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mercoledì 6 luglio 2016

LA PROVINCIA DI MONZA E DELLA BRIANZA

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La provincia di Monza e della Brianza è una provincia istituita l'11 giugno 2004, e divenuta operativa nel giugno 2009 con l'elezione del primo consiglio provinciale. La provincia di Monza e della Brianza è nata dallo scorporo di una porzione di territorio della allora provincia di Milano (ora Città Metropolitana).

Capoluogo della provincia è Monza, già residenza estiva del regno longobardo all'epoca di Teodolinda e Agilulfo e la popolazione complessiva dei 55 comuni inglobati è di oltre 858.000 abitanti. Con un'estensione di 405,49 km² è la terza provincia più piccola d'Italia, preceduta solo da quella di Prato e da quella di Trieste, ma la seconda, dopo la città metropolitana di Napoli, come densità di popolazione e la ventunesima su 110 come popolazione.

La superficie urbanizzata della provincia di Monza e della Brianza è più alta rispetto alla media delle province italiane: l'indice medio di consumo di suolo, calcolato come rapporto tra superficie urbanizzata e superficie totale, supera infatti il 53%, la più alta percentuale fra le province lombarde. I comuni più urbanizzati sono Lissone, Vedano al Lambro e Bovisio Masciago, che arrivano anche a superare l'80% di indice di consumo di suolo.

La provincia di Monza e della Brianza confina a nord con la provincia di Lecco e con la provincia di Como, a ovest con la provincia di Varese, a est con la provincia di Bergamo e con la città metropolitana di Milano, con cui confina anche a sud.

La provincia di Monza e della Brianza sorge nell'alta pianura lombarda occidentale, al margine meridionale della Brianza. Il suo territorio è attraversato principalmente dal fiume Lambro nel capoluogo, dal Seveso, dall'Adda e dal torrente Molgora nei comuni circostanti.

La provincia di Monza e della Brianza ha assunto proprio questa denominazione ufficiale, anziché quella di provincia di Monza o di Monza-Brianza, perché risulta essere una provincia composta. Infatti è costituita:da Monza e da una parte del monzese storico;
dai comuni della bassa Brianza, "quella ex milanese", cioè la maggioranza relativa dell'intero territorio della Brianza.
La nuova provincia è schematicamente suddivisibile in diverse zone:
Monza, terza città della Lombardia per numero di abitanti, e parte del monzese storico.
Bassa Brianza occidentale, corrispondente in parte alla valle del fiume Seveso;
Bassa Brianza centrale nord e sud, corrispondente in parte alla valle del fiume Lambro;
Bassa Brianza orientale, corrispondente in parte alla valle del torrente Molgora.

Sono compresi nella zona della bassa Brianza occidentale i comuni di Barlassina, Bovisio-Masciago, Ceriano Laghetto, Cesano Maderno, Cogliate, Lazzate, Lentate sul Seveso, Limbiate, Meda, Misinto, Seveso e Varedo.

Sono compresi nella zona della bassa Brianza centrale nord i comuni di Albiate, Besana in Brianza, Briosco, Carate Brianza, Correzzana, Giussano, Renate, Triuggio, Veduggio con Colzano e Verano Brianza.

Sono compresi nella zona della bassa Brianza centrale sud i comuni di Biassono, Desio, Lesmo, Lissone, Macherio, Muggiò, Nova Milanese, Sovico e Vedano al Lambro.

Il comune di Seregno, confinante fra l'altro con i comuni di Lissone e Desio, è appartenente alla bassa Brianza centrale sud, anche se alcuni lo attribuiscono alla bassa Brianza occidentale ed altri ancora alla bassa Brianza centrale nord.

Sono compresi nella zona della bassa Brianza orientale i comuni di Agrate Brianza, Aicurzio, Arcore, Bellusco, Bernareggio, Burago di Molgora, Busnago, Camparada, Caponago, Carnate, Cavenago di Brianza, Concorezzo, Cornate d'Adda, Mezzago, Ornago, Roncello, Ronco Briantino, Sulbiate, Usmate Velate e Vimercate.

La provincia di Monza e della Brianza ha indetto nell'anno 2011 un concorso artistico di idee per la realizzazione del proprio stemma. Nella seduta del Consiglio Provinciale di giovedì 13 ottobre 2011, con 22 preferenze su 29, è stato scelto il progetto presentato dal designer Lucio Brugiatelli. L'elemento simbolico rappresenta uno stemma araldico, il concept fa riferimento al significato di Brianza che deriva dal termine celtico «brig» (colle) e dalla conformazione della zona, ricca di fiumi. Il simbolo celtico di base è il Triscele, inscritto in uno scudetto, ed è stato scelto proprio per la forma geometrica che rappresenta in modo iconografico il territorio diviso dal percorso di fiumi. La giunta provinciale dal febbraio 2012, in seguito all'aggiornamento dello Statuto dell'Ente ed agli affinamenti tecnico-grafici necessari, ha ufficialmente utilizzato tale stemma.

Il vecchio logo identificativo adottato dalla provincia di Monza e della Brianza rappresentava un quadrato, come una finestra aperta sul territorio. Un simbolo aperto che ricorda le infrastrutture, la linearità della produzione industriale, il senso dell'ordine, della dinamicità della produttività. Il simbolo riassume in sé le principali radici identitarie che caratterizzano la Brianza: dal tema del paesaggio, al valore dell'associazionismo e del volontariato, fino al “saper fare” espresso dal mondo imprenditoriale.

Le principali parlate locali sono raggruppabili nel dialetto brianzolo (cui sono apparentati il dialetto di Monza o münsciasch ed i dialetti del monzese storico). Il dialetto brianzolo fa parte del ramo occidentale dei dialetti della lingua lombarda.

Nella giurisdizione ecclesiastica della Chiesa cattolica, il territorio della nuova provincia fa parte dell'arcidiocesi di Milano. Questa segue lo specifico rito ambrosiano, a cui aderisce anche la zona della Brianza, storicamente più legata a Milano. Mentre i comuni del "monzese storico": Monza, Brugherio, Villasanta ma anche Cornate d'Adda, Busnago e Roncello, in considerazione di vicende storiche complesse ed una spiccata volontà di autonomia e diversità nei confronti di Milano, seguono invece il rito romano. Le chiese e cappelle del Parco di Monza sono suddivise tra i due riti seguendo il tracciato di viale Cavriga, che unisce le due porte principali del Parco, quella di Monza e quella di Villasanta, a nord seguendo il rito ambrosiano e a sud quello romano: ciò è dovuto al fatto che solo la zona a sud del viale faceva originariamente parte del territorio comunale monzese, mentre la parte a nord vi fu aggiunta distaccandola dai comuni contigui su decreto di Napoleone in occasione della creazione del parco.

Il 3 ottobre 2009, con solenne celebrazione nel Duomo di Monza presieduta dal cardinale Dionigi Tettamanzi, all'epoca arcivescovo di Milano, il decano mons. Silvano Provasi ha annunciato il pronunciamento positivo della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti circa l'istanza di proclamazione del beato Luigi Talamoni quale patrono della nuova provincia di Monza e della Brianza.

Le più importanti arterie extraurbane sono la ex strada statale 35 dei Giovi e la strada statale 36 del Lago di Como e dello Spluga (Valsassina).

La ex SS35, il cui tratto brianzolo è comunemente noto come superstrada Milano-Meda, ora di competenza regionale e provinciale, attraversa la provincia da nord a sud, per collegare Milano con Como.

Anche la SS36 attraversa la provincia da nord a sud, nella sua parte centrale, collegando Milano con Monza, Lecco e Sondrio. Il suo tratto urbano era congestionato dal traffico extraurbano dei lavoratori pendolari, mentre oggi è fluido grazie al tunnel urbano sotterraneo che attraversa la zona occidentale di Monza.

La mancanza di una arteria principale che attraversi la provincia trasversalmente, da est a ovest, più a nord rispetto all'autostrada A4, congestiona inevitabilmente il traffico urbano dei comuni brianzoli.

La provincia di Monza e della Brianza momentaneamente è attraversata da 4 tratte autostradali che a breve diventeranno 5:
Autostrada A4 Italia.svg Autostrada A4 Milano-Venezia;
Autostrada A51 Italia.svg Tangenziale Est di Milano (A51);
Autostrada A52 Italia.svg Tangenziale Nord di Milano (A52);
Autostrada A58 Italia.svg Tangenziale est esterna di Milano (A58) in zona di Agrate Brianza, Caponago;
Autostrada A36 Italia.svg Autostrada Pedemontana Lombarda (A36) in zona occidentale vicinanze SS35 (in progettazione).

La provincia è attraversata da importanti tratte ferroviarie:
la ferrovia Milano-Asso con la diramazione per la Stazione di Camnago-Lentate, che l'attraversa da nord a sud nella sua parte occidentale;
la ferrovia Chiasso-Milano, che l'attraversa obliquamente da nord-ovest fino a Monza, al centro, collegando il capoluogo alle stazioni di Milano e Como e alla Svizzera;
la ferrovia Monza-Molteno-Lecco, che attraversa la provincia da nord a sud nella sua parte centrale, permettendo i collegamenti tra il capoluogo e le provincie di Como e Lecco;
la ferrovia Lecco-Milano, anch'essa diretta verso nord a partire da Monza, fino alla stazione di Lecco;
la ferrovia Novara-Seregno, che attraversa trasversalmente la parte occidentale della provincia, collegandola a Saronno;
la ferrovia Seregno-Bergamo, che l'attraverso trasversalmente e verso est, collegando anche il capoluogo a Bergamo.
Nel capoluogo è presente l'importante stazione di Monza, principale nodo di scambio tra le linee provinciali, oltre ad un altro scalo ferroviario, denominato Monza Sobborghi, posta sulla linea per Molteno. Altre importanti stazioni della provincia sono:
Camnago-Lentate,
Carnate-Usmate,
Cesano Maderno,
Seregno,
Seveso.
Le reti ferroviarie brianzole sono gestite sia da Ferrovienord che Rete Ferroviaria Italiana, e i treni regionali e suburbani sono gestiti da Trenord.

In particolare, coinvolgono la provincia di Monza le linee S2, S4, S7, S8, S9 e S11.
È in fase di costruzione la stazione di Monza Bettola della Linea Rossa M1 della metropolitana milanese, situata a pochissimi metri dal capoluogo brianzolo ma comunque sul territorio di Cinisello Balsamo e quindi fuori dalla provincia monzese.

La provincia di Monza e Brianza è collegata, tramite il sistema delle tangenziali milanesi, agli aeroporti di Milano Linate e Milano Malpensa e tramite l'Autostrada A4 all'aeroporto di Orio al Serio.

Sul territorio provinciale esistono anche due elisuperfici:
Elisuperficie dell'Ospedale San Gerardo, utilizzata per il trasporto sanitario;
Elisuperficie di Lissone, l'unica attrezzata per gli atterraggi di emergenza.

La provincia di Monza e della Brianza, è sede di circoscrizione giudiziaria, con sede principale nel capoluogo.
A Monza, in piazza Garibaldi, nel Palazzo di Giustizia, trovano sede i Tribunali civile e penale e la Procura della Repubblica, mentre ulteriori uffici decentrati si trovano in via Vittorio Emanuele II, in via Borgazzi sono presenti gli uffici del Giudice di Pace.
In viale Campania, si trovano gli uffici amministrativi della sede distaccata della Procura monzese.
A Desio, è rimasta aperta fino al 2013, per sopperire agli scarsi spazi presenti a Monza, una sede distaccata del Tribunale, chiusa a partire dallo scorso 2014, dopo il riassetto delle sedi giudiziarie e la soppressione di alcune delle sedi decentrate.

La storia e la cultura della provincia di Monza e Brianza, sono ben raccontate nei numerosi musei sparsi sul territorio:
Museo del Duomo: si trova in una serie di ambienti sotterranei all'interno del Duomo. La raccolta comprende gran parte dei tesori risalenti all'epoca della regina Teodolinda, tra cui la Chioccia con i pulcini, la Croce di Agilulfo e la famosa Corona Ferrea utilizzata per incoronare Napoleone e i Re d'Italia.
Musei civici di Monza: le raccolte dei Musei civici di Monza sono attualmente collocate nei depositi della Villa Reale di Monza, in attesa di essere trasferite nella sede definitiva. Nelle raccolte sono confluite le opere della Pinacoteca Civica e del Museo dell'Arengario;
Museo etnologico di Monza e Brianza: all'interno di Villa Reale (Monza), è in attesa di essere ricomposto dopo il restauro della reggia;
Mulino Colombo;
Museo d'Arte Contemporanea: vi ha sede la pinacoteca civica inaugurata nel novembre del 2000. Frutto di una reinterpretazione del razionalismo già presente a Lissone e in Brianza, l'edificio mantiene e valorizza la parte più significativa dell'insediamento originario: all'avancorpo preesistente, riportato al suo passato splendore e svuotato per formare un unico volume destinato ad atrio d'ingresso, viene ad aggiungersi la nuova struttura architettonica retrostante. Il museo si articola su tre livelli fuori terra e un piano interrato e ospita la raccolta derivante dalle edizioni del Premio Lissone (1946-1967), oltre che ad una ricca collezione dell'artista Gino Meloni;
Museo degli attrezzi artigianali: all'interno di palazzo Vittorio Veneto, custodisce gelosamente al suo interno una collezione di antichi strumenti artigianali appartenuti agli aritigani lissonesi, per la realizzazione delle componenti del mobile e dell'arredamento;
Museo del ciclismo Ugo Agostoni, inaugurato in occasione della 69esima edizione della Coppa Agostoni;
Museo Civico "Carlo Verri", presso il Palazzo dei Verri, oggi anche sede municipale, vi è una ricca collezione storica di attrezzi, strumenti e opere del territorio;
Museo del territorio vimercatese, insediato nella Villa Sottocasa, presenta in modo interattivo documenti e reperti relativi al territorio del Vimercatese, collocato tra Monza e Trezzo sull'Adda.


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sabato 26 dicembre 2015

LA VALTELLINA

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La Valtellina è un’ampia regione alpina che corre tra Italia e Svizzera, Lombardia e Cantone dei Grigioni, per quasi 200 Km, proprio al centro delle Alpi, ideale confine tra il Nord e il Sud dell’Europa. Il territorio della provincia di Sondrio, che comprende Valtellina e Valchiavenna, le due vallate principali, si divide in cinque aree, ognuna delle quali ha caratteristiche e peculiarità proprie, pur mantenendo una cultura comune e condivisa: l’Alta Valtellina, con Bormio, Livigno e Valfurva; la Media Valtellina, con Tirano, Teglio, Aprica e Grosio; il Sondriese, con il capoluogo e la Valmalenco; la Bassa Valtellina, con Morbegno e le sue valli, la costiera dei Cech; la Valchiavenna, con Chiavenna, il lago di Novate Mezzola e la Valle Spluga. Fiumi, torrenti e laghi alpini sono una costante del paesaggio valtellinese. I due versanti, quello retico e quello orobico, sono molto diversi tra loro. Le alpi Retiche, a Nord, raggiungono quote elevate, fino ai quattromila metri del pizzo Bernina, e accolgono poche ampie vallate, tra cui la Valmasino, la Valmalenco, la Valgrosina e la svizzera Valposchiavo. Alle pendici i monti sono caratterizzati da una vasta zona di vigneti terrazzati. Sul versante Sud le prealpi Orobie contano numerose vallate laterali, un ambiente più selvaggio, fitti boschi e una quota media delle cime che non supera i tremila metri. L’area del Distretto Culturale non è estesa all’intera provincia di Sondrio bensì limitata alla Valtellina, con esclusione della Valchiavenna, e comprende 65 dei 78 comuni.

La vallata fu colonizzata, fin da epoche antichissime, da popolazioni di origini celtiche, liguri ed etrusche. In particolare Virgilio, Plinio il giovane (comasco) e Marziale narrano di come, in età pre-romana, i primi insediamenti ligustici ed etruschi avevano importato in Valtellina la vite dalle zone delle Cinque Terre e della Lunigiana.

L'antichissimo popolo dei Liguri si stanziò appunto, oltre che su una lunga costa che andava da Marsiglia a Luni, lungo la dorsale appenninica settentrionale, su entrambi i versanti delle Alpi Occidentali. Raggruppati in stirpi o tribù, in particolare i Liguri Stazielli, acquisirono - dato che conoscevano già la vite - dai Greci i primi rudimenti di vinificazione.

Potrebbero dunque essere stati dei Galli Liguri ad introdurre il vitigno "Nebbiolo" in Valtellina, quando la colonizzarono. Il loro passaggio attraverso la Val Chiavenna diede allora l'appellativo "chiavennasco" al vitigno originale. Ma questa è solo una mera ipotesi.

La Valtellina dopo aver fatto parte dell'Impero Romano finì nel 568 d.C. sotto il dominio longobardo. Numerosi gruppi arimannici si stanziarono in queste terre, fra i quali i Crotti potenti arimanni Longobardi, cioè guerrieri Longobardi a cavallo, che nell'Alto Medioevo da Bergamo si stabilirono in questo territorio, contribuendo con il proprio nome alla toponomastica di varie zone della Valtellina. In seguito fu la volta del dominio del popolo dei Franchi, per poi passare sotto i vescovi principi.

Durante il Medioevo la Valtellina seguì le sorti della restante Lombardia. Essa fu sempre soggetta dal punto di vista ecclesiastico ai vescovi di Como, mentre civilmente dopo essere stata soggetta al Comune di Como e al vescovo di Como venne incorporata verso la metà del XIV secolo nel Ducato di Milano. Gli abitanti dei vicini Grigioni, che già erano entrati più volte in Valtellina, nel 1512, approfittando delle invasioni straniere che avevano preso avvio nel 1494, la occuparono tutta pur garantendo alle popolazioni locali il rispetto degli antichi privilegi e consuetudini. Il 27 giugno 1512, con il Giuramento di Teglio, la Valtellina venne ufficialmente annessa ai Grigioni. Gli svizzeri istituirono una struttura amministrativa costituita da un capitano di valle che risiedeva a Sondrio e che veniva sostituito ogni quattro anni, mentre gli altri due terzieri venivano retti da un podestà di durata biennale. A parte erano governati il ricco contado di Chiavenna e quello di Bormio che avevano alle spalle una lunga storia di indipendenza e autogoverno.

Il dominio grigione durò dal 1512 al 1797. Anzi, fino al 1525-1526 il dominio delle Tre Leghe comprendeva anche le tre pievi del Lario superiore (Dongo, Gravedona e Sorico, con i comuni circostanti), la pieve (disabitata in buona parte dopo un'alluvione) di Olonio (grosso modo corrispondente all'attuale Pian di Spagna) e la zona tra Colico e l'abbazia di Piona. Questi territori furono riconquistati da Giovanni Giacomo de' Medici, castellano di Musso, e ceduti dalle Tre Leghe con il trattato di Ilanz, concluso nella primavera del 1526 con la mediazione di Francia, Venezia e del papa. Nello stesso periodo le Tre Leghe accolsero la riforma protestante, ed il cattolicesimo divenne minoritario (sebbene consentito) a nord delle Alpi.

Durante questo periodo la Valtellina fu teatro di gravi scontri tra cattolici e protestanti. Anche in Valtellina erano numerosi i cristiani che avevano abbracciato la confessione riformata; questi protestanti valtellinesi potevano beneficiare anche della protezione dei magistrati inviati in valle dai Grigioni, come pure dell'arrivo di libri e di pastori attraverso le vie commerciali. I Grigioni vedevano con favore un allontanamento religioso della valle dalla Spagna, allora dominatrice del Ducato di Milano e una delle potenze principali dell'Europa cattolica nel XVII secolo.

Da Poschiavo la prima stamperia grigionese, nonostante il volere contrario del papa e del re di Spagna, distribuiva opere di autori riformati che giungevano in tutta Italia; la Valtellina era peraltro notoriamente aperta a quegli italiani che erano costretti a fuggire per sospetto di eresia: ad esempio Camillo Renato che fu a Traona, a Chiavenna e in altre località della valle negli anni quaranta del XVI secolo.

A confronto con la dominazione esercitata dai Confederati elvetici su quella parte di Lombardia che oggi costituisce il Canton Ticino, il governo dei Grigioni sulla Valtellina si mostrò in alcuni momenti più rigido e assunse anche chiare tendenze anticattoliche. In effetti, mentre i Confederati, cattolici per i 9/12simi, consideravano i territori acquisiti come terre sottomesse ma autonome, i Grigioni, vivendo in territori più poveri, ambivano all'annessione vera e propria della molto più fertile Valtellina. In questa prospettiva, anche l'elemento religioso poteva assumere valenze politiche, dal momento che un'adesione massiccia della Valtellina alla riforma poteva separarla dalla sua antica rete relazionale lombarda, comasca e cattolica.

Fu per questa ragione che le Tre Leghe appoggiarono l'adesione di diversi loro sudditi valtellinesi alla riforma (che, si noti, generalmente non proveniva dal nord delle Alpi, ma soprattutto da ex-ecclesiastici cattolici italiani che trovavano rifugio nelle vallate alpine). In alcuni casi i provvedimenti, formalmente volti a garantire la pacifica convivenza tra le due confessioni, finirono con l'avere ricadute particolarmente vessatorie per la parte cattolica. Soprattutto, la maggioranza della popolazione rimasta cattolica non tollerò di dovere condividere con i riformati le chiese parrocchiali, o di cedere alle comunità protestanti alcuni edifici di culto secondari, di proprietà pubblica, cui spesso era anche annesso un beneficio ecclesiastico (ciò poteva accadere anche in comunità dove i riformati erano molto pochi: bastava che ci fossero otto membri di Chiesa perché fosse garantito loro l'uso di un luogo di culto e il mantenimento di un pastore).

Con l'andare degli anni, l'avversione dei cattolici verso i protestanti, rinfocolata dai predicatori francescani e domenicani inviati in Valtellina da san Carlo Borromeo, raggiunse livelli critici. Fu la morte, in seguito a tortura, dell'arciprete di Sondrio Nicolò Rusca a sancire definitivamente la rottura tra la comunità riformata e quella cattolica. I cattolicissimi spagnoli avevano peraltro un forte interesse a transitare liberamente per la Valtellina, potendo così mettere in diretta relazione i possedimenti italiani degli Asburgo di Spagna con quelli imperiali degli Asburgo d'Austria aggirando la sempre più potente Venezia. Il governatore spagnolo di Milano finanziò largamente un gruppo di valtellinesi, guidati da Gian Giacomo Robustelli di Grosotto che si pose a capo di una congiura che nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1620 sfociò nel cosiddetto Sacro Macello di Valtellina.

In quella sola notte tutti i protestanti di Tirano, Teglio e Sondrio vennero trucidati o bruciati vivi dalle milizie cattoliche (solamente un piccolo gruppo di 70 persone di Sondrio riuscì a salvarsi rifugiandosi in Engadina). In totale perirono tra i 600 e i 700 protestanti valtellinesi. Questo funesto massacro segnò la fine dell'interventismo grigionese in campo religioso e della predicazione riformata in Valtellina: di conseguenza, anche il dominio delle Tre Leghe smise di essere fonte di rancore per i valtellinesi. Al contrario, parte delle élite locali spinsero per fare della valle una quarta Lega al pari con le altre tre: queste speranze non si concretizzarono mai per la freddezza al riguardo delle prime tre Leghe, e poi per l'arrivo di Napoleone Bonaparte che pose termine al dominio grigionese.

Durante il tardo Cinquecento e il primo Seicento in Valtellina si diffuse, più che in ogni altra zona dell'arco alpino italiano, la coltura del grano saraceno, che conserva tuttora un ruolo importante nella cucina locale. Secondo una leggenda, riportata dal folclore locale, la diffusione di questa pianta originaria dell'Asia minore, fu favorita dalla presenza di schiave circasse o turche (poi prese in moglie) presso il comune di Grosio.

Nel 1797 Napoleone Bonaparte separò definitivamente la Valtellina dai Grigioni e la unì alla Repubblica Cisalpina. La valle seguì quindi, durante l'epoca napoleonica le vicende dell'intera Lombardia quale parte poi della Repubblica Italiana (1802-1805) e, in seguito, del Regno d'Italia guidato da Napoleone stesso e dal viceré Eugenio di Beauharnais.

Con la sconfitta di Napoleone gli Svizzeri tentarono di riprendersi la Valtellina (insieme alla Valchiavenna). Per contrastare tale operazione, i valtellinesi inviarono al Congresso di Vienna due delegati e quando dopo molti tentennamenti, il 27 aprile 1814, le truppe svizzere cercarono di scendere dalla val Bregaglia su Chiavenna, la valle risultò essere ormai già occupata dagli austriaci. Gli Svizzeri si ritirarono pertanto senza combattere.

Nei mesi seguenti, al Congresso di Vienna sembrò inizialmente che le pretese degli Svizzeri alla restituzione della Valtellina trovassero il consenso dei vincitori. Alla fine la valle fu lasciata tuttavia al Regno Lombardo-Veneto e, dunque, in sostanza all'Austria, la quale, probabilmente, voleva assicurarsi il controllo dei passi alpini, in primis lo Stelvio. A tale esito contribuirono anche le lentezze degli Svizzeri, motivate dai dubbi sullo status da accordare alla valle (cantone autonomo o parte del Canton Grigioni) e sull'ostilità dei protestanti ad ammettere nella Confederazione un ulteriore cantone cattolico.

Nel 1859 a seguito della seconda guerra di indipendenza italiana la Valtellina fu annessa al Regno di Sardegna e, dunque, nel 1861 divenne parte del nuovo Regno d'Italia.

L'alta Valtellina fu marginale teatro di scontri durante la prima guerra mondiale (in particolare passo dello Stelvio e Ortles). Documenti dell'esercito elvetico stilati tra il 1870 ed il 1918 (come per esempio il rapporto del colonnello Arnold Keller) indicano piani avanzati d'invasione della Valtellina (così come della val d'Ossola) sia a livello di tattiche difensive che offensive. Con queste manovre gli elvetici intendevano difendere i fianchi del Canton Ticino in caso di conflitto italo-svizzero. Prima e durante la Grande Guerra, fu costruita una linea difensiva italiana per impedire un eventuale sfondamento del fronte attraverso la neutrale Svizzera (linea Cadorna).

Alla fine della seconda guerra mondiale doveva diventare l'ultima roccaforte della Repubblica Sociale Italiana: si pensava infatti di raggruppare tutte le forze repubblichine in Valtellina creando il "Ridotto Alpino Repubblicano", cosa che non avvenne, perché tutto l'apparato militare e paramilitare fascista si sciolse dopo il 25 aprile 1945.

Nell'estate del 1987 la Valtellina fu sconvolta da una serie di drammatici eventi naturali che causarono alcuni morti e numerosissimi danni all'intera valle. Il giorno 28 luglio 1987 l'abitato di Sant'Antonio Morignone, frazione del comune di Valdisotto, rimase sepolto sotto una vastissima frana staccatasi improvvisamente dal vicino Pizzo Coppetto. L'enorme quantità di rocce e detriti accumulatisi sul fondovalle a causa della frana ostruì il letto del fiume Adda. Per garantire il regolare deflusso delle acque, nei mesi seguenti la Protezione Civile fu costretta a realizzare un percorso in gallerie sotterranee come alternativa all'originale letto del fiume, mentre per assicurare un costante controllo della situazione la Regione Lombardia decise di installare una rete di osservazione, progettata e realizzata da una società di monitoraggio ambientale, costituita da 14 stazioni di monitoraggio.

Settore molto tradizionale, attualmente legato a figure del passato come lo spazzacamino e l'arrotino, che scendevano nelle città (come Milano) a trovar fortuna.

Attualmente si può considerare fiorente l'attività di produzione del pezzotto, un tappeto costituito di scarti di tessuto intrecciati con filo di canapa.

Estratto e lavorato fin dai primi secoli dopo l'anno mille, il serpentino scisto della Valmalenco è stato oggetto di un fiorente commercio, che continua tuttora, che lo identifica da sempre con la zona geografica della Valtellina.

I principali valichi della Valtellina, sono lo Stelvio (che con i suoi 2758 metri è il più alto d'Italia e il secondo in Europa), spesso protagonista del Giro d'Italia, che porta in val Venosta (Alto Adige), il passo del Gavia (2621 m) verso l'Alta val Camonica, il passo San Marco verso la val Brembana e quello dell'Aprica (1200 m) verso la val Camonica di Edolo, il Passo del Mortirolo (1.852 m) verso la Val Camonica.

La montagna valtellinese offre numerosissime opportunità sia per gli escursionisti sia per gli alpinisti, tradizionali e free climbers. In valle si trovano numerose rinomate stazioni sciistiche quali Aprica, Bormio, Caspoggio e Chiesa in Valmalenco.
Infine, una località turistica e stazione sciistica è Livigno che in termini strettamente geografici, si trova al di fuori della Valtellina, essendo al di là del crinale delle Alpi, ma che è parte integrante della provincia di Sondrio. Altre stazioni sciistiche di più piccole dimensioni, facilmente raggiungibili da Morbegno e Sondrio, come Pescegallo e Prato Valentino, consentono la fruizione dell'offerta in un contesto più raccolto e familiare.

In questa valle si trovano anche diverse sorgenti termali calde, una ai Bagni di Masino e una con sette sorgenti ai Bagni di Bormio. In queste località vi sono quattro stabilimenti termali, uno nella prima e tre nella seconda.

La Valtellina accoglie il settore lombardo del Parco nazionale dello Stelvio (dai laghi di Cancano a tutta la Valfurva), nonché il Parco regionale delle Alpi Orobie.

La Valtellina, assieme ai territori di Monferrato, Langhe e Roero è stata ufficialmente candidata per essere inclusa nella lista del Patrimonio mondiale dell'umanità dell'UNESCO, ma a differenza dei citati territori vinicoli piemontesi alla fine non è stata inserita.
Alcune tra le più rinomate località sciistiche, quali Bormio, Livigno, Santa Caterina, Madesimo in Valchiavenna, Chiesa Valmalenco e Aprica si trovano in questo territorio ed offrono oltre 400 km di piste dedicate allo sci alpino e più di 200 km allo sci nordico.

Ricca di arte e cultura, la Valtellina testimonia il suo glorioso passato di crocevia per l’Europa con numerose chiese, palazzi, torri e castelli.

Le sue vallate sono l’ideale sia per la mountain bike sia per chi è alla ricerca di itinerari storici o naturalistici.

Per chi ama lo sport la Valtellina offre bellissimi scenari per dedicarsi all’ alpinismo e all’ arrampicata, al nordik walking e numerosi torrenti dove poter praticare il canyoning e il rafting.

La gastronomia riveste un ruolo di primo piano con, su tutti, i famosi Pizzoccheri, la Bresaola e il Bitto. Famosa per la produzione vinicola che terrazza gran parte dei suoi pendii e per quella di mele, la Valtellina è ricca di sapori che sapranno soddisfare ogni palato.


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SANTO STEFANO

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Santo Stefano, protomartire, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, che, primo dei sette diaconi scelti dagli Apostoli come loro collaboratori nel ministero, fu anche il primo tra i discepoli del Signore a versare il suo sangue a Gerusalemme, dove, lapidato mentre pregava per i suoi persecutori, rese la sua testimonianza di fede in Cristo Gesù, affermando di vederlo seduto nella gloria alla destra del Padre.

La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Di s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.


Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.

Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è la basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.

Ancora oggi in Italia vi sono ben quattordici comuni che portano il suo nome; nell'arte è stato sempre raffigurato con indosso la dalmatica, veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione: per questo è invocato contro il mal di pietra (cioè i calcoli) ed è il patrono di tagliapietre e muratori.

Per il fatto di essere stato il primo dei martiri cristiani, la sua festa liturgica si celebra il 26 dicembre, cioè immediatamente dopo il Natale che celebra la nascita di Cristo. Il colore della veste indossata dal sacerdote durante la Messa in questo giorno è il rosso, come in tutte le occasioni in cui si ricorda un martire.

Fino al 1960 si celebrava anche la festa della "Invenzione" (cioè "rinvenimento", dal latino invenio) delle reliquie di santo Stefano il 3 agosto, giorno in cui questo ritrovamento sarebbe avvenuto. Tuttora in alcune località si ricorda il protomartire anche in questo giorno, a Vimercate (Monza-Brianza), a Putignano (Bari) di cui è protettore e dove si conserva un frammento del suo cranio, a Concordia Sagittaria e in tutta la diocesi di Concordia-Pordenone, a Selci, delle quali è patrono. Anche la Chiesa ortodossa ricorda il santo in questa data.

A Laveno Mombello esiste una chiesa dedicata proprio a questo avvenimento.



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venerdì 4 settembre 2015

LA LOMELLINA

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La Lomellina è una regione storico-geografica, sita nella zona sud-occidentale della Lombardia compresa tra: il Sesia a ovest, il Po a ovest e a sud, il Ticino a est e il Basso Novarese a nord.

Anche se oggi la Lomellina appare come una regione abbastanza omogenea e ben identificata, la sua formazione come precisa entità storico-amministrativa fu il frutto di un processo lungo e complesso, che si poteva dire concluso solo verso la fine del Medioevo.
Indubbiamente la Lomellina, nell'ambito della Pianura Padana, ebbe alcune caratteristiche peculiari. Qui più che altrove la fitta coltre boscosa che ricopriva la pianura in epoca preistorica si conservò a lungo: ancora in epoca rinascimentale la zona aveva ampie foreste, assai rinomate per la caccia, che facevano della Lomellina il luogo prediletto per gli svaghi dei Signori di Milano.

Questa situazione probabilmente non era venuta meno neppure in epoca romana, poiché non si trova traccia in Lomellina della centuriazione che caratterizza gran parte della Pianura Padana, se non attorno a Vigevano (che costituiva un lembo della campagna centuriata di Novara). La zona pertanto non vide una deduzione di coloni, e le popolazioni locali, di origine preromana, subirono un lento e forse pacifico processo di romanizzazione nel corso del I secolo a.C. La zona non doveva essere etnicamente compatta in epoca preromana: se è vero che i popoli antichi della pianura padana si raccoglievano attorno ai fiumi, principali vie di comunicazione in assenza di strade, la Lomellina doveva essere il luogo di confine e forse parziale sovrapposizione dei popoli che vivevano lungo i fiumi che circondano da tre parti la zona: i Levi del Ticino, i Marici del Po e i Libicii del Sesia (fondatori i primi due popoli di Pavia, e l'ultimo di Vercelli). Questi popoli facevano parte del residuo ethnos ligure padano; più a nord, verso Novara, si trovavano popoli di prevalente origine celtica (Victimuli, Vertamocori).
La regione aveva dunque centri urbani appena fuori dai suoi confini, ma costituiva un'area singolarmente vasta, per la pianura padana, priva ancora in epoca romana di centri urbani importanti. Questa situazione venne parzialmente mutando quando i Romani potenziarono la rete stradale a nord del Po, verso le Gallie: la Lomellina era attraversata da un'importante strada che da Pavia, attraverso Duriae (Dorno), Laumellum (Lomello) e Cuttiae (Cozzo), portava verso Torino e le Alpi (dunque le valli dei fiume Dora, Duriae, e la provincia delle Alpi Cozie, Cuttiae). È significativo che gli unici centri antichi conosciuti siano noti dagli itinerari e non da testi letterari o epigrafici (solo Lomello è citata in un testo storico, piuttosto tardo -355- e sempre in riferimento alla strada: Ammiano Marcellino, XV.8.18): per i romani la Lomellina era ancora solo una zona da attraversare. Questo peraltro non significa che la popolazione locale non avesse dato vita a insediamenti notevoli, anche se non urbani. In quest'epoca probabilmente la Lomellina era divisa tra i municipi di Vercelli, Novara e Pavia. La parte sudorientale della Lomellina si chiamava Aliana: si parla infatti di una regione Aliana inter Padum Ticinumque amnes (Plinio il Vecchio, Nat. Hist, XIX, 9), celebre per i lini. In prossimità c'era anche una regione Retovina il cui nome potrebbe derivare da un luogo detto Retovium, forse il Redobium del Medioevo, ovvero Robbio.

Un vero cambiamento si ebbe solo nella tarda antichità e nel primo Medioevo, a seguito dello straordinario aumento di importanza di Pavia, divenuta capitale dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi in Italia. Come vedremo, il rapporto con Pavia fu decisivo per la Lomellina, anche se fu contraddittorio e spesso conflittuale. Indubbiamente il primo effetto fu l'aumento di importanza di Lomello, che divenne in epoca franca sede di contea. Lomello fu un primo centro urbano in grado di invertire la condizione di perifericità della Lomellina: sorto sull'Agogna, che era verosimilmente l'antico confine tra Pavia e Vercelli, riunì una vasta area dell'attuale Lomellina, anche se la parte orientale continuò a far capo a Pavia e altre zone marginali a Novara e Vercelli. Il rapporto di questa contea con Pavia ebbe un rapido e contraddittorio sviluppo: i Conti di Lomello divennero Conti del Sacro Palazzo di Pavia e Conti di Pavia, ma questo predominio lomellino si invertì quasi subito: Pavia prima scacciò i Conti, poi li combatté e infine li sottomise (1146). D'altra parte la Lomellina assoggettata assunse i connotati odierni, poiché Pavia diede il nome di Lomellina a tutti i suoi domini a occidente della città, comprendenti sia l'antica contea di Lomello, sia le terre adiacenti già pavesi, sia infine lembi del territorio vercellese e novarese che il potente comune pavese aveva conquistato. In tal modo possiamo dire che la Lomellina secondo il nostro concetto ha senso solo in quanto dominio pavese, lo stesso che si deve dire per esempio dell'Oltrepò Pavese; ma mentre quest'ultimo si definisce semplicemente come le terre situate a sud del Po, anteriormente prive di qualunque unità, che Pavia unificò conquistandole, la Lomellina presentava un nucleo indipendente di aggregazione che rende riduttivo vederla semplicemente come una parte del più vasto dominio pavese. Si aggiunga che la vicinanza di altri centri urbani (Vercelli, Novara, Alessandria e Milano) rese meno forte la presa del capoluogo sulla regione, specie quando la potenza di Pavia cominciava a declinare.

Dopo la conquista viscontea del territorio pavese la Lomellina veniva confermata alla Contea di Pavia, poi elevata a Principato. Ma nel XVII secolo, sempre nell'ambito dello Stato di Milano, la Lomellina cominciò ad avere una maggiore autonomia amministrativa (per esempio ebbe una propria Congregazione indipendente da quella cui faceva capo il resto del Principato), e nel 1707, conquistata dai Savoia durante la Guerra di successione spagnola (possesso confermato nel 1713 con la pace di Utrecht), divenne una provincia autonoma (l'Oltrepò fu a sua volta annesso nel 1743 e separato da Pavia, ma continuò a chiamarsi pavese; qualunque riferimento all'antico capoluogo mancava invece nel caso della Lomellina). Già nel 1532 una parte della Lomellina, comprendente Vigevano, Robbio e i paesi vicini, era stata staccata da Pavia e costituita in provincia a sé, col nome di Contado di Vigevano o Vigevanasco: anch'esso passò ai Savoia nel 1743, dunque dopo la Lomellina. In tal modo nell'età moderna si ebbe un'idea più ristretta della Lomellina. Solo nel 1818 le province di Lomellina, con capoluogo Mortara, e di Vigevano, furono riunite, e il nome Lomellina ricominciò a indicare l'intero territorio noto oggi con questo nome.
Nel 1859, ormai all'alba dell'unità nazionale, il decreto Rattazzi stabilì la riunione della Lomellina e dell'Oltrepò Pavese, già piemontesi, con la Provincia di Pavia tolta all'Austria, nella nuova provincia di Pavia, nell'ambito della quale fu istituito il circondario della Lomellina, con capoluogo Mortara.

La Lomellina, dal punto di vista geomorfologico, risale all'era quaternaria. Il territorio, fertile e pianeggiante, è caratterizzato dai lunghi filari dei pioppi, che delimitano le grandi estensioni dei campi e scandiscono il ritmo del tempo. Questa campagna è stata coltivata per diversi secoli principalmente a frumento, mais e foraggio; tuttavia, oggi, la Lomellina è il regno del riso e, grazie a ciò, la provincia di Pavia è la prima produttrice risicola italiana.

In origine, l'area fu modellata da fiumane che depositarono sabbia e ciottoli formando dossi, conche e avvallamenti che si conservarono, costellati di paludi e boschi, fino al Medioevo. L'ambiente che vediamo oggi è frutto di un lavoro che l'uomo ha intrapreso fino a rendere queste terre fra le più fertili del mondo. Infatti, nulla di questo tranquillo paesaggio è naturale: tutto è stato costruito, trasformato ed organizzato dall'uomo con infinita e secolare pazienza. Per natura questa terra di risorgive è stata per secoli un'impraticabile palude, ma le comunità dei monaci nel medioevo, che bonificarono la zona introducendo le marcite, la colonizzazione feudale nel duecento e le grandi riforme agricole introdotte dagli Sforza, che sperimentarono la coltivazione del riso, hanno fatto di questa zona un mosaico di ricchissimi campi di cereali. Al servizio di questa estensione di coltivazioni, a fianco dei tre fiumi naturali che delimitano la Lomellina, è stato organizzato un complesso sistema idrico di rogge e canali, che hanno dato vita alla costruzione dei mulini, e sono sorte le cascine "a corte chiusa", tipici insediamenti rurali della Pianura Padana.
Questo habitat lentamente sta recuperando il suo equilibrio biologico; sono stati compiuti alcuni significativi passi nella conservazione delle aree ambientali di un certo interesse naturalistico e tuttora diverse zone stanno per essere recuperate dal punto di vista ambientale; il primo e più importante passo compiuto è stata la costituzione del Parco Fluviale del Ticino, di primaria importanza per la conservazione di molte specie di piante e di animali. Particolare attenzione è stata rivolta alla protezione delle diverse garzaie, e sono stati conservati alcuni boschi con vegetazione autoctona della Pianura Padana; tra questi ricordiamo:

il "Bosco Siro Negri" a Zerbolò;
il "Bosco Giuseppe Negri", tra San Martino Siccomario e Pavia;
la "Palude Loya" tra Zeme e Sant'Angelo;
il "boschetto di Scaldasole", nell'omonimo comune.
Tra le aree in fase di costituzione o di rimboschimento ricordiamo la "Lanca dell'Agogna Morta", tra Nicorvo ed il confinante comune piemontese di Borgolavezzaro.

Diverse sono le possibilità che vengono offerte per poter conoscere la storia della terra, e gli aspetti culturali, le tradizioni, le arti ed i mestieri del mondo rurale della Lomellina.

Sono da segnalare alcuni musei, in cui vengono custoditi reperti archeologici rinvenuti nel nostro territorio, opere d'arte, ed altri vari oggetti che permettono di approfondire la cultura ed i modi di vita degli antenati.

Inoltre non possiamo dimenticare che il duro lavoro dei campi, le avversità della natura, le pene quotidiane, hanno nei secoli insegnato alla gente delle cascine che per la loro sopravvivenza erano necessarie valvole di evasione, che non fossero tuttavia in contrasto ne' con la saggezza, ne' con la religione. Ecco allora che le feste, le sagre, le fiere di paese erano attese come logica e giusta ricompensa di una vita di sacrifici. Partecipare è più che essere presenti. Si diventa attori e spettatori nello stesso tempo di una realtà che sconfina nel sogno. Carnevali in cui si recita a soggetto, processioni a cui si presenzia incolonnati quasi militi della Fede, canti e balli popolari in cui si intrecciano sentimento, nostalgia, desideri di incontri.
La campagna lombarda è stata palcoscenico ideale, per secoli, di questa gioia di vivere della gente comune. E ancora oggi, pur nello sconvolgimento del nuovo modo di intendere il divertimento, rimangono episodi e manifestazioni di così grande interesse che la loro fama ha valicato i confini regionali e nazionali.
Particolarmente vivo nella memoria è rimasto il ricordo delle "mondine".

I comuni che formano la Lomellina sono: Alagna, Albonese, Borgo San Siro, Breme, Candia Lomellina, Carbonara al Ticino, Cassolnovo, Castello d'Agogna, Castelnovetto, Cava Manara, Ceretto Lomellina, Cergnago, Cilavegna, Confienza, Cozzo, Dorno, Ferrera Erbognone, Frascarolo, Galliavola, Gambarana, Gambolò, Garlasco, Gravellona Lomellina, Gropello Cairoli, Langosco, Lomello, Mede, Mezzana Bigli, Mezzana Rabattone, Mortara, Nicorvo, Olevano di Lomellina, Ottobiano, Palestro, Parona, Pieve Albignola, Pieve del Cairo, Robbio, Rosasco,  San Giorgio di Lomellina, Sannazzaro de' Burgondi, Sant'Angelo, Sartirana Lomellina, Scaldasole, Semiana, Sommo, Suardi, Torre Beretti e Castellaro, Tromello, Valeggio, Valle Lomellina, Velezzo Lomellina, Vigevano, Villa Biscossi, Villanova d'Ardenghi, Zeme, Zerbolò, Zinasco.



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martedì 11 agosto 2015

LA FRANCIACORTA



La Franciacorta è una zona collinare situata tra Brescia e l'estremità meridionale del Lago d'Iseo.

La prima testimonianza di un territorio con un toponimo simile all'attuale Franciacorta, Franzacurta, si trova negli Statuta Communis Civitatis Brixiae, del 1277, contenuti all'interno del codice Queriniano. Il termine era attribuito ad una zona comprendente i comuni di Urago (ora Urago Mella, Frazione di Brescia), Rodengo (dal 1927 parte del comune di Rodengo Saiano), Ronco e Sale (ora frazioni del comune di Gussago) e lo stesso Gussago. Essi vengono citati in quanto ingiunti a pagare un contributo per la costruzione di un ponte sul fiume Mella. Non si conoscono altre evidenze oggettive sull'esistenza di una Franciacorta comprendente altri territori.

Grazie allo statuto del Doge Francesco Foscari, nel 1429 vennero fissati per la prima volta i confini dell'area chiamata Franciacorta. Al territorio così definito appartenevano la Quadra di Rovato e quella di Gussago che comprendevano i seguenti comuni: Rovato, Coccaglio, Erbusco, Calino, Cazzago, Camignone, Bornato, Passirano, Paderno, Gussago, Brione, Cellatica, Sale, Castegnato, Ronco, Rodengo, Saiano, Ome, Monticelli Brusati, Valenzano, Polaveno, Provezze e Provaglio. Dalla definizione del Foscari erano esclusi i comuni della quadra di Palazzolo che invece ora sono considerati parte della Franciacorta ossia Adro, Capriolo, Colombaro, Nigoline e Timoline.

Sulle colline della Franciacorta, la coltivazione della vite ha origini remote, come testimoniano i rinvenimenti di vinaccioli di epoca preistorica e gli scritti di autori classici quali Plinio, Columella e Virgilio. Il ricco materiale archeologico di età preistorica rinvenuto, come ad esempio i resti di palafitte ritrovati nella zona delle Torbiere del Sebino, racconta come qui si stanziarono popolazioni primitive, alle quali subentrarono via via i Galli Cenomani, i Romani e i Longobardi.
La coltivazione della vite fu una costante della Franciacorta, dove, dall’epoca romana al periodo tardo-antico fino al pieno medioevo, crebbero vigneti anche grazie alle favorevoli condizioni climatiche e pedologiche. Con alti e bassi, la viticoltura in queste terre non s’interruppe mai.

La storia della Franciacorta è stata fortemente caratterizzata dalla presenza di grandi enti monastici che qui avevano, già prima del Mille, grandi possedimenti e che fecero una grande opera di dissodamento, bonifica e coltivazione del territorio. Tra i più attivi c’era il monastero femminile di San Salvatore (in seguito intitolato a Santa Giulia di Brescia), fondato dal re Longobardo Desiderio e da sua moglie Ansa nel 753, le cui proprietà franciacortine sono documentate dal Polittico di Santa Giulia, un antico codice della seconda metà del IX sec.. Nella stessa epoca, tuttavia, erano presenti numerose altre corti monastiche, tra le quali quelle di Clusane (priorato cluniacense), Colombaro (cella di Santa Maria), Timoline (corte di Santa Giulia), Nigoline (corte di Sant’Eufemia), Borgonato (corte di Santa Giulia) e Torbiato (corte dei monasteri di Verona e di San Faustino di Brescia).
Il primo documento che ci fornisce notizia di proprietà in Franciacorta da parte del monastero bresciano di San Salvatore, divenuto poi di Santa Giulia, risale al 766. Si tratta del diploma con cui Adelchi, figlio del re Desiderio, donava al monastero tutti i beni avuti dal nonno Verissimo e dagli zii Donnolo e Adelchi, fra cui anche alcuni possedimenti in questa zona.

Durante il periodo delle Signorie, la Franciacorta era tutta guelfa, tranne due centri importanti alle sue porte (Palazzolo e Iseo) che erano nelle mani dei ghibellini. Vi trovò rifugio - alla corte dei Lantieri a Paratico e poi a Capriolo - l’esule Dante Alighieri. Furono anni assai cruenti, pieni di lotte e d’intrighi, cui pose fine la signoria di Pandolfo Malatesta: grazie ad un prolungato periodo di stabilità si ripresero le attività agricole e rifiorì la produzione vitivinicola. Il passaggio del bresciano, dal dominio visconteo a quello veneziano, vide alla ribalta la Franciacorta. A Gussago, infatti, nel 1426 fu organizzata la congiura dei nobili guelfi che consegnarono la città di Brescia alla Repubblica Veneta. In questo periodo furono costruite le prime alte torri di avvistamento quadrate e merlate che ancor oggi caratterizzano la Franciacorta. Il territorio franciacortino verso la fine del ‘400 era suddiviso nelle 3 quadre (una sorta di distretti, con un proprio capoluogo) di Rovato, di Gussago e, solo in parte, di Palazzolo.

Gli storiografi concordano nel far risalire la prima apparizione del nome “Franzacurta” al 1277, nello statuto municipale di Brescia, come riferimento all’area a sud del lago d’Iseo, tra i fiumi Oglio e Mella. La Franzacurta o Franzia Curta era allora una zona importante per il rifornimento di vino per la città di Brescia, ma anche per i borghi della Valcamonica e della Valtrompia e a sud per le città della valle padana.

La delimitazione geografica attuale della Franciacorta, invece, risale a un atto del 1429 di Francesco Foscari, Doge di Venezia, mentre la più antica mappa giunta fino a noi è del 1469: opera di un autore anonimo, viene conservata nella biblioteca estense di Modena.

La lotta fra Venezia e la Francia portò ancora la guerra in Franciacorta: nel 1509 la popolazione, in una ribellione divenuta quasi leggendaria e chiamata piuttosto enfaticamente “vespri della Franciacorta”, insorse contro i Francesi. Centro della rivolta fu Rovato. In seguito alle vittorie italiche di Napoleone, anche nel bresciano, fu proclamata la Libera Repubblica e nei paesi della Franciacorta si alzarono i vessilli della libertà e si distrussero le insegne della Serenissima. Poi fu la volta della dominazione austriaca, delle lotte risorgimentali, dell’annessione al Regno d’Italia.

In una relazione del ‘500 che il Podestà di Brescia, Paolo Correr, scrive all’imperatore, si accenna, oltre che alle vallate Valcamonega, Valtrompia e Lasabbio, anche alle quattro terre di Pedemonte, Franzacurta, Asolano e Riviera.

La Franciacorta attuale comprende un territorio che si estende sulla superficie dei seguenti comuni, tutti situati in provincia di Brescia: Adro, Capriolo, Castegnato, Cazzago San Martino, Cellatica, Coccaglio, Cologne, Corte Franca, Erbusco, Gussago, Iseo, Monticelli Brusati, Ome, Ospitaletto, Paderno Franciacorta, Paratico, Passirano, Provaglio d'Iseo, Rodengo-Saiano e Rovato.

Il territorio, per lo più collinare e anticamente cosparso di boschi, è stato ultimamente trasformato con l'impianto di numerosi vigneti che ne caratterizzano la peculiarità.

Gli enti locali sono impegnati a salvaguardarne l'aspetto paesaggistico e conservativo sia dal lato fisico che dal punto di vista storico-culturale: numerose infatti le testimonianze architettoniche dell'antichità (monasteri, chiese, abbazie, ville e castelli dell'epoca medioevale).

Al confine meridionale della Franciacorta è situato il Monte Orfano, di chiara origine morenica, che raggiunge 451 m di altitudine massima.

Aspetto importante: il territorio tradizionalmente e localmente considerato "Franciacorta" è più esteso di quello rigorosamente rientrante nella relativa denominazione Franciacorta.

Pur vantando una lunga storia, il nuovo corso della vitivinicoltura della Franciacorta inizia a tutti gli effetti al principio degli anni sessanta con la nascita delle prime cantine.

Sul finire degli anni Settanta l’enologia italiana visse una fase di grande fermento e in Franciacorta diversi imprenditori investirono e puntarono sulla coltivazione della vigna. Infatti, ancora oggi moltissime cantine che producono Franciacorta (tra le quali diverse appartenenti alle prime quindici) sono state fondate da imprenditori bresciani nei classici settori economici diffusi in provincia.

Da lì la crescita è stata rapidissima fino ad arrivare all'odierna Franciacorta, zona vinicola italiana di sicuro riferimento nazionale per quanto attiene la produzione di metodo classico.

La produzione e commercializzazione di bollicine vi è andata assumendo un'importanza sempre maggiore negli ultimi vent'anni, tanto da fregiarsi del marchio DOCG e farsi conoscere nel mondo enologico per l'alta qualità raggiunta. Il nome "Franciacorta" è nel tempo diventato sinonimo del medesimo spumante DOCG prodotto nei numerosi vigneti della zona.

Dal luglio 2008, con la pubblicazione del nuovo disciplinare, il nome della DOC "Terre di Franciacorta", utilizzata per i vini fermi rossi e bianchi, è stato sostituito con Curtefranca.

La superficie vitata oggi in franciacorta supera di poco i duemila ettari. L'incremento di tale superficie che nel primo decennio degli anni 2000 è stato considerevole oggi ha subito una brusca frenata,complice anche la crisi globale,e per i prossimi anni non si prevedono ulteriori importanti sviluppi della crescita. Questo rallentamento è anche dovuto ad alcune scelte del consorzio Franciacorta volte a non creare un eccesso di offerta al fine salvaguardare i produttori attualmente presenti sul territorio.


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giovedì 30 luglio 2015

LA VAL TROMPIA



La Valle Trompia è una delle tre principali valli brescane. Per la vicinanza alla città è anche quella più legata a Brescia dal punto di vista geografico, storico, economico e culturale. La Valle è caratterizzata principalmente da due anime: quella artigianale-industriale legata al lavoro in miniera e alla metallurgia, e quella contadina, in simbiosi con la natura e l'ambiente, legata alle consuetudini agricole e pastorali. La Valle Trompia rappresenta una nuova e piacevole meta turistica, tutta da scoprire.

La Valle Trompia si estende su una superficie territoriale di circa 380 chilometri quadrati e si trova inserita tra le Valli Sabbia, Camonica e Sebino Bresciano con la città di Brescia a confine sud. Dal punto di vista orografico, la Valle Trompia presenta caratteristiche complesse e territorialmente si sviluppa secondo un asse centrale con direzione NE-SO sul quale si vengono ad innestare valli secondarie. Il fondovalle risulta stretto con pareti laterali che si presentano, salvo zone circoscritte, con discreto grado di pendenza. Idrograficamente la Valle Trompia è solcata longitudinalmente dal fiume Mella, in cui confluiscono i principali bacini del Bondegno, Bavorgo, Mella di Sarle, Mella di Zerlo, Mella di Irma, Avano, Val Cavallina, Marmentino, Lembrio Vandeno, Rè di Inzino, Tronto. Ad essi vanno aggiunti le convalli di Lodrino col torrente Biogno. di Polaveno - Brione col torrente Gombiera, di Lumezzane con il torrente Gobbia e infine i comuni di Bovezzo - Nave - Caino disposti lungo il corso del Garza. In poco più di 50 km di lunghezza, la Valle Trompia racchiude in sé buona parte della storia geologica delle Alpi Meridionali bresciane: dalle marne calcaree (fanghi marini solidificati) depositatesi in un antico Mediterraneo attorno a 60 milioni di anni fa agli scisti con mica e quarzo. posti nell'arco settentrionale della Valle, risalenti a oltre 350 milioni di anni fa.

I monti principali che la contornano sono:

monte Colombine - 2.215 m
Dosso Alto - 2.065 m
monte Muffetto - 2.060 m
Corna Blacca - 2.006 m
tutti appartenenti al comprensorio del Maniva che è il confine nord della valle.

Molto famoso, localmente, è il monte Guglielmo (1.957 m) che è possibile osservare molto bene anche dalla Franciacorta, dalla Città nonché da buona parte della pianura bresciana sino alla provincia di Cremona.

La presenza nell'Alta Valle di vene minerali promosse fin dall'antichità un'attività estrattiva. Ciò favorì il precoce sviluppo di una tradizione di lavorazione del ferro, attestata in epoca romana, anche per la produzione di armi. Per tale ragione sotto il dominio veneziano la valle godeva di una speciale autonomia e di alcune esenzioni fiscali. Ciò non valeva per Lumezzane (nella tributaria Val Gobbia) che era infeudata agli Avogadro. Al XVI secolo risale la fondazione della Beretta, tuttora specializzata nella produzione di armi.

Negli anni settanta-ottanta la Val Trompia era nota anche come la Valle d'Oro per le fiorenti industrie che ospitava che offrivano lavoro e guadagno a tutti i cittadini, tenuto conto che la stragrande maggioranza delle piccole (e medie) ditte erano state fondate da ex dipendenti messisi in proprio.

Fanno parte della Val Trompia i seguenti 17 comuni:

Lumezzane, Concesio, Sarezzo, Gardone Val Trompia, Villa Carcina, Bovezzo, Marcheno, Polaveno, Bovegno, Collio, Caino, Lodrino, Pezzaze, Tavernole sul Mella, Brione, Marmentino, Irma.



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martedì 21 luglio 2015

LA VAL TALEGGIO



La Val Taleggio è una diramazione occidentale della Val Brembana che inizia nel comune di San Giovanni Bianco, in provincia di Bergamo. La valle è percorsa dal torrente Enna che nel corso dei secoli, tra Taleggio e San Giovanni Bianco, ha formato una spettacolare forra della lunghezza di circa 3 chilometri, chiamata l'Orrido della Val Taleggio.

L'Enna nasce da una piccola grotta situata nella parte inferiore della Costa del Palio, nei pressi di Morterone in Provincia di Lecco, dove subito riceve da sinistra il suo primo affluente, il Remola e con esso, proprio all'altezza della sorgente, forma il pozzo chiamato Fiume Latte (in dialetto locale Füm Lacc), una splendida marmitta dei giganti. Entra in Provincia di Bergamo all'altezza del suo secondo affluente da destra, il Bordesigli e percorre tutta la Val Taleggio, dividendo letteralmente la valle in due. Esiste infatti un unico ponte carrozzabile che unisce i due versanti della Val Taleggio, il Ponte della Lavina, che collega il comune di Vedeseta con Peghera, frazione di Taleggio.

Superato il comune di Taleggio, l'Enna percorre una spettacolare forra lunga circa 3 chilometri, chiamata l'Orrido della Val Taleggio per poi confluire da destra nel fiume Brembo a San Giovanni Bianco.

Amministrativamente è suddivisa in tre comuni:

Taleggio, con le frazioni
Sottochiesa (sede del Municipio);
Peghera;
Olda;
Pizzino;
Vedeseta, con le frazioni:
Avolasio;
Lavina;
Reggetto.
Morterone, in provincia di Lecco

La Val Taleggio ha una precisa identità storica e un passato di fiera indipendenza. Fino all'inzio di questo secolo l'accesso alla valle era possibile solo attraverso i valichi poco battuti della Forcella di Bura, per chi veniva da Bergamo attraverso la Valle Brembilla, del Culmine di San Pietro per chi proveniva dalla Valsassina e del Passo di Baciamorti per i collegamenti con l'alta Val Brembana attraverso la Val Stabina. Ora la strada provinciale consente di accedere direttamente dal fondovalle superando il suggestivo e spettacolare orrido scavato dal Torrente Enna tra il Monte Cancervo e il Monte Sornadello.

I versanti della valle presentano caratteristiche molto differenti: le pendici esposte a meridione hanno una morfologia dolce disegnata dai coltivi e dalle numerose contrade rurali; sulla sponda opposta, con l'eccezione della conca di Peghera, dominano versanti ripidi e scoscesi che ospitano vasti ed ininterrotti boschi di latifoglie. Le originarie architetture civili della Val Taleggio sottolineano la singolare identità di questa vallata e costituiscono, insieme a quelle della limitrofa Valle Imagna, una tipologia assolutamente unica, che non trova riscontro sul resto del territorio alpino. Gli edifici sono sempre in pietra calcarea locale, molto regolari, a pianta rettangolare, singoli o aggregati, con volumi estremamente semplici e lineari, sottolineati dai precisi spigoli, realizzati con pietre d'angolo accuratamente lavorate e dagli spettacolari tetti spioventi di lastre calcaree. Queste coperture sono senz'altro il particolare architettonico che rende caratteristiche ed uniche le costruzioni della valle.

La presenza in loco di cave di pietra calcarea affiorante in regolari depositi stratificati e l'impossibilità di affrontare gli alti oneri di trasporto necessari per reperire altrove un differente materiale di copertura, hanno determinato lo sviluppo di questa particolare tecnica costruttiva. Le pietre impiegate (pióde) arrivano anche a spessori di 7/8 cm e, a causa dell'elevato peso, non possono essere appoggiate parallelamente all'orditura del tetto, come avviene con le ardesie di Branzi e Valleve, ma devono necessariamente essere appoggiate orizzontali una sopra l'altra a scalare, in modo che il grande peso della copertura (fino a 150 Kg/mq.) si scarichi parzialmente sui massicci muri perimetrali. Purtroppo queste coperture risentono in modo particolare dell'usura del tempo. Mentre gli edifici minori e i fabbricati rurali in discrete condizioni si possono ancora incontrare con relativa frequenza, le costruzioni di una certa rilevanza sono restate poche. Tra queste si segnalano la casa signorile dei Borghi” nel centro di Sottochiesa, che si distingue per la composizione a più falde del tetto, la bella abitazione sulla corna di Pizzino e il caratteristico nucleo di Ca' Corviglio. La Valle Taleggio merita di essere percorsa e visitata nella sua interezza e pertanto non si può prescindere dall'uso dell'automobile. Le sensazioni più penetranti però restano quelle che si assaporano percorrendo a piedi le antiche mulattiere, cogliendo tutti i particolari di un ambiente che mantiene ancora una dimensione genuina e semplice.

I Guelfi della Val Taleggio resistettero ai numerosi assalti e impedirono ai milanesi l'accesso al Passo di Baciamorti e quindi all'alta Valle Brembana. Con questa impresa la Val Taleggio si meritò la benemerenza da parte dei Dogi di Venezia e il riconoscimento dei propri statuti.  La Corna di Pizzino costituisce inoltre uno spettacolare balcone panoramico affacciato su tutta la Val Taleggio.


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giovedì 9 luglio 2015

LA VALSASSINA



L’eccezionale posizione tra lago e monte fa della valle un’area unica per l’armonia tra natura, cultura e tradizione. Il grande massiccio del Legnone evita l’entrata dei venti provenienti dal nord. Gli sbocchi a lago delle valli del Varrone, della Pioverna e dell’Esino aprono porte e finestre all’accentuato clima mediterraneo del Lario. L’intenditore sa che le calde estati e gli inverni ricchi di neve sono un salutare clima continentale, tanto che la Valsassina e la Riviera lariana sono frequentate anche quali luoghi di cura. Qui si incontra ancora il contadino che raccoglie il fieno mentre nell’alpeggio si prepara il formaggio. Il tutto secondo ritmi antichi, tramandati dal tempo, come il lento spegnersi degli ultimi raggi del sole che tramonta.

La Valsassina è racchiusa tra il gruppo delle Grigne, a occidente, e il gruppo delle Alpi Orobie, che, a semicerchio da oriente a settentrione, la separano dalle valli bergamasche e dalla Valtellina. Si collega al ramo lecchese del Lago di Como grazie a due sbocchi, a Lecco e a Bellano. Esiste una strada di collegamento alle valli bergamasche: la strada provinciale 64 Prealpina Orobica, che dal comune di Moggio sale alla Culmine di San Pietro per poi discendere nella Val Taleggio.

La valle è percorsa in tutta la sua lunghezza dal torrente Pioverna, il quale nasce dalla Grigna e scorre verso nord per sfociare nel Lago di Como all'altezza di Bellano, comune nel quale il torrente forma una spettacolare forra chiamata l'Orrido di Bellano.

Percorrendo la strada provinciale 62 della Valsassina da sud a nord, s'incontra subito Ballabio, da dove svoltando a destra sulla strada provinciale 64 si raggiunge la costa Est della valle, ovvero quel territorio che da qualche anno viene impropriamente chiamato Altopiano Valsassina, dove si trovano i comuni di Cremeno, Cassina Valsassina, Moggio e Barzio. Proseguendo invece verso nord lungo la SP 62, si incontrano i paesi della bassa valle: Pasturo, Introbio, Primaluna, Cortenova e Taceno. Qui s'incontra un bivio: proseguendo sulla strada provinciale 62, verso ovest, si sbuca a Bellano passando per Vendrogno; se invece si imbocca la strada provinciale 67 si raggiungono i comuni dell'Alta Valsassina: Crandola Valsassina, Margno e Casargo. Proseguendo sulla provinciale si raggiunge la Val Varrone.

Le montagne che milioni di anni fa cominciarono a sollevarsi dal piatto fondo dell’oceano Tetide, per lo scontro tra la «zolla» del continente africano e quella eurasiatica, e dalle cui sommità oggi lo sguardo domina tutt’intorno maestose vallate e, più in là, a nord le alte cime delle Alpi, a sud la vasta pianura fino a Milano e gli Appennini. Fino a dodicimila anni fa ricoperte da una spessa coltre di ghiaccio, oggi queste montagne, facendo da argine ai freddi venti del nord, concorrono al clima mitissimo del Lario dove regnano le essenze mediterranee dell’olivo, dell’alloro e del cipresso.

Senza l’intervento dell’uomo questo territorio sarebbe ricoperto di foreste e di paludi. Il paesaggio porta impressi, evidenti, i segni dell’uomo. Per scoprire i quali occorre fare come la primavera. La primavera è un po’ come un lento scalatore ed insieme ad essa sale verso la cima dei monti tutto ciò che sboccia e cresce. Quando nel fondovalle si è già compiuta la fioritura degli alberi da frutto, lungo i pendii delle vallate i prati cominciano appena a verdeggiare mentre sugli alpeggi, vicino alle ultime macchie di neve, sboccia il croco. Giorno dopo giorno la primavera sale verso le cime dei monti in questo «paese in verticale», raggiunge i pendii in ombra, i valichi e le gole con il proprio seguito, rappresentato da un esercito che diviene sempre più grande, di fiori e di piante.

Tra il sesto e il secondo secolo prima di Cristo l’espansione a sud delle popolazioni dell’Europa continentale conduce i Galli al centro della regione. La loro sviluppata agricoltura introduce l’allevamento e la preparazione della carne.
Infine giunge la mano di Roma che consolida un robusto sistema minerario-agricolo-militare. L’intrecciarsi di Longobardi, Bizantini e Franchi porta all’affermarsi del comune rurale, autonomo per volontà di uomini liberi. Pietra su pietra hanno costruito, altri hanno abbattuto, altri ancora hanno riedificato e poi smantellato.
Tanta storia rivive in queste pietre, dai primi abitatori naturali dei luoghi, agli invasori che poi vi hanno posto radici.
L’avvento delle signorie, la riforma e la controriforma, l’affermarsi degli stati europei, l’assolutismo, la rivoluzione e la restaurazione culminano con il processo di industrializzazione e la «belle epoque» delle terme e degli alberghi. Infine la Grande Guerra 1915-1918, con la realizzazione del sistema di fortificazioni, strade e mulattiere della «Linea Cadorna».

I piccoli musei, raccolte dal sapore quasi familiare, conservano oggi le eredità delle genti che da millenni hanno popolato queste valli e queste montagne, permettendoci un contatto diretto con questa affascinante realtà. È, questo, una sorta di itinerario alla scoperta di un patrimonio di tradizioni e di memorie. È, al tempo stesso, la scoperta dei rapporti fra un secolare mondo contadino e il proprio spazio, verificando così l’aprirsi di nuove e affascinanti possibilità conoscitive.

L’intensa fede religiosa delle genti tra lago e montagne ha espresso una stupenda costellazione di chiese, cappelle, immagini sacre. La maggior parte delle chiese dominano il paesaggio dalle sommità e contribuiscono alla sua fisionomia unica, alla sua tipica bellezza. L’importanza del Concilio di Trento qui più che in ogni altra regione ha inciso profondamente nella vita della gente.
Qui si è avverata la mirabile fusione tra la religiosità popolare, della gente umile, e il magistero della Chiesa universale. Residuo di antiche tradizioni pagane, riconversione delle stesse nel ciclo delle feste liturgiche cristiane... molti sono gli elementi che concorrono all’origine delle tante manifestazioni popolari, raccolte alla voce «tradizioni», conservate fino ad oggi nonostante lo spopolamento ed il radicale mutamento dei modelli economici e della struttura sociale.
Un quadro sociale è andato delineandosi con sempre maggiore chiarezza: l’impoverimento demografico delle città nell’età delle pestilenze, tra le quali emergono quelle del 1576 e del 1630, ed il contemporaneo incremento nelle valli, soprattutto dei versanti meridionali come le nostre, portano gli energici ed intraprendenti montanari ad occupare, quasi ad invadere, le città pedemontane ed oltre, con un movimento centrifugo in tutte le direzioni: verso la pianura padana e da lì sulle strade per Roma; verso la Savoia e indi a Parigi; verso Lucerna e Coira e quindi attraverso le valli del Reno e del Danubio in tutta l’Europa centrale. Il loro peregrinare è un andare e tornare dal e al luogo d’origine che ha il carattere della periodicità, che può essere del tempo breve annuale o di epoche più lunghe ed indefinite, anche senza il ritorno fisico ma sempre con il riferimento all’origine.


Quello della produzione casearia è sicuramente uno degli ambiti principali dell'economia, della vita e del costume della Valsassina.
Il latte derivante dall'allevamento di bovini e la sua lavorazione sono un'arte tipica di questa valle poichè i nuovi mezzi non hanno fatto dimenticare le antiche regole che da sempre governano l'allevamento del bestiame e che prevedono, tra l'altro, il trasferimento estivo delle mandrie sugli alpeggi alle quote più alte.

Il latte così prodotto viene lavorato per ricavare formaggi di indubbia qualità tra cui il più conosciuto è sicuramente il tipico formaggio da tavola, ovvero il taleggio: un formaggio dalla forma quadrangolare, con crosta sottile e dalla pasta uniforme e compatta, ideale come secondo piatto o a fine pasto accompagnato da mele o pere.
Il taleggio è così versatile che è anche ideale per la preparazione di primi piatti (paste,risotti e zuppe, di secondi piatti (frittate), di insalate e anche di alcuni tipi di pizza e crepes.

Un altro prodotto tipico della Valsassina è la polenta taragna, ricetta tipica anche della vicina Valtellina; alla tradizionale polenta viene aggiunto del formaggio.

Grazie al clima mite del lago, anche la zona tra Varenna, Vezio e Perledo vanta una notevole produzione di olio extra vergine di oliva.
Le varietà di olivo maggiormente coltivate sono il "Frantoio" (frutti olivoidali dal peso di circa 2gr) e il "Leccino" (frutti grossi ino a 5gr).

La raccolta delle erbe commestibili è legata nel territorio lecchese ad usanze antiche e a tradizioni perdutesi purtroppo nel tempo.
La Valsassina custodisce un'incredibile e impensabile varietà di piantine, germogli, fiori e radici tra le più prelibate, interessanti dal punto di vista grastronomico, dietetico e curativo.
Le erbe più raccolte sono la "Crepide" (insalata matta), la "Cima di rapa" (ravizzone), il "Piattello" (mustacc), il "Radicchio a fiore azzurro", la "Primula", il "Raperonzolo" (rampogen), il "Silene e il "Tarassaco".

Il territorio lecchese è ricco di montagne e di boschi in cui si alternano noccioli,roveri, castani, faggi, abeti e larici, tutte piante adatte allo scambio di sostanze con la terra per innescare la nascita e la crescita dei funghi.

I dolci della Valsassina spaziano dalle crostate ai piccoli frutti, allo scapinasc, ai sassetti della Valsassina (biscotti croccanti con mandorle da gustare con il vino) ai caviadini, particolari biscotti tipici di Barzio e ora prodotti e commercializzati da tutti i pasticceri e panettieri della Valle.
Da citare anche il Dolce Grigna, fatto di fichi secchi, noci, frutta candita e uva sultanina.

Gli scapinasc sono dei ravioli con ripieno semi-dolce fatto con uvetta, amaretti, formaggio e pangrattato conditi con abbondante formaggio grattugiato e burro fuso (tipici quelli della festa patronale di San Biagio il 3 febbraio a Bindo, una frazione di Cortenova, conosciuta ormai da tutti come "la festa pusè bèla che ghè").
Sempre a Cortenova in fine Novembre c'è il concorso del Vin brulè con i mercatini di Natale. Da 7 anni vengono allestiti nel periodo natalizio vari presepi e alberi che partecipano al concorso "Un Canton un presepi". Girando per il paese è possibile gustare dei dolcetti e del Vin Brulè offerti da alcune persone del paese. Dal 2012 è attivo il presepe vivente che si tiene per tutta la viglia di Natale e che termina nella chiesa di Cortenova con la messa di mezzanotte.

Nell'incantevole cornice del lago di Como e delle Alpi, è possibile provare la dolce emozione del volo libero col parapendio tandem accompagnati da un pilota esperto, brevettato dall'aeroclub d'Italia.

Per chi ama camminare, la Valsassina è una terra ricca di varietà di paesaggi: pareti calcaree, verdi alpeggi, laghi di montagna, alternati a sentieri e vie ferrate di complessità diversa sulle Grigne, sul Pizzo dei Tre Signori, sul Legnone per soddisfare le esigenze di professionisti e di principianti, di alpinisti provetti e di famiglie.
Per informazioni su escursioni e passeggiate con Guide alpine, visita il sito Guide Alpine del Lario e delle Grigne.

Da Taceno a Pasturo gli artigiani continuano a battre il rame e il ferro ricavandone oggetti di grande pregio.
In questi stessi centri è sviluppata la produzione di mobili e il loro restauro, mentre nell'area tra Cortenova e Primaluna sono presenti numerose industrie metallurgiche specializzate nella produzione di flange.
Premana è la capitale della produzione di forbici e coltelli: e tanto le grandi aziende quanto quelle piccole hanno sviluppato mercato in ogni parte del mondo.

Nel dicembre del 2002 in Valsassina, dopo giorni di violenti temporali, una frana ha sepolto parte del paese di Bindo una frazione di Cortenova, bloccando la strada provinciale che porta a Taceno da Lecco. In seguito a questa frana sono stati trasformati molti terreni,da agricoli ad industriali portando così ad una serie di fabbriche metalmeccaniche lungo il fondovalle che va da Introbio a Taceno e trasformando un territorio che fino a pochi anni fa era una piccola oasi verde a pochi Km dalle grandi città. La strada provinciale è rimasta interrotta per sette anni ma è stata ripristinata attraverso la costruzione di una galleria, il "Tunnel Bindo", inaugurato il 2 agosto 2009.




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