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martedì 1 maggio 2018

DIO ESISTE?

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L’esistenza di Dio non può essere né dimostrata né smentita. La Bibbia dice perfino che noi dobbiamo accettare per fede il fatto che Dio esiste: “Or senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11:6). Se Dio lo desiderasse, Egli potrebbe semplicemente apparire e dimostrare al mondo intero che esiste. Però, se lo facesse, non ci sarebbe alcun bisogno della fede: “Gesù gli disse: ‘Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!’” (Giovanni 20:29).

I filosofi nel corso della storia hanno presentato un'estrema varietà di argomentazioni a favore o contro l'esistenza di Dio o anche in sostegno dell'irresolubilità della questione e della sospensione del giudizio (agnosticismo).

La teologia si occupa fin dai tempi della Grecia antica della natura e delle opere di Dio o degli dei. Le diverse teologie hanno spiegato in vario modo l'origine della fede in Dio facendo riferimento, per esempio, al ragionamento, alla rivelazione soprannaturale o alla libera scelta del singolo.

In Occidente, il termine Dio si riferisce tipicamente al concetto monoteistico di un essere supremo, ovvero un essere del quale non si può pensare nulla di più grande secondo la definizione di Anselmo d'Aosta: Deus est ens quo nihil maius cogitari potest (definizione contenuta nel Proslogion del 1077). Una definizione comune in questa tradizione afferma che Dio possiede ogni perfezione possibile incluse qualità quali onniscienza, onnipotenza e una perfetta benevolenza. Comunque, questa definizione non è l'unica possibile. Le religioni politeistiche usano la parola Dio per diversi esseri che sono tutti ritenuti come esistenti.

Alcune mitologie, come quelle di Omero e Ovidio, ritraggono questi dei che discutono, ingannano e si combattono l'un l'altro. Il periodo di tempo in cui avvengono questi conflitti (ad esempio, i dieci anni della guerra di Troia) implica che nessuna di queste divinità è onnipotente e particolarmente benevola. La metafisica panteista si fonda sui due concetti teoretici di origine e di causa.

Molti panteisti hanno utilizzato ed utilizzano nomi diversi da "dio" connotando e nominando il principio-origine-causa come Essere, Logos, Ragione, Intelligenza, Spirito, Assoluto ecc.

La definizione di Dio nell'ebraismo è estremamente rigida; gli attributi che contraddistinguono il Dio d'Israele dalle altre divinità sono contenuti per la maggior parte nel libro dell'Esodo, dove si narra che egli intervenne designando Mosè come suo profeta e guida del popolo ebraico per liberarlo dalla schiavitù in Egitto.

Il monoteismo assoluto degli ebrei è l'elemento più importante della loro identità etnico-religiosa. Oltre a questo, Dio per gli ebrei è trascendente, immateriale e invisibile (quindi anche impossibile da raffigurare in una qualunque maniera); onnisciente, onnipotente e onnipresente; geloso e benevolo, sovrano e giudice, severo ma misericordioso, Dio per gli ebrei è il sommo regnante, creatore e legislatore dell'universo.
La sua esclusività impone al popolo ebraico di non adorare niente e nessun altro all'infuori di lui, e ciò rende il loro rapporto stretto da un forte legame non solo di alleanza, ma anche di appartenenza.

Dio, secondo il cristianesimo, non è conoscibile dall'uomo, se egli stesso non si rivela a lui. Secondo il cattolicesimo, l'uomo può arrivare a provare l'esistenza di Dio attraverso percorsi filosofici e logici, ma non può comunque arrivare alla sua conoscenza con la pura ragione: usando cioè le parole di Tommaso d'Aquino, la ragione può arrivare a conoscere il quia est di Dio («il fatto che Egli è») ma non il quid est («che cosa è»), che è oggetto di mistero della fede; per sapere "chi" è Dio occorre il dato della Rivelazione. Dio si è rivelato agli uomini «nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti» e in generale nella storia di Israele, testimoniata dalla Bibbia.

La piena e definitiva rivelazione di Dio si è avuta con Gesù Cristo, poiché egli è al tempo stesso Figlio di Dio (e dunque Dio egli stesso) e uomo per effetto dell'incarnazione.

Tale rivelazione è stata tramandata nei Vangeli e in generale nel Nuovo Testamento, ed approfondita nella riflessione successiva. Dio secondo la religione cattolica è dunque (primo dogma) Uno e Trino, una Sostanza in tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Padre e il Figlio, l'Essere e il Pensiero (il Logos) sono in una reciproca dimensione relazionale di amore, espressa (e personificata) dallo Spirito Santo.



Dio è personale, eterno, onnipotente, onnisciente, perfettissimo, creatore dell'universo, provvidenza e salvezza degli uomini, creature poste al vertice dell'ordine del creato. Il secondo dogma del Cristianesimo è la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, Verbo eterno del Padre, che si incarnò in forma umana, nascendo dalla Vergine Maria. Dopo aver predicato l'amore infinito di Dio verso gli uomini, portò a compimento la sua missione con la sua passione e morte in croce. Il Padre lo resuscitò il terzo giorno (Pasqua di Risurrezione), aprendo agli uomini la possibilità della redenzione. Mandò poi lo Spirito Santo sui suoi discepoli, che formarono la Chiesa.

Nella religione induista, secondo la filosofia della scuola monista dell'Advaita Vedanta, la realtà viene in ultima analisi vista come un essere singolo, senza qualità, immutabile, eternamente beato e completo, chiamato Brahman (o nirguna Brahman, ossia Brahman senza attributi). Il Brahman, pur essendo immanente in tutta la manifestazione, viene visto come qualcosa che sta al di là della comprensione umana, in quanto non possono esistere strumenti cognitivi adatti per comprendere il Brahman all'interno di qualsiasi forma di esistenza duale. L'unico modo che l'uomo ha per comprendere il Brahman, infatti, è riscoprire di essere lui stesso il Brahman.

Quello che percepiamo ordinariamente, ovvero un mondo composto da molti aspetti (dai più grossolani a più sottili), è dovuto all'illusione ed è difficile, se non impossibile, emanciparsi dall'illusione e concepire il nirguna Brahman. Per rendersi accessibile agli esseri, alla nascita dell'universo si manifestò come Isvara (o Saguna Brahman, ossia Brahman con attributi), cioè l'aspetto personale di Dio, il Dio con una personalità e degli attributi, che si mostra ai suoi devoti sotto infinite forme. A Ishvara, a sua volta, vengono ascritte qualità come onniscienza, onnipotenza, e benevolenza.

Un problema posto dalla questione dell'esistenza di un Dio è che le credenze tradizionali solitamente attribuiscono a Dio vari poteri sovrannaturali. Gli esseri sovrannaturali possono essere in grado di nascondere o rivelare se stessi per i loro scopi, come ad esempio nella storia di Filemone e Bauci. Le capacità sovrannaturali di Dio sono spesso offerte per spiegare l'incapacità dei metodi empirici di investigarne l'esistenza. Nella filosofia della scienza di Karl Popper, l'asserzione dell'esistenza di un Dio sovrannaturale sarebbe una ipotesi non falsificabile, e quindi chiusa all'investigazione scientifica.

I sostenitori del disegno intelligente credono che esistano prove empiriche che indicano l'esistenza di un creatore intelligente, anche se le loro asserzioni sono rigettate dalla comunità scientifica poiché il disegno intelligente si affida ad un ristretto insieme di argomenti correlati al problema della sintonia fine, che non sono ancora stati risolti con spiegazioni naturali. Il creatore implicato dal disegno intelligente equivale al negativamente connotato Dio dei vuoti. I positivisti logici, quali Rudolph Carnap e A. J. Ayer, vedono qualsiasi discussione sulle divinità come un vero e proprio nonsense. Per i positivisti logici e per gli aderenti a simili scuole di pensiero, affermazioni sulla religione o altre esperienze trascendenti non possono avere un valore di verità e vengono considerate come prive di senso.

Ci sono diversi possibili modi di conoscere, alcuni fondati sulla giustificazione, altri basati sulla fede, che non si giustifica con argomenti puramente razionali oppure di tipo empirico. La conoscenza, nel senso di "comprensione di un fatto o di una verità" si può distinguere in conoscenza a posteriori, basata sull'esperienza o la deduzione , e in conoscenza a priori derivante dall'introspezione, da assiomi o dall'autoevidenza. La conoscenza può essere descritta anche come uno stato psicologico, poiché in senso stretto non potrà mai esserci una vera e propria conoscenza a posteriori.

Gran parte del disaccordo circa le "prove" dell'esistenza di Dio è dovuto alle differenti concezioni non solo del termine "Dio" ma anche dei termini "prova", "verità" e "conoscenza". La credenza religiosa derivante dalla rivelazione o dall'illuminazione (satori) ricade nel tipo di conoscenza a priori. Conclusioni differenti circa l'esistenza di Dio spesso si fondano su criteri differenti nel decidere quali metodi sono appropriati per decidere se qualcosa è vero o no. Esempi sono:

la logica conta come prova riguardante la qualità dell'esistenza?
l'esperienza soggettiva conta come prova per la realtà oggettiva?
possono la logica o la prova ammettere o escludere il sovrannaturale?

Le prove metafisiche o ontologiche sono quelle che nel tempo sono state proposte da diversi pensatori. Tra le più celebri forme in cui queste sono proposte, vi sono l'argomento ontologico del Proslogion di Anselmo d'Aosta e le "cinque vie" di Tommaso d'Aquino, con le quali gli autori intendono provare l'esistenza di Dio come primo motore immobile, prima causa incausata, essere necessario, essere perfettissimo, sapientissimo ordinatore.

Anselmo d'Aosta, teologo cattolico vissuto nel Medioevo, con la prova "ontologica" intende dimostrare che Dio, «l'Essere di cui non si può pensare nulla di più grande», esiste non solo come idea ma realmente, mediante un'argomentazione tutta interna alla logica (a priori), ossia un'argomentazione che non necessita dei dati dell'esperienza. Secondo Anselmo, infatti, anche l'ateo possiede implicitamente l'idea di Dio: persino l'insipiente che «dice in cuor suo Dio non esiste» deve convincersi che sia pensabile intellettualmente qualcosa di immensamente grande, che abbia il massimo di tutte le qualità, tale per cui non è possibile pensare alcunché di maggiore. Ad esempio non conosciamo l'essere più buono al mondo, ma riusciamo nella nostra mente a concepire l'essenza di una bontà assoluta e insuperabile.

Ciò che esiste nella realtà, secondo Anselmo, ha più valore di ciò che esiste nel solo intelletto, secondo la concezione tipicamente platonica che identificava il Bene con l'essere. L'albero esiste nella realtà e quindi anche nell'intelletto, mentre non tutto quel che esiste nella mente esiste anche nella realtà (ad esempio un cavallo alato). Ma non si può concepire Dio come il massimo delle qualità senza attribuirgli una reale esistenza, poiché anche l'esistenza è una qualità.

Il monaco benedettino francese Gaunilone (994-1083), pur non mettendo in dubbio l'esistenza di Dio, contestò la prova a priori di Anselmo nel suo Liber pro insipiente. Secondo Gaunilone non ci si può fondare sull'esistenza nel pensiero per concludere l'esistenza nella realtà sensibile (si possono pensare cose impossibili), per cui la definizione di divinità presa da Anselmo o è dedotta da qualcosa d'altro (dato di rivelazione, quindi non è prova a priori) o è completamente arbitraria e quindi si pone il problema della stessa pensabilità della definizione. In altri termini, egli obiettava che «se io penso un'isola perfettissima, allora questa esiste anche nella realtà?».

Anselmo obiettò alla critica sostenendo che non si potevano porre sullo stesso piano Dio e un'isola, poiché la sua prova era applicabile solo alla perfezione massima, ovvero Dio, «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande». La seconda obiezione di Gaunilone fu la seguente: «ammettendo che la prova di Anselmo sia valida, com'è possibile che la mente umana, limitata, riesca ad ospitare il pensiero dell'infinita figura di Dio?». Anselmo rispose che la sua prova definiva Dio soltanto attraverso la teologia negativa, negandogli cioè ogni difetto ed imperfezione, affermando soltanto che Dio è, ma non che cosa Egli è. Inoltre, nel cap. XV del Proslogion, Anselmo asserisce che Dio è sempre più grandi di ciò che possa essere pensato su di Lui.

Cartesio (René Descartes) propose, nella quinta delle Meditazioni metafisiche, una prova analoga a quella di Anselmo d'Aosta ma leggermente differente: per Dio egli intende una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, ovvero la somma di tutte le perfezioni la cui idea è innata nell'intelletto, ed improducibile da esso stesso, al pari dell'idea di infinito attuale.

Se Dio assomma tutte le perfezioni, contenute in sé come note di un concetto, non può mancare dell'esistenza; se non esistesse, sarebbe meno perfetto della perfezione che gli era stata accordata. Pensare un Dio perfettissimo manchevole dell'attributo dell'esistenza è contraddittorio, dice Cartesio: «Come pensare un monte senza valle».

Gottfried Wilhelm Leibniz, sia nello scritto del 1701 "Sulla dimostrazione Cartesiana dell'esistenza di Dio" che nella "Monadologia" nel 1714, svilupperà l'interpretazione cartesiana dell'argomento Anselmiano, e lo riformulerà in una maniera prettamente logica. Per Leibniz, infatti, la prova dell'esistenza di Dio è ridotta alla riflessione logica sulla Sua possibilità: se Dio è possibile, necessariamente esiste.

Dio è quell'Essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza o natura, e allora basterà pensare la possibilità di un Essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza che ne avremo dimostrato l'effettiva esistenza. Basterà, dunque, dimostrare la non-contraddittorietà logica, per dimostrare l'esistenza di quell'Essere la cui esistenza è inclusa nella sua essenza. In Leibniz abbiamo l'estrema logicizzazione dell'argomento Anselmiano.

Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato indimostrabile, ne ha contestate le tradizionali dimostrazioni, alla cui inconsistenza occorre rimediare, secondo Kant, con argomentazioni più filosofiche e meno fideiste. Nella Dialettica trascendentale distingue tre generi di prove: ontologica, cosmologica e fisico-teologica. La prova ontologica, di cui è esempio la prova ontologica di San Anselmo, presume, secondo Kant, di poter pervenire dalla semplice idea di qualcosa alla sua esistenza reale, prescindendo dal dato di esperienza.

Egli immagina in proposito, in maniera piuttosto ironica, di avere in tasca cento talleri e di pensarne cento: quelli che lui pensa dovrebbero essere meno di quelli che ha in tasca, poiché ciò che è pensato è meno perfetto di ciò che è esistente. Ma pur continuando a pensarne cento, non per questo ne avrebbe di più in tasca. E quindi è per lui impossibile una prova di questo genere. La confutazione kantiana, partendo dal presupposto che il concetto di essere potesse avere senso solo se applicato alla realtà empirica e fenomenica, come modo di operare del nostro intelletto, fu a sua volta accusata di rinchiudersi in un nominalismo astratto, incapace di aprirsi al noumeno e quindi all'autentica realtà ontologica.

Lo stesso Kant, d'altronde, che già aveva preso posizione contro gli scettici, accusati di «aborrire ogni stabile edificazione del suolo», nella Critica della ragion pratica farà dell'esistenza di Dio un postulato o assioma dell'agire etico, ossia la condizione moralmente necessaria che dia senso alla legge morale, compensando le ingiustizie e impedendo nel mondo ultraterreno il ripetersi della contraddizione logica tra la sofferenza del giusto e la sua aspirazione a vivere secondo ragione.

Le dimostrazioni procedono generalmente dagli effetti alla causa, con una struttura tra loro simile. Hanno origine da diverse fonti, per esempio da Platone e Aristotele (che formularono per primi una prova sul Motore Immobile), dal pensiero neoplatonico (per quanto riguarda i gradi di perfezione della quarta via), e da altre fonti (alcuni pensatori musulmani sottolinearono la differenza fra essere contingente ed essere necessario che è chiave della terza via di Tommaso). Un argomento dei critici è che queste vie utilizzano ciò che in matematica si chiama regresso infinito. Questa struttura si ritrova pure nei paradossi di Zenone, che furono risolti a secoli di distanza, dimostrando che il regresso infinito non è contraddittorio, ed è ammissibile nella logica. Inoltre, dimostrerebbero l'esistenza di Dio, ma non la sua unicità. Ad esempio, il filosofo Eudosso di Cnido ipotizzò che esistessero 55 motori immobili differenti.




La prova dell'esistenza di Dio formulata da John Locke si basa sul sillogismo in ogni effetto non può essere contenuto nulla più di quanto sia contenuto nella causa (secondo il principio di causalità ex nihilo nihil);
nel mondo esistono persone dotate di intelligenza; quindi la causa del mondo deve essere intelligente.
Altre argomentazioni a favore dell'esistenza di Dio si avvalgono di definizioni e assiomi.

L'argomentazione teleologica, che sostiene che l'ordine e complessità dell'universo mostrano segni di una volontà (telos), e che deve essere stato disegnato da un progettista intelligente dotato di proprietà che solo un Dio può avere.
L'argomentazione antropica si concentra su fatti basilari, come la nostra esistenza, per dimostrare Dio.
L'argomentazione morale sostiene che la moralità oggettiva esiste e che quindi esiste Dio.
L'argomentazione trascendentale dell'esistenza di Dio, che sostiene che logica, scienza, etica e altre cose che prendiamo seriamente, non hanno senso se non c'è Dio. Di conseguenza le argomentazioni atee devono alla fine confutare se stesse, se pressate con rigorosa coerenza. Per contro esiste anche una argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio.
Le argomentazioni deduttive partono da premesse di tipo logico formale per arrivare ad affermazioni sul piano dell'esistenza, la quale viene ammessa per non urtare il principio di non contraddizione, avvalendosi dunque di una sorta di ragionamento per assurdo. Il passaggio dalla possibilità logica alla necessità dell'esistenza avviene perché ogni altra ipotesi che neghi l'esistenza di Dio risulterebbe logicamente impossibile.

Kurt Gödel nel suo trattato di matematica "Ontologischer Beweis" fornisce una dimostrazione logica dell'esistenza di Dio nel 1941, rivista nel 1954 e nel 1970. In questo libro, sostiene con argomenti matematici le sue convinzioni teologiche. Secondo la prova ontologica di Gödel, Dio è un Essere che assomma in sé le qualità positive di tutti gli enti reali. Dio deve esistere necessariamente come fondamento dell'ordine matematico dell'universo. La dimostrazione gödeliana, che parte da cinque assiomi e si avvale di un rigido teorema logico-formale, si basa sul fatto che non sarebbe logicamente plausibile ammettere la possibilità di un unico Essere provvisto di tutte le "proprietà positive", tra cui la stessa esistenza, senza attribuirgli una realtà effettiva, perché ciò sarebbe una contraddizione in termini.

Le argomentazioni induttive sostengono le loro conclusioni attraverso il ragionamento induttivo.

Un altro insieme di filosofi asserisce che le prove dell'esistenza di Dio presentano una probabilità abbastanza alta, anche se non la certezza assoluta. Un numero di punti oscuri, essi sostengono, rimane sempre. Allo scopo di superare queste difficoltà c'è necessariamente o un atto di volontà, un'esperienza religiosa, o il discernimento della miseria del mondo senza Dio, così che alla fine il cuore prenda una decisione. Questa visione è sostenuta, tra gli altri, dallo statista britannico Arthur Balfour nel suo libro The Foundations of Belief (1895). Le opinioni portate avanti in questo lavoro vennero adottate in Francia da Ferdinand Brunetière, editore di Revue des deux Mondes. Molti protestanti ortodossi si esprimono allo stesso modo, come ad esempio il Dott. E. Dennert, presidente della Kepler Society, nel suo lavoro Ist Gott tot.
Le argomentazioni soggettive si affidano principalmente sulla testimonianza o l'esperienza di determinati testimoni, o sulle proposizioni di una specifica religione rivelata.

L'argomentazione dei testimoni dà credibilità alle testimonianze personali, contemporanee o storiche. Una variante è l'argomentazione dei miracoli, che si affida alle testimonianze di eventi sovrannaturali per stabilire l'esistenza di Dio.
L'argomentazione cristologica o religiosa è specifica di religioni come il cristianesimo, e asserisce ad esempio che la vita di Gesù, come scritta nel Nuovo Testamento, ne stabilisce la credibilità, e quindi possiamo credere nella verità delle sue dichiarazioni su Dio. Un esempio di ciò è il Trilemma presentato da C.S. Lewis in Mere Christianity.
L'argomentazione della maggioranza sostiene che persone di tutte le epoche e in luoghi diversi hanno creduto in Dio, quindi è improbabile che non esista.
La Scuola Scozzese guidata da Thomas Reid insegna che il fatto dell'esistenza di Dio viene da noi accettato senza conoscenza delle ragioni, ma semplicemente per un impulso naturale. Che Dio esista, dice questa scuola, è uno dei principi metafisici fondamentali, che accettiamo non perché siano evidenti in sé o perché possono essere provati, ma perché il senso comune ci obbliga ad accettarli.
L'argomentazione da una base propria sostiene che la fede in Dio è "propriamente basilare", vale a dire, simile ad affermazioni come "vedo una sedia" o "sento dolore". Tali convinzioni sono non-falsificabili e quindi, non possono essere né provate né confutate; esse riguardano convinzioni percettive o stati mentali indiscutibili.
In Germania, la Scuola di Friedrich Heinrich Jacobi insegnava che la nostra ragione è in grado di percepire il sovrasensibile. Jacobi distingueva tre facoltà: sensi, ragione, e comprensione. Così come i sensi hanno una percezione immediata delle cose materiali, la ragione ha una percezione immediata dell'immateriale, mentre la comprensione porta queste percezioni alla nostra consapevolezza e le unisce l'una con l'altra. L'esistenza di Dio quindi non può essere provata—Jacobi, come Kant, rigettava il valore assoluto del principio di causalità—, deve essere sentita dalla mente.
Il grande illuminista francese Voltaire ripeteva un aforisma molto significativo che recita "Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo". Seguace fin dalla giovinezza del deismo inglese, e in particolare di Samuel Clarke e di Antony Collins, elabora alla fine della sua vita una forma di teismo che così enuncia nel Dizionario filosofico:
« Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza di un Essere supremo tanto benigno quanto potente, il quale ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, o dotati di sentimento, o di sentimento e ragione; e perpetua la loro specie, e punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista non sa in qual modo Iddio punisce, né come egli premia. Le difficoltà che si oppongono all’idea della Provvidenza non lo scuotono nella sua fede. Egli è sottomesso a questa Provvidenza, benché non ne scorga se non alcuni effetti e alcune apparenze. La sua religione è la più antica e la più estesa, perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutte le dottrine del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre questi popoli non si intendono fra di loro. »
(Dizionario filosofico, Mondadori 1970, p.619)
Nello stesso tempo Voltaire si pronuncia duramente contro l'ateismo con queste parole:

« Che l’ateismo è un mostro assai pericoloso in quelli che governano; che lo è anche nelle persone di studio, se pure la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare sino a quelli che vivono in piazza; e che, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù. »
(Dizionario filosofico, cit., p.99)
Nel suo Emilio, Jean-Jacques Rousseau asseriva che quando la nostra comprensione pondera circa l'esistenza di Dio, non incontra altro che contraddizioni. Gli impulsi del nostro cuore, comunque, hanno più valore della comprensione, e questo ci proclama chiaramente le verità della religione naturale, ovvero l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima.
La stessa teoria venne sostenuta in Germania da Friedrich Schleiermacher (morto nel 1834), che assumeva un senso religioso interno per mezzo del quale sentiamo le verità religiose. Secondo Schleiermacher, la religione consiste solamente di questa percezione interna, e le dottrine dogmatiche non sono essenziali.
Molti teologi protestanti moderni seguono le orme di Schleiermacher, e insegnano che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata; la certezza di questa verità è fornita solamente dalla nostra esperienza interiore, dai sentimenti e dalla percezione.
Anche la cristianità modernista nega la dimostrabilità dell'esistenza di Dio. Secondo questa, possiamo conoscere qualcosa di Dio solo tramite l'immanenza vitale, vale a dire che, in circostanze favorevoli, il bisogno di divino che dorme nel nostro subconscio, diventa conscio e risveglia il sentimento religioso o l'esperienza in cui Dio si rivela a noi. In condanna di questa visione il giuramento contro il modernismo formulato da Papa Pio X dice: "Deum... naturali rationis lumine per ea quae facta sunt, hoc est per visibilia creationis opera, tanquam causam per effectus certo cognosci adeoque demostrari etiam posse, profiteor" ("Dichiaro che per illuminazione naturale della ragione Dio può certamente essere conosciuto e quindi la Sua esistenza può essere dimostrata tramite le cose fatte, ovvero tramite l'opera visibile della creazione, in quanto la causa è nota attraverso i suoi effetti").

Il matematico italiano Vincenzo Flauti (1782-1863) pubblicò la "Teoria dei miracoli", una dimostrazione matematica dell'esistenza di Dio. George Boole (1815-1864), inventore dell'algebra della logica, nel capitolo XIII del suo libro "The Laws of Thought" (MacMillan 1854) espresse in formule la dimostrazione dell'esistenza di Dio ideata dal teologo non conformista Samuel Clarke (1675-1729), giungendo alla conclusione che la dimostrazione non è valida. Altri autori hanno espresso considerazioni riguardo ai limiti notevoli, in merito all'esito indeterminato del prodotto o divisione di due grandezze infinite, e al prodotto di una grandezza nulla per infinito.

Secondo Kierkegaard il termine stesso esistenza applicato a Dio è improprio. Il filosofo cristiano dichiara che la fede è un paradosso (non l'assurdo o l'irrazionale) e sostiene che Dio deve essere accettato per fede e basta, Dio non va "spiegato": «Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L'uomo pensa ed esiste e l'esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l'uno dall'altro nella successione». Vi è quindi una differenza assoluta fra uomo e Dio fra ciò che è finito e infinito. Si possono mediare differenze relative, non la differenza assoluta.

Sebbene la fede sia un rischio, Kierkegaard sostiene che la sua accettazione non è irrazionale: Il credente non solo possiede, ma usa la ragione, rispetta le credenze comuni, non ascrive a mancanza di ragione se qualcuno non è cristiano; ma per quello che riguarda la religione cristiana egli crede contro la ragione e in questo caso adopera la ragione per accertarsi che crede contro la ragione. Il cristiano non può accettare l'assurdo contro la sua ragione perché questa si accorgerebbe che è assurdo e lo respingerebbe. Egli adopera, quindi, la ragione per diventare consapevole dell'incomprensibile e poi si attacca ad esso e crede anche contro la ragione. La fede è quindi un rischio perché richiede l'adesione personale ad affermazioni che oggettivamente non presentano alcuna garanzia e sono in stridente contrasto con i normali criteri di verità. La fede è un rischio perché il suo oggetto è il paradosso, una verità che oltrepassa gli schemi della ragione umana, una verità priva di evidenza oggettiva. Per Kierkegaard quindi la fede è imprescindibile dalla credenza in Dio ed è la sola qualità che ci deve consentire di accettare la sua esistenza.

Il pensiero di Diagora di Milo, noto come l'ateo e perseguitato in vita per il suo ateismo, non è noto se non in misura frammentaria ed attraverso fonti terze, peraltro in misura prettamente aneddotica. Nel De Natura Deorum Cicerone riporta che un amico di Diagora aveva cercato di convincerlo dell'esistenza degli dèi ricordandogli quante immagini votive erano state erette in onore degli dèi da varie persone come ex voto per essere sopravvissute a tempeste in alto mare, al che Diagora avrebbe ribattuto ricordandogli quante immagini votive non erano state erette in onore degli dèi da coloro che invece erano morti per naufragio.

Nella medesima opera l'autore racconta come l'equipaggio di una nave su cui era imbarcato Diagora accusasse questi per aver attirato su di loro la collera degli dèi nella forma di una forte tempesta, al che Diagora rispose chiedendo se anche le altre imbarcazioni coinvolte dalla tempesta avessero Diagora a bordo. L'autore cristiano Atenagora di Atene scrisse nel II secolo d.C. che gli Ateniesi avevano perseguitato Diagora perché aveva apertamente dichiarato l'inesistenza degli dèi. Autori greci contemporanei al filosofo affermano che una delle argomentazioni che portava a sostegno di questa sua tesi era la mancata punizione divina di numerosi atti d'empietà e crudeltà commessi dagli uomini.

Crizia, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., tratta ne il Sisifo la dissoluzione del tradizionale concetto di nomos (dal greco legge) sul quale le polis dell'antica Grecia erano fondate e che ricomprendeva in sé i concetti di legge giuridica, sociale e religiosa. Ribaltando lo schema tradizionale, che voleva il diritto positivo fondato sulla morale divina, egli fonda nella paura del divino il vero caposaldo del potere politico, identificando con l'invenzione degli dèi il fondamento per la nascita della civiltà.

La divinità assume le caratteristiche di uno strumento politico atto al governo. Secondo Crizia, il divino è stato inventato dai governanti affinché gli uomini smettessero di infrangere le leggi di nascosto, convincendoli nella loro sfera personale dell'esistenza di una forza soprannaturale in grado di osservarli in qualsiasi momento e in seguito giudicarli. Egli non solo spiega razionalmente la religione, ma pretende di dimostrare la debolezza intrinseca della legge positiva e della morale collettiva.

Queste sono infatti frutto di convenzione, relative e basate sull'apparenza: come prima di lui aveva osservato il sofista Antifonte, giusto è colui che, di fronte a testimoni, si comporti in ossequio alla legge per evitare biasimo e pene, ma che poi, in privato, si comporti secondo la propria natura (physis). Qui sta appunto, anche per Crizia, la debolezza della legge, poiché essa cessa di avere valore quando l'individuo si trova solo. Qualsiasi oratore, poi, è in grado a parole di rigirare la legge a proprio vantaggio, insozzando ciò che di buono vi è in essa. Piuttosto che sul nomos, dunque, una società ordinata si dovrebbe basare sulla moderazione del singolo individuo. Come scrisse nel Piritoo, «un carattere nobile è più saldo della legge», poiché nessuno sarà mai in grado di storpiarlo.

A cavallo tra il IV ed il III secolo a.C. Evemero da Messina veicolò, attraverso La Storia Sacra, l'evemerismo. Evemero cercò di spiegare razionalmente la genesi degli dei, ritenendo che l'origine del concetto di "dio" fosse da rintracciarsi nella divinizzazione progressiva subita da personaggi storici di spicco, quali antichi sovrani e fondatori di regni e città.

In tal modo egli negava esplicitamente la natura divina degli dei, affermandone l'origine umana. In linea con questa impostazione, egli cercò di interpretare razionalmente gli antichi miti, epurandoli degli elementi mistici e fantasiosi e cercando di identificarne il nucleo storico di fondo.

Risulta incerto se Lucrezio (98-53 a.C.) si sia semplicemente limitato a esportare l'epicureismo di Epicuro in ambito latino o se avesse radicalizzato questa corrente filosofica facendone una forma di ateismo.

Sin dal primo libro del De rerum natura egli enuncia che gli dèi non esistono e che il mondo si è fatto da sé, scrivendo:

« Quas ob res ubi viderimus nil posse creari de nihilo, tum quod sequimur iam rectius inde perspiciemus, et unde queat res quaeque crearivet quo quaeque modo fiant opera sine divom »

(E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi.)
Nel Libro V Lucrezio spiega perché il mondo si è fatto da solo:

« Ma ora spiegherò con ordine come il caotico ammasso di materia abbia stabilmente formato la terra, il cielo, le profondità marine, il corso del sole e della luna. Infatti di certo gli elementi germinali delle cose non si disposero ognuno al suo posto per il criterio d’una mente sagace né pattuirono i moti che ognuno avrebbe dovuto imprimere, ma poiché i numerosi germi della natura in molteplici modi ormai da tempo infinito sospinti dagli urti e dal loro stesso peso sogliono spostarsi velocemente,
aggregarsi in ogni guisa e produrre tutte le combinazioni »
Età moderna[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1729, alla morte del prete Jean Meslier, veniva reso pubblico il suo testamento, dal titolo di Memoria dei pensieri e delle opinioni di Jean Meslier, prete, curato di Ètrèpigny e di Balaives, su una parte degli errori e degli abusi del comportamento e del governo degli uomini da cui si dimostrano in modo chiaro ed evidente le vanità e le falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo, affinché sia diretto ai suoi parrocchiani dopo la sua morte e per essere usata da loro e da tutti i loro simili quale testimonianza di verità. In questo testo il sacerdote chiedeva perdono per quanto di falso aveva predicato in tutta la vita e per aver mentito nell'esercizio di una vocazione spirituale divenuta non più consona alle sue convinzioni filosofiche.

Meslier mise in dubbio la coerenza della religione cristiana attraverso una critica all'attendibilità e alla verità storica dei Vangeli, contestandone le ritenute contraddizioni interne, alla Bibbia in generale, affermando la falsità delle presunte profezie dell'Antico Testamento, e alla dottrina e morale cristiane, enumerando quelli che a suo parere erano gli errori insiti in queste. Egli riteneva che la fede, in quanto "credenza cieca", fosse un principio di errori, di illusioni e di raggiri e che la divinità e l'anima fossero invenzioni umane.

Meslier sostenne che la religione origina dalla paura e che i tiranni se ne servono e la sostengono per imporre il proprio potere: idealizzando la sofferenza, la povertà e il dolore e condannando il piacere, la religione - in particolare quella cristiana - disarma gli uomini e li lascia alla mercé dei soprusi del potere. Monarchi, nobili e sacerdoti sono parassiti che il popolo deve abbattere per riappropriarsi della terra, dato che in natura tutti gli uomini sono uguali ed a loro appartengono i beni e la terra che lavorano. Egli ritiene che tutto quanto avviene nella storia non può né deve essere attribuito a Dio, in quanto solo la natura, eterna e già di per sé perfettamente regolata, basta a spiegare i mutamenti storici.

Il barone Paul Henri Thiry d'Holbach, sotto lo pseudonimo di Jean-Baptiste Mirabaud, pubblicò sotto questo falso nome il Sistema della Natura e Il Buon Senso rispettivamente nel 1770 e nel 1772. Nelle due opere nega l'esistenza dell'anima, descrivendo l'uomo come "un essere puramente fisico", e sostiene materialisticamente che materia e moto formano il mondo, il quale è auto-creato, eterno e governato da un rigido determinismo fondato sulla legge della causalità.

Conseguentemente a questa impostazione, la libertà è una pura illusione e con essa il libero arbitrio; in realtà l'uomo cerca ciò che ritiene utile al proprio benessere, secondo una sorta di legge fisica naturale, su di una "gravitazione dell'individuo su se stesso", fondata sul concetto di necessità. Egli ritiene che la ragione e l'esperienza dimostrino quanto afferma, arrivando a definire l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima sciocche superstizioni, mantenute in vita dagli interessi del clero che sfrutta l'ignoranza del popolo.

Egli è convinto che assolutismo politico e oppressione clericale sono sostanzialmente solidali e debbono quindi essere combattuti insieme, affermando che «Senza la Corte la Chiesa quasi non può prosperare, lo Spirito Santo vola con un'ala sola. È a corte che in ultima istanza si decide l'ortodossia. Gli eretici sono sempre coloro che non pensano come alla corte. Le divinità di quaggiù regolano comunemente la sorte delle divinità di lassù. Senza Costantino Gesù Cristo sulla terra avrebbe fatto una assai magra figura».

D'Holbach esalta l'ateismo, concepito come passo necessario verso la virtù essendo che "la vera virtù è incompatibile con la religione": il virtuoso è ateo e conosce le leggi della natura e la propria natura, sa ciò che essa gli impone e pertanto può seguirla, assecondando il proprio impulso verso la felicità. Pertanto, che non si debba condannare la ricerca del piacere e della felicità terrena, purché l'interesse singolo non contraddica l'interesse collettivo: la condotta di ognuno deve riuscire a conciliargli la benevolenza dei propri simili, necessaria alla sua stessa felicità, e pertanto dev'essere diretta all'utilità del genere umano.

Ludwig Feuerbach ne l'"Essenza del cristianesimo" (1841) afferma che la religione, con particolare riferimento a quella cristiana, ha un contenuto positivo che consente di scoprire quale sia l'essenza dell'uomo. Infatti, secondo Feuerbach l'uomo di fronte alle difficoltà della vita si affida ad un soggetto altro rispetto a lui, che è idealmente slegato dai tipici limiti umani e che egli chiama dio e, quando un soggetto entra in un rapporto essenziale e necessario con un oggetto trascendente (come dio appunto), questo significa che questo oggetto è la vera e propria essenza del soggetto, proiettata. Dio dunque non è altro che l'oggettivazione ideale dell'essenza dell'uomo che in Dio proietta se stesso.

La religione è l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente immaginario, che viene falsamente considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si trovano pienamente realizzate idealmente. Nella religione è dunque l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza attraverso un processo psichico di assolutizzazione dell'umano. Non quindi Dio che ha creato l'uomo, ma viceversa (Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio afferma Feuerbach). In Dio e nei suoi attributi l'uomo può quindi scorgere oggettivati i suoi bisogni e i suoi desideri e, dunque, ri-conoscerli. Feuerbach ne conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé».

La conoscenza che l'uomo ha di Dio non è altro, allora, che la conoscenza che l'uomo ha di sé stesso, ma solo con la filosofia ciò può giungere a piena consapevolezza. Secondo Feuerbach la colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano è stata l'aver condotto all'ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia e in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio. Rispetto al cristianesimo, il panteismo ha il merito di aver riconosciuto che il divino non è un'entità personale, ma è il mondo stesso.

Lo sviluppo della religione consiste dunque in una progressiva negazione di Dio da parte dell'uomo, la quale va di pari passo con la consapevole riappropriazione della propria essenza umana. Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come antropologia. In quanto antropologia, la filosofia si assume il compito di liberare l'essenza dell'uomo e dalla sua alienazione religiosa in un ente estraneo. Secondo Feuerbach è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia. Anche quando si è riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, questi predicati infatti permangono nella loro verità, ma come possibilità e prerogative dell'essenza umana.

L'inizio della filosofia non è dunque Dio o l'Assoluto, come in Hegel, ma ciò che è finito, determinato e reale. La filosofia dell'avvenire, in quanto antropologia, riconoscendo il finito come infinito, deve partire, non da come aveva fatto Hegel, dal pensiero autosufficiente, inteso come soggetto capace di costruirsi con le sue proprie forze, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Esso è l'uomo in carne e ossa, mortale dotato di sensibilità e bisogni: in questo consiste l'umanesimo di Feuerbach. Occorre dunque partire da ciò che dà valore al pensiero stesso, ossia dall'intuizione sensibile perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo: il sensibile infatti non ha bisogno di dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza.

In questa prospettiva, la natura non si trova più ridotta a semplice forma estraniata dello spirito, come avveniva in Hegel, ma diventa la base reale della vita dell'uomo. L'argomento genealogico che utilizza Feuerbach a prima vista può sembrare molto convincente ma ha un difetto logico, non prova infatti la non esistenza di Dio: esso mette solo in evidenza un processo psicologico di proiezione che non tocca la questione dell'esistenza di Dio. Dio potrebbe infatti essere riconosciuto tramite questa proiezione delle più alte aspirazioni umane, così come potrebbe invece trattarsi di un'illusione umana: il problema rimane irrisolto.

Nell'introduzione alla «Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico», articolo pubblicato sugli "Annali franco-tedeschi" nel 1844, Karl Marx, in contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, precisa come nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria teorizzata da Feuerbach. Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa è un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo.

La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli», ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a sé stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza, ossia attraverso l'emancipazione politica e umana del proletariato.

Friedrich Nietzsche afferma che la società a lui contemporanea è "malata", perché fondata su illusioni e convenzioni che gli individui accettano passivamente: in tal senso egli stigmatizza la sua società, che definisce "nichilista", fondata su "menzogne" che impediscono all'uomo di rivelare la parte "dionisiaca" del suo essere e di diventare superuomo. Tra queste illusioni l'autore pone "dio": egli afferma che "Dio è morto" nel senso che il concetto di "dio" risulta essere divenuto non più necessario per spiegare il mondo e per capire la propria vita, cosicché tale concetto esprime una realtà non più creduta o cercata e si è rivelato per il suo carattere puramente illusorio.

In tal senso, nell'annunciare la "morte di dio", egli afferma che il sistema di convinzioni su cui si è basata la società "malata" per secoli è venuto meno sin dal suo concetto fondante, il concetto di dio. Egli prefigura dunque il necessario superamento di questa società e l'arrivo del superuomo: il superuomo è "dio" e "creatore" per sé stesso, perché egli determina da sé il proprio mondo e i suoi valori e le sue regole, essendo cosciente della intrinseca soggettività dell'etica. Celebre è la figura dell'uomo folle ne La gaia scienza (1882), che gira in pieno giorno con una lanterna accesa, urlando "Cerco Dio!", attirandosi così lo scherno dei presenti.

Alla richiesta di spiegazioni l'uomo afferma che Dio è morto, ovvero che nessuno crede più veramente. Ma nell'atto stesso di compiere questa affermazione si trova di fronte allo scetticismo e all'indifferenza, quando non alla derisione. Egli stesso si definisce come il "testimone" di un omicidio compiuto dall'intera Umanità. E allora: "Vengo troppo presto" egli ammette, poiché gli uomini non sono ancora pronti ad accettare questo cambiamento epocale. I valori tradizionali sono sempre più pallidi, sempre più estranei alla coscienza, ma i nuovi valori, quelli della gioiosa accettazione della vita e della fedeltà alla terra, sono ancora al di là dell'orizzonte: "Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino".

L'annuncio della morte di Dio ha una straordinaria efficacia retorica e forse anche per questo non è stato sempre compreso a fondo: taluni interpreti si sono limitati a leggerlo come l'ennesimo attacco al Cristianesimo e non ne hanno percepito la profondità e la complessità. Infatti Nietzsche con questa affermazione intende annunciare la fine di ogni realtà trascendente, indipendentemente dal culto che predichi tale realtà. Egli considera ciò come il compimento di un processo nichilistico necessario, le cui radici si ritrovano nell'atto di omissione e di oblio del dionisiaco, che ha consentito all'apollineo nel corso della secolarizzazione, di trovare modelli metafisici ragionevoli, capaci di giustificare il "senso dell'essere", ma che prima o poi, secondo l'autore tedesco, avrebbero dovuto fare i conti con la vera essenza vitale della natura umana, quale appunto, il dionisiaco, ossia ciò che lega alla terra e alla vita.

L'argomentazione delle rivelazioni inconsistenti contesta l'esistenza della divinità biblica mediorientale chiamata Dio come viene descritta nelle sacre scritture, come la Tanakh ebraica, la Bibbia cristiana o il Corano musulmano, identificando le contraddizioni tra le differenti scritture, quelle all'interno di una singola scrittura o le contraddizioni tra le scritture e i fatti noti.
La teodicea (o "problema della giustizia di Dio") in generale e le argomentazioni logiche ed evidenziali del male in particolare, contestano l'esistenza di un dio che sia contemporaneamente onnipotente e omnibenevolo, sostenendo che un tale dio non permetterebbe l'esistenza del male o della sofferenza percepibili, la cui esistenza può essere facilmente dimostrata. Tale argomento viene anche detto argomento morale: se Dio esistesse sarebbe non-morale dal punto di vista della comprensione umana, quindi inutile come riferimento. L'argomento non verte strettamente sull'esistenza di qualsiasi divinità, perciò viene sostenuto anche da teisti e altri gruppi oltre che da atei. Inoltre, essendo Dio infinito, per sua stessa natura dovrebbe contenere in sé il male, principio che cozza contro un dogma cattolico che dichiara che da Dio procede solo il bene senza la minima presenza di male in esso. Questo argomento viene contestato dai deisti concependo il male come assenza di bene, che appunto è l'essenza di Dio.
L'argomentazione del disegno insufficiente contesta l'idea che un dio abbia creato la vita, sulla base del fatto che le forme di vita mostrano una progettazione scarsa o malevola, che può essere spiegato facilmente usando l'evoluzione o il naturalismo.
Un risultato sperimentale che mostra con evidenza che è il caso a governare la sequenza delle mutazioni, è quello ottenuto da un gruppo di ricercatori dell'Oregon sull'evoluzione di un recettore dei glucocorticoidi: la sequenza delle mutazioni è risultata irreversibile, cosa incompatibile con l'idea di un disegno preordinato.

L'argomentazione della non credenza contesta l'esistenza di un dio onnipotente che vuole che gli esseri umani credano in lui, sostenendo che un tale dio farebbe un lavoro migliore per raccogliere i credenti. Questa argomentazione viene contestata dall'affermazione che Dio vuole mettere alla prova gli uomini per vedere chi ha più fede, ma a sua volta viene respinta dalle argomentazioni relative all'onniscienza (non ha senso che Dio metta alla prova gli uomini, perché essendo onnisciente sa già come andrà a finire e di fatto questo mina irreversibilmente il concetto di libero arbitrio).

Il paradosso dell'onnipotenza e gli altri paradossi teologici, sono una delle molte argomentazioni che sostengono che le definizioni o descrizioni di un Dio sono logicamente contraddittorie, e dimostrano così la sua non esistenza.
L'argomentazione del libero arbitrio contesta l'esistenza di un dio onnisciente dotato di libero arbitrio sostenendo che le due proprietà sono contraddittorie.
L'argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio contesta l'esistenza di un creatore intelligente, dimostrando che un tale essere renderebbe dipendenti logica e morale, il che è incompatibile con l'affermazione presupposizionalista che esse sono necessarie, e contraddice l'efficacia della scienza. Una linea di argomentazione più generale basata sull'argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio, cerca di generalizzare questa argomentazione a tutte le caratteristiche necessarie dell'universo e a tutti i concetti di dio.
La controargomentazione dell'argomentazione cosmologica ("l'uovo o la gallina") dichiara che se l'universo è stato creato da Dio perché doveva avere un creatore, allora Dio a sua volta avrebbe dovuto essere stato creato da un altro dio, e così via. Questo attacca la premessa che l'universo sia la "causa seconda" (dopo Dio, che si sostiene essere la "causa prima"). Una risposta comune a questo è che Dio esiste al di fuori del tempo e dell'universo, e quindi non necessita di una causa. Questa concezione genera alcuni problemi logici: in primo luogo cozza contro la natura infinita di Dio, non può esistere un "altrove" a un Dio che tutto permea e organizza; in secondo luogo, tale affermazione ricondurrebbe al rasoio di Occam facendo coincidere il caso con quello del primo argomento empirico: il modello logico causale non sarebbe più vantaggioso poiché dipende da un elemento senza causa, elemento che quindi è in più rispetto al necessario. Il fatto di spiegare il mondo e l'universo come creazione di dio è un rimandare la spiegazione, per il fatto che ora dall'inspiegabilità dell'universo si passa nell'assai più complessa inspiegabilità di Dio.
Il noncognitivismo teologico, come usato in letteratura, cerca solitamente di confutare il concetto di Dio mostrando che esso è inverificabile e senza significato.
Il paradosso di Curry mostra come il concetto di causa prima, una delle forme più generali cui si può ricondurre l'idea di Dio, si rivela privo di significato quando si prova ad esprimerlo nel linguaggio formale della logica matematica.

L'argomentazione atea-esistenzialista della non esistenza di un essere senziente perfetto, sostiene che poiché l'esistenza precede l'essenza, ne consegue dal significato del termine senziente che un essere senziente non può essere completo o perfetto. La questione viene affrontata da Jean-Paul Sartre in L'essere e il nulla. Secondo Sartre Dio sarebbe pour-soi (un essere per sé; un essere cosciente) che è anche en-soi (un essere in sé; una cosa): il che è una contraddizione in termini. L'argomentazione viene riecheggiata nel romanzo di Salman Rushdie, Grimus: "Ciò che è completo è anche morto." Hegel nella Fenomenogia dello Spirito sostiene che l'essere, come ogni cosa non pensata in relazione al suo contrario, come l'essere concepito come essere-per-sé, cade e diventa il suo contrario, appare identico al nulla. Tale movimento di pensiero è anche un movimento di essere, che trova nel divenire una sintesi superiore e successiva all'apparente identità di essere e nulla, che non è un'identità statica, ma un'identità dinamica, un evento nel pensiero che si ripete nell'essere.
L'argomentazione del "nessun motivo" cerca di mostrare che un essere onnipotente o perfetto non avrebbe alcuna ragione di agire in alcun modo, in particolare creando l'universo, perché non avrebbe desideri, in quanto il concetto stesso di desiderio è soggettivamente umano. Siccome l'universo esiste, c'è una contraddizione, e quindi, un dio onnipotente non può esistere. Questa argomentazione viene sposata da Scott Adams nel libro God's Debris.

Hawking sostiene da diversi anni l'ateismo, sebbene in passato abbia manifestato interesse per una visione panteista e non trascendente come quella di Albert Einstein, ad esempio nel capitolo finale del suo libro Dal Big Bang ai buchi neri. Egli sostiene, in un articolo del 2010, che Dio non può conciliarsi con la scienza e non è correlato col nostro mondo. Nei suoi libri non specifica mai se creda o meno nell'esistenza di un Dio o di un'altra entità superiore: in The Grand Design, scritto insieme al fisico Leonard Mlodinow, ha elaborato una teoria cosmologica che intende spiegare l'origine dell'universo, il quale, come dichiara lo scienziato in un'intervista sul Times, "non è stato creato da Dio". Hawking oggi si dichiara ateo.

Anche riguardo al rapporto tra religione e scienza, Hawking sostiene che non sono conciliabili, in quanto come ha dichiarato sempre sul Times: "c'è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull'autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento. E la scienza vincerà perché funziona". Nel 2011 ha dichiarato di non credere, a livello strettamente personale e senza farne una verità assoluta, nell'esistenza di un Dio creatore (senza esprimersi sulle religioni che invece non parlano di "creazione"), perché non è necessario per spiegare l'universo, e siccome prima del Big Bang non esisteva il tempo (come non esiste all'interno di un buco nero), non sarebbe esistito nemmeno il tempo per creare l'universo, oltre al fatto che, a livello subatomico le particelle elementari quantistiche, come quella che ha dato origine all'universo, possono apparire e scomparire spontaneamente.

Egli afferma che questa sia la spiegazione più semplice, proprio per lo stesso motivo per cui una malattia che è derivata da una causa fisica non ha bisogno di una metafisica per spiegarla, portando ad esempio la propria situazione personale. Allo stesso tempo non ha mai escluso la teoria del multiverso, ossia la possibilità di più universi, ognuno con la sua relativa nascita e le sue leggi fisiche peculiari. Hawking, nonostante non sia un credente, è membro della Pontificia accademia delle scienze.

Per contro Hawking non spiegherebbe come possa esistere una legge di gravità senza gravi, così come non spiega come sia concepibile una legge che preceda l'universo dato che in realtà lo presuppone. Hawking risponde a queste obiezioni che non c'è bisogno di un creatore per creare le leggi fisiche, in quanto semplicemente esse esistono intrinsecamente alla materia, sempre esistente sotto qualche forma oppure apparsa dal nulla prima di tutto, ma non esistendo allora lo spaziotempo si può dire che essa deriva da un istante senza tempo, un eterno presente, come quello dell'orizzonte degli eventi.



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lunedì 21 agosto 2017

DIFFERENZA TRA UOMO E ANIMALE

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“Non saranno Einstein, ma- scrive Stanley Coren- sono di sicuro molto più del previsto simile a noi”. “Più conosco gli uomini, più amo i cani” (M.de Savignè).


Nel XVII secolo Cartesio, iniziatore del razionalismo moderno, stabilì che solo l’uomo è un essere razionale, ponendo come principio del sapere il “cogito ergo sum”, cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza. Decretò poi un netto dualismo tra pensiero -“res cogitans”- e materia- “res extensa”. Gli animali, per il filosofo francese, non agiscono “per conoscenza, ma soltanto per la disposizione dei loro organi”.

Il comportamento animale sembra riecheggiare il nostro. L’uomo però è l’unico animale ad arrossire e a vergognarsi. Ed è pure- rileva Mark Twain- l’unico “che ne ha bisogno”.

Il cervello e il sapere scientifico tuttavia sono una lama a doppio taglio. Possono essere usati per propositi nobili o per propositi meschini, personali o ignobili. Di qui, l’esigenza di un nuovo umanesimo, il cui fine è quello di realizzare il benessere mentale e fisico della persona, che è il motore che traina l’evoluzione della civiltà. Una civiltà più umana e umanizzante. Che possa affermare il primato dell’empatia, della solidarietà e del bene rispetto all’egoismo e alla malvagità.
Un prezioso contributo alla costruzione di questo processo può essere offerto dalla capacità dell’essere umano di riuscire a conoscere, apprendere e tesaurizzare lo straordinario dono di affezione, dedizione e tenerezza del nostro cucciolo. Sentimenti che purtroppo non albergano in tutti gli uomini. In molti prevalgono l’odio e il rancore, l’insensibilità e un’arrogante ignoranza.

Superando la propria condizione biologica, l’uomo è chiamato ad aprirsi alla conoscenza di nuove dimensioni, ha ricordato Benedetto XVI in un’omelia del 9 marzo 2008. Anche gli animali conoscono – ha proseguito il Papa – “ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica”. A differenza degli animali, l’uomo invece “ha sete di una conoscenza dell’infinito”.

Queste parole del Papa rappresentano un orientamento per la cultura dei nostri giorni, rispetto alla scottante e non sempre chiara questione dell’uomo e dell’animale.

Un esempio di questa situazione di confusione, nel contesto spagnolo, è dato dalla mozione dell’11 aprile 2006 della Camera dei deputati spagnola, con la quale si invita il Governo ad aderire al progetto “gran simio” (“grande scimmia”), ideato dagli animalisti Peter Singer e Paola Cavalieri, per promuovere la parità di condizioni giuridiche tra tutti i componenti della “comunità dei simili”, composta dai grandi antropoidi e dagli esseri umani.

L’uomo vive in genere nelle grandi città, dove gli animali sono confinati negli zoo, nei circhi o tenuti nei salotti di casa. Solo in campagna possiamo ancora credere che gli animali aiutino l’uomo nel suo lavoro e siano per lui fonte di alimentazione, compagni di lavoro, amici. Quello che interessa all’uomo d’oggi è la tecnologia che egli stesso costruisce. 

Paradossalmente però, più l’uomo sembra allontanarsi dall’animale, più cerca di avvicinarselo : ed ecco allora l’invenzione di teorie che sostengono la completa - o quasi – identità tra l’uomo e l’animale, come la sociobiologia, e il sorgere, su un altro versante, dei movimenti ecologisti, le società protettrici degli animali, le lotte contro la vivisezione ecc. 

Nel mondo greco  Aristotele (384-322 a.C.) dedicò diverse opere agli animali ed esse sono il primo grandioso tentativo sistematico e scientifico, nel senso moderno del termine, di dire qualcosa di valido “oggettivamente” su di essi e sull’uomo. 
Aristotele divise gli animali in due grandi gruppi : i sanguigni (che corrispondono più o meno ai nostri vertebrati) e i non sanguigni (i nostri invertebrati). I sanguigni si dividono a loro volta in vivipari (= mammiferi), ovipari (= rettili e uccelli) e ovovivipari (= pesci), mentre i non sanguigni si dividono in cefalopodi, crostacei, insetti e gasteropodi. 
In quanto poi alla distinzione tra l’uomo e l’animale, Aristotele ritiene che vi siano parecchie differenze: ad esempio l’uomo è l’unico ad avere posizione eretta, l’uomo è l’unico che ride, che ha la capacità di deliberare, che ha il linguaggio, che ha, in ultimo, la capacità di essere felice. 

Dopo i Greci, nel pensiero ebraico-cristiano è ulteriormente ribadita la distinzione tra uomo e animale. Comunque per la Bibbia il destino degli animali e dell’uomo è strettamente legato. Gli animali hanno una propria dignità che la Scrittura sottolinea più volte (ad es. il sabato tutti gli animali hanno diritto di riposare). Pur essendo solo l’uomo “ad immagine e somiglianza di Dio”, l’uomo non deve trattare gli animali con disprezzo : è anzi responsabile di ogni malvagità commessa nei confronti degli animali e del mondo che lo circonda.  

Tutto ciò che è seguito, nella storia dell’Occidente, è stato influenzato, direttamente o indirettamente, da queste concezioni. Nell’Ottocento, con Darwin, viene avanzato l’ipotesi dell’origine dell’uomo da forme di vita più semplici. Per alcuni poi tra l’uomo e l’animale vi è solo una differenza di quantità e non di qualità. Fino a quasi tutto l’Ottocento si è comunque cercato di spiegare l’animale e l’uomo guardando all’indietro, cercando qualcosa di più semplice a cui l’uomo potesse essere ricondotto o addirittura ridotto. Verso la fine dell’Ottocento si fa invece strada un’ipotesi del tutto diversa, e cioè che l’uomo e l’animale siano degli abbozzi di essere, cioè che essi siano soltanto una tappa verso una forma diversa di essere a cui tendono in futuro (Bergson, Blondel ecc.).  

Alcuni autori considerano l’animale umano come parte di un “continuum” con gli altri animali, mentre altri riconoscono una “netta divisione” fra umani e animali. Gli studi finora riconoscono le enormi differenze presenti tra la mente e il cervello dell’uomo e le strutture cerebrali dei non umani.
Invero, per lungo tempo gli animali sono stati considerati come misteriose entità, assumendo il significato di simboli religiosi (per gli Egizi), simboli moralistici (favole di Esopo), espressione della creazione divina (S. Francesco), oggetto di divertimento venatorio (Federico II di Svevia), macchine insensibili (Cartesio).
Con Darwin, il comportamento viene per la prima volta considerato un carattere della specie, che si è affermato a seguito di un processo evolutivo. Egli fu anche il primo a dare importanza alle attività psichiche degli animali e ad affrontare scientificamente il problema dell’istinto e dell’apprendimento.
Gli esseri umani hanno una capacità “innata” di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, intuizioni, credenze e stati mentali diversi. Questa capacità è stata chiamata per la prima volta “teoria della mente” (TOM) nel 1978 da David Premack. La qualità di osservare il comportamento altrui e inferire gli stati mentali interiori è già presente nei bambini di quattro-cinque anni di età. Ci sono addirittura indici della presenza della TOM persino prima dei due anni di età (Striedter). I soggetti che presentano sindrome di autismo hanno deficit legati alla teoria della mente e ai neuroni specchio.
Oggi la più grande sfida della nuova scienza del cervello è quella di scoprire in che modo funziona la mente. La maggior parte dei processi cerebrali ha luogo senza che noi ne siamo consapevoli (Posner). La funzione del cervello, infatti, presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade a livello cosciente e ciò che accade a livello non cosciente.
In realtà, la coscienza è un fenomeno che riguarda la dimensione soggettiva, introspettiva dell’essere umano, riguarda i suoi stati d’animo. I quali purtroppo non ci possono dare una risposta certa, poiché gli stati d’animo- chiamati “qualia” dai neuro scienziati- “non sono misurabili in maniera oggettiva” (Dehaene).
Ci sono dunque autori che affermano che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione scientifica, ossia che è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso i neuroni, le sinapsi o i neurotrasmettitori. “Ignoramus ignorabimus”: siamo condannati all’ignoranza eterna? Non è assolutamente così. Ci sono in effetti altri studiosi che ritengono che possa essere possibile decifrare quell’elemento così “unico” che chiamiamo coscienza. Tentare allora di avvicinarci alla mente e alla coscienza con i metodi scientifici rappresenta un’impresa persino più fantastica e affascinante.
In questi ultimi anni, le nostre conoscenze sul cervello sono progredite enormemente, soprattutto in virtù degli eccezionali avanzamenti delle metodiche di neuro imaging funzionale. Prima gli studi negli anni Ottanta del secolo scorso di Francis Crick con l’opera “La scienza e l’anima” poi le ricerche di Edelman, Kandel, Damasio, Gazzaniga e tanti altri, hanno definitivamente sancito che lo studio scientifico delle basi neurali della coscienza e della mente è “empiricamente possibile sul piano teorico e sperimentale” (Gazzaniga).



Gli esperimenti condotti sugli animali dunque rappresentano il miglior modo di studiare il cervello e la mente umana. Le ricerche mostrano che esistono molti livelli di coscienza. E’ generalmente accettato- scrive Gazzaniga- che i mammiferi “siano coscienti del qui e adesso”. La questione principale tuttavia è che non siamo in grado di elaborare un esperimento che possa valutare il grado di coscienza di un animale non verbale. Anche se non possiamo fare esperienza della coscienza dei membri di altre specie, possiamo inferire che animali come i cani “siano coscienti” (Edelman). Questa affermazione si basa sul loro comportamento e sulla “stretta somiglianza tra il loro cervello e il nostro”.
I cani e altri mammiferi sono dotati di “coscienza primaria”, che è consapevolezza delle cose del mondo “hic et nunc”. Un po’ come l’illuminazione di una stanza buia da parte di un raggio di luce. Non sono “coscienti di essere coscienti”. Non sono dotati cioè di coscienza di “ordine superiore” come noi. Gli scimpanzé possono usare simboli, facoltà che potrebbe rivelare l’esistenza di un segno di “coscienza superiore” (coscienza di coscienza).
Per coscienza intendiamo la capacità di possedere un certo livello di autoconsapevolezza. Ciò significa essere oggetto della propria attenzione. Si va dal semplice essere consapevoli degli stimoli ambientali- “Io sento la musica delle onde del mare”- sino alla possibilità di “concettualizzare” le informazioni su di sé che necessitano di essere determinate in maniera astratta- “Io sono un soggetto romantico”-. Gli studiosi si sono concentrati su due ambiti: l’autoconsapevolezza animale e la metacognizione animale, cioè pensare di pensare.
Analizzando l’autoconsapevolezza animale, Marc Hauser scrive che “tutti gli organismi sociali che si riproducono sessualmente sembrano essere dotati di meccanismi neurali per discriminare i maschi dalle femmine, i cuccioli dagli adulti e i parenti dagli estranei”.
Molti sistemi differenti si sono evoluti per aiutarci- chiarisce Gazzaniga- a identificare i parenti dagli estranei. Un sistema che molti uccelli possiedono è l’imprinting. Il primo individuo che vedono è la madre. Le api e le vespe riconoscono la loro colonia dall’odore, gli scoiattoli utilizzano l’odore per il riconoscimento e i pipistrelli riconoscono i loro piccoli tra migliaia di altri attraverso la comunicazione vocale e olfattiva (J.M.Mateo).
Gli esperimenti attuali mostrano che gli animali non hanno memoria episodica e non sono in grado di “viaggiare nel tempo” con l’immaginazione. Di recente, alcuni studi hanno cercato prove dell’esistenza di forme di metacognizione animale nei ratti. Le prospettive sono attraenti, ma necessitano di ulteriori verifiche.
Invero, dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali si sta rivelando un compito complesso, delicato e difficile. Attribuire agli animali azioni coscienti costituisce una forte tentazione, è qualcosa che affascina.
Finora, il problema è stato affrontato da due prospettive diverse. Una si basa sull’auto riconoscimento allo specchio, l’altra sull’imitazione. Lo scienziato Gordon Gallup ha esaminato il problema, realizzando un test durante il quale anestetizzava alcuni scimpanzé, metteva loro un segno rosso su di un orecchio e sul sopracciglio e poi, quando si erano ripresi dall’anestesia, li metteva davanti a uno specchio. Prima non toccavano i loro segni rossi, ma una volta che veniva presentato loro lo specchio gli scimpanzé lo facevano. Lasciati davanti allo specchio, dopo un po’ cominciavano a osservare parti del loro corpo. Non tutti gli scimpanzé manifestavano tuttavia la capacità di riconoscersi allo specchio (MSR). Due delfini e uno su cinque elefanti, testati in due studi diversi, hanno anch’essi superato il test del segno rosso (Povinelli).
La capacità di auto riconoscersi nei primati, nei delfini e negli elefanti denota un’evoluzione convergente dovuta all’interazione di fattori biologici con fattori ambientali (Gallup). Essa implica altresì che il soggetto è in grado di compiere un’astrazione. E’ capace di “razionalizzare” (Anderson).
Altre specie animali che dimostrino di possedere una MSR finora non sono state trovate. Questo è il motivo per cui il nostro cucciolo Kimi non sembra affatto interessato quando cerchiamo di farlo guardare allo specchio. L’ipotesi di Gallup è che l’auto riconoscimento allo specchio implica la presenza di un concetto di sé e un’autoconsapevolezza. I bambini superano il test del segno rosso all’età di due anni, dimostrando di avere la MSR.
L’altra prospettiva per dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali è l’imitazione. Se si è capaci di imitare le azioni altrui, allora- sostiene Joseph Call, che ha analizzato lo stato attuale della ricerca in questo campo- si è anche capaci di distinguere tra le proprie azioni e quelle dell’altro.
Esistono evidenze di imitazione nel mondo animale. La maggior parte delle prove nei primati tuttavia indica una capacità di “riprodurre” il risultato di un’azione, non di “imitare” l’azione in sé. Alcune ricerche rivelano la presenza di un comportamento di “pianificazione” negli oranghi, nei bonobo (Mulcahy,Call) e nelle ghiandaie (Clayton). Le quali nascondono diversi tipi di cibo in luoghi differenti, in momenti diversi e vanno poi a ricercare il cibo in maniera selettiva, cercando prima il cibo che deperisce, e mangiandolo, rispetto al cibo che si conserva meglio. I risultati di questi studi suggeriscono che la pianificazione “non è una capacità unicamente umana”.
Al centro della ricerca neuro scientifica c’è l’esigenza di capire in che modo la coscienza si sviluppa e da dove viene, quali sono cioè le sue origini filogenetiche. Gli studi sperimentali degli istinti animali mostrano che i primi “segni” di coscienza si manifestano nel regno animale, a partire dalle “emozioni primordiali” come la sete, la fame, il bisogno d’aria, il desiderio sessuale, l’appetito per i soli minerali. Queste emozioni- rileva Denton- sono indispensabili alla sopravvivenza degli organismi viventi.
Le ricerche sugli animali- dagli insetti ai polpi, dai pesci ai vertebrati- dimostrano che l’emozione primordiale di questi bisogni e la loro gratificazione costituiscono “una pietra miliare” sul percorso che porta alla nascita della coscienza. Le emozioni primordiali formerebbero una sorta di primo “Sé” per arrivare poi all’elaborazione di quella che Denton chiama una “scena interiore” della coscienza. La quale è la capacità di riconoscere la “differenza” tra i propri pensieri e le informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno (Brentano).
L’idea avanzata da molti scienziati è che le emozioni primordiali costituiscano la prima comparsa della coscienza (Damasio). Questo assunto mostra che la coscienza non è una facoltà esclusivamente umana.
Le dimostrazioni condotte da Derek Denton ci offrono un’analisi precisa dei diversi comportamenti osservati negli animali. Comportamenti che hanno portato gli scienziati a formulare stupefacenti domande. Le api, per esempio, possiedono una coscienza collettiva? Il pesce può soffrire? Qual è la differenza tra la coscienza di un polpo e quella di un mammifero? Che cosa succede nel nostro cervello quando proviamo la sensazione di avere sete, quando beviamo e quando ci siamo dissetati? E che cosa accade con l’orgasmo? Presenta tratti in comune con la soddisfazione della sete?
Il neuroscienziato Denton riporta un caso illuminante. Una rana in stato di disidratazione viene collocata a pochi centimetri da una vasca d’acqua. Non farà nulla per cercarla e si lascerà morire. Posta nelle stesse condizioni, una lucertola invece cercherà l’acqua, la scoprirà e la berrà. Le strategie elaborate poi da un piccolo mammifero saranno ancora più sofisticate di quelle della lucertola.
La ricerca di una fonte d’acqua, in realtà, richiede molteplici conoscenze: la mappa dell’ambiente, il punto in cui si trova l’acqua, il tragitto da compiere, l’eventuale presenza di predatori. Queste operazioni sono attivate dalle connessioni neurali, le quali contribuiscono a “collegare” le molte aree cerebrali implicate. Si sviluppa così un sistema di “integrazione” che centralizza le informazioni, creando uno spazio nel quale- grazie alla corteccia cerebrale- si elabora una “pianificazione cosciente” dei comportamenti a venire. Le emozioni primordiali dunque svolgono un ruolo cruciale negli stati di coscienza.
Una delle qualità essenziali della mente è il possesso della facoltà di utilizzare “simboli” (Kenny). A questo proposito Donald Griffin, un autore che ha un ruolo fondamentale nell’aver posto in primo piano il tema della coscienza negli animali, cita il simbolismo insito nella danza delle api- “waggle dance”. E’ l’attività dell’ape a fare della sua danza un mezzo di comunicazione simbolica, come la ricerca di una nuova dimora, la ricognizione di luoghi e fonti di cibo o la ricerca di informazioni sulla qualità, la direzione e la distanza del luogo. Questi comportamenti evidenziano che le api sono in grado di esprimere “pensieri semplici”.
Le informazioni sensoriali e la categorizzazione percettiva di segnali visivi portano in sostanza alla definizione di coscienza, che è la capacità di costruire- secondo Edelman- una “scena mentale integrata” nel presente. Circa i processi cognitivi di apprendimento e memoria, esperimenti condotti sulle attitudini cognitive dei piccioni hanno rivelato che questi uccelli sono capaci di distinguere i colori e a riconoscere, tra decine di fotografie, quelle che ritraggono figure umane, alberi o palazzi (Herrnstein). I pulcini invece imparano ad evitare di ingerire cibo o di bere un liquido dal sapore amaro.
L’idea che nei pesci possa esistere qualche forma di coscienza è contestata da J.D.Rose, il quale basa il suo pensiero sul fatto che i pesci non possono provare dolore. E’ valutazione condivisa che per esprimere il dolore occorre essere coscienti. La consapevolezza del dolore dipende da specifiche regioni cerebrali. Nei pesci queste regioni mancano, ragione per cui mancano i requisiti neurali necessari per sentire il dolore.



L’argomento dei fenomeni mentali nei rettili, animali che costituiscono la derivazione di un ceppo ancestrale da cui sono discesi sia i mammiferi sia gli uccelli, è stato affrontato in particolare da Gordon Burghardt, il quale sostiene che i rettili dovrebbero essere studiati quali “precursori filogenetici” di tutti gli animali dotati di comportamenti complessi. E’ stato lo studioso G.G.Romanes, amico di Darwin, ad attribuire ai rettili “emozioni e intelletto”. Quando avverte la presenza di un predatore, il serpente “Heterodon nasicu”, ha osservato Burghardt, simula la morte, resta immobile, la bocca aperta, la lingua stesa in fuori e la sua respirazione sembrerà cessata. Risposte di immobilità sono state osservate anche in molti mammiferi e in uccelli. Con la simulazione della morte nel serpente, si ottengono dati sperimentali che “concordano” con le ipotesi di Griffin di uno stato di coscienza negli animali.
Gli esperimenti compiuti da J.S.Beritoff sulla memoria delle immagini nel cane e sui comportamenti di lucertole, tartarughe, uccelli, babbuini e gatti mostrano che i loro atteggiamenti intenzionali sono indice di “una immagine mentale” e dunque sono espressione di una “coscienza”.
L’idea di intenzione, così come l’idea di obiettivo, è per Longuet-Higgins “parte integrante del concetto di mente”. Si può quindi ritenere che un organismo capace di avere “intenzioni” possegga “una mente” per elaborare un piano e prendere una decisione.
Oggi, è abbastanza comune fra gli scienziati- Young, Hebb e Hoch- considerare le risposte di un animale “il possibile prodotto di processi coscienti e di processi mentali”.
Già Darwin aveva osservato molti aspetti del comportamento animale, in particolare le emozioni, come riflessi di “stati coscienti”. Come osserva Miriam Rothschild, chiunque metta in dubbio la capacità degli animali di provare emozioni dovrebbe provare a portare un cane dal veterinario dopo che ci è già stato una prima volta. 
I dati ottenuti da Changeux e colleghi fanno inoltre ritenere che anche i topi dimostrano un comportamento complesso volto al raggiungimento di un obiettivo. Il concetto di Griffin, forse il massimo esponente in materia, è di una coscienza negli animali (rectius: in molti animali c’è un certo livello di coscienza) sia l’idea di altri autori come Longuett-Higgins sul comportamento intenzionale quale espressione di “un’immagine mentale”.
Per comprendere in maniera ancora più chiara la questione, diciamo che la funzione della coscienza è subordinata al fatto di essere “innestata” in un corpo, cioè alla consapevolezza del proprio stato corporeo in relazione a ciò che ci succede intorno. E’ lo stato corporeo che genera sensazioni e sentimenti. E la coscienza è costituita da sensazioni. Ciò fa ritenere che qualsiasi animale dotato di un tronco encefalico sia in grado di servirsi della coscienza.
Tutti i mammiferi hanno un tronco con nuclei e connessioni strutturati pressappoco come i nuclei umani (Solms, Turnbull). Vi sono buoni motivi per stimare che cani, gatti pinguini, balene, ratti e topolini possiedano una coscienza. Le stesse strutture elementari rendono un topo e un essere umano egualmente capaci di distinguere tra ciò che è “buono” e ciò che è “cattivo”. I topi, ad esempio, possono sentire un eccitante piacere quando si aspettano il soddisfacimento di un bisogno; provano paura in presenza di un nemico; sentono rabbia quando viene loro impedito il raggiungimento di una meta desiderata; soffrono se vengono separati dalla madre o dai propri simili, e così via.
Esistono, al riguardo, percezioni e reazioni affettive in larga parte di tipo innato e universale. Queste reazioni affettive vengono chiamate “emozioni di base”. La vista di un serpente, per esempio, determina sia nell’uomo che nel cane un sentimento di paura.
Noi condividiamo con tutti gli altri mammiferi tali “emozioni di base”. I cani, i gatti, i delfini, le balene, i ratti, i topi: tutti possiedono i meccanismi adattativi, cioè le “emozioni di base”. Le quali sono per l’appunto gli elementi costitutivi della coscienza. 
Vi sono tuttavia livelli “superiori” di coscienza, come “coscienza di coscienza”, che non condividiamo con gli altri mammiferi.
Oggi, gli studi più recenti che cercano prove di una qualche forma di metacognizione animale sono attraenti, ma necessitano di ulteriori approfondimenti prima che se ne possano trarre conclusioni definitive. Il fatto è che il nostro cervello- per usare una bella immagine di Gazzaniga- è simile a “un organo a canne, che suona la sua musica tutto il giorno e ha molte melodie da suonare”, mentre il cervello dell’animale ne ha poche. Più cose allora sappiamo, migliore è “il concerto”.
Le scimmie- è una grande scoperta di questi anni- possiedono i neuroni specchio. I quali sono stati localizzati per la prima volta proprio nel cervello delle scimmie. Essi si attivano quando, ad esempio, una scimmia afferra un attrezzo; ma si attivano anche quando la scimmia guarda un’altra scimmia afferrare l’oggetto. Il sistema dei neuroni specchio è alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui, rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione.
Gli animali perciò apprendono la cultura. Uno studio ha mostrato che almeno 39 tipi di comportamenti diversi negli scimpanzé sono effetti della cultura.
Il colore, definito da Kandinsky “un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, ha un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle sue ricerche, Humphrey ha scoperto che le scimmie “rhesus” di fronte alla luce rossa hanno “forti risposte emozionali”: diventano ” ansiose, irrequiete e agitate”, mentre quando la luce è blu divengono tranquille. Nell’ordine, esse preferivano il blu al verde, il verde al giallo. il giallo al rosso. In genere, anche gli esseri umani mostrano gli stessi comportamenti. Descrivono la sensazione del rosso come “forte, calda, eccitante e disturbante”. Si è scoperto altresì che la luce rossa suscita comportamenti aggressivi e litigiosi (Porter), nonché sintomi fisiologici dell’eccitazione sessuale.
A livello generale, i nostri cervelli e quelli degli scimpanzé sono strutturati in maniera quasi “identica” (Marcus). Entrambi hanno cortecce occipitali nel retro del capo, dove analizzano le informazioni. Entrambi poi hanno i cervelli suddivisi in emisfero destro e sinistro.
Dal punto di vista evolutivo, ci siamo separati dagli scimpanzé solo di recente, forse solo dai 4 ai 7 milioni di anni fa (Brunet) rispetto ai circa 85 milioni di anni da quando esistono i primati (Tavare e Martin). Il linguaggio e la mente umana vengono da quell’1,5 per cento di materiale genetico che ci separa dagli scimpanzé, ma anche dal 98,5 per cento che è condiviso.
Gli umani e le grandi scimmie, come gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, si sono evoluti tutti – afferma Gazzaniga- da “un antenato comune”. L’essere umano è l’unico ominide sopravvissuto del ramo originario separatosi dall’antenato comune con lo scimpanzé. E’ il caso di Lucy, fossile trovato nel 1974 che sconvolse il mondo della scienza in quanto bipede, ma priva di un cervello di grandi dimensioni.
Nel tempo, la nostra anatomia corporea è cambiata, fornendo le basi necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche che ci rendono unici. Il bipedismo ha reso le mani libere di agire. I nostri pollici arcuabili e opponibili ci hanno permesso di sviluppare la migliore coordinazione motoria tra le specie. La nostra laringe poi ci ha permesso di emettere un numero infinito di suoni che noi utilizziamo nel linguaggio. Altri cambiamenti sono avvenuti inoltre nel nostro cervello, cambiamenti che ci hanno permesso di comprendere che gli altri hanno pensieri, credenze e desideri.
Anche gli uccelli, come le api e gli altri animali, mostrano attitudini all’apprendimento. Nei loro cervelli vi sono regioni associate al rilevamento del gusto, dell’odore e del suono, al movimento, alla memoria spaziale e all’apprendimento del canto. Alcuni uccelli come i canarini possono imparare un numero di canti sottilmente differenti. Altre specie- le cince e le ghiandaie- sono capaci di fare scorta di centinaia di alimenti differenti durante l’estate per poi farne uso durante l’inverno. Sembra che imparare una canzone richieda sistemi neurali diversi nell’uccello canoro.
I castori costruiscono dighe e proteggono il loro confine con ramoscelli e fango, mentre i ragni filano le ragnatele. La lumaca raccoglie il calcio dal suo cibo e lo usa per secernere una conchiglia. A sua volta, il paguro si procura una conchiglia di calcio già fatta. L’organizzazione di una colonia di termiti è così meravigliosa che alcuni osservatori hanno pensato che ogni colonia deve avere un’anima (Marais).
Ci sono specie che riescono a colpirci per la loro capacità di “godersi la vita e divertirsi”. Pensiamo alle lontre, le quali si rotolano gaie nella neve, ai leoncini che si danno la caccia e ai nostri cani e gatti.
Con gli altri animali condividiamo inoltre la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del nostro cervello. Affermare- come fa il neuroscienziato Gazzaniga- che siamo “differenti” e unici nel regno animale, è una cosa ovvia, quasi banale.
Sta di fatto che gli animali presentano sin dalla loro comparsa istinti innati. I pulcini, ad esempio, appena usciti dal guscio sembrano avere la “permanenza” degli oggetti (Regolin). Piccoli cuccioli di Labrador possono seguire lo sguardo dei loro padroni (Coppinger). I cavalli sanno controllare i propri muscoli abbastanza bene da saper camminare già pochi minuti dopo la nascita. Anche i comportamenti più complessi sembrano innati. Nella danza di corteggiamento del maschio di un moscerino della frutta, per esempio, il piccolo animale esegue una sequenza di eventi che non ha mai visto prima.
I riflessi di auto-igiene di molti animali obbediscono spesso a comportamenti prefissati. Un topo inizia con il capo, procede verso il tronco e la regione ano-genitale e finisce con la coda (Sachs). Molti, forse tutti, gli animali non solo nascono con la capacità di percepire e agire, ma anche con la capacità di imparare e di utilizzare le esperienze passate per migliorare i comportamenti futuri (Marcus). Un comportamento che Marler ha definito “l’istinto a imparare”.
Il mondo animale- afferma Gallistel- è pieno di attitudini all’apprendimento. Pensiamo al comportamento di un uccello chiamato “ministro”, il quale usa le stelle come una carta nautica per trascorrere l’estate negli Stati Uniti e svernare alle Bahamas. Le api a loro volta utilizzano un meccanismo di apprendimento per aiutarsi a comprendere dove stiano andando, basandosi sulla traiettoria del sole. Due studiosi dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di riflettere sui propri pensieri. Capacità che viene chiamata metacognizione.Gli studi di Kandel sulla lumaca marina “Aplysia” sono stati fondamentali per indagare le basi neurali dell’apprendimento e della memoria. Anche la ricerca sul Moscerino della frutta “Drosophila” è stata determinante ai fini della conoscenza del comportamento e del funzionamento del cervello.



Ci sono comportamenti comuni che condividiamo con altre specie. Ci arrabbiamo di fronte alle violazioni di proprietà o agli attacchi alla nostra coalizione intenta a raccogliere cibo, proprio come fanno i cani e gli scimpanzé. In questo senso, noi diciamo che alcuni animali possiedono una “moralità imitativa” (Gazzaniga). La principale differenza consiste nel fatto che gli esseri umani possiedono una maggiore qualità, quantità e varietà di emozioni morali, come per esempio, la vergogna, il senso di colpa, il disgusto, il disprezzo, l’empatia, la compassione, nonché una maggiore varietà di comportamenti.
La ricerca mostra che in realtà esiste la possibilità che alcune capacità che sottendono la nostra facoltà morale siano presenti in animali non umani. Gli animali provano emozioni che motivano azioni che “possiedono una specificità morale”, come aiutare, danneggiare gli altri, così come riconciliare le differenze allo scopo di “ottenere un po’ di pace” (Hauser).
Intendiamo per empatia un sistema simile a quello dei neuroni specchio, che implica la capacità di provare la stessa cosa che prova qualcun altro. L’evidenza di forme di auto riconoscimento nei delfini denota un nesso tra imitazione, empatia e senso del sé. Anche agli elefanti vengono associati comportamenti sociali e comportamenti empatici.

Alcuni esperimenti condotti hanno riscontrato che se provvisti di matite o colori, gli scimpanzé si appassionavano nell’utilizzarli, fino al punto di trascurare addirittura “i loro cibi preferiti”. Ad alcuni di essi piace disegnare. Una serie di dipinti fatti da uno scimpanzé è stata venduta all’asta per “dodicimila sterline” (Gazzaniga). In letteratura scientifica c’è anche il caso dell’uccello giardiniere, che ha “eccellenti doti” di architetto e artista, in quanto per attirare la femmina costruisce grandi giardini multicolori di steli intrecciati (Ramachandran).

Per ansia, intendiamo una normale risposta innata a una minaccia o all’assenza di persone o di oggetti che assicurino o trasmettano sicurezza. Essa si manifesta in forma sia soggettiva- che va da un accentuato stato di vigilanza al senso di catastrofe imminente- che oggettiva come marcata reattività, stato di irrequietezza, modificazioni neurovegetative (variazione della frequenza cardiaca e della pressione del sangue).
L’ansia può avere un valore di adattamento, preparandoci ad affrontare un potenziale pericolo e a farci superare circostanze difficili. Quando diventa forte e persistente, l’ansia è patologica. Questa patologia inoltre è una componente dei disturbi psicotici e nevrotici.
Il disturbo d’ansia è stato studiato, impiegando modelli animali. L’ansia è una condizione tipicamente umana, ma è stato scoperto che anche animali meno complessi possono apprendere una risposta ansiosa. Forme d’ansia sono state studiate in animali come i ratti e le scimmie. Quello che è sorprendente è la scoperta di Kandel, neuro scienziato e premio Nobel, che anche animali più semplici, come la lumaca marina, “Aplysia”, vanno incontro a modificazioni comportamentali.
In modo simile a quanto avviene nell’uomo, gli animali mostrano comportamenti che evocano l’ansia anticipatoria (la paura). Recenti scoperte mostrano che “qualunque” forma di ansia si manifesta in “qualunque” animale (Kendal). Grande rilievo assumono gli esperimenti condotti sui roditori. Si è scoperto che i cuccioli di topo manifestano comportamenti reattivi alla separazione, consistenti in ripetuti richiami, in un comportamento agitato e di disperazione, nella tendenza a pulirsi compulsivamente il pelo, nella perdita di calore, nella perdita di cibo e nella perdita di stimolazione tattile (Hofer).
Gli esperimenti hanno poi dimostrato che la maggior parte degli animali, tra cui l’uomo, possiede un repertorio di comportamenti difensivi innati. Prima Pavlov poi Freud hanno riconosciuto che l’ansia può essere appresa e acquisita, e conservata tramite la memoria, senza tuttavia escludere il contributo di una predisposizione genetica. Gli animali dunque possono imparare varie forme di ansia come l’ansia anticipatoria e l’ansia cronica.
Non solo il cane e l’uomo, ma la maggior parte dei primati mostrano sintomi di paura e di disgusto nei confronti dei serpenti. L’odio verso i rettili ha un’origine biologica. Questa avversione viene motivata dal fatto che i serpenti evocano una particolare e intrinseca sensazione di repulsione attivata dai sistemi cerebrali di predisposizioni innate. Queste producono ansietà e paura, presentano varie implicazioni di pericolo e di violenza e favoriscono il rilascio di adrenalina, dando l’avvio a comportamenti di fuga o di combattimento.

Sull’ intelligenza e sul processo di apprendimento degli animali in generale, e del cane in particolare, importanza fondamentale assume la scoperta di Pavlov della “reazione condizionata”, cioè dei riflessi psichici. Con questa scoperta, consistente nell’apprendimento di un’associazione da parte del cane tra il suono di una campanella e la comparsa del cibo, aspettandosi il cibo ogni volta che sentiva la campanella, Pavlov diede la spinta allo sviluppo della moderna teoria dell’apprendimento e al movimento behavioristico in psicologia. Egli è perciò considerato lo studioso che dopo Freud ha maggiormente influenzato la psicologia contemporanea.
Gli esperimenti successivi di Tinkelpaugh mostrano che il cervello del primate si è evoluto per fissare “aspettative”. Molti scienziati poi hanno cercato di “decodificare” cosa dicono e cosa provano gli animali quando comunicano. Fin dai tempi di Darwin sappiamo che gli animali provano emozioni. Il cane che abbaia, il gatto che fa le fusa, o una scimmia che urla esprimono emozioni.
Il problema è sapere tuttavia se le nostre interpretazioni riflettono veramente le esperienze soggettive dell’animale. La paura ad esempio è uno stato emotivo che provano molti animali, forse a causa del ruolo “adattativo” nell’evitare i predatori e i rivali (Hagan).
Diversamente dagli esseri umani e dalle scimmie, i topi non possiedono un’espressione del viso tipica della paura. Rispondono immobilizzandosi. Nel processo di addomesticamento, gli animali devono perdere sia la paura degli uomini sia la propria tendenza a essere aggressivi. Osservando gli animali addomesticati come i cani, i gatti e molti animali che vivono nelle fattorie, è emersa una generale riduzione dell’aggressività.
I cani sono creature giocose e nel corso dell’evoluzione hanno utilizzato gesti ludici che guidano il gioco, compresi gli inviti a giocare e il segnale che l’intenzione è amichevole e non aggressiva.
La fiorente ricerca sulla lettura della mente negli animali presenta in proposito un quadro sempre più simile ai comportamenti dei bambini. Esistono analogie sorprendenti nel modo in cui gli animali elaborano come i bambini le azioni e le emozioni.
Cani e uccelli e le specie più vicine come le scimmie mostrano un’attenzione condivisa, una lettura degli scopi e delle intenzioni, nonché dell’uso della vista per tracciare inferenze sulla conoscenza.

Sono stati riscontrati comportamenti intelligenti negli animali, anche se non possono essere assimilati a quelli dell’uomo.
Nelle sue ricerche sui cani, Stanley Coren collega i comportamenti intelligenti dei cani alla lunga convivenza con l’uomo, cioè ad una forma di adattamento funzionale del cane all’uomo.
Si riconosce che forme di ragionamento elementare sono presenti in altri esseri viventi non umani e che forme di comunicazione sono ugualmente presenti in altri esseri viventi non umani. Da ricerche effettuate e da osservazioni empiriche si hanno riscontri precisi su comportamenti, circa intelligenti, diffusi un po’ dovunque nel mondo animale. Questi comportamenti presuppongono una qualche forma di attività da parte di un organo cerebrale che nell’uomo assume il nome di mente.
Oggi, la concezione di molti autori è orientata sulle simmetrie esistenti tra gli esseri viventi più che sulle asimmetrie. Tutti i processi di vita vengono, infatti, assunti come il risultato dell’evoluzione. La quale ha interessato tutti gli esseri del mondo, una linea di continuità che lega e attraversa tutti gli esseri viventi.
Riconoscere tuttavia comportamenti tipicamente “umani” nel mondo animale non deve significare misconoscere ciò che costituisce lo specifico dell’essere dell’uomo. La differenza tra gli esseri del mondo animale è determinata dalla presenza nell’uomo della capacità di pensare e parlare. Capacità che è all’origine del passaggio dell’uomo dall’animalità all’umanità. Una condizione assente nel mondo animale non umano o, se presente, del tutto diversa quanto a modalità di espressione e di apprendimento.
Esistono poi anche notevoli differenze comportamentali e intellettive tra le diverse razze di cani. Alcuni reperti ossei inoltre rinvenuti negli Usa indicano che la convivenza tra umani e cani risale a circa 11 mila anni orsono.
Sussistono diversi livelli di intelligenza nei cani. Coren suddivide l’intelligenza canina in tre categorie: quella istintiva, che il cane possiede dalla nascita; quella di adattamento, che dipende dalla capacità di imparare dall’ambiente e quella di ubbidienza, che è l’equivalente dell’apprendimento scolastico. Esiste anche un altro livello di intelligenza nei cani: la loro abilità a farsi capire e a capirci.
Cè una sterminata letteratura in materia di intelligenza: intendiamo la facoltà di comprendere prontamente, ovvero l’atto di capire, distinguere e risolvere problemi.
Il primo a porsi il problema sull’intelligenza dei cani fu Aristotele, il quale sosteneva che essi differiscono dall’uomo solo nel grado di possesso delle doti mentali, ammettendone così l’intelligenza. Il filosofo greco descrisse fra l’altro il comportamento alimentare delle api e il comportamento riproduttivo dei cefalopodi.
Darwin ha sostenuto che “i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà delle quali l’uomo va fiero, come amore, memoria, attenzione, curiosità, imitazione, ragione eccetera possono essere riscontrate in una fase incipiente e talora persino sviluppata negli animali inferiori”.
Secondo alcuni ricercatori, l’intelligenza del cane non è altro che un insieme di abilità mentali primarie ciascuna delle quali viene considerata come una facoltà a se stante.
Lo psicologo Howard Gardner, a sua volta, distingue sette intelligenze di cui alcune sono possedute anche dal cane.
L’intelligenza spaziale, che consiste nella capacità di avere presente l’organizzazione di quanto ci circonda, come ad esempio, il luogo in cui si trovano gli oggetti o la distanza fra due punti. Il cane sa localizzare oggetti, evitare luoghi pericolosi, trovare la via più breve verso la cuccia, aprire un chiavistello, rammentare dove si trova il suo giocattolo o il guinzaglio.
L’intelligenza corporeo-cinestetica corrisponde alla capacità di muovere il corpo in risposta alle varie situazioni: scrivere, fare sport, cacciare o per quanto riguarda il cane, entrare nei cespugli, salire sulle scale a pioli, partecipare a gare di agilità, ecc.
L’intelligenza interpersonale svolge determinati compiti o ruoli, come per esempio quello di capobranco. Essa si rivela anche quando il cane inizia a socializzare con altri o tenta di comunicare i propri bisogni.
L’intelligenza linguistica. Quando si chiama il cane o gli si dà determinati ordini ci accorgiamo che il nostro cucciolo possiede proprio tale capacità linguistica. Il cane poi riconosce il linguaggio del corpo anche in relazione alle emozioni e alle diverse situazioni sociali. Di fronte a un individuo arrabbiato, si mette quieto o addirittura se ne va.
Le ricerche hanno dimostrato inoltre che le capacità mentali dei cani equivalgono a quelle di un bambino di 2-2,5 anni. I più intelligenti sono considerati i Border Collie, al secondo posto c’è il barboncino e solo al terzo posto il pastore tedesco. Il Doberman occupa la quinta posizione, mentre al Labrador viene assegnato il settimo posto.
I cani possono imparare 165 parole, sono capaci di cantare e di imbrogliare deliberatamente i loro simili e gli umani.
Essi si interessano a quello che pensano gli uomini, sono capaci di osservare un individuo, prestando attenzione a dove sta guardando (Hare). I cani infine hanno senza dubbio capacità sociali migliori di altri animali e sono in grado di capire gli sguardi meglio degli scimpanzé.

Dai tempi della domesticazione, il cane ha servito l’uomo, mettendogli al servizio le sue innumerevoli doti fisiche, psichiche e soprattutto la fedeltà, che rimane un po’ il tratto caratteristico di questa specie.
Il più antico caso di domesticazione degli animali che si conosca risale a oltre 10 mila anni fa, quando resti umani e di cane compaiono per la prima volta nello stesso luogo di sepoltura. La domesticazione presenta una serie di caratteristiche come tendenza ad avere orecchie più flosce, il pelo ondulato o riccio e la coda più corta dei loro simili selvatici. Un’altra sua rilevante conseguenza è la diminuzione delle dimensioni del cervello.
Tutte le questioni esaminate nel presente lavoro confermano dunque che nella ricostruzione del cammino percorso negli ultimi anni le neuroscienze ci forniscono risposte chiare e convincenti, comunque scientificamente verificabili.
Così, sappiamo che ogni animale, come ogni essere umano, ha una sua personalità. Una scoperta sensazionale è che non solo gli animali presentano tratti individuali nel comportamento, ma le variabili caratteriali nel tempo possono mutare. Si assume inoltre che le caratteristiche di personalità- l’individualità- sono modellate e rimodellate da fattori poligenici, dallo sviluppo e dall’esperienza e costituiscono altresì una condizione essenziale per la sopravvivenza di ciascuna specie (Aamodt e Wang).

Riguardo all’amore e al sesso negli animali, gli studiosi parlano di “legame di coppia”, non di amore. Una ricerca tuttavia ha scoperto che l’arvicola della prateria, un piccolo roditore, rimane con lo stesso compagno tutta la vita. Un fatto inconsueto, poiché solo il 3-5 per cento dei mammiferi è monogamo. Entrambi i genitori si occupano della prole e quando un’arvicola rimane sola, di solito rifiuta di prendere un altro compagno.
Il legame di coppia è controllato da due neurotrasmettitori, l’ossitocina e la vasopressina, e si forma anche per mezzo dell’apprendimento condizionato, come ad esempio l’odore del partner. Esistono poi evidenze che mostrano come gli stessi circuiti neurali coinvolti nella creazione del rapporto di coppia siano alla base anche dell’attaccamento delle madri ai figli. Per il legame tra madre e figlio è, infatti, necessaria l’ossitocina.
Le scoperte in questo campo rivelano che oltre all’ossitocina anche i circuiti cerebrali della gratificazione sono elementi importanti sia per il legame di coppia sia nell’innamoramento. Secondo gli studi di Insel sembra che anche le pecore abbiano bisogno di ossitocina per formare l’attaccamento fra madre e prole, mentre i topi no. Fra gli scimpanzé, i legami di coppia sono sconosciuti probabilmente perché le regioni del loro cervello contengono meno recettori per l’ossitocina.
Nel 1992 William Jankowiak studiò 168 diverse culture etnografiche e non trovò nessuna che non conoscesse “l’amore romantico”. Queste ricerche confermano in sostanza quanto sostenuto da William Janes, e cioè che l’amore sia un istinto evoluto per selezione naturale e faccia parte del patrimonio della nostra specie proprio come “il possesso di quattro arti e di una mano con cinque dita”. I dati della ricerca poi provano che sebbene la poligamia sia ammessa nella maggior parte delle società, a prevalere siano le relazioni monogame, e nel fatto che gli esseri umani praticano “cure parentali”.
Nella ricerca delle differenze sessuali le più studiate sono quelle che hanno a che fare con la formazione della coppia. Sono emerse molte somiglianze. Entrambi i sessi desideravano partner intelligenti, onesti, degni di fiducia e cooperativi. Ma sono emerse anche alcune differenze. Le donne preferivano uomini più vecchi di loro, ambiziosi e con uno status alto. Agli uomini piacevano donne belle, giovani e fedeli. Questi studi provano che le somiglianze e le differenze fra i sessi siano universali (Buss). In una indagine sui fattori che determinano il comportamento sessuale negli esseri umani e negli animali, lo psicologo Diamond ha rilevato che i ruoli sessuali non sono il frutto di esperienze precoci, come sostenuto dal suo collega Money, ma innati. “Il più grande organo sessuale si trova- sostiene Diamond- in mezzo alle orecchie e non fra le gambe”. Nello storico e dibattuto confitto eredità-ambiente, la nostra concezione è per il superamento di entrambe le posizioni. Noi sosteniamo che l’identità sessuale è determinata sia da influenze ambientali e socio-culturali che da una base innata, istintiva, genetica.
Il comportamento sessuale è controllato dall’ipotalamo, un’area del cervello importante anche per altre funzioni fondamentali come mangiare, bere e regolare la temperatura corporea. Sembra inoltre che l’attivazione del comportamento sessuale in età adulta dipenda dal testosterone, l’ormone associato alla libido sia nei maschi che nelle femmine, nonché da tutta una serie di modelli comportamentali e di rapporti sociali.
Una ricerca effettuata da scienziati olandesi ha studiato l’attività del cervello durante l’orgasmo con i metodi di neuro imaging. Si è scoperto che in entrambi i sessi durante l’orgasmo si attivava il sistema di gratificazione del cervello e aumentava l’attività nel cervelletto, che di recente è stato collegato “all’eccitazione emotiva e alla sorpresa sensoriale” (Aamodt e Wang).




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