Visualizzazione post con etichetta patriota. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta patriota. Mostra tutti i post

martedì 28 aprile 2015

PERSONE DI VARESE : EMILIO MOROSINI

.


Morosini Emilio nacque a Milano il 26 giugno 1830, unico figlio maschio di Giovanni Battista e di Emilia de Zeltner, entrambi di estrazione nobiliare.
Dal 1836 al 1842 frequentò l’istituto fondato e diretto da Antonio Boselli, dove, in anticipo sui tempi, nei programmi, oltre alle materie letterarie, erano incluse anche le lingue straniere, la ginnastica, il nuoto e la scherma. Studiò poi nel ginnasio di Brera, avendo come insegnante il patriota e scrittore Achille Mauri, e infine (1847) nell’I.R. liceo di Porta Nuova (poi liceo Parini).

Fin dalla tenera età strinse un’amicizia profondissima con i fratelli Emilio ed Enrico Dandolo e con Luciano Manara, i quali nutrirono un affetto speciale anche per il resto della famiglia Morosini. Già coinvolto nelle manifestazioni antiaustriache del 30 dicembre 1846 (giorno dei funerali di Federico Confalonieri) e del 21 febbraio 1848, Morosini si distinse in vari momenti delle Cinque Giornate (18-22 marzo 1848), militando nel gruppo di volontari che ebbe nell’amico Manara una guida sempre più autorevole. Cacciati gli Austriaci da Milano, Morosini prese parte all’inseguimento delle milizie nemiche in ritirata, entrando nel primo nucleo di quel battaglione dei volontari lombardi, comandato da Manara, che si sarebbe estinto soltanto nel luglio 1849 a Roma. Morosini fu tra i protagonisti (come attesta un’intensa lettera alla sorella Carolina) del primo vero scontro con l’esercito austriaco, avvenuto a Castelnuovo (tra Peschiera e Verona) l’11 aprile 1848 e risoltosi in una completa disfatta. Sebbene un successivo consiglio di guerra ne avesse decretato l’assoluta mancanza di responsabilità, Morosini fu richiamato a Milano (insieme a Enrico Dandolo) dal generale comandante delle milizie volontarie Michele Napoleone Allemandi: energiche pressioni in quella direzione aveva svolto Angelo Fava (che fu una figura cardine nella sua formazione), estremamente preoccupato per la sorte del giovane discepolo. Morosini entrò quindi con il grado di sottotenente nello stato maggiore del generale Ettore Perrone di San Martino, comandante della divisione lombarda, prendendo parte nel luglio 1848 alle sterili operazioni intorno alla fortezza di Mantova. Dopo la netta vittoria degli Austriaci sui Piemontesi avvenuta a Custoza, Morosini accompagnò Perrone a Bozzolo (28 luglio 1848), dove il re Carlo Alberto si era nel frattempo ritirato: in quel concitato frangente, il giovane milanese espresse, in una vibrante missiva indirizzata alla sorella Giuseppina, profondo sdegno per la discutibile condotta di guerra dell’esercito piemontese. Congedato dal generale Perrone con grandi attestazioni di stima, si diresse (insieme a Enrico Dandolo) dapprima a Vezia, presso Lugano, nella vasta tenuta di famiglia, per poi ricongiungersi finalmente (settembre 1848) all’amico Manara, che aveva costituito un corpo scelto inquadrato nell’esercito piemontese. Morosini entrò così come ufficiale nella 2a compagnia del battaglione dei bersaglieri lombardi (poi inserito nella divisione lombarda, comandata dal generale Girolamo Ramorino), con la quale, dopo interminabili mesi di attesa, visse la ripresa della guerra all’Austria (marzo 1849), sfociata in una terribile delusione.

Dopo l’armistizio di Vignale, che decretava lo scioglimento della divisione lombarda senza offrire garanzie ai sudditi dell’imperatore d’Austria, Morosini appoggiò senza esitazioni la scelta di Manara di portare il proprio battaglione in soccorso della Repubblica Romana, assediata dalle milizie francesi comandate dal generale Nicolas-Charles-Victor Oudinot.

Alla madre Emilia, fortemente contraria all’intervento in favore di una «massa di ostinati utopisti incorreggibili» (Capasso, 1914, p. 202), Morosini rispose da Roma il 1° maggio 1849 con le seguenti parole: «Del resto ora si tratta di difendere una città italiana da un’invasione straniera qualunque, si tratta dell’onore delle armi italiane così vilipeso, si tratta di agire in conformità alla riconoscenza che noi dobbiamo alla nazione Romana, che ci accolse così splendidamente...Della Repubblica non me ne importa un fico, ma dell’Italia e del suo onore penso diversamente. Credetelo, se foste qui, capireste che il nostro posto è in Roma e ci applaudireste» (ibid., pp. 204 s.).

Promosso tenente e distintosi nella campagna contro l’esercito napoletano (in particolare nello scontro di Rocca d’Arce del 27 maggio 1849), Morosini combattè valorosamente nella sanguinosa e decisiva giornata del 3 giugno 1849, nella quale, durante uno dei ripetuti assalti alla posizione di villa Corsini, vide cadere al proprio fianco Enrico Dandolo. Sebbene Emilio Dandolo e Manara avessero cercato nei giorni successivi di esporlo il meno possibile ai pericoli, Morosini, divenuto comandante interinale della 2a compagnia, dovette affrontare nella notte fra il 29 e il 30 giugno presso il bastione del Merluzzo un soverchiante attacco francese: gravemente ferito e fatto prigioniero, si spense all’alba del 1° luglio 1849. La salma fu tumulata a Roma nella cappella dei Cento Preti della chiesa di S. Francesco a ponte Sisto, ove erano già quelle di Manara, caduto il 30 giugno a villa Spada, e di Enrico Dandolo.

In seguito, alcuni commilitoni curarono il trasporto delle salme dei tre patrioti fino a Vezia, ove quelle di Morosini e di Enrico Dandolo poterono essere deposte in una cappella del giardino di villa Morosini. Alcuni anni più tardi Emilia Morosini de Zeltner trascrisse in un volume denominato Lettere dei ragazzi (non destinato alla pubblicazione) tutte le missive che dall’autunno 1847 al giugno 1849 erano state indirizzate a lei, al marito e alle cinque figlie da Emilio, dai fratelli Dandolo e da Manara.




LEGGI ANCHE : asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-varese.html




FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



PERSONE DI VARESE : ENRICO DANDOLO

.


Dandolo Enrico fu un patriota (Varese 1827-Roma 1849). Con il fratello Emilio partecipò alle Cinque giornate di Milano e alle operazioni del battaglione dei bersaglieri lombardi di L. Manara nel Bresciano, nel Trentino, alla battaglia di Novara. Durante la difesa di Roma (1849), cadde nell’assalto di Villa Corsini.

Avendo maturato una buona esperienza nelle tattiche di guerriglia, prese parte coi volontari lombardi della Legione Manara alla campagna del Bresciano e del Trentino della prima guerra d'indipendenza, e partecipò alla costituzione della Repubblica Romana, nel 1849. Durante la battaglia contro i Francesi, che infine occuparono Roma annientando la Repubblica Romana, Dandolo militava con il grado di capitano nel Battaglione Bersaglieri Lombardi, al comando di Luciano Manara.

Egli morì nella notte del 3 giugno 1849, durante lo scontro che ebbe luogo nei pressi di Villa Corsini. Fu sepolto a Vezia, piccolo comune vicino a Lugano (Canton Ticino) dove la famiglia dell'amico Morosini aveva una villa. Il conte Tullio Dandolo, padre di Enrico ed Emilio, aveva cercato di ottenere il permesso dal governo austriaco di seppellire il figlio nella tomba di famiglia ad Adro (Bs), ma le condizioni erano troppo umilianti per la famiglia per cui il corpo di Enrico rimase in terra straniera. Centoventi anni dopo gli abitanti di Adro, venuti a conoscenza che la cappella di Vezia era ormai caduta nell'abbandono, chiesero ed ottennero di riportare le spoglie di Enrico nella tomba di famiglia. La traslazione, a spese della comunità adrense, avvenne con cerimonia solenne nel settembre del 1968, in concomitanza con un raduno nazionale del corpo dei Bersaglieri che vennero ad Adro ad onorare il loro eroico commilitone.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-varese.html



FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



PERSONE DI VARESE : EMILIO DANDOLO

.


Dandolo Emilio è nato a Varese il 4 aprile 1830 dal conte Tullio e da Giulietta Bargnani, dopo esser stato tre anni, fino al 1843, nel collegio di Monza diretto dal barnabita padre Piantoni, insieme col fratello Enrico frequentò con profitto le scuole ginnasiali di Brera, legandosi di stretta amicizia con  Morosini, Manara ed altri giovani che con lui partecipavano agli entusiasmi patriottici.
Così ricorda Dandolo stesso la situazione politica di Milano verso la fine del '47, il fervore dei giovani, l'attesa di grandi eventi: "Le lezioni scolastiche erano trascurate fino dai più diligenti; i pazzi discorsi, le ardenti speranze assorbivano la nostra mente esaltata. Riunitici in piccole brigate, noi passavamo le ore apprendendo i militari esercizi: la notte ci trovava raccolti in qualche remota cameretta a fonder palle e preparare cartucce. Ogni nostro cortile, ogni giardino racchiudeva nelle mal dissimulate fosse casse d'armi e di munizioni" (I volontari ed i bersaglieri lombardi. Annotazioni storiche, Milano 1860, 2 ed., p. 3). Da molti compagni riconosciuto come capo, Dandolo partecipò alle collette a scopo benefico, alle dimostrazioni, ai preparativi della sommossa, poco curandosi delle esortazioni alla prudenza che gli venivano dal padre, specie dopo la proclamazione dello stato d'assedio.

Dall'inizio della rivoluzione milanese fece parte col fratello del drappello di studenti guidato da Anfossi e da Manara, lottando a Porta Nuova e negli scontri più importanti per poi combattere, subito dopo la liberazione, nelle file della colonna Manara, del quale divenne secondo aiutante. Con la colonna liberò Crema, Brescia e Salò, giungendo al lago di Garda; proseguì poi la campagna verso il Trentino nelle file del corpo d'osservazione del Tirolo (guidato prima da Allemandi e poi da Durando), cui apparteneva anche il riorganizzato battaglione Manara, dislocato dapprima a Montesuello e poi a Idro.

Di questi mesi di fazioni militari e di sacrifici, di sconforto e di fiducia, così Dandolo, dall'11 giugno sottotenente alfiere del battaglione, verso la fine di luglio scriveva al padre: "Io vedo l'avvenire così scuro, io prevedo tanto sangue e tante lacrime da spargersi, prima di meritare la libertà che non posso essere allegro e neppure sereno confortatore d'altrui. Che vuoi? Soffriamo, sperando in Dio che non abbandonerà la santissima causa. Io mi distraggo colle occupazioni, colla speranza e il desiderio dei pericoli e della gloria... Verrà giorno, io lo spero in Dio, in cui riuniti tutti, celebreremo lietamente la gloriosa fine della nostra servitù" (in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara..., pp. 93 s.).

Alla conclusione della guerra, nella quale il battaglione fu impegnato in combattimenti di retroguardia (a Carzago-Lonate) per coprire Brescia, poi nella ritirata della divisione lombarda verso Bergamo, Monza e il Ticino, Dandolo seguì le vicende del battaglione Manara in Piemonte: scioglimento, ricostituzione in accordo col governo piemontese, esercitazioni militari nei pressi di Alessandria.

Ufficiale della 4ª compagnia, Dandolo non riusciva a calmare la inquietudine né a tacere il desiderio di riprendere la lotta: "Noi qui secondo il solito non stiamo male, ma vi assicuro che tutti i giorni cresce quello stato di inquietudine e di svogliatezza portato dal non saper mai nulla di positivo sui fatti nostri, e del nostro povero paese .... I soldati sono frementi e noi vi assicuro che non ne possiamo proprio più. Basta poi verrà questo benedetto ordine di marciare. Oh allora sì che sarà una gioia per tutti! E verrà presto perché tutti pare che siano d'accordo nel far subito la guerra... . Intanto noi se non altro approfittiamo del tempo studiando, facendo esercizi, ed istruendo i soldati, i quali speriamo si faranno onore, e ne faranno a noi. È un gran piacere vi assicuro aver a che fare con dei soldati disciplinati e vogliosi di battersi come sono questi. Vedrete che dei Bersaglieri Lombardi si parlerà, ma basta che non ci lascino qui a languire per un pezzo..." (in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara..., pp. 154 s.).

Durante la breve campagna del '49, nelle file del battaglione Manara, inquadrato nella divisione lombarda comandata dal gen. G. Ramorino, Dandolo partecipò il 20 marzo al combattimento della Cava guidando l'avanguardia sull'alto Gravellona; dopo la sconfitta di Novara, seguì le sorti del battaglione che, in vista dello scioglimento della divisione lombarda, passò alla fine di aprile dalla Liguria allo Stato pontificio, sbarcando a Porto d'Anzio, per continuare a lottare per la libertà d'Italia. Promosso tenente, dal 30 aprile partecipò ai combattimenti per la difesa della Repubblica romana, lottando contro i Napoletani a Velletri e contro i Francesi a Roma, guidando il 3 giugno per ordine di Garibaldi un drappello di una ventina di uomini in un disperato assalto a Villa Corsini e rimanendovi ferito, mentre veniva colpito a morte il fratello Enrico.

Prese poi parte alle ultime fasi della difesa di Roma, a Villa Spada, dove assistette alla morte di  Manara, preoccupandosi infine del trasporto in patria delle salme del fratello e degli amici Morosini e Manara.

Ottenute le dimissioni dal servizio il giorno medesimo in cui l'Assemblea romana deliberò la cessazione di ogni ulteriore difesa (1° luglio), qualche giorno dopo s'imbarcò a Civitavecchia per Genova. Qui, atteso dal padre Tullio e dalla di lui seconda moglie Ermellina Maselli, non fu autorizzato a scendere, sicché dovette sbarcare a Marsiglia, e per Ginevra e il Canton Ticino raggiungere Vezia presso Lugano verso la metà del mese, dove, ai primi di settembre, giunsero e furono tumulate le salme del fratello e del Morosini. Spinto dal desiderio di onorare i compagni caduti e i superstiti, e senza entrar nel vivo del dibattito politico tra moderati e democratici, si mise a scrivere un volume di memorie sulle vicende eroiche dei bersaglieri lombardi (I volontari e i bersaglieri lombardi, Torino 1849; trad. inglese, London 1851, con pref. di  Capponi).

Aureo libretto, secondo Croce, il volume si inserisce nella memorialistica del Risorgimento, più che nella storiografia o nella pubblicistica, per la schiettezza della narrazione, il taglio dei dialoghi e dei ritratti, la freschezza delle immagini, non senza critiche verso le autorità di governo in Lombardia e Piemonte, o verso l'operato del Mazzini durante la Repubblica romana. Lodato da Pellico per il candore e l'onestà, da Capponi per il senno, i moderati pensieri e lo spirito religioso, venne definito da Tommaseo "libro, che, se lo stile ci fosse, sarebbe opera d'antica bellezza e bontà" (Mazzoni, pp. 1231 s.), e da Capasso (Dandolo, Morosini, Manara..., p. 266) libro pervaso di "accenti tenerissimi e forme e colori vivissimi per descrivere gli episodi principali e la tragica fine dei suoi". Secondo Pieri (Storia militare del Risorgimento..., p. 846) "è dimostrato come Dandolo ritenesse opportuno, anzi necessario, immettere le schiere volontarie nell'esercito regolare, sia facendone nuovi reparti, sia ingrossando quelli esistenti".

Nel successivo decennio, non riuscendo a riprendere il posto di ufficiale nell'esercito piemontese o a iniziare una qualche carriera nell'amministrazione sarda, Dandolo attese ad accrescere la propria cultura, ma non in vista dell'esercizio di una libera professione, volgendosi invece alle pratiche agricole, all'amministrazione del patrimonio, alle meditazioni ed ai viaggi che tuttavia non lo aiutarono a vincere lo sconforto per le passate sventure (ed una recente delusione amorosa per Peppina Morosini). Di un lungo viaggio in Oriente, compiuto insieme con l'amico marchese Trotti (ottobre 1850-agosto 1851), pubblicò una relazione assai apprezzata (Viaggio in Egitto, nel Sudan, Siria e in Palestina, Milano 1854). Essendogli stato concesso dal governo nel '55, in occasione della guerra di Crimea, di essere addetto al quartier generale sardo come sottotenente dei bersaglieri, non attese l'imbarco del corpo di spedizione e ai primi di aprile era già dinanzi a Sebastopoli nel quartier generale francese. Le autorità austriache, valutando il significato "patriottico" della presenza del Dandolo in Crimea, col pretesto che il passaporto gli era stato concesso per un viaggio di svago e non per partecipare alla guerra arruolato in un esercito straniero, gli ingiunsero di rientrare in Lombardia, pena la perdita della cittadinanza, l'espulsione dallo Stato e il sequestro dei beni. Tornato a Milano nel maggio del medesimo anno, fu sottoposto a sorveglianza (e venne relegato nella sua villa di Adro vicino Brescia alla fine del '56, mentre l'imperatore visitava Milano). Nonostante l'aggravarsi della tisi che lo minava, continuava nel lavoro segreto, insieme con Giulini e altri esponenti della nobiltà e borghesia lombarda, per promuovere l'agitazione e la propaganda nel Lombardo-Veneto secondo l'orientamento liberale impresso dal Cavour in Piemonte. Consumato dalla tisi, si spense a Milano il 20 febbraio 1859, assistito dai genitori e da amici e compagni d'armi.

I funerali diedero luogo ad una grandiosa manifestazione patriottica, con una folla enorme di fronte alla quale fu impotente la polizia, e inutile lo schieramento delle truppe al cimitero. Qui espressero il loro dolore di amici e di italiani il conte Bargnani e  Allievi, che volle citare le ultime parole dello stesso Dandolo: "Desidero e spero di spendere la vita al servizio della patria e di morire per lei, a cui ho consacrato da vari anni tutti i miei affetti e la mia esistenza". A Milano effetti immediati dei funerali furono perquisizioni, arresti e dimostrazioni patriottiche dinanzi al teatro alla Scala il 23 febbraio, mentre anche a Torino si tenevano solenni esequie in memoria del Dandolo, alla presenza di esponenti dell'emigrazione italiana, e venivano ricordate nei giornali la sua figura e la sua opera.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-varese.html




FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html




martedì 21 aprile 2015

PERSONE DI BESOZZO : GIULIO ADAMOLI

.


Adamoli  Giulio è nato a Besozzo il 29 febbr. 1840 da Domenico, nel 1857 si era iscritto alla facoltà di matematica dell'università di Pavia: di qui datano l'affettuosa amicizia che sempre lo legò alla famiglia Cairoli, particolarmente a Benedetto, e le sue prime esperienze patriottiche.

Nel 1857 si iscrisse alla facoltà di matematica dell'Università di Pavia, e in quegli anni nacque l'amicizia con Benedetto Cairoli. Partecipò alla Seconda guerra di indipendenza italiana del 1859 come volontario nel 1º Reggimento "Granatieri di Sardegna".

Sottotenente, nel gennaio 1860 rassegnò le dimissioni dall'esercito raggiungendo nel maggio Giuseppe Garibaldi in Sicilia, con la spedizione organizzata da Agostino Bertani e guidata da Carmelo Agnetta; fece tutta la campagna, distinguendosi negli scontri di San Leucio e Sant'Angelo. Finita la spedizione si dedicò all'ingegneria, entrando nell'impresa costruttrice della ferrovia Milano-Pavia.

Ma nel 1862 fu di nuovo con Garibaldi ad Aspromonte (Giornata dell'Aspromonte) e nel 1866, col II Battaglione dei bersaglieri milanesi, combatté a Vezza d'Oglio, guadagnando una medaglia d'argento. Appena finito il conflitto, compì un breve viaggio politico negli Stati Uniti con le lettere di presentazione di Giuseppe Mazzini e di Garibaldi.

Nel settembre 1867 fu a Ginevra con Garibaldi al congresso della pace; e, nello stesso anno, partecipò alla battaglia di Mentana. Dal giugno 1869 all'ottobre 1870 compì un viaggio nelle steppe dei Kirghisi e nel Turkestan, per studiare i sistemi di allevamento del baco da seta. Nel 1876 si recò in Marocco, sotto gli auspici della Società geografica italiana, per lo studio della situazione economica di quel paese e l'eventuale impianto di fattorie commerciali sulla costa atlantica.

Eletto deputato nello stesso anno, fu sottosegretario agli Esteri nel Governo Crispi IV (dal 21 giugno 1894) e nominato senatore il 19 novembre 1898. Dal 1907, per un ventennio, fu commissario della Cassa del debito pubblico in Egitto, favorendo gli interessi della colonia italiana e compiendo viaggi lungo il Nilo e nel vicino Oriente. Si dedicò anche a studi di ingegneria portuale.

Morì al Cairo il 25 dic. 1926.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-besozzo.html




FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



domenica 12 aprile 2015

GIUSEPPE LEONARDI

.


Nacque a Riva del Garda, territorio asburgico, nel 1840. Giovanissimo abbracciò gli ideali del risorgimento irredentista trentino. Nel 1859 varcato furtivamente in Val di Ledro il confine di Stato tra il Regno d'Italia e l'Austria, Giuseppe Leonardi si recò a Parma ove si arruolò come volontario nell'esercito dell'Italia centrale, e fu aggregato al 39º Reggimento fanteria della Brigata “Bologna”, della quale facevano parte più di cento volontari giunti dal Trentino.

Congedatosi nel maggio del 1860 si recò a Milano per arruolarsi fra i volontari della spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, con i quali combatté a Calatafimi e nella presa di Palermo, ove fu ferito gravemente al braccio e alla gamba.

Stabilitosi successivamente a Brescia impiegandosi come scrivano presso un notaio, mantenne forti legami politici con il trentino Ergisto Bezzi, pure de I Mille con il quale progettò l'insurrezione armata della popolazione del Trentino e del Cadore contro l'Impero austriaco. Così tra il 13 e il 16 novembre del 1864 una colonna di patrioti, forte di 150 uomini, marciò da Brescia verso la Valtrompia con l'intento di penetrare in Trentino attraverso il Passo Maniva e Bagolino . Il gruppo si armò a Pieve di Lumezzane con fucili e bombe all'Orsini, ma dopo una marcia estenuante nella neve gli insorti furono fermati a Collio dai carabinieri e dall'esercito e arrestati. Giuseppe Leonardi fu tradotto presso il carcere militare di Alessandria e ivi detenuto per 78 giorni.

Nel maggio del 1866 con la mobilitazione del regio esercito italiano per l'imminente guerra contro l'Austria, Leonardi si arruolò nel Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi e fu incorporato nel 2º Reggimento Volontari Italiani del tenente colonnello Pietro Spinazzi. Assegnato alla 16ª Compagnia, 4º Battaglione del maggiore Cesare Bernieri. Prese parte alle Operazioni in Val Vestino (1866) e all'occupazione di Campi di Riva del Garda, che rappresentò il punto massimo di penetrazione del corpo garibaldino in Trentino.

Stabilitosi a Brescia, poi a Limone sul Garda e infine nel 1899 con il secondo matrimonio a Malcesine, ove morì il 17 agosto.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-garda-limone-sul-garda.html







FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html





mercoledì 8 aprile 2015

GIUSEPPE GARIBALDI

.


Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882) è stato un generale, patriota, condottiero e scrittore italiano. Noto anche con l'appellativo di "Eroe dei due mondi" per le sue imprese militari compiute sia in Europa, sia in America Meridionale, è la figura più rilevante del Risorgimento e uno dei personaggi storici italiani più celebri al mondo. È considerato dalla storiografia maggioritaria, anche internazionale, e nella cultura popolare del XX secolo da essa influenzata, il principale eroe nazionale italiano. Iniziò i suoi spostamenti per il mondo quale ufficiale di navi mercantili e poi quale capitano di lungo corso al comando. La sua impresa militare più nota fu la spedizione dei mille, che annetté il Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d'Italia.

Garibaldi era inoltre massone di 33º grado del Grande Oriente d'Italia (ricoprì anche brevemente la carica di Gran Maestro) e anticlericale, e fu autore di numerosi scritti e pubblicazioni, prevalentemente di memorialistica e politica, ma anche romanzi e poesie.

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807, nell'attuale Quai Papacino, in un periodo in cui la relativa contea (già parte dei domini sabaudi) era sotto sovranità francese, poiché in quegli anni erano stati annessi dal Bonaparte all'Impero tutti i territori continentali sabaudi. Fu battezzato il 29 luglio 1807 nella chiesa di San Martino di Acri e registrato come Joseph Marie Garibaldi, cittadino francese.

La sua famiglia si era trasferita a Nizza nel 1770; il padre Domenico Garibaldi (1766-1841), originario di Chiavari, era proprietario di una tartana chiamata Santa Reparata. La madre Maria Rosa Nicoletta Raimondi (22 gennaio 1776-20 marzo 1852) era una figlia di pescatori originaria di Loano, nel 1807 territorio francese (sino al 1805 Repubblica Ligure), e morì a Nizza.

Giuseppe era il terzogenito di sei figli: Angelo (1804-1853), il fratello maggiore, divenne console negli Stati Uniti d'America, Michele (1810-1866) fu capitano di marina, Felice (1813-1855) rappresentante di una compagnia di navigazione e produttore di olio pugliese, Maria Elisabetta (1798-1799) e Teresa (1817-1820), morta in tenera età in un incendio insieme alla balia.

Per diverso tempo, gli storici dettero credito a una versione, dimostratasi poi falsa, secondo la quale Garibaldi avrebbe avuto origini tedesche. La famiglia divideva con alcuni parenti, i Gustavin, una casa sul mare. Dell'infanzia di Giuseppe si hanno poche notizie, per lo più agiografiche. Risulta invece certa la notizia che a 8 anni salvò una lavandaia caduta in acqua e che il soccorso a persone in procinto di annegare fu una costante, tanto che ne salvò almeno 12. Nel 1814 la casa dei Garibaldi fu demolita per ampliare il porto e la famiglia traslocò. Nel 1815 Nizza fu restituita al Regno di Sardegna per decisione del Congresso di Vienna e restò sotto il governo dei Savoia fino al 1860.

I genitori avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, medico o sacerdote, ma Giuseppe non amava gli studi, prediligendo gli esercizi fisici e la vita di mare. Egli stesso ebbe a dire che era più amico del divertimento che dello studio. Vedendosi ostacolato dal padre nella sua vocazione marinara, durante le vacanze tentò di fuggire per mare verso Genova con tre suoi compagni: Cesare Parodi, Celestino Bernord e Raffaello de Andrè. Scoperto da un sacerdote che avvisò la famiglia della fuga, fu fermato appena giunto alle alture di Monaco e ricondotto a casa; è forse da ricondursi a questo episodio l'inizio della sua antipatia verso il clero.

Tuttavia, si appassionò alle materie insegnategli dai suoi primi precettori, padre Giaume e il "signor Arena". Quest'ultimo, reduce delle campagne napoleoniche, gli impartì lezioni d'italiano e di storia antica (rimase affascinato soprattutto dalla Roma antica). Alla fine riuscì a persuadere il padre a lasciargli intraprendere la vita di mare e venne iscritto nel registro dei mozzi a Genova il 12 novembre 1821. Dall'iscrizione in quel registro, si rileva che l'altezza del quattordicenne Garibaldi era di 39 once e 3/4, pari a circa 170 cm, considerevole in rapporto all'età e all'altezza media dell'epoca.

Anche se la datazione del primo imbarco è incerta, il 13 gennaio 1824 si imbarcò sedicenne sulla Costanza, comandata da Angelo Pesante di Sanremo, che Garibaldi avrebbe in seguito descritto come il migliore capitano di mare. Nel suo primo viaggio, su di un brigantino con bandiera russa, si spinse fino a Odessa nel mar Nero e a Taganrog nel mar d'Azov (entrambe ex colonie genovesi). Vi si recherà nuovamente nel 1833, incontrando un patriota mazziniano che lo sensibilizzerà alla causa dell'unità d'Italia. Rientrò a Nizza in luglio.

L'11 novembre partì per un breve viaggio come mozzo di rinforzo sulla Santa Reparata, costeggiando la Francia in un equipaggio di cinque uomini. Con il padre, tra aprile e maggio del 1825, partì alla volta di Roma con tappe a Livorno, Porto Longone e Fiumicino con un carico di vino, per l'approvvigionamento dei pellegrini venuti per il Giubileo indetto da papa Leone XII. L'equipaggio era composto da 8 uomini, ed ebbe la sua prima paga.

Giuseppe e Anita si erano conosciuti a Laguna nel 1839: si narra che, dopo averla inquadrata con il cannocchiale mentre si trovava a bordo dell'Itaparica, una volta raggiunta le disse in italiano «tu devi essere mia» Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva (questo il nome completo) si era sposata il 30 agosto 1835 con il calzolaio Manuel Duarte de Aguiar, molto più anziano di lei, che, arruolatosi fra gli imperiali, era fuggito da Laguna tempo prima, ma la moglie non lo seguì. Nata nel 1821 a Merinhos, aveva 18 anni al momento dell'incontro con Garibaldi.

Garibaldi e Ana Maria de Jesus Ribeiro, passata alla storia - e quasi alla leggenda - del Risorgimento italiano con il vezzeggiativo di "Anita", si sposarono il 26 marzo 1842, presso la chiesa di San Francisco d'Assisi con rito religioso. È spesso raccontato il fatto che Anita, abile cavallerizza, insegnò a cavalcare al marinaio italiano, fino ad allora del tutto inesperto di equitazione. Giuseppe a sua volta la istruì, per volontà o per necessità, ai rudimenti della vita militare.

Cercò di far allontanare Anita e i figli da sua madre, ma il giugno 1846 ottenne un parere contrario del ministro degli esteri di Carlo Alberto, Solaro della Margarita. I legionari progettano di tornare in patria, e grazie alla raccolta organizzata fra gli altri da Stefano Antonini, Anita, con i tre figli, e altri familiari dei legionari partirono nel gennaio del 1848 su di una nave diretta a Nizza, dove furono affidati per qualche tempo alle cure della famiglia di Garibaldi. Scoppiati i moti italiani di indipendenza, fu autorizzato a ritornare negli stati sardi con un gruppo di soldati.

Garibaldi rientrò in Italia nel 1848, poco dopo lo scoppio della prima guerra di indipendenza. Venne noleggiato un brigantino sardo chiamato Bifronte, rinominato Speranza (o Esperanza); venne nominato come capitano lo stesso Garibaldi, e la partenza avvenne il 15 aprile 1848, alle 2 del mattino; si erano imbarcati 63 uomini. Giunsero in vista di Nizza il 23 giugno. Lo avevano anticipato un suo luogotenente, Giacomo Medici, e il suo nome grazie al lavoro di Mazzini.

Tornato dunque in Europa per partecipare alla prima guerra di indipendenza contro gli austriaci, il 25 giugno proferisce parole a favore di Carlo Alberto di Savoia; il 29 giugno si trova a Genova, e per giungere a Roverbella, nei pressi di Mantova, deve chiedere 500 lire a un amico.

L'incontro con Alberto avvenne il 5 luglio: venne accolto freddamente, a causa l'antica condanna; non potendogli offrire aiuto, gli consigliò di recarsi a Torino dal ministro della guerra, che gli suggerì a sua volta di recarsi a Venezia. Nel 1848 incontrò Mazzini a Milano, rimanendone in parte deluso, avendo i due pensieri molto diversi. Partecipò comunque alla guerra come volontario al servizio del governo provvisorio di Milano, con la carica di generale. Formò il battaglione Anzani, del quale pose al comando Giacomo Medici, e partì alla volta di Brescia il 29 luglio, avendo ricevuto l'incarico di liberarla. Il numero dei suoi uomini era di circa 3.700 e usarono le vesti abbandonate dagli austriaci. Non giunse però nella città poiché venne richiamato a Milano. Le sue affermazioni contro Carlo Alberto provocarono una sua dura reazione: costui impartì l'ordine di fermarlo e se si fosse ritenuto necessario anche di arrestarlo, provocando la diserzione di alcuni volontari. Giunse ad Arona, dove chiese contributi alla cittadinanza, poi a Luino dove il 15 agosto 1848 ebbe il primo scontro in Italia contro gli austriaci (comandati dal Colonnello Molynary) e verso Varese, poi navigando sul Lago Maggiore, essendosi impadronito dei battelli, penetrò per poco nel territorio austriaco. Gli austriaci che si trovò a combattere erano comandati dal generale Konstantin d'Aspre, che ebbe l'ordine di ucciderlo, e il maresciallo Radetzky.

Quindi a Morazzone venne sorpreso da un attacco nemico, ma riuscì a fuggire nella notte rimanendo con circa 30 uomini. Trovò riparo in Svizzera, il 27 agosto valicando il confine travestito da contadino. Il 10 settembre ritornò da sua moglie, che viveva a casa di un amico, Giuseppe Deideri. Il 26 settembre ripartì alla volta di Genova, e il 24 ottobre si imbarcò sulla nave francese Pharamond con Anita, poi rimandata a Nizza. All'inizio erano 72 uomini con Garibaldi a cui si aggiunsero i lancieri di Angelo Masini il 24 novembre e soldati provenienti da Mantova. Si arrivò così a una formazione di 400 uomini alla quale Garibaldi diede il nome di Legione Italiana.

Ritornato in Europa, l'11 febbraio 1854 a Londra incontrò nuovamente Mazzini, poi viaggiando giunge prima a Genova il 6 maggio, e poi a Nizza. Compra il 29 dicembre 1855 una parte dei terreni di Caprera, (isola dell'arcipelago sardo di La Maddalena) Partendo dalla casa di un pastore costruì, insieme a 30 amici, una fattoria, in seguito l'isola divenne interamente di sua proprietà. Dopo la Terza Guerra di Indipendenza, venne chiamato a Caprera per amministrare i beni del Generale, il colonnello e amico Giovanni Froscianti (Collescipoli, 1811 – Collescipoli, 1885) che fu al fianco di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille.

Nell'agosto del 1855 gli venne concessa la patente di capitano di prima classe: navigò con il "Salvatore", un piroscafo a elica; in seguito prese un cutter inglese chiamato Anglo French, a cui diede il nome del suo nuovo amore, Emma. Dopo che la nave si arenò, Garibaldi abbandonò l'attività di marinaio per dedicarsi all'agricoltura, lavorando come contadino e allevatore: possedeva un uliveto con circa 100 alberi d'ulivo, oltre a un vigneto, con cui produceva vino, e allevava 150 bovini, 400 polli, 200 capre, 50 maiali e più di 60 asini.

Il 4 agosto rese pubblico il suo pensiero distanziandosi dalle prese di posizioni Mazziniane. Il 20 dicembre 1858 incontrò Cavour. Divenne vicepresidente della Società Nazionale mentre si pensava di metterlo a capo di truppe: il 17 marzo 1859 vennero istituiti, grazie a un decreto reale, i Cacciatori delle Alpi, e Garibaldi ebbe il grado di maggiore generale. Si contavano circa 3200 uomini, i quali vestivano l'uniforme dell'esercito sardo. Si formarono 3 gruppi: oltre al nizzardo, al comando vi erano Enrico Cosenz e Giacomo Medici.

Marciò verso Arona: i suoi uomini erano convinti di pernottarvi, Garibaldi comunicò a Torino l'intenzione di giungervi, al che ordinando l'assoluto silenzio, raggiunse Castelletto, fermò due reggimenti e con il terzo avanzò; il 23 maggio, superato il Ticino, con le barche attaccò Sesto Calende riuscendo ad avere la meglio sugli austriaci e entrando in Lombardia.

Occupata Varese, venne affrontato il 26 maggio dal barone Karl Urban, noto anche come il Garibaldi austriaco inviato da Ferencz Gyulai; nell'occasione il comandante ordinò di sparare soltanto quando il nemico si trovasse alla distanza di 50 passi, lo scontro è noto come battaglia di Varese. Si conteranno fra i cacciatori la perdita di 22 uomini contro 105 austriaci, a cui si aggiungeranno 30 prigionieri. Il giorno seguente, dopo aver attaccato frontalmente e vinto gli austriaci nella battaglia di San Fermo, nonostante fosse in netta inferiorità numerica, occupò la città di Como. Il 29 ripartì con i suoi uomini dalla città, volendo conquistare il fortino a Laveno, raggiunto il 31 maggio. Questo attacco non ebbe esito favorevole, e nel frattempo, essendo Urban rientrato a Varese, ritornò a Como per presidiare la città, riprendendo poi Varese in seguito alla vittoria dei francesi a Magenta.

Il 15 giugno, seguendo l'ordine di Della Rocca che l'invia a Lonato sul lago di Garda, si mosse verso est. A Rezzato, nel bresciano, avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di Sambuy, che però non giunsero in quanto l'operazione era stata annullata, ma di ciò non era stato avvertito e continuò ad avvicinarsi al nemico in ritirata. Enrico Cosenz, dopo aver fermato un attacco nemico, si fermò, mentre il colonnello Stefano Turr continuò l'attacco, raggiunto poi dallo stesso Cosenz; Garibaldi, notando la situazione sfavorevole, inviò Medici a loro sostegno e organizzò le truppe, limitando il danno: 154 fra i cacciatori, contro i 105 degli austriaci in quella che venne chiamata battaglia di Treponti. Ricevette quindi l'ordine di spostarsi in un teatro secondario bellico: in Valtellina, per respingere alcune truppe austriache verso il passo dello Stelvio; l'armistizio di Villafranca terminò gli scontri. Durante tutta questa campagna il numero di volontari al suo seguito crebbe da circa 3000 a un numero non ben quantificato: 12.000 secondo Trevelyan, 9500 secondo la Riall che si basa su uno scritto di Garibaldi stesso.

Manfredo Fanti ebbe il comando mentre Garibaldi venne retrocesso come comandante in seconda, ricevendo il comando di una delle tre truppe, le altre due saranno agli ordini di Pietro Roselli e Luigi Mezzacapo, dopo litigi diede le dimissioni.

Il 6 maggio 1866 si formarono dei Corpi Volontari: Garibaldi doveva assumerne il comando, ma invece di 15.000 persone previste si presentarono in 30.000 persone. Sul Piemonte il 10 giugno Garibaldi partì raggiungendo i suoi uomini. Alla fine si contarono 38.000 uomini e 200 cavalieri, ma di questi utilizzerà inizialmente solo 10.000 contro di lui il generale Kuhn von Kuhnenfeld con 17.000 uomini.

Doveva agire in una zona di operazioni secondaria, le prealpi tra Brescia e il Trentino, a ovest del Lago di Garda, con l'importante obiettivo strategico di tagliare la via fra il Tirolo e la fortezza austriaca di Verona. Ciò avrebbe lasciato agli Austriaci la sola via di Tarvisio per approvvigionare le proprie forze e fortezze fra Mantova e Udine. L'azione strategica principale era, invece, affidata ai due grandi eserciti di pianura, affidati a La Marmora e a Cialdini.

Garibaldi operò inizialmente a copertura di Brescia, dopo piccole vittorie del 24 giugno e quella del Ponte Caffaro il 25 giugno 1866. Il 3 luglio non riuscì a penetrare a Monte Suello dove venne ferito, lasciando il comando a Clemente Corte.

Il 16 luglio respinse una manovra del generale nemico a Condino il 21 luglio gli austriaci presero Bezzecca Garibaldi notando i suoi uomini ritirarsi diede nuove disposizioni riuscendo a respingere l'avanzata e a far ritirare il nemico. Si apriva la strada verso Riva del Garda e quindi l'imminente occupazione della città di Trento. Salvo essere fermato dalla firma dell'armistizio di Cormons. Il 3 agosto ricevette con telegramma di abbandonare il territorio occupato rispose telegraficamente: «Ho ricevuto il dispaccio nº 1073. Obbedisco» "Obbedisco", parola che successivamente divenne motto del Risorgimento italiano e simbolo della disciplina e dedizione di Garibaldi.

Il telegramma fu inviato dal garibaldino marignanese Respicio Olmeda in Bilancioni il 9 agosto 1866 da Bezzecca, evento ricordato su una lapide collocata sulla facciata della sua casa natale a San Giovanni in Marignano (RN).

Il corpo dei volontari venne sciolto il 1º settembre; in seguito ci fu l'episodio di Verona.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/i-cacciatori-delle-alpi.html





FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



mercoledì 1 aprile 2015

GIUSEPPE ZANARDELLI

.


Onorevoli colleghi! Chiamato dal Vostro suffragio a questo altissimo Ufficio, io, nella commozione in me destata da così solenne dimostrazione di benevolenza e di fiducia, sento innanzi tutto il bisogno di porgervi l'omaggio sincero del mio più fervido ringraziamento, assicurandovi essere la gratitudine il sentimento che vibra più gagliardo nell'animo mio.
Se volessi pensare alle difficoltà dell'Ufficio medesimo, il quale esige le doti più diverse e che quasi si escludono fra loro; se dovessi, perciò, consultare soltanto le povere mie forze, dovrei pregarvi di volermi dispensare da un onere sì grave. Ma, d'altra parte, sarebbe sconoscenza il venir meno al vostro appello indulgente e generoso; ed io, ammaestrato dall'esempio dei miei insigni predecessori che mi studierò di imitare, obbedisco ai voleri della Camera, accettando l'arduo incarico di dirigere le sue deliberazioni. Io conosco l'estensione de' miei doveri, e porrò tutti i miei sforzi ad adempierli. Primissimo fra essi reputo quello della più assoluta imparzialità.
Ebbi altra volta l'onore di questo seggio, ed ho sicura coscienza che l'imparzialità, la neutralità fra i partiti non ho dimenticato giammai. Mi considerai e mi considero Presidente non della maggioranza ma della Camera,  custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà. Di questa libertà della tribuna io sento in cuore tutto il rispetto,  sento l'imperiosa necessità; ché le istituzioni libere vivono di luce, di pubblicità, di discussione, di contraddizione. Io con tutte le mie forze invoco che la nostra tribuna sia alta, libera, non infrenata che dal rispetto ch'essa deve a sé stessa, dal disdoro che è serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale di chi presiede all'Assemblea.
Affinché adunque mi sia reso meno difficile il mandato conferitomi, io ho bisogno di tutta la vostra cooperazione. Nulla mi gioverebbero la vostra benevolenza, la vostra amicizia di cui sono felice e orgoglioso; nulla il voto lusinghiero con cui mi avete qui chiamato, se non avessi l'aiuto vostro costante, quotidiano, efficace: nulla io potrei colle meschine mie forze senza una continua vostra adesione la quale sorregga, avvalori il potere di cui la Camera volle affidarmi l'esercizio.
Ed ora dedichiamoci ai lavori parlamentari con quella operosità cui, inaugurando la ventesima Legislatura, ha fatto appello l'amatissimo Re, di cui la prima parola ieri rivoltaci fu parola di affetto per le libere istituzioni: magnanimo affetto mercè cui la Monarchia nazionale, rivendicatrice dell'indipendenza e presidio dell'unità della patria, può a buon diritto gloriarsi che le gioie della Reggia siano le gioie della Nazione.
In pari tempo il discorso inaugurale, accennando ai disegni di legge a favore delle classi lavoratrici, ha richiamato il vostro pensiero verso l'opera di riparazione attesa dai miseri, la quale deve compiere nella Legislazione un grande dovere di giustizia e di solidarietà.  L'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico; in altri termini, una società giusta, ed un Governo libero, ecco una degna mèta segnata dalla parola reale alle Vostre deliberazioni.
Questo Governo libero mediante gli atti Vostri soltanto può dare benefici frutti; ché negli ordini costituzionali non havvi vita che dove il Parlamento la porta; e questa vita di continua discussione e sindacato, come rialza e fortifica lo spirito pubblico, così nelle sue forme tutelari è suprema guarentigia di provvide e mature risoluzioni.
Con simili guarentigie si riesce a creare quello spirito di legalità il quale è del pari necessario nei privati cittadini e nei pubblici poteri; mentre il rigido rispetto, la religiosa osservanza della legge deve tutto dominare presso un popolo geloso de' suoi diritti e della sua dignità.
I destini della patria, carissimi colleghi, sono affidati ai vostri onori ed ai vostri intelletti. Non havvi nazione che non abbia provato crudeli sventure; non havvi nazione la cui grandezza non abbia immensamente costato di pianto, di sangue, di rude lavoro, e non abbia avuto mestieri del corso di secoli per trionfare. E tale trionfo dev'essere pure serbato all'Italia: dove il popolo è invidiato modello di temperanza e di abnegazione: e dove è modello di valore quell'esercito che anche nelle condizioni più infelici scrisse recenti pagine d'eroismo di cui potrebbe aver vanto la storia militare di qualsiasi popolo guerriero.  Ora se noi, attinta l'ispirazione ai solenni verdetti de' comizi elettorali; se noi in questo recinto, a nessun'altra gara intenti che a quella della devozione al pubblico bene, coll'unione delle forze, coll'armonia dei poteri costituzionali, faremo opera di saggezza, di patriottico ardore, di disinteresse o sacrificio individuale, daremo a noi stessi il prezioso sentimento di un alto dovere nobilmente adempiuto, e alla patria dilettissima la promessa di universale onoranza e rispetto, di liete e splendide fortune.
Invito gli onorevoli segretari e questori ad occupare i loro posti al banco della Presidenza.
(I segretari ed i questori occupano i loro seggi)

 Seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897

Giuseppe Zanardelli (Brescia, 26 ottobre 1826 – Maderno, 26 dicembre 1903) è stato un patriota e politico italiano.

Nacque il 29 ottobre 1826 , primo di quindici figli, da Giovanni Zanardelli e Margherita Caminada. Frequentò il Liceo classico Arnaldo di Brescia e si laureò in giurisprudenza all'Università di Pavia, come alunno del Collegio Ghislieri.

Combattente nei Corpi Volontari Lombardi durante la guerra del 1848 prese parte alla campagna del Trentino come milite nella colonna cremonese comandata da Gaetano Tibaldi, distinguendosi nella battaglia di Sclemo presso Stenico. Tornò a Brescia dopo la sconfitta di Novara e, per un certo periodo, si mantenne insegnando diritto. Collaborò al giornale Il Crepuscolo, con saggi di economia politica.

Nel 1849 partecipò all'insurrezione delle dieci giornate di Brescia contro il governo austriaco.

Il 29 febbraio del 1860 fu affiliato alla Massoneria nella prestigiosa Loggia romana "Propaganda Massonica" del Grande Oriente d'Italia. Eletto deputato nello stesso anno, ricevette vari incarichi amministrativi, ma si dedicò attivamente alla carriera politica solo a partire dal marzo 1876 quando la Sinistra, di cui era stato esponente di spicco, andò al potere.

Ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876, si dimise per alcune divergenze sulla gestione delle convenzioni ferroviarie. Ministro dell'Interno nel governo Cairoli del 1878, si occupò del progetto di riforma del diritto di voto.

Nominato ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881, riuscì a portare a termine la stesura del nuovo Codice di Commercio e a far approvare la normativa sul lavoro femminile e minorile. Congedato da Depretis nel 1883, rimase all'opposizione e diede vita alla "pentarchia"; nel 1887 entrò nuovamente nel governo dello stesso Depretis, sempre come ministro della Giustizia, rimanendo allo stesso dicastero anche nel successivo governo Crispi, fino al 6 febbraio 1891.

Durante questo periodo avviò una riforma del sistema giudiziario e fece approvare il primo codice penale dell'Italia unita, considerato tra i più liberali e progrediti tra quelli vigenti all'epoca: il codice Zanardelli venne presentato alla Camera nel novembre 1887, pubblicato il 22 novembre 1888, promulgato il 30 giugno 1889 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1890. Tra l'altro, per sua iniziativa personale, si giunse all'abolizione della pena di morte.

Nella Relazione al Re Zanardelli si diceva convinto che «le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d'interpreti, ciò che dal codice è vietato». Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che non dovesse guardare il delinquente come un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.

Alla caduta del governo Giolitti nel 1893 Zanardelli tentò strenuamente, ma senza successo, di formare un nuovo Gabinetto. Eletto presidente della Camera nel 1892 e nel 1897, ricoprì quest'incarico fino al dicembre 1897, quando accettò il portafoglio della Giustizia nel governo Rudinì, ma fu presto costretto a dimettersi a causa dei dissensi con il collega di governo Visconti Venosta sulle misure da prendere per impedire il ripetersi delle agitazioni popolari del maggio 1898.



Nella seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897, l'Assemblea elegge per la seconda volta alla Presidenza della Camera Giuseppe Zanardelli, con 303 voti su 431 votanti. Nel discorso di insediamento, che pronuncia nella seduta del 7 aprile, esordisce ringraziando nuovamente coloro che hanno voluto dimostrargli tanta fiducia. Ribadisce quindi di essere il Presidente non della maggioranza bensì dell'Assemblea, «custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà». Per essere all'altezza del suo compito deve però necessariamente poter contare sulla cooperazione dei colleghi. Solo un'Assemblea operosa, prosegue, potrà dar seguito al desiderio espresso dal Re nel discorso della Corona di offrire sollievo alle classi lavoratrici attraverso leggi giuste. Nelle indicazioni del sovrano l'obiettivo delle deliberazioni deve essere «l'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico», vale a dire una società giusta ed un Governo libero. Ne consegue che ai cuori e agli intelletti di tutti i deputati sono affidati i veri destini della patria.

Dopo essere tornato alla presidenza della Camera, abbandonò nuovamente il posto per poter prendere parte attiva alla campagna ostruzionistica del 1899-1900 contro il progetto di legge sulla pubblica sicurezza. Questa presa di posizione gli valse l'appoggio dell'estrema Sinistra nella formazione (dopo la caduta del governo Saracco) di un nuovo governo, che rimase in carica 991 giorni, dal 15 febbraio 1901 al 3 novembre 1903.

Nella seduta del 17 novembre 1898 l'Assemblea elegge per la terza ed ultima volta Giuseppe Zanardelli alla Presidenza della Camera, con 190 voti su 339 votanti. Nel discorso per il suo insediamento alla Presidenza si coglie l'eco delle vicende politiche dei mesi precedenti. Zanardelli ricorda, infatti, di aver lottato contro le proposte di modifica del Regolamento e riafferma di voler osservare con scrupolo la più assoluta imparzialità. Ripete poi ciò che aveva affermato al momento della seconda elezione, e cioè che la tribuna parlamentare può essere frenata soltanto «dal rispetto che essa deve a sé stessa, dal disdoro serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale della Presidenza». Proprio per questo, ora che la minaccia delle sanzioni disciplinari è finalmente caduta, la libertà di parola, la più ampia che lo Statuto consenta, deve tuttavia riconoscere nella legge fondamentale il suo limite. Si augura infine che la Camera scriva una pagina durevole nella storia legislativa della Nazione, promuovendo una politica riformatrice, assecondando cioè nella libertà e nel rispetto della tranquillità pubblica «quelle correnti popolari in cui si manifestano tante legittime aspirazioni».

Le sue precarie condizioni di salute non gli consentirono tuttavia di portare a termine grandi opere. La proposta di legge sul divorzio, sebbene già approvata dalla Camera, dovette essere ritirata per la forte opposizione popolare.

Negli ultimi anni di carriera Zanardelli focalizzò l'attenzione sulla questione del Mezzogiorno: nel settembre 1902 intraprese un viaggio attraverso la Basilicata - una delle regioni allora più povere d'Italia - per constatare personalmente i problemi legati al Sud della penisola. Il suo resoconto di viaggio sarà fondamentale per l'approvazione della legge speciale per la Basilicata (il 23 febbraio 1904), uno dei primi esempi di intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno.

Si congedò definitivamente dalla scena politica, a causa di una malattia terminale, dando le dimissioni da Primo ministro il 3 novembre 1903. Morì poco più di un mese dopo.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/toscolano-maderno.html




FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE


LA NOSTRA APP



http://mundimago.org/le_imago.html



giovedì 26 febbraio 2015

CARLO CATTANEO

.




Carlo Cattaneo (Milano, 15 giugno 1801 – Lugano, 6 febbraio 1869) è stato un patriota, filosofo, politico federalista, linguista e scrittore italiano. Di formazione illuminista e positivista, ebbe un ruolo determinante nelle cinque giornate di Milano del 1848.

Nato a Milano, figlio di Melchiorre, un orefice, e di Maria Antonia Sangiorgio, il piccolo Carlo trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti paterni. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del prozio Giacomo Antonio, un sacerdote di campagna, Cattaneo si appassionò alla lettura, soprattutto dei classici.

Il suo amore per le lettere classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al liceo di Porta Nuova dove si diplomò nel 1820. La sua formazione culturale e intellettuale fu plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Giambattista De Cristoforis e Giovanni Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo intellettuale milanese. Grazie a queste nuove opportunità aperteglisi, oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo iniziò a nutrire interessi di carattere scientifico e storico.

Sempre in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione intellettuale le letture presso la Biblioteca di Brera, e il contatto con il cugino paterno Gaetano Cattaneo il quale, oltre ad essere direttore del Gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del mondo intellettuale milanese di inizio secolo.


Altra importanza per il percorso formativo degli interessi di Cattaneo, furono la frequentazione assidua della Biblioteca Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna con il prefetto Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio paterno Antonio Cattaneo, farmacista e studioso di chimica.

Nel dicembre del 1820, la Congregazione Municipale di Milano lo assunse come insegnante di grammatica latina e poi di scienze umane nel ginnasio comunale di Santa Marta dove restò per ben quindici anni. In questo stesso periodo iniziò ad approfondire le sue frequentazioni con gli intellettuali milanesi, entrando a far parte della cerchia di Vincenzo Monti e di sua figlia Costanza, di questi stessi anni sono le sue amicizie con Stefano Franscini e Giuseppe Montani.

Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni di diritto tenute da Gian Domenico Romagnosi nella sua scuola privata, ne divenne presto amico ed allievo. Nel 1824 si laureò in Giurisprudenza presso l'Università di Pavia con il massimo dei voti.

Risale al 1822 la sua prima pubblicazione data alla stampa e apparsa sulla Antologia, si tratta di una recensione all'Assunto primo della scienza del diritto naturale di Romagnosi. Tra il 1823 e il 1824 si assenta numerose volte dal suo posto di insegnante per motivi di malattia, probabilmente per dei forti reumatismi. Tra il 1824 ed il 1826 diede alla pubblicazione le sue traduzioni dal tedesco di opere divulgative di carattere storico e geografico, frutto di una commissione governativa. In questo periodo collaborò con il suo amico Stefano Franscini per la traduzione della Storia della Svizzera pel popolo svizzero di Heinrich Zschokke, ma che venne pubblicata solo nel 1829.

Nel 1825 muore il padre e suo fratello maggiore Filippo, il primogenito, gli succede nel negozio di oreficeria. In questo stesso anno Cattaneo conosce Anna Woodcock, una giovane anglosassone con la quale inizierà ad allacciare una relazione sempre più profonda.

Nel 1848 a Milano Cattaneo ottenne alcune concessioni dal vicegovernatore austriaco, subito annullate dal generale austriaco Josef Radetzky.

Cattaneo e i suoi amici parteciparono e contribuirono alle cinque giornate di Milano. Ma dopo di esse, Cattaneo rifiutò l'intervento piemontese, perché considerava il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Cattaneo fu presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governò insieme al Governo provvisorio fino alla caduta della città  al ritorno degli austriaci.

Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, il 9 febbraio 1849 viene proclamata la Repubblica Romana, guidata da un triumvirato costituito da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.

In seguito alla conclusione dei moti del 1848-1849 il Cattaneo riparò in Svizzera e si accasò definitivamente a Castagnola, quartiere di Lugano, nel villino di caccia dell'avvocato liberale radicale Pietro Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Stefano Franscini, potente politico ticinese, e di partecipare alla vita politica del Cantone e della città. Fu uno dei fondatori e il primo Rettore del Liceo di Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo della Chiesa, al fine di formare quella classe borghese liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Fu amico di Luciano Manara. Nel 1860 andò a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche.

Morì nel 1869 a Lugano, e pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiutò sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Il suo corpo giace nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano accanto a illustri concittadini come Alessandro Manzoni e Carlo Forlanini.

Cattaneo viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. All'alba dell'Unificazione italiana, Cattaneo era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della Svizzera. Egli, infatti, avendo stretto amicizia di vecchia data con politici ticinesi come Stefano Franscini, aveva ammirato nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputava proprio a questa forma di governo.

Cattaneo è più pragmatico del romantico Giuseppe Mazzini, è un figlio dell'illuminismo, più legato a Pietro Verri che a Rousseau, ed in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della società. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche ed un monumento realizzato a Milano dal massone Ettore Ferrari, una sua lettera a Gian Luigi Bozzoni del 7 agosto 1867, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione.

Per Cattaneo scienza e giustizia devono guidare il progresso della società, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di pensiero; il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, attraverso un continuo confronto con gli altri.

La partecipazione alla vita della società è un fattore fondamentale nella formazione dell'individuo: il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo. Il progresso non deve avvenire per forza, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso.

Cattaneo nega l'idea di contratto sociale, gli uomini si sono associati per istinto: "la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale..."; è sempre esistito un "federalismo delle intelligenze umane": è sorto perché è un elemento necessario delle menti individuali.

Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza, afferma però, che più scambio e confronto ci sono, più la singola intelligenza diventa tollerante; in questo modo anche la società sarà più tollerante: i sistemi cognitivi dell'individuo devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.

Così come le menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni; attraverso il federalismo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica: "il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà", il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.

La libertà economica è fondamentale per Cattaneo, è la prosecuzione della libertà di fare: "la libertà è una pianta dalle molte radici" e nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni, le disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi.

Cattaneo fu un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinunciò ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità del Re sabaudo.

Oggi Cattaneo viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/milano-citta-dell-expo-conosciamola.html


http://www.mundimago.org/

FAI VOLARE LA FANTASIA 
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
 I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
 OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO 
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
 MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
.
 GUARDA ANCHE
LA NOSTRA APP


http://mundimago.org/le_imago.html



.

Post più popolari

Elenco blog AMICI