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mercoledì 4 marzo 2015

MILANO & CRIMINI : ASSASSINIO DI WALTER TOBAGI

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Walter Tobagi (San Brizio di Spoleto, 18 marzo 1947 – Milano, 28 maggio 1980) è stato un giornalista e scrittore italiano, che venne assassinato in un attentato terroristico perpetrato dalla Brigata XXVIII marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra.

Walter Tobagi nacque il 18 marzo 1947 a San Brizio, una frazione del comune di Spoleto, in Umbria. All'età di otto anni la famiglia si trasferì a Bresso, vicino a Milano, poiché il padre Ulderico era un ferroviere. La sua carriera di giornalista cominciò al ginnasio, come redattore del giornale del Liceo Parini di Milano La zanzara, reso famoso per un processo provocato da un articolo sull'educazione sessuale.

Al Corriere della Sera Tobagi seguì sistematicamente tutte le vicende relative agli «anni di piombo»: dai tempi degli autoriduttori che disturbavano le Feste dell'Unità agli episodi di sangue più efferati con protagoniste le Br, Prima Linea e le altre bande armate. Analizzando le vicende luttuose del terrorismo risaliva alle origini di Potere operaio, con la galassia delle storie politiche e individuali sfociate in mille gruppi, di cui molti approdati alle bande armate.

In Vivere e morire da giudice a Milano Walter raccontò la storia di Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica, assassinato a 36 anni da Prima Linea in un agguato: un magistrato che si era particolarmente distinto nelle indagini sui gruppi estremisti di destra e, successivamente, su quelli terroristi di sinistra. Anche Alessandrini era un «personaggio simbolo». Scrisse Tobagi: «Alessandrini rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli». Osservò inoltre che i terroristi prendevano di mira soprattutto i riformisti, condividendo il giudizio che lo stesso Alessandrini aveva espresso in un'intervista all'Avanti!: «Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società». Un giudizio che doveva trovare una tragica conferma proprio con la uccisione di Tobagi.

Negli ultimi articoli intensificò le analisi su certe realtà urbane a Milano, a Genova, a Torino («Come e perché un 'laboratorio del terrorismo' si è trapiantato nel vecchio borgo del Ticinese», «Vogliono i morti per sembrare vivi», «Bilancio di 10 miliardi all'anno per mille esecutori clandestini», ecc.). Non trascurò il fenomeno del pentitismo, con tutti gli aspetti anche negativi, e studiò il terrorista nella clandestinità, («C'è una regola dei due anni, termine ultimo oltre il quale non resiste il Br clandestino»). E siamo dunque a uno dei suoi ultimi articoli sul terrorismo, un testo che è stato ripubblicato molte volte perché considerato uno dei più significativi sin dal titolo: «Non sono samurai invincibili».

Tobagi sfatò tanti luoghi comuni sulle Br e gli altri gruppi armati, denunciando, ancora una volta, i pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, come molti segnali gli avevano indicato. Scrisse, ad esempio:

« La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l'immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull'organizzazione e sulla linea del partito armato »
Le sue opinioni risultano confermate anche in un'altra significativa intervista al figlio di Carlo Casalegno, Andrea. In quell'intervista, concessa un mese prima dell'uccisione di Tobagi, Casalegno disse: «Non sento la benché minima traccia di odio, né provo alcun perdono cristiano. Sento l'offesa come nel momento in cui è avvenuta». L'intervistatore chiese se riteneva giusto denunciare i «compagni di lotta». E Andrea Casalegno rispose senza reticenze: «La denuncia è importante e va fatta se serve a evitare atti futuri gravi. È un dovere, perché è assolutamente necessario impedire che vittime innocenti cadano ancora».

La sera prima di essere assassinato, Walter Tobagi presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano. Si discuteva del «caso Isman» e dunque della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle bande terroristiche. Il dibattito fu piuttosto agitato e l'inviato del Corriere fu fatto oggetto di ripetute aggressioni verbali, cosa non nuova, del resto, come ha raccontato il suo collega ed amico Gianluigi Da Rold:

« Negli anni del suo impegno professionale e come responsabile sindacale dei giornalisti lombardi, Walter Tobagi viene violentemente attaccato, più di una volta, sia dalla parte comunista della redazione del Corriere, sia dai giornalisti di altre testate milanesi di cosiddetta "area comunista." »
A un certo punto, durante quel dibattito, Tobagi, riferendosi alla lunga serie di attentati terroristici, disse: «Chissà a chi toccherà la prossima volta». Dieci ore più tardi era caduto sull'asfalto sotto i colpi dei suoi assassini. Lasciava la moglie, Maristella, e due figli, Luca e Benedetta.

Tobagi venne ucciso alle 11 di mattina del 28 maggio 1980 con cinque colpi di pistola da un "commando" di terroristi (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano), buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. Due membri del commando in particolare appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Il Giorno Morando Morandini.

A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone. È quest'ultimo a dargli quello che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto essere il colpo di grazia: quando Tobagi era ormai accasciato a terra, il terrorista gli si avvicinò e gli esplose un colpo dietro l'orecchio sinistro. In realtà, da come risulta dall'autopsia, il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpendo il cuore causò la morte del giornalista.

Nel giro di pochi mesi dall'omicidio, le indagini di Carabinieri e magistratura portarono all'identificazione degli assassini, ed in particolare a quella del leader della neonata Brigata XXVIII marzo, lo stesso Marco Barbone. Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone decise di collaborare con gli inquirenti; grazie alle sue rivelazioni l'intera Brigata XXVIII marzo fu smantellata e furono incarcerati più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone venne in contatto nel corso della sua breve ma intensa "carriera" terroristica.

Le 102 udienze di quello che fu un maxi-processo all'area sovversiva di sinistra iniziarono il 1º marzo 1983 e terminarono 28 novembre dello stesso anno. La sentenza suscitò molte polemiche poiché il giudice Cusumano, interpretando la legge sui pentiti in modo difforme rispetto al Tribunale di Roma (dove furono comminate comunque pene a oltre vent'anni di carcere ai terroristi pentiti delle Unità comuniste combattenti), concesse a Marco Barbone, Mario Ferrandi, Umberto Mazzola, Paolo Morandini, Pio Pugliese e Rocco Ricciardi «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l'immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa», mentre agli altri membri della XXVIII marzo, De Stefano, Giordano e Laus, furono inflitti trent'anni di carcere.

Le indagini non hanno chiarito il ruolo svolto dalla fidanzata di Marco Barbone, Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Nel 1978, cioè ben due anni prima dell'omicidio, Caterina Rosenzweig aveva lungamente pedinato Tobagi, che era anche suo docente di storia moderna all'Università Statale di Milano. Anche se nel settembre 1980 viene arrestata insieme con gli altri, Caterina verrà assolta per insufficienza di prove, nonostante nel corso del processo venga accertato che il gruppo di terroristi si riuniva a casa sua in via Solferino, a poca distanza dagli uffici dove lavorava Tobagi. Dopo il processo si trasferirà in Brasile, dove si perdono le sue tracce.

LEGGI ANCHE : asiamicky.blogspot.it/2015/02/milano-citta-dell-expo-conosciamola.html


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MILANO & CRIMINI : SEQUESTRO IDALGO MACCHIARINI

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La filiale italiana di Siemens nasce a Milano il 1º aprile 1899 come Società Italiana Siemens per Impianti Elettrici Anonima.
Le attività iniziano con la gestione di società elettriche e si evolvono sino al 1918 con la costruzione di centrali elettriche ed elettrificazione di linee ferroviarie.
Negli anni venti comincia la produzione di apparecchi telefonici mentre negli anni trenta si cominciano a commercializzare i primi apparati per trasmissione dati: telescriventi ed impianti per la trasmissione immagini.
Durante gli anni quaranta, con gli eventi bellici della seconda guerra mondiale, la società viene posta sotto amministrazione giudiziaria: la produttività viene a diminuire ma comincia a segnare un rilancio verso la fine del decennio.
Nel decennio 1959 - 1968 inizia la penetrazione nel settore dei calcolatori.

Al 2006 Siemens in Italia contava quasi 10 000 addetti con un fatturato di circa 3,8 miliardi di euro ed attività diversificate dall'automazione industriale e civile, all'energia, trasporti, medicale e sistemi d'illuminazione. La sede Siemens si trovava sempre a Milano nelle vicinanze dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.

In Italia Nokia Siemens Networks ha sede a Cinisello Balsamo, mentre le unità di Cassina de' Pecchi e Marcianise sono state cedute il 1º novembre 2007.

Il 3 marzo 1972 Idalgo Macchiarini, definito uno dei piú odiati dirigenti della Sit-Siemens, viene sequestrato all'uscita dall'ufficio da un nucleo di tre brigatisti rossi (tute blu, giubbotti, volto coperto da passamontagna, secondo il "Corriere"). Spinto in un furgoncino e quindi ammanettato, viene sottoposto, nel corso di un breve "processo politico," ad un interrogatorio nel ruolo di imputato. Sarà abbandonato, dopo una ventina di minuti, con al collo un cartello: "BRIGATE ROSSE - MORDI E FUGGI! - NIENTE RESTERÀ IMPUNITO! - COLPISCINE UNO PER EDUCARNE CENTO! - TUTTO IL POTERE AL POPOLO ARMATO!"
Di questa azione le BR forniranno una fotografia, scattata all'interno del carcere-furgone, che rappresenta l'imputato con il cartello al collo e due pistole puntategli contro. Sotto, la didascalia: "Milano 3-3-72, Macchiarini Idalgo, dirigente fascista della Siemens, processato dalle BR. I proletari hanno preso le armi, per i padroni è l'inizio della fine.”
Viene diffuso un volantino in cui, rifacendo il verso al linguaggio dei poliziotti, si dà notizia dell`arresto," del "processo" e del "rilascio in libertà provvisoria":

Venerdí alle ore 9 le BRIGATE ROSSE hanno arrestato di fronte allo stabilimento della SitSiemens il dirigente IDALGO MACCHIARINI. Dopo averlo processato, lo abbiamo consigliato a lasciare al piú presto la fabbrica e quindi rilasciato in libertà provvisoria.
Alcuni si chiederanno "perché proprio Macchiarini." In fondo pur essendo il primo responsabile dell'organizzazione del lavoro dello stabilimento e quindi responsabile dei livelli di sfruttamento che colpiscono oltre 3.000 operai o dei provvedimenti disciplinari, egli è solo il numero 3 della LINEA DURA NEOFASCISTA che da oltre un anno si è affermata nella fabbrica e che vede in VILLA e MICCINELLI i battistrada e in TORTAROLO "pesce piú piccolo," il gregario provocatore.

Macchiarini difatti è un DURO di quelli che ad ogni passo ripetono "GLI OPERAI VANNO TRATTATI CON LA FRUSTA, SE NO SONO SEMPRE LI' A RIVENDICARE."
Macchiarini però è anche un SAGGIO, egli sa che le forze reazionarie che fanno capo a quel PICCOLI, ministro delle Partecipazioni statali e fiero sostenitore della destra nazionale, lo considerano "patrimonio intoccabile della nazione." Per questo egli le sostiene con le parole e coi fatti.
Macchiarini, per concludere, è quel che si dice UN TIPICO NEOFASCISTA: un neofascista in camicia bianca, e cioè una camicia nera dei nostri giorni.
Macchiarini dunque, a suo modo e al suo livello, è un responsabile della guerra che la borghesia ha scatenato su tutti i fronti e su tutti gli aspetti della vita produttiva e sociale delle masse.
Per questo abbiamo inteso render celebre, "celebrando" la sua mediocrità, questo funzionario della reazione che, a differenza delle SAM (commandos terroristici della provocazione fascista), non butta bombe contro lapidi partigiane o sedi di partiti democratici ma colpisce direttamente, quotidianamente, con metodo, la classe operaia al suo cuore: la colpisce nella sua lotta incessante per la sopravvivenza e il potere.
Questo processo proletario a Macchiarini è però anche un avvertimento a tutti gli altri - in qualunque fabbrica o in qualsiasi parte del paese prestino servizio - che:

Alla guerra rispondiamo con la guerra
Alla guerra su tutti i fronti con la guerra su tutti i fronti
Alla repressione armata con la guerriglia

Nessuno tra i funzionari della controrivoluzione antioperaia dorma piú sonni tranquilli; nella grande città dello sfruttamento non c'è porta che non si possa aprire e le "forze dell'ordine" (pubbliche e private) per quanto numerose già siano e per quanto numerose ancora possano diventare:

Nulla possono contro la guerriglia proletaria!
Mordi e fuggi!
Niente resterà impunito!
Colpiscine uno per educarne 100!
Tutto il potere al popolo armato

3 marzo 1972


per il comunismo
BRIGATE ROSSE

Appena rilasciato in "libertà provvisoria," Macchiarini sottolinea insistentemente con dichiarazioni pubbliche la brutalità dei propri aggressori, i quali tuttavia all'indomani del sequestro si comporteranno da "gentlemen" restituendo, non senza ironia, l'orologio "del detenuto da questi perso durante il vano tentativo di divincolarsi.”
Nella lettera che accompagna l'orologio, inviata al "Corriere della Sera," si precisa che il dirigente "non è stato oggetto di violenze fisiche, salvo quelle indispensabili" e che a proposito di presunte minacce all'indirizzo dei familiari del Macchiarini, le dichiarazioni rese alla stampa "sono insensate e frutto di irrazionale terrore."
Tempestivo giunge da parte del sindacato il rituale comunicato di "condanna severa e dura.


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