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lunedì 1 giugno 2015

PERSONE DI CASTEL GOFFREDO : GIUSEPPE ACERBI

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Nasce a Castel Goffredo (Mantova) il 3 maggio 1773, da un'antica famiglia la cui origine risale all'XI secolo.
Riceve una prima istruzione dai genitori, il colonnello Giacomo Acerbi (1740-1811) e dalla nobildonna Marianna Riva di Castel Goffredo, poi dall'abate Saverio Bettinelli, nello spirito dei Lumi e si laurea in legge nel 1794 a Pavia; conosce le più importanti lingue europee, è politicamente vicino ai giacobini e nel 1798 intraprende un viaggio per l'Europa fino a Capo Nord (primo uomo nella storia), attraversando il nord della Finlandia, insieme con Bernardo Bellotti, figlio di un banchiere bresciano. In Svezia si unisce alla spedizione il colonnello Anders Fredrik Skjöldebrand.

Impara il francese, l'inglese e il tedesco, annota scrupolosamente e con notevole intelligenza le osservazioni dei suoi viaggi: popoli, costumi, mentalità, mode letterarie senza tralasciare riferimenti scientifici sempre documentati. Nel 1802 pubblica a Londra, in lingua inglese, un resoconto dei suoi viaggi nell'Europa del nord: "Travel through Sweden, Finland and Lapland to the North Cap in the years 1798 and 1799" (la traduzione italiana, in realtà solo un compendio dei "Travels", apparirà a Milano nel 1832 con il titolo "Viaggio al Capo Nord").e i suoi viaggi conosce molte personalità di grande importanza europea come Madame de Stael, Goethe, Malthus, Klopstock.
A Parigi, dove si trova come addetto alla legazione della Repubblica Cisalpina, incontra Napoleone. Sempre a Parigi viene arrestato a causa di alcuni giudizi espressi nei "Travels" e questo influenza profondamente il suo atteggiamento nei confronti della situazione francese: ormai si tratta sempre più di un impero militare ben lontano dagli ideali che hanno ispirato la Rivoluzione Francese, ideali ai quali Giuseppe Acerbi guardava con speranza e fiducia. Torna in Italia interrompendo il lavoro diplomatico per la Francia  imperiale, ma continuando a studiare e a coltivare i suoi innumerevoli interessi (scienze naturali, agricoltura, musica, disegno, lingue moderne, ecc.).
Si reca a Vienna durante il Congresso del 1815 e ottiene la nomina di Console Generale d'Austria a Lisbona. In realtà non si reca a Lisbona ma rimane a Milano dove dirige la Biblioteca Italiana, che inizia a pubblicare nel 1816 sotto gli auspici del governo. La rivista gli attira molte critiche e da molti viene considerato un'antipatriota. Nel 1825, dopo molti incontri con il principe Metternich, viene nominato Console Generale in Egitto, e l'anno successivo arriva a Alessandria. Rimane in Egitto fino al 1834 compiendo numerosi viaggi ed esplorazioni.
Partecipa alla spedizione archeologica di Champollion, visita l'alto Egitto e la Nubia, successivamente si reca anche nel basso Egitto. In questi viaggi raccoglie moltissimo materiale archeologico che oggi fa parte delle collezioni di vari musei italiani e stranieri, tra cui quelli di Milano e di Mantova (Museo Egizio di Palazzo Te). Tornato in Italia resta per un paio di anni a Venezia come consigliere del governo austriaco. Nel 1836 si ritira definitivamente a Castel Goffredo per dedicarsi ancora agli studi.
Si interessa all'amministrazione dei suoi beni, mette mano al riordino delle note raccolte in Egitto, riordino che non riesce, purtroppo, a portare a termine. Muore il 25 agosto 1846.

Durante la sua permanenza in Finlandia raccolse vari testi di poesie, Jos mun tuttuni tulisi ("Se il mio caro venisse"), la ninna nanna Nuku, nuku nurmilintu ("Dormi, dormi uccellino"), il poema di Antti Keksi sull'inondazione del fiume Tornionjoki del 1677, poi divenuto un canto religioso. Annotò la melodia della canzone Älä sure Suomen kansa ("Non affliggerti popolo di Finlandia") e del Kalevala, il poema epico finlandese, composto da 50 canti, o runi, descrivendone l'esecuzione dei runoja, i cantori sciamani del luogo, ma tale trascrizione è considerata imprecisa.

La figura dell'Acerbi è molto più nota in Finlandia che in Italia: la sigla della radio di Stato finlandese è tratta da una sua melodia.
In Italia Acerbi ha una fama equivoca, legata all'occupazione austriaca. È noto che nella Restaurazione succeduta alla sconfitta napoleonica l'Austria cercò, con un governo paternalistico ma anche con una buona amministrazione, di procurarsi il favore della popolazione e in particolare di ottenere la collaborazione o almeno la neutralità degli intellettuali, suoi potenziali avversari: con la costituzione del periodico letterario Biblioteca Italiana, voluta dal conte Heinrich von Bellegarde e finanziato direttamente dal governo austriaco, cercò di contribuire a "rettificare le opinioni erronee sparse in tutte le forme dal cessato regime" e soprattutto di tener lontano i letterati dalla politica. La rivista superò i 700 abbonati.

Rifiutato l'incarico dal Foscolo, la direzione della rivista fu assunta da Acerbi e la Biblioteca italiana, che fu edita dal 1816 al 1859, apparve presto uno strumento dell'oppressione austriaca, anche se i suoi collaboratori furono tra gli scrittori più prestigiosi del tempo: Vincenzo Monti, Pietro Giordani, Carlo Botta, Antonio Cesari, Giulio Perticari, Gian Domenico Romagnosi, Melchiorre Gioia, Silvio Pellico, Vittorio Barzoni, Paride Zajotti e Giambattista Brocchi, definito dal Monti la principal colonna della Biblioteca.

A Giuseppe Acerbi è intitolato il Premio Letterario Giuseppe Acerbi del comune di Castel Goffredo.
Il "Premio Letterario Giuseppe Acerbi, narrativa per conoscere ed avvicinare i popoli" nasce ufficialmente nel 1993 con lo scopo di divulgare l'immagine di Castel Goffredo nel mondo non solo attraverso il suo prodotto industriale più rilevante, le calze, ma anche tramite iniziative culturali di alto livello. Il Premio si propone di contribuire alla diffusione di produzione letteraria di autori fino ad ora poco conosciuti in Italia, provenienti da nazioni o aree culturali europee ed extraeuropee.

All'edizione 1995 il Comitato organizzatore ha affiancato alla giuria scientifica, composta da studiosi e professori universitari, un'altra giuria formata da 70 lettori scelti tra gli iscritti alle biblioteche della Provincia di Mantova e Brescia, che, dopo aver letto i libri in concorso, esprimeranno il loro voto in busta chiusa consegnandola alla biblioteca che li aveva scelti; ogni lettore avrà a disposizione un solo voto; la giuria scientifica invece è composta da cinque grandi lettori, il cui voto vale cinque punti. Il punteggio espresso dalle giurie raggiungere in questo modo il totale di 95 punti.




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sabato 16 maggio 2015

GIUSEPPE PIERMARINI

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Piermarini Giuseppe nato a Foligno il 18 luglio 1734 da giovine studia matematica, meccanica, anche astronomia; con tanto amore che, dietro le insistenze dell'astronomo gesuita R. Boscovich, viene mandato a Roma per un corso regolare di studi nel 1760. Ma a Roma, più che dalle scienze esatte, si sente attratto dall'architettura, alla quale si dedica interamente avendo per maestri Paolo Posi e Luigi Vanvitelli. Finiti gli studi, torna a Foligno, e vi si indugia a copiare monumenti classici e a disegnare piccoli edifici e chiese di campagna. E forse si sarebbe impigrito nella quiete provinciale della sua terra, se non gli fosse toccata la meritata fortuna d'essere chiamato dal Vanvitelli a Caserta. Là il suo grande maestro lo aveva desiderato collaboratore nei disegni e nella costruzione della Reggia, dal 1765 al 1769. Sono del tempo di questo soggiorno i rilievi dell'Arco di Traiano a Benevento.

Nel 1770, iniziò la risistemazione dell'Università di Pavia e tre anni dopo il palazzo dell'Accademia di Scienze e Belle Lettere, detta anche Virgiliana a Mantova.

Con la decisione del governo austriaco di insediare stabilmente a Milano un arciduca, venne stabilito di realizzare una dimora cittadina appropriata e una casa di campagna. Per l'abitazione cittadina, si adattò il Regio Ducale Palazzo, posto di fianco del Duomo, mentre per la residenza di campagna, si decise di costruirne una ex novo poco fuori di Monza.

Il Piermarini, a cui venne affidata l'impresa, cercò di non far sfigurare il nuovo palazzo, rinnovato in sobrie forme neoclassiche (1773-80), dinnanzi alla magnificenza del Duomo gotico, e per ovviare a questo problema realizzò la cosiddetta Piazzetta Reale, prospiciente il palazzo e allora più ampia di Piazza Duomo, uno spazio delimitato ma non chiuso, che grazie a quel vuoto urbanistico riequilibra il rapporto tra i due edifici. La Piazzetta Reale che osserviamo oggi è stata rimaneggiata nel corso dell'Ottocento e del Novecento perdendo gran parte del suo carattere originale. In particolare, le due "maniche" del palazzo (le ali laterali che si dirigono verso il Duomo) sono state accorciate drasticamente facendogli perdere gran parte della sua bellezza legata in gran parte ai rapporti proporzionali tra i corpi. La ristrutturazione del palazzo fu assai travagliata e Piermarini dovette equilibrare le richieste di stile e soprattutto di economia di Vienna (l'imperatrice Maria Teresa d'Austria e il suo architetto Nicolò Pacassi, che aveva steso un primo progetto di ristrutturazione) con le esigenze e le aspettative dei futuri abitanti: il principe Ferdinando d'Asburgo-Lorena (figlio di Maria Teresa d'Austria) e consorte.

Piermarini decise anche di riorganizzare urbanisticamente il centro cittadino, aprendo Piazza Fontana e via Santa Radegonda, asse di collegamento col Teatro alla Scala e rettificando il Corso di Porta Orientale (l'attuale Corso Venezia), asse di collegamento con Monza e con Vienna.

Intanto, nel 1771, partecipa al concorso per i disegni della sede dell'Accademia (oggi Accademia Virgiliana) di Mantova in gara col Bibbiena. La vittoria, fatta più preziosa dalla celebrità del competitore soccombente, gli viene in seguito amareggiata da artificiose contrarietà alle quali egli tiene testa, dignitosamente. La costruzione fu terminata dall'architetto Paolo Pozzo nel 1775. Verso il 1772 appresta i disegni di riforma e d'ampliamento dell'università di Pavia; ma i lavori della facciata furono condotti con varianti da lui disapprovate.

Nel 1777 inizia la Villa reale di Monza, voluta dall'arciduca Ferdinando e terminata tre anni dopo.

Questa rapidità è di per sé un titolo di merito per l'architetto; che, più maturo d'esperienza, più saldo nei mezzi finanziari, libero nello sviluppo, dà buona prova del suo equilibrato spirito d'arte, architettando un'imponente, comoda e ben disposta reggia di soggiorno e trasfondendo nei giardini, nelle visuali, nella disposizione di verdi e di acque, di viali e di sfondi, la fantasia nutrita a Caserta e il proprio criterio di una commisurata nobiltà d'effetti. Nelle ville Piermarini, in confronto di quelle del sei e del settecento, fu ritenuto moderno assai; ma l'architettura ne è un po' troppo severa: a Desio, presso Milano, la villa Cusani, trasformata poi nella villa Tittoni; a Cassano d'Adda, la grandiosa villa D'Adda ora Borromeo; in Brianza, a Ello, la villa Prinetti ora Amman, e, a Cremnago, la villa Perego di Cremnago (1782).

Parecchi furono i palazzi costruiti a Milano:  Casnedi; Mellerio; Morigia in Via Borgonuovo; la facciata verso il giardino del palazzo Cusani in Via Brera; pure verso il giardino, la fronte del palazzo Litta sul corso Magenta; il portale del palazzo di Brera, del 1780; il palazzo del Monte di Pietà (1782-1783). Ma già nel 1777 aveva eretto per i Belgioioso il loro magnifico palazzo sulla piazza che ne prende il nome: primo fra tutti, anche per il carattere nell'espressione delle nuove tendenze architettoniche.

Al rinnovamento urbanistico di Milano, per impulso dell'arciduca Ferdinando, diede opera il Piermarini con la sistemazione, nel 1780, della piazza dinnanzi all'arcivescovado (del quale fece la facciata) e che fu chiamata dalla bella fontana che vi eresse, con il tracciato e il progetto di edifici per la via di S. Radegonda (1783); con la creazione rapida e felice dei giardini pubblici (la parte verso il corso) fra il 1782 e il 1787.
La sua opera universalmente conosciuta è il Teatro alla Scala, costruito nel 1776-78, un edificio di foggia neoclassica, ma ove si legge il recupero di un linguaggio morfologico rinascimentale. Dell'edificio originario, dopo i molti, successivi interventi (cominciati sin dal 1808-14 ad opera del Canonica) e la distruzione provocata dai bombardamenti del 1943, resta la facciata (salvo il pesante intervento del Botta) e l'impianto generale.

Nel 1776 ottenne la cattedra di architettura alla neonata Accademia di Belle Arti di Brera e l'anno successivo iniziò la Villa Reale di Monza. Inizialmente progettata come luogo di villeggiatura e di delizie, per volontà dell'arciduca venne pensata come un vero e proprio palazzo di corte e di rappresentanza, privilegiando soluzioni sobrie e un'organizzazione degli spazi interni funzionale e attenta alle esigenze abitative. Ancora a Monza costruì il Teatro arciducale, andato a fuoco nel 1802. Nel 1779 venne nominato Imperiale Regio Architetto.
Nel contado venne chiamato dal suo amico ebanista Giuseppe Maggiolini, per la realizzazione della facciata della Chiesa Prepositurale dei Santi Gervasio e Protasio (1780) di Parabiago. Nel 1782 lavorò all'ingrandimento del Teatro Sociale di Crema.

Nel 1798 tornò a Foligno, approntando il progetto per la cappella del Sacramento nella chiesa di San Lorenzo a Spello e realizzando interventi nel Duomo della sua città natale.

È zio per parte di madre dell'abate Feliciano Scarpellini, scienziato rifondatore dell'Accademia dei Lincei.



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mercoledì 1 aprile 2015

GIUSEPPE ZANARDELLI

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Onorevoli colleghi! Chiamato dal Vostro suffragio a questo altissimo Ufficio, io, nella commozione in me destata da così solenne dimostrazione di benevolenza e di fiducia, sento innanzi tutto il bisogno di porgervi l'omaggio sincero del mio più fervido ringraziamento, assicurandovi essere la gratitudine il sentimento che vibra più gagliardo nell'animo mio.
Se volessi pensare alle difficoltà dell'Ufficio medesimo, il quale esige le doti più diverse e che quasi si escludono fra loro; se dovessi, perciò, consultare soltanto le povere mie forze, dovrei pregarvi di volermi dispensare da un onere sì grave. Ma, d'altra parte, sarebbe sconoscenza il venir meno al vostro appello indulgente e generoso; ed io, ammaestrato dall'esempio dei miei insigni predecessori che mi studierò di imitare, obbedisco ai voleri della Camera, accettando l'arduo incarico di dirigere le sue deliberazioni. Io conosco l'estensione de' miei doveri, e porrò tutti i miei sforzi ad adempierli. Primissimo fra essi reputo quello della più assoluta imparzialità.
Ebbi altra volta l'onore di questo seggio, ed ho sicura coscienza che l'imparzialità, la neutralità fra i partiti non ho dimenticato giammai. Mi considerai e mi considero Presidente non della maggioranza ma della Camera,  custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà. Di questa libertà della tribuna io sento in cuore tutto il rispetto,  sento l'imperiosa necessità; ché le istituzioni libere vivono di luce, di pubblicità, di discussione, di contraddizione. Io con tutte le mie forze invoco che la nostra tribuna sia alta, libera, non infrenata che dal rispetto ch'essa deve a sé stessa, dal disdoro che è serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale di chi presiede all'Assemblea.
Affinché adunque mi sia reso meno difficile il mandato conferitomi, io ho bisogno di tutta la vostra cooperazione. Nulla mi gioverebbero la vostra benevolenza, la vostra amicizia di cui sono felice e orgoglioso; nulla il voto lusinghiero con cui mi avete qui chiamato, se non avessi l'aiuto vostro costante, quotidiano, efficace: nulla io potrei colle meschine mie forze senza una continua vostra adesione la quale sorregga, avvalori il potere di cui la Camera volle affidarmi l'esercizio.
Ed ora dedichiamoci ai lavori parlamentari con quella operosità cui, inaugurando la ventesima Legislatura, ha fatto appello l'amatissimo Re, di cui la prima parola ieri rivoltaci fu parola di affetto per le libere istituzioni: magnanimo affetto mercè cui la Monarchia nazionale, rivendicatrice dell'indipendenza e presidio dell'unità della patria, può a buon diritto gloriarsi che le gioie della Reggia siano le gioie della Nazione.
In pari tempo il discorso inaugurale, accennando ai disegni di legge a favore delle classi lavoratrici, ha richiamato il vostro pensiero verso l'opera di riparazione attesa dai miseri, la quale deve compiere nella Legislazione un grande dovere di giustizia e di solidarietà.  L'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico; in altri termini, una società giusta, ed un Governo libero, ecco una degna mèta segnata dalla parola reale alle Vostre deliberazioni.
Questo Governo libero mediante gli atti Vostri soltanto può dare benefici frutti; ché negli ordini costituzionali non havvi vita che dove il Parlamento la porta; e questa vita di continua discussione e sindacato, come rialza e fortifica lo spirito pubblico, così nelle sue forme tutelari è suprema guarentigia di provvide e mature risoluzioni.
Con simili guarentigie si riesce a creare quello spirito di legalità il quale è del pari necessario nei privati cittadini e nei pubblici poteri; mentre il rigido rispetto, la religiosa osservanza della legge deve tutto dominare presso un popolo geloso de' suoi diritti e della sua dignità.
I destini della patria, carissimi colleghi, sono affidati ai vostri onori ed ai vostri intelletti. Non havvi nazione che non abbia provato crudeli sventure; non havvi nazione la cui grandezza non abbia immensamente costato di pianto, di sangue, di rude lavoro, e non abbia avuto mestieri del corso di secoli per trionfare. E tale trionfo dev'essere pure serbato all'Italia: dove il popolo è invidiato modello di temperanza e di abnegazione: e dove è modello di valore quell'esercito che anche nelle condizioni più infelici scrisse recenti pagine d'eroismo di cui potrebbe aver vanto la storia militare di qualsiasi popolo guerriero.  Ora se noi, attinta l'ispirazione ai solenni verdetti de' comizi elettorali; se noi in questo recinto, a nessun'altra gara intenti che a quella della devozione al pubblico bene, coll'unione delle forze, coll'armonia dei poteri costituzionali, faremo opera di saggezza, di patriottico ardore, di disinteresse o sacrificio individuale, daremo a noi stessi il prezioso sentimento di un alto dovere nobilmente adempiuto, e alla patria dilettissima la promessa di universale onoranza e rispetto, di liete e splendide fortune.
Invito gli onorevoli segretari e questori ad occupare i loro posti al banco della Presidenza.
(I segretari ed i questori occupano i loro seggi)

 Seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897

Giuseppe Zanardelli (Brescia, 26 ottobre 1826 – Maderno, 26 dicembre 1903) è stato un patriota e politico italiano.

Nacque il 29 ottobre 1826 , primo di quindici figli, da Giovanni Zanardelli e Margherita Caminada. Frequentò il Liceo classico Arnaldo di Brescia e si laureò in giurisprudenza all'Università di Pavia, come alunno del Collegio Ghislieri.

Combattente nei Corpi Volontari Lombardi durante la guerra del 1848 prese parte alla campagna del Trentino come milite nella colonna cremonese comandata da Gaetano Tibaldi, distinguendosi nella battaglia di Sclemo presso Stenico. Tornò a Brescia dopo la sconfitta di Novara e, per un certo periodo, si mantenne insegnando diritto. Collaborò al giornale Il Crepuscolo, con saggi di economia politica.

Nel 1849 partecipò all'insurrezione delle dieci giornate di Brescia contro il governo austriaco.

Il 29 febbraio del 1860 fu affiliato alla Massoneria nella prestigiosa Loggia romana "Propaganda Massonica" del Grande Oriente d'Italia. Eletto deputato nello stesso anno, ricevette vari incarichi amministrativi, ma si dedicò attivamente alla carriera politica solo a partire dal marzo 1876 quando la Sinistra, di cui era stato esponente di spicco, andò al potere.

Ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876, si dimise per alcune divergenze sulla gestione delle convenzioni ferroviarie. Ministro dell'Interno nel governo Cairoli del 1878, si occupò del progetto di riforma del diritto di voto.

Nominato ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881, riuscì a portare a termine la stesura del nuovo Codice di Commercio e a far approvare la normativa sul lavoro femminile e minorile. Congedato da Depretis nel 1883, rimase all'opposizione e diede vita alla "pentarchia"; nel 1887 entrò nuovamente nel governo dello stesso Depretis, sempre come ministro della Giustizia, rimanendo allo stesso dicastero anche nel successivo governo Crispi, fino al 6 febbraio 1891.

Durante questo periodo avviò una riforma del sistema giudiziario e fece approvare il primo codice penale dell'Italia unita, considerato tra i più liberali e progrediti tra quelli vigenti all'epoca: il codice Zanardelli venne presentato alla Camera nel novembre 1887, pubblicato il 22 novembre 1888, promulgato il 30 giugno 1889 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1890. Tra l'altro, per sua iniziativa personale, si giunse all'abolizione della pena di morte.

Nella Relazione al Re Zanardelli si diceva convinto che «le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d'interpreti, ciò che dal codice è vietato». Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che non dovesse guardare il delinquente come un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.

Alla caduta del governo Giolitti nel 1893 Zanardelli tentò strenuamente, ma senza successo, di formare un nuovo Gabinetto. Eletto presidente della Camera nel 1892 e nel 1897, ricoprì quest'incarico fino al dicembre 1897, quando accettò il portafoglio della Giustizia nel governo Rudinì, ma fu presto costretto a dimettersi a causa dei dissensi con il collega di governo Visconti Venosta sulle misure da prendere per impedire il ripetersi delle agitazioni popolari del maggio 1898.



Nella seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897, l'Assemblea elegge per la seconda volta alla Presidenza della Camera Giuseppe Zanardelli, con 303 voti su 431 votanti. Nel discorso di insediamento, che pronuncia nella seduta del 7 aprile, esordisce ringraziando nuovamente coloro che hanno voluto dimostrargli tanta fiducia. Ribadisce quindi di essere il Presidente non della maggioranza bensì dell'Assemblea, «custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà». Per essere all'altezza del suo compito deve però necessariamente poter contare sulla cooperazione dei colleghi. Solo un'Assemblea operosa, prosegue, potrà dar seguito al desiderio espresso dal Re nel discorso della Corona di offrire sollievo alle classi lavoratrici attraverso leggi giuste. Nelle indicazioni del sovrano l'obiettivo delle deliberazioni deve essere «l'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico», vale a dire una società giusta ed un Governo libero. Ne consegue che ai cuori e agli intelletti di tutti i deputati sono affidati i veri destini della patria.

Dopo essere tornato alla presidenza della Camera, abbandonò nuovamente il posto per poter prendere parte attiva alla campagna ostruzionistica del 1899-1900 contro il progetto di legge sulla pubblica sicurezza. Questa presa di posizione gli valse l'appoggio dell'estrema Sinistra nella formazione (dopo la caduta del governo Saracco) di un nuovo governo, che rimase in carica 991 giorni, dal 15 febbraio 1901 al 3 novembre 1903.

Nella seduta del 17 novembre 1898 l'Assemblea elegge per la terza ed ultima volta Giuseppe Zanardelli alla Presidenza della Camera, con 190 voti su 339 votanti. Nel discorso per il suo insediamento alla Presidenza si coglie l'eco delle vicende politiche dei mesi precedenti. Zanardelli ricorda, infatti, di aver lottato contro le proposte di modifica del Regolamento e riafferma di voler osservare con scrupolo la più assoluta imparzialità. Ripete poi ciò che aveva affermato al momento della seconda elezione, e cioè che la tribuna parlamentare può essere frenata soltanto «dal rispetto che essa deve a sé stessa, dal disdoro serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale della Presidenza». Proprio per questo, ora che la minaccia delle sanzioni disciplinari è finalmente caduta, la libertà di parola, la più ampia che lo Statuto consenta, deve tuttavia riconoscere nella legge fondamentale il suo limite. Si augura infine che la Camera scriva una pagina durevole nella storia legislativa della Nazione, promuovendo una politica riformatrice, assecondando cioè nella libertà e nel rispetto della tranquillità pubblica «quelle correnti popolari in cui si manifestano tante legittime aspirazioni».

Le sue precarie condizioni di salute non gli consentirono tuttavia di portare a termine grandi opere. La proposta di legge sul divorzio, sebbene già approvata dalla Camera, dovette essere ritirata per la forte opposizione popolare.

Negli ultimi anni di carriera Zanardelli focalizzò l'attenzione sulla questione del Mezzogiorno: nel settembre 1902 intraprese un viaggio attraverso la Basilicata - una delle regioni allora più povere d'Italia - per constatare personalmente i problemi legati al Sud della penisola. Il suo resoconto di viaggio sarà fondamentale per l'approvazione della legge speciale per la Basilicata (il 23 febbraio 1904), uno dei primi esempi di intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno.

Si congedò definitivamente dalla scena politica, a causa di una malattia terminale, dando le dimissioni da Primo ministro il 3 novembre 1903. Morì poco più di un mese dopo.


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giovedì 19 marzo 2015

SAN GIUSEPPE

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San Giuseppe è lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù.

È venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Il nome Giuseppe è la versione italiana dell'ebraico Yosef, attraverso il latino Iosephus.

I Vangeli e la dottrina cristiana affermano che il vero padre di Gesù fu Dio stesso: Maria lo concepì miracolosamente, senza aver avuto rapporti matrimoniali con alcuno, per intervento dello Spirito Santo. Giuseppe, messo al corrente di quanto era accaduto da una visione avuta in sogno, accettò di sposarla e di riconoscere legalmente Gesù come proprio figlio. Perciò la tradizione lo chiama padre putativo di Gesù (dal latino puto, "credo"), cioè colui "che era creduto" suo padre (sulla scorta di Luca 3,23).

Nel primo Medioevo cominciava lentamente a fiorire una devozione a san Giuseppe. Gli scritti dei monaci benedettini costituiscono un valido contributo per arrivare a un inizio del culto giuseppino, rimasto però legato ai loro ambiti religiosi, dove si cominciò a inserire il nome di Giuseppe nei loro calendari liturgici o nel loro martirologio.

Testi importanti sulla posizione di Giuseppe nell'opera della salvezza, si incontrano nei due grandi mistici benedettini: Ruperto di Deutz (†1130) e san Bernardo di Chiaravalle (†1153). Entrambi hanno tentato di chiamare i fedeli a una vera devozione a Giuseppe: san Bernardo di Chiaravalle ha cercato di descrivere con devoto impegno la sua umile e nascosta figura. Nei suoi Sermoni "In laudibus Virginis Mariae", composte per le feste della Madonna si trovano brani sul santo in cui è espresso che "la fama della Vergine Maria non sarebbe integra senza la presenza di Giuseppe". Sul santo, avverte Bernardo, non esiste "nessun dubbio che sia stato sempre un uomo buono e fedele. La sua sposa era la Madre del Salvatore. Servo fedele e saggio, scelto dal Signore per confortare la Madre sua e provvedere al sostentamento di suo figlio, il solo coadiutore fedelissimo, sulla terra, del grande disegno di Dio".

L'influsso di Bernardo si manifesta anche nella letteratura e poesia medioevale, è interessante pensare qui a Dante Alighieri che degnamente invoca il nome di san Giuseppe al vertice della Divina Commedia.

Tra i teologi san Bonaventura è stato il primo a ripensare al santo come protettore di Maria e Gesù Bambino nella povera grotta. Un altro francescano, il teologo Duns Scoto, sceglie alcune questioni intitolate "De matrimonio inter B.V. Mariam et sanctum Joseph". Propone una nuova spiegazione del loro sposalizio, ricorrendo alla distinzione tra il diritto sui corpi e il loro uso nel matrimonio che, secondo il teologo, è stato perfetto, sotto tutti gli aspetti, ed è da considerare una "questione divina regolata dallo Spirito Santo".

Secondo san Tommaso d'Aquino la presenza di Giuseppe era necessaria nel piano dell'Incarnazione poiché senza di lui la gente avrebbe potuto dire che Gesù era un figlio illegittimo, frutto di una relazione illecita. Cristo aveva bisogno del nome, delle cure e della protezione di un padre umano, se Maria non fosse stata sposata, i Giudei l'avrebbero considerata un'adultera e l'avrebbero lapidata. Il teologo medievale continua dicendo che il matrimonio di Maria e di Giuseppe fu un vero matrimonio: "essi erano uniti l'uno all'altro dall'amore reciproco, un amore spirituale. Si scambiarono quei diritti coniugali che sono inerenti al matrimonio, anche se, per il loro voto di verginità, non ne fecero uso".

Il 15 agosto 1989, nel centenario dell'enciclica di Leone XIII, intitolata Quamquam Pluries, Giovanni Paolo II ha scritto un'esortazione apostolica sulla figura e la missione di san Giuseppe nella vita di Cristo e della Chiesa; essa inizia con le parole Redemptoris Custos (Il Custode del Redentore), che definiscono il rapporto esistente tra Giuseppe e Gesù.

Questo importante documento pontificio, deve essere considerato come la “magna carta” della teologia di san Giuseppe, proposta ufficialmente a tutta la Chiesa, a cominciare dai Vescovi fino a tutti i fedeli. L'esortazione Redemptoris Custos è strettamente collegata con l'enciclica La Madre del Redentore, preceduta dall'enciclica Redemptor Hominis e seguita da un'altra enciclica, intitolata Redemptoris Missio, che si riferisce alla Chiesa. Appare così chiaro che il Magistero della Chiesa considera san Giuseppe inserito direttamente nel mistero della Redenzione, in stretta relazione con Gesù, verso il quale adempie la funzione di padre, con Maria, la Madre di Gesù, della quale egli è sposo, e con la Chiesa stessa, affidata alla sua protezione. Si tratta di un ruolo eccezionale, che fa da supporto alla devozione della quale san Giuseppe ampiamente gode nel cuore dei credenti e che la teologia non deve trascurare.

La lode di san Giuseppe è nel Vangelo. Matteo stima talmente san Giuseppe da farne l'introduttore al suo Vangelo, che inizia appunto con la genealogia, la quale ha lo scopo di agganciare Gesù a Davide e ad Abramo proprio attraverso Giuseppe; lo presenta, inoltre, come sposo di Maria, la persona certamente più in vista nella Chiesa apostolica; lo qualifica, infine, come uomo giusto, che comporta l'approvazione della sua condotta. Per questo san Bernardo dice candidamente che la lode di san Giuseppe è nel Vangelo. Nessun santo, eccetto Maria, occupa nel Vangelo un posto così distinto.

Eppure incontriamo ancora oggi chi ripete che il Vangelo ci riferisce poco o nulla di san Giuseppe e che, in ogni caso, la sua figura è marginale; di qui lo scarso interesse negli studi teologici, dove egli è del tutto ignorato.

C'è da aggiungere che, fin dai primi secoli, una letteratura che la Chiesa considera apocrifa, perché romanzesca, ha strumentalizzato la figura di san Giuseppe, attribuendogli figli avuti da un precedente matrimonio e un'età veneranda al momento del matrimonio con Maria. Evidentemente lo scopo degli apocrifi era quello di attribuire a lui “i fratelli di Gesù”, nominati nei Vangeli, e garantire la verginità di Maria, sposata da un “vecchio” Giuseppe in seconde nozze. Contro questa letteratura sempre emergente bisogna già predicava san Girolamo, affermando che queste cose non sono “scritte” nei Vangeli e che si tratta solo di “deliri”. Le tante opere letterarie e artistiche che rappresentano san Giuseppe vecchio e quasi marginalmente sono il frutto di questa mentalità. Ecco allora la necessità di conoscere bene san Giuseppe, seguendo il Vangelo e quanto il magistero insegna su di lui attraverso la dottrina e il culto.

A Betlemme, nella basilica della Natività, che risale all'imperatore Costantino, sulle pareti ci sono due genealogie di Gesù, denominate albero di Iesse e lì rappresentate nel 1169. Se la genealogia di Gesù ci viene tramandata da due evangelisti, Matteo e Luca, è chiaro che doveva essere ritenuta importante nell'annuncio del Vangelo. Nonostante le loro divergenze, che rivelano scopi differenti, in entrambe le genealogie occupano un posto rilevante il re Davide e Giuseppe. Nella Chiesa apostolica interessava, infatti, che Gesù fosse riconosciuto come figlio di Davide, titolo con il quale le folle già si rivolgevano a Gesù, nella convinzione che Egli fosse il Messia, termine che in greco si traduce con Cristo. D'altra parte, con la Pentecoste Gesù si era rivelato Figlio di Dio e ai cristiani era ormai noto che Gesù era stato concepito per opera dello Spirito Santo. Come conciliare, allora, l'origine divina di Gesù, “Figlio di Dio”, con quella umana, “figlio di Davide”? Ci troviamo qui nel mistero dell'Incarnazione, che evidentemente aveva superato i confini delle attese umane. Comprendiamo così perché l'evangelista Matteo, dopo aver collegato tutti gli antenati di Gesù con il verbo “generò”, arrivato a Giuseppe non lo usa più, ma si limita a scrivere: “Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo” (1,16).

La Chiesa crede che Maria ha concepito Gesù in modo miracoloso per opera dello Spirito Santo e la onora come “Madre di Dio”. Se gli evangelisti, dunque, presentano Maria anche come “sposa di Giuseppe” non dovevano certamente mancare i motivi. Tra questi, ossia perché Gesù abbia dovuto nascere da una donna “sposata”, san Tommaso d'Aquino ne indica alcuni non trascurabili: ad esempio, perché gli infedeli non avessero motivo di rifiutarlo, se apparentemente illegittimo; perché Maria fosse liberata dall’infamia e dalla lapidazione; perché la testimonianza di Giuseppe garantisse la nascita di Gesù da una vergine. Matteo, tuttavia, è più interessato al motivo cristologico, che si fonda sulla discendenza di Gesù da Davide. La sua garanzia dipende appunto dal fatto che Giuseppe, “figlio di Davide”, era riconosciuto da tutti come “sposo di Maria”. I figli della moglie, infatti, non sono giuridicamente figli del marito? La legge matrimoniale sta lì proprio per questo, a difesa dell'onore della donna e della prole. Ecco perché Giovanni Paolo II scrive: “Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe” (RC, n.7).

Accanto alla testimonianza circa l'origine divina di Gesù, incontriamo nei Vangeli anche quella che Gesù era ritenuto il figlio di Giuseppe. Filippo  dice a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Giovanni 1,45). Bisogna anzi apertamente dire che il matrimonio di Giuseppe con Maria aveva talmente affermato la paternità di Giuseppe da nascondere la sua filiazione divina, ossia il Padre celeste. È stato scritto che Giuseppe è l'ombra del Padre, ma in realtà, secondo il piano di Dio, è invece, Giuseppe che ha messo in ombra il Padre. L'esortazione di Giovanni Paolo II afferma apertamente che nella santa Famiglia “Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è ‘apparente’, o soltanto ‘sostitutiva’, ma possiede in pieno l'autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia”. Ciò comporta che “con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l’amore corrispondente, quell’amore che ha la sua sorgente nel Padre”.

Il matrimonio di Giuseppe con Maria e la conseguente legittimazione della sua paternità all’interno della famiglia sono orientate verso l’incarnazione, ossia verso Gesù che ha voluto inserirsi nel mondo in modo “ordinato”. Origene definisce Giuseppe appunto come “l'ordinatore della nascita del Signore”. Il suo matrimonio onora la maternità di Maria e garantisce a Gesù l’inserimento nella genealogia di Davide, come abbiamo visto. Ma la teologia che fa da chiave a tutta l'esortazione apostolica va ben oltre, come richiede l'unità “organica e indissolubile” tra l'incarnazione e la redenzione. Di qui l'affermazione che “san Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità: proprio in tale modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della redenzione ed è veramente ‘ministro della salvezza’”. La definizione “Ministro della salvezza” descrive perfettamente la grandezza di san Giuseppe, che ha avuto il singolare privilegio di servire direttamente Gesù e la sua missione, ossia la sua opera salvifica. Tutti gli Angeli e i Santi servono Gesù, ma san Giuseppe, insieme con Maria, lo ha servito “direttamente” come padre. Ciò vuol dire che molte delle opere salvifiche di Gesù, definite come “misteri della vita di Cristo”, hanno avuto bisogno della “cooperazione” di san Giuseppe. Il riferimento riguarda tutti quei “misteri della vita nascosta di Gesù”, nei quali era indispensabile l’intervento paterno. Toccava al padre, infatti, iscrivere il bambino all'anagrafe, provvedere al rito della circoncisione, imporgli il nome, presentare il primogenito a Dio e pagare il relativo riscatto, proteggere il Bambino e la madre nei pericoli della fuga in Egitto. È ancora il padre Giuseppe che ha introdotto Gesù nella terra di Israele e lo ha domiciliato a Nazaret, qualificando Gesù come “Nazareno”; è Giuseppe che ha provveduto a mantenerlo, a educarlo e a farlo crescere, procurandogli cibo e vestito; da Giuseppe Gesù ha imparato il mestiere, che lo ha qualificato come “il figlio del falegname”. Non ci vuole molto sforzo a comprendere quante cose deve fare un padre dal punto umano, civile e religioso. Ebbene, tutto questo lo ha fatto anche Giuseppe.

Nel Vangelo di Matteo leggiamo che a Giuseppe viene attribuito il titolo di “giusto”. Esso qualifica Giuseppe, che aveva deciso di separarsi da Maria quando aveva conosciuto che aveva concepito per opera dello Spirito Santo. Tale decisione non era dettata da un sospetto, come spesso si legge, ma esprimeva, invece, il “rispetto” verso l’azione e la Presenza di Dio, tale da spiegare la fiducia che gli venne conseguentemente accordata, per mezzo dell'angelo, di tenere con sé la sua sposa e di fare da padre a Gesù. La giustizia di san Giuseppe suppone in lui un'adeguata preparazione dello Spirito Santo. Allo stesso modo che Maria non si è trovata per caso a fare da madre a Gesù, ma era stata “progettata” allo scopo, come si ricava dal dogma dell'Immacolata Concezione, così si può logicamente ritenere che “Dio nel suo amore ha predestinato Maria per san Giuseppe, san Giuseppe per Maria, tutti e due per Gesù. Se Dio ha pensato con tanto amore a Maria come madre del Redentore, ciò non fu mai indipendentemente dal suo matrimonio verginale con Giuseppe; egli non ha mai pensato a Giuseppe se non per Maria e per il suo divin Figlio, che doveva nascere verginalmente in quel matrimonio” (C. Sauvé). Ciò è in perfetto accordo con quanto Leone XIII scrive nella sua enciclica Quamquam Pluries: «È certo che la Madre di Dio poggia così in lato, che nulla vi può essere di più sublime; ma poiché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c'è dubbio che a quell'altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il matrimonio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell'onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all'eccelsa grandezza di lei».

Il culto di san Giuseppe, padre putativo di Gesù e simbolo di umiltà e dedizione, nella Chiesa d’Oriente era praticato già attorno al IV secolo: intorno al VII secolo la chiesa Copta ricordava la sua morte il 20 luglio. In Occidente il culto ha avuto una marcata risonanza solo attorno all'anno Mille.

La Chiesa cattolica ricorda san Giuseppe il 19 marzo con una solennità a lui intitolata. In alcuni luoghi, come in Vaticano e in Canton Ticino, ma non in Italia, è festa di precetto. I primi a celebrarla furono i monaci benedettini nel 1030, seguiti dai Servi di Maria nel 1324 e dai Francescani nel 1399. Venne infine promossa dagli interventi dei papi Sisto IV e Pio V e resa obbligatoria nel 1621 da Gregorio XV. Fino al 1977 il giorno in cui la Chiesa cattolica celebra san Giuseppe era considerato in Italia festivo anche agli effetti civili ma con legge 5 marzo 1977 n. 54, questo riconoscimento fu abolito e da allora il 19 marzo divenne un giorno feriale. In Canton Ticino, in altri cantoni della Svizzera e in alcune province della Spagna, questo giorno è considerato festivo agli effetti civili. In Italia sono stati presentati (2008), alla Camera e al Senato, alcuni disegni di legge per il ripristino delle festività soppresse agli effetti civili (San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, SS. Pietro e Paolo e lunedì di Pentecoste).


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