dal 2010, inoltre, il Dpa ha attivato 109 progetti di cura, prevenzione, riabilitazione e reinserimento dei tossicodipendenti per un totale di 42 milioni di euro, affidati a enti e organizzazioni qualificate. Si tratta di Comuni, università, Asl, Rete ferroviaria italiana, Regioni, Province, Croce Rossa, istituti di ricerca privati, fondazioni ecc., con cui il Dpa ha stipulato accordi e convenzioni.

Tramite un accordo Stato-Regioni stipulato il 18 maggio 2011, si è operato quindi con l’obiettivo di favorire l’uscita dal carcere dei tossicodipendenti con l’affidamento in prova, oltre a voler quantificare il fenomeno della tossicodipendenza negli istituti penitenziari e monitorare l’applicazione dell’affidamento in prova. Un nuovo impulso alla prevenzione, che coinvolge sia le istituzioni pubbliche sia quelle private (come aziende sanitarie, direzioni scolastiche, prefetture ecc.).
Ne è un esempio il progetto dedicato a carcere e droga, per il rafforzamento di percorsi alternativi al carcere, sia per tossicodipendenti sia per alcol dipendenti, che nel 2011 il Dpa ha affidato alla Formez PA, associazione di diritto privato “in house alla Presidenza del Consiglio dei ministri, che esercita il controllo e la vigilanza attraverso il Dipartimento della funzione pubblica” , a cui possono aderire enti pubblici, Regioni, Province e Comuni.

Non c’è da stupirsi se ci sono progetti e finanziamenti, nazionali ed europei, ma i costi del ‘capitale umano’ rimangono nell’ordine dei 31 miliardi di euro, e se questi costi pensati per un’economia di Stato finiscono col gravare solo su quei soggetti divenuti ‘improduttivi’.

Il recupero del tossicodipendente inizia con una lunga permanenza nelle comunità terapeutiche.
Vista l’importanza che i centri di recupero hanno per tutto il sistema di reinserimento, nel 2009, a seguito della Conferenza nazionale per le politiche antidroga, il Dpa ha istituito un progetto denominato Comunitalia, con l’obiettivo di monitorare i dati relativi alle comunità terapeutiche, riguardanti: informazioni anagrafiche e strutturali, volume e tipo di attività, informazioni economiche sul fatturato e i relativi crediti.

Il fatturato delle comunità ha la tendenza a diminuire in modo graduale e inesorabile, passando dai 207 milioni di euro del 2009 ai 120 milioni del 2010, con una proiezione presunta sui dati del primo semestre 2011 di soli 41 milioni. Diminuzione affiancata dall’aumento proporzionale dei crediti vantanti nei confronti di Regioni, Province autonome e aziende sanitarie.



Si è quindi avuto il bisogno di creare una rete informativa, quella appunto del progetto Comunitalia, che servirà a diffondere criteri standard nazionali e norme univoche per la definizione delle rette, così da “poter ottenere un idoneo riconoscimento delle prestazioni erogate su cui istituire un sistema condiviso e permanente di recupero crediti”.
È chiaro tuttavia che un tale importante calo di fatturato non può certo dipendere solo dal ritardo nei pagamenti da parte degli enti pubblici, per quanto questo credito inevaso continui ad aumentare nel tempo. In precedenza abbiamo già parlato della difficoltà, del detenuto, di ricorrere all’art. 94 del Dpr 309/1990, che disciplina il trasferimento dal carcere ai centri di recupero e ai servizi territoriali. Il dato preoccupante è l’aumento del tempo intercorso tra l’uso delle sostanze stupefacenti e la richiesta di primo trattamento. La latenza passa dai 5,5 anni del 2009 agli 8,9 anni del 2011; dato che si può leggere guardando anche la differenza tra i trattamenti socio-sanitari erogati dai Sert rispetto al numero dei tossicodipendenti con bisogno di cure. Nel 2009 sono stati eseguiti 160 mila trattamenti su 393 mila soggetti con bisogno di cure (ovvero solo il 40,8%), nel 2011 appena 186 mila su 520 mila (il 35,7%).

La motivazione va ricercata nella legge 49/2006- la Fini-Giovanardi – secondo la quale “il provvedimento sanzionatorio non viene sospeso, come previsto in precedenza, ma viene comunque sempre applicato e, solo successivamente la persona segnalata è invitata a intraprendere un percorso terapeutico”.
Trattare la tossicodipendenza come fosse criminalità, dunque, fa sì che le persone segnalate perdano la motivazione per iniziare un percorso di recupero e reinserimento.
Tuttavia, secondo le conclusioni della relazione del Dpa, non si può accettare la legalizzazione delle droghe perché si incrementerebbe la loro disponibilità e accessibilità sul mercato, facendo di conseguenza aumentare i consumatori e le persone vulnerabili che ne farebbero uso. Ma la riflessione del Dpa dovrebbe focalizzarsi non tanto sulla legalizzazione delle droghe e il relativo traffico, quanto sulla depenalizzazione dell’uso personale, che non era considerato reato fino al 2006. Quello che bisognerebbe fare, quindi, e che ancora non è stato fatto, nonostante i 109 progetti del Dpa e i milioni di finanziamenti nazionali ed europei, è migliorare la rete dei servizi per la riabilitazione e il reinserimento sociale/lavorativo. Smettere di criminalizzare la tossicodipendenza e cominciare a trattarla come un problema sociale e sanitario, curabile attraverso una serie di interventi.

La tossicodipendenza è considerata una malattia grave perché, tra l’altro, tende alla cronicità, in molti casi produce situazioni di invalidità e può portare a morte in giovane età, per effetto diretto di una serie di patologie correlate che non è sempre facile prevenire o curare. Ogni Azienda Sanitaria è dotata di un Servizio Tossicodipendenze (Ser.T.) ed esistono anche molte Comunità Terapeutiche che possono accogliere i tossicodipendenti in cura, a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Quindi, apparentemente, per chi è tossicodipendente viene fornito tutto quanto è necessario per la cura ed anche … di più, visto che tutte le azioni cliniche connesse alla tossicodipendenza sono esenti da ticket.
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lunedì 15 giugno 2015

I TEATRI DI BRESCIA



Il CTB Teatro Stabile di Brescia è nato nel 1974 per iniziativa del Comune di Brescia e della Provincia di Brescia, cui si è affiancata nel 1991 la Regione Lombardia.
Il CTB Teatro Stabile di Brescia fa parte dei diciassette teatri stabili pubblici italiani ed ha una particolarità che condivide solo con un altro teatro stabile, quello di Catania, quella, in pratica, di agire in una regione nella quale esiste un altro stabile, che nel nostro caso è il Piccolo Teatro di Milano. È un'eccezione questa che chiarisce il bisogno di teatro della regione Lombardia. Nato da una compagnia che aveva raggiunto un livello di qualità nazionale, il CTB Teatro Stabile di Brescia si è dato uno statuto di Teatro Stabile Pubblico nel 1994 e da allora ha svolto continuativamente e con successo la sua attività a Brescia e in provincia.
L'anno di fondazione è il 1974 dall'attività della Compagnia della Loggetta e l'apporto creativo della regista Mina Mezzadri. Gli esordi del CTB sono affidati all'azione teatrale e di pensiero di Massimo Castri che è direttore del neonoato stabile fino al termine degli anni Ottanta. Le sue regie di Pirandello e Ibsen – prodotte dal CTB – sono tappe fondamentali nella storia del teatro di regia italiano della seconda metà del Novecento e forniscono al teatro bresciano l'occasione per costruire una propria identità a livello nazionale. Contestualmente alla presenza come direttore artistico, Massimo Castri chiama al CTB registi come Nanni Garella, e Cesare Lievi, fondatore col fratello Daniele, scenografo, del Teatro dell'Acqua di Gargnano. I fratelli Lievi mettono in scena per il CTB Torquato Tasso e Clavigo di Goethe, un'anticipazione della storia recente dello stabile bresciano. Il testimone a fine anni ottanta poi passa a Sandro Sequi che promuove un'eclettica apertura a diverse posizioni stilistiche. Sequi, regista raffinato e colto, caratterizzato da uno stile neobarocco e di respiro europeo, chiama a collaborare con lo stabile registi come Roman Viktiuk che realizza lo sconcertante l'intenso Play Strindberg di Friedrich Dürrenmatt, José Caldas, Cherif, Federico Tiezzi, Nanni Garella, Mina Mezzadri. La direzione artistica di Sequi propone cicli dedicati al teatro russo, al teatro francese e al teatro inglese con scambi internazionali che anticipano la necessità di un'apertura dello stabile ai fermenti europei.
Con la stagione 1996/1997 Cesare Lievi assume la direzione artistica del CTB e si pone in una posizione di continuità nei confronti della storia dello stabile ma anche con la consapevolezza che agire in uno scenario di rinnovamento dei testi e della drammaturgia di matrice europea sia necessario per restituire al teatro il suo ruolo etico.
Dal 2 luglio 2010 la direzione del CTB Teatro Stabile di Brescia è affidata ad Angelo Pastore, già consulente del CTB dal 2000, si è occupato di programmazione teatrale a partire dagli anni Ottanta, iniziando la sua carriera allo stabile di Torino e successivamente al Franco Parenti di Milano mentre dal 2009 ha assunto l'incarico di direttore del teatro Quirino di Roma pur mantenendo la sua collaborazione con il teatro bresciano. Consulente artistico dalla stessa stagione, Franco Branciaroli, attore e regista poliedrico conosciuto e applaudito dal pubblico bresciano nelle passate stagioni di prosa.
Il CTB Teatro Stabile produce, ogni stagione, spettacoli che vengono rappresentati in sede - nella sala del teatro Sociale e nella più piccola del teatro Santa Chiara – per poi essere venduti e inseriti nei circuiti di programmazione nazionale e talvolta anche internazionale grazie al livello culturale e artistico ormai generalmente riconosciutogli. Nella programmazione però non manca la realtà locale, le sue tradizioni, la sua lingua e i suoi artisti, curando la messa in scena d'importanti testi di autori dialettali contemporanei. Accanto all'attività produttiva il CTB - Teatro Stabile di Brescia, organizza, all'interno di tre diverse rassegne, l'ospitalità di spettacoli di vario genere: teatro classico, teatro contemporaneo. Si dedica, inoltre, ad attività culturali ormai fortemente radicate nella città quale le letture di poesie, conferenze, incontri e dibattiti svolti nel foyer del Teatro.

La chiesa di Santa Chiara è una ex chiesa, oggi adibita a teatro, ha fatto parte di un complesso monasteriale, di origine medievale, dedicato a Santa Chiara.
All'interno della chiesa settecentesca, sono tuttora conservati affreschi datati al 1739 di Giovan Francesco Gaggini, tra cui spiccano Santa Chiara in Gloria, Speranza e San Francesco d'Assisi in adorazione della Santissima Trinità e Santi, dipinto nel medaglione verso l'ingresso.
Distrutta nel 1856, venne ricostruita in epoca moderna e adibita a teatro.
Il Teatro Santa Chiara oggi si compone di una piccola sala disposta su un unico piano da circa 150 posti a sedere. Fa parte del CTB Teatro Stabile di Brescia. Nel 1963 il Comune destinò il Santa Chiara come sede teatrale alla Compagnia della Loggetta diventata poi nel 1974 Centro Teatrale Bresciano e successivamente in Associazione CTB Teatro Stabile di Brescia.
L'inaugurazione del teatro Santa Chiara avvenne nell'estate del 1963 con I giganti della montagna di Pirandello, per la regia di Mina Mezzadri. Da allora il teatro è divenuto un punto di riferimento culturale importante per la città. La sala ha ospitato molti spettacoli prodotti dal CTB e firmati da registi, dalla Mina Mezzadri a Massimo Castri, da Nanni Garella a Federico Tiezzi, da Sandro Sequi a Cesare Lievi.

Il teatro Sociale, secondo per grandezza e capienza al teatro Grande fu fondato nel 1851 come teatro Guillaume ed è stato ricostruito due volte e la struttura attuale, in pieno stile liberty, risale al 1905. A lungo abbandonato nella seconda metà del Novecento, è stato recuperato alla fine del secolo e riaperto al pubblico nel 2000.
Nel 1817 Francesco Luigi Guillaume, sciolta la compagnia di spettacoli equestri itinerante che aveva costituito in gioventù in Francia, si stabilisce a Brescia. Undici anni dopo il suo arrivo in città, in società con il figlio Luigi, decide però di riprendere l'attività e, a questo scopo, richiede in affitto parte del soppresso convento di San Barnaba per l'estate del 1828. All'interno del chiostro maggiore, Guillaume costruisce un anfiteatro in legno dove poter rappresentare esercizi equestri e spettacoli di giocolieri: fondando il primo teatro brillante, borghese e popolare di Brescia, Francesco e suo figlio conquistano incredibilmente una larghissima fama. L'impianto in San Barnaba viene mantenuto fino al 1832.
Nel 1851, ceduta la compagnia, il figlio Luigi edifica, sotto la direzione dell'ingegnere Antonio Taeri, un primo teatro a tutti gli effetti a nord di via Moretto, nell'ortaglia del demolito convento degli Umiliati, cui faceva capo la chiesa di Santa Maria Maddalena, anch'essa atterrata quasi completamente. Il terreno era dell'Ospedale di San Luca, che ne deteneva la proprietà almeno dal 1847. Su questo primo teatro, completamente in legno, le notizie sono molto scarse: aveva sicuramente due ordini, dei camerini e una terrazza. Alcune modifiche vengono apportate nel 1862 dall'ingegnere Domenico Buizza.
Questa prima costruzione viene demolita nel 1873 e sostituita da un più ampio e dignitoso teatro progettato dal palermitano Luigi Valere, cognato del Guillaume. L'immagine della costruzione ci è tramandata dalla carta intestata della società teatrale che lo gestiva: si trattava di un teatro in legno e muratura, con quattro ordini di palchi più il loggione. Al suo interno si svolgevano opere, commedie, spettacoli equestri, vaudevilles, varietà e concerti, nello spirito di politeama che ha sempre contraddistinto questa sala. Nel 1884 vengono effettuati dei miglioramenti al foyer e alle scale e viene aperto un nuovo ingresso.
L'attività del teatro prosegue con alterne fortune fino al 1905, quando viene chiuso per motivi di sicurezza a causa della precaria staticità della struttura. Approfittando della chiusura, l'edificio viene acquistato dal conte Antonio Valotti che fonda una società per la sua ricostruzione. Su progetto dell'ingegnere Arnaldo Trebeschi, la vecchia sala viene demolita per erigere il teatro che ancora oggi si conserva. La nuova struttura in cemento armato, mostrata nella sua essenzialità, viene abbinata a decorazioni liberty. Il nuovo teatro, denominato Sociale, trae comunque l'eredità dalla precedente gestione, non potendo smentire il carattere originario del Guillaume e, quindi, costituendo a lungo in Italia sinonimo di teatro popolare "leggero", molto ricettivo nei confronti delle novità e dei gusti del pubblico medio, che al suo interno non doveva vergognarsi dei propri abiti non ricchi.
Nel 1954 viene bandito un concorso per la ristrutturazione del teatro, ma i lavori effettivi vengono avviati solamente alla fine del secolo, dopo più di vent'anni di abbandono e degrado. Il progetto di ristrutturazione viene affidato all'ingegnere Roberto Berlucchi, affiancato da Enrico Job e Cesare Lievi: al primo vengono affidati la decorazione liberty e l'arredo originale del teatro, che vengono integrati disegnando nuovi apparati come le appliques e il grande lampadario, interamente realizzato in ferro battuto lavorato a mano dal fabbro Sergio Bara, mentre al secondo l'organizzazione degli apparati di palcoscenico. Il teatro Sociale è stato riaperto al pubblico il 24 gennaio 2000 e da allora funziona regolarmente, presentando soprattutto stagioni di prosa e concerti di musica leggera o da camera.
La gestione del Teatro Sociale (e del Teatro Santa Chiara) è affidata al Teatro Stabile di Brescia, nato nel 1974 per iniziativa del Comune di Brescia e della Provincia di Brescia, cui si sarebbe affiancata nel 1991 la Regione Lombardia.

Il teatro Pala Banco è il principale teatro di Brescia per capienza con 1800 posti a sedere. Il primo Teatro Tenda nel 1981 era situato a nord della città, presso il campo fiera di via Oberdan e spostato nel 1983 a sud del quartiere di Brescia Due sul terreno dell'ex colonia estiva per bambini rachitici di Villa Paradiso, proprietà del Comune di Brescia. Il teatro fu riedificato nella forma attuale nel 2003.
Il nome "Pala Banco di Brescia" deriva dall'accordo di promozione dell'aprile 2013 con il Banco di Brescia. Le precedenti denominazioni erano "Teatro Tenda" e "Palatenda" fino al 2003 e "PalaBrescia" fino al 2013, nel 2011 e 2012 è stato anche denominato "Teatro di Brescia".
Il teatro ha ospitato oltre trenta stagioni spettacolari e di concerti dalla sua nascita nel 1981 ad oggi, nonché convegni, feste e manifestazioni religiose. Tra le prime attività della struttura citiamo la tappa della tournée di Fabrizio De André il 10 settembre 1981 e la prima tappa "fuori Roma" del popolare musical Forza venite gente nel 1982. Dal 2012 presso il Pala Banco di Brescia sono attivi corsi invernali di pattinaggio nella struttura stagionale del PalaGhiaccio di Brescia. Matel SpA gestisce, inoltre, la pista di pattinaggio natalizia che anima il centro storico della città (2012 Piazza Paolo VI, 2013 Piazza Rovetta, 2014 Piazza Vittoria). Dal 2014, a fianco della stagione teatrale e concertistica, è divenuta predominante l'attività di spazio per eventi, sfilate di moda, fiere e attività espositive.

Dal 2015 la struttura del PalaGhiaccio (1200mq) è divenuta permanente, d'inverno protegge la pista di pattinaggio su ghiaccio e in estate accoglie feste cittadine e eventi ludici. La tensostruttura si affianca a quella del Teatro e all'edificio del ristorante, inserita nel Parco della Ziziola.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/visitando-brescia.html





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mercoledì 10 giugno 2015

I TEATRI DI MANTOVA



Il teatro Bibiena fu costruito tra il 1767 e il 1769. Il teatro fu progettato dal parmense Antonio Galli Bibiena su commissione del rettore dell'Accademia dei Timidi, conte Carlo Ottavio di Colloredo, con la finalità di ospitare principalmente adunanze scientifiche, ma aperto anche a recite e concerti.

Il teatro, non più a gradinata come quelli rinascimentali, presenta una pianta a forma di campana ed è disposto su più ordini di palchetti lignei, secondo il genere di struttura inventato nel Seicento e che ormai imperava.
Con vivacità prodigiosa pari alle risorse dell'estro, l'architetto Bibiena adempì in soli due anni all'obbligo che nel 1767 aveva contratto coi Timidi: ideò lo speciale teatro, ne diresse i lavori di fabbrica ed infine, con abilità di pittore oltre che di architetto, affrescò personalmente gli interni dei numerosi palchetti con figurazioni monocrome, anch'esse documento prezioso dell'attività artistica dell'insigne maestro. La classica facciata fu invece realizzata da Giuseppe Piermarini da cui trae il nome il salone posto al primo piano del teatro.

Lo “scientifico”, finito di tutto punto, il 3 dicembre 1769 poteva essere ufficialmente inaugurato: risultava essere un gioiello squisito per gli equilibri fra movimento ed eleganza e una delle formulazioni architettoniche più significative del tardo Settecento europeo. Poco più di un mese dopo l'inaugurazione, il 16 gennaio 1770 il giovinetto Wolfgang Amadeus Mozart, appena quattordicenne, giunto a Mantova nel giro della sua prima tournée italiana, consacrava l'incipiente vita del leggiadro teatro “scientifico” dandovi insieme al padre Leopold un memorabile concerto.
Tuttora il teatro viene utilizzato per ospitare rassegne musicali, concerti e convegni di alto livello.
Il Teatro Sociale di Mantova è il maggiore teatro storico situato nel Comune di Mantova; teatro di tradizione, si trova nel centro storico della città ed è di proprietà della Società dei Palchettisti. Venne realizzato, tra il 1817 e il 1822, dal noto architetto ticinese Luigi Canonica.
Al termine del periodo napoleonico, esistevano in Mantova due teatri: il Teatro Regio, costruito nel 1783 dal Piermarini (da poco ribattezzato, all’austriaca, ‘Imperial-Regio Teatro’), nonché il ‘Teatro Scientifico’, costruito da Antonio Bibiena (il figlio di Ferdinando) nel 1769.
Il dibattito circa la necessità di un nuovo teatro si aprì il 4 dicembre 1816, circa un anno e mezzo dopo l’abdicazione, proprio a Mantova, del Viceré del Regno d’Italia Eugenio di Beauharnais, che segnò l’inizio della dominazione austriaca.
Il 12 gennaio 1817 venne formata una speciale commissione di notabili cittadini incaricata di selezionare una forma architettonica ed un progettista adeguati. Mentre ancora era da decidere chi avrebbe ottenuto l'incarico, certa era invece la collocazione del nuovo edificio: in un'area molto centrale, alla confluenza di sette strade, occupata da circa dieci edifici da abitazione che si sarebbero acquisiti ed abbattuti.
La commissione scelse di non rischiare e si rivolse al noto progettista Luigi Canonica, già architetto reale e, fra l’altro, autore di notevoli progetti come: l’allargamento del Teatro alla Scala di Milano, la nuova sala del Teatro Grande di Brescia e la riedificazione del Teatro della Condordia di Cremona. L'architetto propose due progetti e tra di essi la commissione scelse quello più maestoso, che presentava il Teatro ornato con un peristilio di sei colonne.
L'esigenza di erigere un nuovo teatro nella città di Mantova fu evidenziata da Luigi Preti nel 1816. Mancava infatti un Teatro nella zona più centrale della città, considerato inoltre che durante la stagione invernale era difficile usufruire del Teatro Regio a causa delle intemperie e del clima rigido, in quanto distante dal centro cittadino dell'epoca; il Teatro Regio era infatti collocato in Piazza San Pietro, l'attuale Piazza Sordello. La facciata del Teatro Sociale fu pertanto studiata con un largo peristilio anche per facilitare l'arrivo delle carrozze, da cui si poteva scendere al coperto.
Il 24 giugno 1818 alle ore dieci e mezzo, alla presenza del Conte Ferdinando Arrivabene, del Marchese Francesco Zanetti, di Luigi Preti e dell'architetto Giovanni Battista Marconi, incaricato della direzione dei lavori, venne posta la prima pietra.
L'edificio fu concluso nel 1822 e aperto la sera del 26 dicembre. A tal proposito narra Luigi Preti : " (...) per merito de'virtuosi e per venustà di decorazioni, superò persino l'aspettativa che pure se ne aveva grandissima."
Il Canonica disegnò un edificio ispirato agli schemi più caratteristici del teatro d'opera italiano di gusto neoclassico. Che vennero, in effetti, formati proprio dal Canonica e dal suo maestro Piermarini. Il cantiere venne realizzato dall'architetto Marconi.
La facciata si presenta con un peristilio d'ordine ionico a sei colonne e frontone triangolare. Sul frontone si legge " Aere Sociali Anno MDCCCXXII". Scrive a tal proposito il Preti: " La simmetria architettonica delle finestre e di ogni parte della facciata e dei fianchi, non che l'ordine inferiore a bugnato, contribuiscono molto al suo ornamento. " Nella facciata sono collocate le statue di Melpomene e Talia, opere di Antonio Spazzi.
Da un lato del Teatro si costruì una " Bottega del Caffè", sull'altro lato dei locali per le abitazioni "de' Virtuosi" .
La sala è composta da tre ordini di palchi e due di galleria. Per le decorazioni interne, Canonica si affidò all’Hayez (che realizzò medaglioni rappresentanti Apollo e Minerva, ad ornare la volta della platea). Agli interni lavorarono gli stuccatori Staffieri e Berazzi ed i pittori mantovani Bustaffa e Orsi, che si era fatto conoscere per il lavoro realizzato presso il Teatro Sociale (Rovigo) ed era stato a suo tempo allievo di Alessandro Sanquirico, scenografo già operativo per gli interni del Teatro alla Scala.
Il 17 dicembre 1817 la commissione appaltò i lavori. Il teatro venne inaugurato il 26 dicembre 1822, con il melodramma ‘Alfonso ed Elisa’ del Mercadante e ‘Gundeberga’, un balletto del Coppini.
Gli stucchi interni sono opera di un altro ticinese, Gerolamo Staffieri, figlio di una nota famiglia di stuccatori di Bioggio.
Nel 1825 l'imperatore d'Austria Francesco Primo e la consorte giungono a Mantova. La sera del primo maggio la sala del Teatro ospita la coppia imperiale. A seguito di questo evento il Teatro Sociale ottiene il riconoscimento di primato sugli altri teatri della città.
Nel 1845 il Teatro rimane chiuso dal 22 maggio al 25 dicembre per importanti interventi di ristrutturazione e decorazione: i pittori milanesi Luigi Mauro Galli e Gaetano Borgocarati indorano e dipingono il Teatro. Viene difatti dipinto il sipario,il "comodino", ed il soffitto. I nuovi rideaux vengono rifatti in seta e le specchiature dei palchi sono colorati in bianco listato oro. Vengono inoltre costruiti leggii in ferro per l'orchestra, tuttora utilizzati.
Il 18 marzo 1848, con il diffondersi delle notizie della Rivoluzione di Vienna e della possibile concessione della Costituzione una folla si riversa nelle piazze mantovane per inneggiare alla Costituzione. La giornata termina tra le mura del Teatro. Albany Rezzaghi nel testo "Quarantotto Mantovano " racconta: Più tardi il teatro, inghirlandato di tricolori, è riboccante di persone colà convenute per festeggiare l'avvenimento. Fra grida di evviva all'Italia e alla Costituzione si passa la serata cantando l'inno di Pio IX e fraternizzando coi militari e colle autorità costituite.
Nel 1866 Vittorio Emanuele II, Re d'Italia assiste alla rappresentazione de " Un ballo in maschera".
Il 9 marzo 1867 è ospite del Teatro Giuseppe Garibaldi, che assiste a " Il Trovatore". Il giorno successivo Giuseppe Garibaldi si candida a deputato democratico di Mantova con un comizio elettorale in Teatro.
Nel 1888 sono eseguiti importanti lavori di ristrutturazione.
Il 10 ed 11 novembre 1906 il cortile del Teatro Sociale (retrostante il Teatro) ospita il primo spettacolo cinematografico della Città .
Tra il 1915 ed il 1918 il l'attività viene sospesa a causa della Prima guerra mondiale.
Il 21 settembre del 1952 il Teatro ospita il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi per la commemorazione solenne dei martiri Mantovani.
Nel 2011 viene restaurato il lato est del Teatro, il lato quindi su Corso Umberto I.
Durante l'estate del 2014 viene restaurata completamente la facciata, in Piazza Cavallotti, del Teatro.
Domenica 19 aprile 2015 è ospite il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, in occasione del lancio della candidatura a sindaco di Mantova di Mattia Palazzi.
Il Teatro Sociale di Mantova è ubicato in Piazza Cavallotti. Al tempo dell'edificazione la piazza si presentava in modo molto differente da come è oggi.
Il teatro fu infatti costruito in quello spazio un tempo occupato da Porta Leona, sul retro della chiesa di San Giacomo. La chiesa di San Giacomo fu demolita dopo dodici anni di inattività, nel 1801. Numerose altre abitazioni furono demolite per lasciare spazio alla costruzione del Teatro.
Accanto al teatro oggi scorrono due importanti strade del centro storico di Mantova.
Su un lato si trova infatti corso Umberto I, dove sono collocati il Caffé Sociale (accanto al Foyer), i negozi di proprietà del Teatro Sociale concessi in affitto a negozianti e commercianti, e l'ingresso del Ridotto del Teatro Sociale. Corso Umberto I è una delle vie maggiormente percorse del centro cittadino.
Sull'altro lato si trova piazza Teofilo Folengo. Qui sono collocati gli ingressi per gli uffici amministrativi del teatro, la segreteria, le sale riunioni, l'ingresso per loggia e loggione, e l'ingresso tecnici ed artisti dal quale si accede direttamente al palcoscenico.
Al centro si trova piazza Felice Cavallotti, e di fronte al teatro sorge Corso Vittorio Emanuele II, sicuramente una delle più maestose e importanti arterie della città.
La Società dei Palchettisti venne finanziata da una società di novanta palchettisti (in origine i cittadini ‘più illustri ed agiati’), che finanziavano anche l'allestimento degli spettacoli. Tale ‘Società dei Palchettisti’ si è conservata sino ad oggi, conservando la proprietà del teatro, come accade per pochissimi altri teatri, in particolare il Sociale di Como. Organizza una stagione lirica tradizionale e diverse rassegne teatrali.
Il Teatro Sociale di Mantova conserva un vastissimo archivio.
Sono presenti infatti la maggior parte degli storici manifesti originali, fin dalle prime rappresentazioni del 1822. Tutta la prima parte, dall'Ottocento al novecento è stata poi digitalizzata e resa disponibile sul sito internet del Teatro, fruibile a chiunque. Sono state conservate inoltre fotografie di rappresentazioni del passato, manoscritti e documenti.
L' 11 ottobre 2011 la Fondazione Banca Agricola Mantovana ha assegnato la borsa di ricerca post laurea alla Dott.ssa Alessandra Moreschi, che ha proposto un progetto di ricerca su "Riordino, catalogazione e digitalizzazione dei manifesti dell’archivio storico del Teatro Sociale di Mantova".

L'area ora occupata dal Museo archeologico nazionale di Mantova era inclusa nel perimetro del Palazzo Ducale e a partire dal 1549, committente il cardinale Ercole Gonzaga e progettista l'architetto Giovan Battista Bertani, su quest'area sorse il primo teatro della Corte dei Gonzaga. Andato distrutto da un incendio fu ricostruito tra il 1591 e il 1592. Un terzo teatro progettato dall'arch. Antonio Maria Viani fu inaugurato nel 1608 con la rappresentazione della tragedia di Claudio Monteverdi L'Arianna. In epoca austriaca un quarto teatro, Nuovo Teatro Arciducale, fu inaugurato il 27 febbraio 1733. I primi disegni furono di Ferdinando Galli da Bibbiena e il lavoro fu portato a termine da un suo allievo, Andrea Galluzzi. Un quinto teatro, su disegno di Giuseppe Piermarini, ebbe la luce il 10 maggio 1783. Il Regio, così venne denominato nel corso del secolo XIX, a causa della concorrenza del nuovo Teatro Sociale venne abbandonato poco alla volta. Nel 1896 il Teatro Regio, venduto dal demanio, fu acquistato dal Comune di Mantova che lo trasformò radicalmente prima a mercato dei bozzoli, poi a mercato ortofrutticolo ed infine destinato alla funzione attuale di sede del Museo Archeologico Nazionale di Mantova.

Il CinemaTeatro multisala Ariston di Mantova viene realizzato secondo gli schemi allora in voga, che si rifacevano alla progettualità nata dall’esperienza della Metro Goldwyn Mayer: ampio ingresso con scale laterali, sala platea con pavimento concavo, colonne a cintare il boccascena, maschere teatrali ai lati delle colonne. Il cinema Teatro Ariston rimane sostanzialmente intatto sino alla fine degli anni ’70 e subisce un forte degrado nei primi anni ’80, a causa di vari passaggi gestionali che non garantiscono una adeguata manutenzione. Nell’ottobre 1987 riapre l’Ariston dopo una profonda ristrutturazione, che, se da un lato mantiene la struttura iniziale, dall’altro ne ridisegna l’aspetto esteriore. Alla fine del 2004 viene posto in vendita e acquistato dal Comune di Mantova. La struttura riapre definitivamente nella primavera 2006. Sorge nella centrale Via Principe Amedeo. È una struttura moderna con platea e galleria. Utilizzato anche come sala cinematografica, ha una capienza di 800 posti ed è il luogo mantovano ove si organizzano le stagioni di prosa, i concerti di musica classica e contemporanea, conferenze ed incontri culturali di varie tipologie.

L'Accademia Teatrale F. Campogalliani ha la propria sede nel centro storico di Mantova presso il Palazzo d'Arco,provvista di sala teatrale dove viene effettuata una stagione che va da ottobre a maggio dell'anno successivo.
Il palazzo museo ha mantenuto un carattere domestico e ciò lo rende attraente e interessante. Il visitatore, dopo aver salito l'ampia scala entra nella sala degli Antenati, dov'è accolto da numerosi personaggi della famiglia, ritratti fra il '500 e la prima metà del '700 su tele un tempo collocate nella residenza comitale di Arco di Trento. Le sale costituiscono una cospicua pinacoteca. Nelle vetrine sono ceramiche, armi, libri e strumenti musicali.
Abitualmente l'Accademia presenta due o tre spettacoli del proprio repertorio e, talora, ospita produzioni di altri gruppi teatrali invitati.

Il Teatreno di Mantova è una struttura nata nel dopoguerra come dopolavoro delle FS. Spazio per feste danzanti e pattinaggio. Negli anni '70 viene trasformato in cinemateatro. Alla fine degli anni '80 non gli viene più rinnovata l'agibilità come cinema e nel 1994 è dato in gestione alla compagnia "Teatro All'Improvviso" che continua a gestirlo svolgendovi una intensa attività teatrale per ragazzi. Qualche anno fa la Civica Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi vi aveva fatto la propria sede decentrata. Da alcuni anni è tornato ad ospitare il cinema, grazie alla presenza fissa dell’associazione “Il cinema del carbone” che ha contribuito a farne un punto vitale per la ricerca culturale di Mantova. Situato in comoda posizione di fronte alla stazione dei treni è a pochi minuti dal centro della città.

Il Teatro San Leonardo situato in Piazza San Leonardo, il teatrino è gestito dall’omonima parrocchia. La parrocchia di San Leonardo si trova nel quartiere del Corno, così denominato perché si innesta a forma di corno nel Lago di Mezzo. La Chiesa ubicata nella piazza omonima è di antichissime origini, fu una delle prime fondate in città e fu ricostruita per ben cinque volte , l'ultima nel 1795, anno in cui fu ridotta alla forma attuale. Unici avanzi delle precedenti costruzioni sono il Campanile con la loggia finale con tre archi per faccia sorretti da esili colonne in marmo (sec.XII) e il cornicione dell'oratorio in terracotta. All'interno, nell'oratorio di San Gottardo vi è un affresco attribuito a Lorenzo Costa il Vecchio che raffigura Cristo in Croce che versa il Sangue dalle ferite con ai piedi quattro profeti.
La chiesa parrocchiale dedicata a San Leonardo è tra le strutture più antiche della città (568); ha subito alcuni rifacimenti lungo i secoli ed oggi si presenta con una linea barocca.

Creato nel 1997 a pochi passi dal centro di Mantova nelle vicinanze del parcheggio pubblico Anconetta, il Centro culturale ARCI Papacqua rappresenta la più grande isola naturale nell’area urbana di Mantova. Il Circolo culturale Arci Papacqua è molto attivo nell’organizzazione di corsi di lingua e di discipline e tecniche orientali e occidentali, nonché di seminari e conferenze volti a promuovere riflessioni e confronti su tematiche ambientali e umane. Dal 2001 nell’area si sono aggregate diverse realtà che hanno come scopo quello di contribuire ad un mondo più sano: la Cooperativa “L’Albero” che si occupa di alimentazione naturale e “Mappamondo”, bottega del commercio equo e solidale. Fa parte del complesso anche il “Bio Bar” del Papacqua in cui è possibile consumare prodotti biologici, scelta volta a promuovere la cultura di un alimentazione equilibrata e sana.




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mercoledì 1 aprile 2015

LE BRIGATE NERE

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Le Brigate Nere erano un corpo paramilitare fascista della Repubblica Sociale Italiana (RSI), che fu operativo in Italia settentrionale dagli inizi di luglio del 1944 fino al termine della seconda guerra mondiale.

La formazione militare fu istituita il 30 giugno 1944 col decreto legislativo 446 XXII con il nome di "Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere" ed era costituita da militanti del Partito Fascista Repubblicano (PFR) arruolatisi in maniera volontaria. Furono costituite 41 brigate, una per provincia, intitolate ciascuna ad un caduto del fascismo. Ad esse si affiancavano sette brigate autonome e otto brigate mobili. Le federazioni provinciali del partito furono convertite in comandi di brigata, diretti dai vari federali, mentre la segreteria nazionale del PFR assumeva le funzioni di Ufficio di Stato Maggiore del Corpo. Comandante generale del corpo fu, sin dall'inizio, il segretario del partito Alessandro Pavolini.

Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, furono costituiti i corpi delle Forze Armate sotto la guida del Generale Rodolfo Graziani comprendenti l'Esercito, la Guardia Nazionale Repubblicana e altre formazioni. Nella prima metà del 1944, a seguito dell'offensiva alleata e dello sfondamento della Linea Gustav, si ebbe un incremento dell'attività della Resistenza partigiana nei territori della RSI e un drastico ridimensionamento della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) da parte dei vertici tedeschi.
Alla fine di agosto del 1944 la consistenza totale della Guardia Nazionale si era ridotta da oltre 130 000 uomini a poco più di 50 000 unità, a causa delle operazioni di disarmo e cattura da parte tedesca degli ex-appartenenti all'Arma dei Carabinieri perché ritenuti inaffidabili dal regime fascista. L'operazione di cattura tedesca non ebbe grande successo perché molti ex-carabinieri riuscirono a darsi alla macchia o unirsi ai partigiani prima dell'arresto, ma comportò lo scioglimento di numerosi presidi territoriali e gravi problemi di controllo del territorio da parte della RSI. La stessa situazione bellica aveva spinto il segretario del partito fascista, Alessandro Pavolini, ad istituire una sorta di "milizia politica" che rispondesse alle esigenze di protezione dei membri del partito e da affiancare alla Guardia Nazionale nei suoi compiti d'istituto, limitatamente ai servizi di ordine pubblico e di sorveglianza del territorio (il decreto istitutivo del corpo non comprendeva i poteri investigativi).

Il Corpo ausiliario delle squadre d’azione di Camicie Nere, le cosiddette "Brigate Nere", dovevano raccogliere le reclute su base volontaria tra gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano. Tuttavia né il numero dei volontari né soprattutto la limitatissima disponibilità di armi ed equipaggiamenti permisero di avvicinarsi agli organici previsti. Per fare un esempio, la 22ª Brigata Nera "Antonio Faggion" di Vicenza non superò mai i 400 uomini, meno di un terzo di quanto previsto dagli ordinamenti (1400 uomini, strutturati su una compagnia comando e tre battaglioni operativi di quattro compagnie ciascuno.

Con l'assenso di Benito Mussolini, il 9 maggio 1944 venne creata la Segreteria Militare del PFR, alla guida del Console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MSVN) Giovanni Riggio. Dapprima egli attese al compito di sovrintendere all'istituzione dei nuclei volontari di fascisti all'interno delle forze armate (Esercito Nazionale Repubblicano, Marina Nazionale Repubblicana, Aviazione Nazionale Repubblicana) e di polizia (Guardia Nazionale Repubblicana e Corpo di Polizia Repubblicana), ma già dalla fine di giugno del 1944 si decise per la trasformazione definitiva del Partito Fascista Repubblicano in un organismo militare.

Secondo il decreto istitutivo delle Brigate Nere l'arruolamento nelle Brigate Nere era riservato ai soli iscritti al Partito e del tutto volontario. Successive circolari applicative specificarono tuttavia che l'iscrizione al Partito Fascista Repubblicano per gli uomini tra i 18 ed i 60 anni di età non già soggetti ad altri obblighi militari era subordinata alla contestuale domanda di arruolamento nelle Brigate Nere, in quanto "non merita l'onore di militare nel partito chi non si senta di servirlo in armi". Allo stesso modo, veniva con forza sottolineato "l'obbligo morale" da parte dei già iscritti ad arruolarsi. Per questi motivi le Brigate Nere divennero un corpo paramilitare formalmente a carattere esclusivamente volontario ma che di fatto comprendeva anche elementi forzati dalle circostanze ad entrarvi.

Il Decreto istitutivo:
« D.Lgs. 446/44-XXII:
Art. 1 La struttura politico militare del Partito si trasforma in organismo di tipo militare e costituisce il Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere.
Art. 2 Il Comando del Corpo è costituito dalla trasformazione dell'attuale Direzione del Partito in Ufficio di Stato Maggiore del Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere. Il Ministro Segretario del Partito assume la carica di Comandante del Corpo.
Art. 3 Le Federazioni assumono il nome di "Brigate Nere" del Corpo Ausiliario ed i Commissari Federali la carica di Comandante di Brigata.
Art. 4 Il Corpo sarà sottoposto alla Disciplina Militare e al Codice Penale Militare del tempo di guerra.
Art. 5 Gli iscritti al PFR, di età compresa fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti alle altre Forze Armate della Repubblica, entreranno in seguito a domanda volontaria a far parte del Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere che a secondo della loro idoneità fisica provvederà al loro impiego.
Art. 6 Gli appartenenti alle formazioni ausiliarie provenienti dalle Squadre d'Azione e passati alle FF.AA.RR., alla GNR e alla Polizia Repubblicana, iscritti regolarmente al PFR, possono a domanda essere trasferiti nel Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere.
Art. 7 Compito del Corpo è quello del combattimento per la difesa dell'ordine della Repubblica Sociale Italiana, per la lotta contro i banditi e i fuori legge e per la liquidazione di eventuali nuclei di paracadutisti nemici. Il corpo non sarà impiegato per compiti di requisizione, arresti od altri compiti di Polizia. L'impiego delle Brigate Nere nell'ambito provinciale viene ordinato dai Capi delle province. Iniziative ed atti arbitrari compiuti da parte dei singoli e che comunque possano screditare il Partito saranno puniti secondo il Codice Militare del tempo di Guerra.
Art. 8 Ciascuna Brigata Nera porterà il nome di un Caduto per la Causa del Fascismo Repubblicano.
Art. 9 Il servizio prestato nel Corpo è considerato a tutti gli effetti come servizio militare. Al personale del Corpo Ausiliario saranno estesi in diritto tutti i benefici in vigore per il trattamento di quiescenza e le provvidenze per i feriti, i mutilati e i deceduti in combattimento o comunque in servizio.
Art. 10 Il Ministro delle Finanze è autorizzato ad apportare le variazioni di Bilancio necessarie per l'attuazione del presente Decreto.
Art. 11 Il Comandante del Corpo d'intesa con il Ministro delle Finanze e con gli altri Ministri interessati, con successivi decreti emanerà le norme di attuazione del presente decreto fissando gli organici, i trattamenti e le disposizioni regolamentari ed esecutive per il funzionamento del Corpo.
Art. 12 Il Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere si avvarrà per i servizi sussidiari del Servizio Ausiliario Femminile secondo le norme del Decreto 18 aprile 1944 XXII e del Regolamento esecutivo.
Art. 13 Il presente Decreto che entrerà in vigore dal 1º luglio 1944 XXII sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale D'Italia e, munito del sigillo dello Stato inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei Decreti. »

Sebbene il comandante generale Alessandro Pavolini avesse istruito i Federali del Partito affinché recuperassero ogni arma disponibile dai reparti (soprattutto di ex-Carabinieri) che davano indicazioni di scarsa affidabilità, non fu possibile raggiungere un armamento adeguato alla forza costituenda. La cronica mancanza di armi fu dovuta soprattutto alla mancanza di fiducia da parte tedesca, manifestatasi con il netto rifiuto alla cessione delle armi da parte di Kesselring (comandante delle forze tedesche in Italia) e dal limitato appoggio di Wolff (comandante delle SS e della polizia tedesca nell'Italia settentrionale), che solo all'inizio di luglio autorizzò una cessione di 3 000 fucili italiani Carcano Mod. 91, ai quali in teoria avrebbero dovuto far seguito altre 7 000 armi da fuoco. A queste limitazioni si aggiungevano quelle sui tessuti per confezionare uniformi, generi alimentari, locali adatti ad alloggiare un numero consistente di uomini nonché carburante per i mezzi.
Per quanto riguarda l'armamento individuale, le fonti fotografiche mostrano una grande varietà di modelli tra pistole, fucili e pistole mitragliatrici. Scarsissima o più spesso inesistente la presenza di armi di squadra o reparto (mortai, mitragliatrici etc).
Per quanto riguarda l'uniforme i regolamenti si limitavano a prescrivere la camicia nera, spesso sostituita sul campo da maglioni, giacche o giubbotti dello stesso colore, ed integrate a seconda della reperibilità da elementi di uniforme e buffetterie del Regio Esercito, dell'Esercito Repubblicano o della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.
Nella fase iniziale non esistevano gradi in senso stretto, ma delle semplici cordelline indossate attorno alla spalla destra come indicatori temporanei di funzione di comando, legati al ruolo rivestito nell'operazione in corso.

A partire dal Gennaio 1945, il sistema venne abbandonato e vennero istituiti gradi permanenti, analoghi a quelli della Guardia Nazionale Repubblicana.

Non erano previste mostrine o specifiche insegne da berretto, ma i volontari adottarono sistematicamente di propria iniziativa simboli basati principalmente su teschi e fasci repubblicani, in numerosissime varianti spesso di produzione semiartigianale.

Unico distintivo ufficiale (realizzato in metallo o in stoffa ricamata) era una targhetta rettangolare, nei colori Rosso e Nero tagliati in diagonale, riportante il nome della Brigata, da indossare sul lato sinistro del petto al di sopra delle medaglie, anche se sono conosciuti numerosi modelli di distintivo di Brigata non regolamentari di foggia o colori totalmente differenti.

A causa delle limitazioni in armi ed equipaggiamento, le Brigate Nere, che pure avevano avuto un consistente numero di domande di arruolamento sin dall'inizio della loro istituzione, dovettero per forza di cose fortemente limitarsi negli arruolamenti e di conseguenza non potettero raggiungere velocemente la forza teorica prevista, nonostante il progetto prevedesse tre battaglioni per brigata, per una forza totale teorica di 1 400 uomini.

Alla fine del luglio 1944 vi erano 34 Brigate in via di formazione, che schieravano 17 000 militi. Due mesi dopo le Brigate Nere erano 36 (due in più di quelle previste) e contavano su 30 000 volontari, ma solo 12 000 di questi erano effettivamente mobilitabili a causa la scarsità di armamenti. I restanti 18 000 erano considerati riservisti. In occasione della mobilitazione generale, il 2 aprile 1945, il Capo di Stato Maggiore il generale Edoardo Facduelle comunicava la mobilitazione complessiva di 29000 uomini sia in armi che in servizio. A quella data i caduti delle Brigate Nere ammontavano a 11 Comandanti di Brigata, 47 Ufficiali, 1641 Squadristi e 9 ausiliarie.


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