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domenica 10 luglio 2016

LE PUNIZIONI AI FIGLI

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Un tempo purtroppo era molto diffusa l’idea che le piante andassero raddrizzate – che i figli andassero educati a suon di botte. Le cose sono cambiate. Ma solo in parte, se è vero che il 60 per cento dei genitori italiani picchia o maltratta i figli anche piccoli.

Le punizioni corporali in famiglia possono includere la sculacciata, lo scappellotto o schiaffi a mano aperta, ma ne sono talora inflitte con oggetti vari come cinture, ciabatte, bastoni flessibili o paddle.

In molte culture ai genitori è deferito il compito di insegnare la disciplinare ai loro figli e di sculacciarli quando ritenuto più opportuno. Tuttavia l'atteggiamento è cambiato in molti paesi particolarmente nel corso del Novecento; negli Stati Uniti si nota in proposito la pubblicazione nel 1946 del saggio Baby and Child Care, del pediatra Benjamin Spock. Il professionista consigliava ai genitori di trattare i bambini come individui, mentre secondo la più diffusa prassi precedente, si pensava che l'educazione dei figli dovesse focalizzarsi sulla costruzione di una disciplina che potesse rafforzare il loro carattere. Ad esempio, i bambini, anche in tenera età, non dovevano essere raccolti e coccolati quando piangevano, poiché ciò poteva equivalere ad incoraggiarli a crescer viziati.

Il cambiamento di atteggiamento è stato seguito dalla legislazione: a partire dal 1979 e fino al 2010, 29 paesi in tutto il mondo hanno messo al bando le pene corporali date ai bambini in casa. In Europa 22 paesi hanno vietato tale pratica; in altri invece non è vietata ma comunque considerata controversa. In Africa, Medio Oriente e in molte parti dell'Asia orientale (tra cui Cina, Taiwan, Giappone e Corea), le punizioni corporali date ai propri figli sono legali, pertanto del tutto lecite. A Singapore e Hong Kong punire corporalmente il figlio è legale, anche se non particolarmente incoraggiato come metodo educativo.

I pareri sono divergenti riguardo alla considerazione se la sculacciata sia più utile o dannosa sul comportamento futuro del bambino. L'accettabilità e l'efficacia d'essa da parte della popolazione varia molto da luogo a luogo: ad esempio negli Stati Uniti e nel Regno Unito l'accettazione sociale nei confronti delle punizioni corporali sui bambini conserva una posizione di netta maggioranza (da un minimo del 60% fino ad un massimo dell'80% di favorevoli). In Svezia, prima del divieto del 1979, più della metà della popolazione considerava il castigo fisico una parte necessaria per la buona educazione dei figli; negli anni '90 la percentuale che riteneva questo fatto accettabile s'era più che dimezzata.

D'altra parte molti ricercatori scientifici ed organizzazioni a difesa dei più piccoli vi si oppongono strenuamente. Alcuni studi hanno suggerito che in realtà non giova affatto al bambino essere picchiato dopo aver commesso un guaio, ed anzi può favorir lo sviluppo di situazioni problematiche quali aggressività e violenza contro i coetanei, ansia e problemi psicologici, abuso di sostanze (alcol e droga).

Alcuni ricercatori si sono dimostrati critici o quantomeno scettici nei confronti di tali studi, considerandoli scientificamente infondati, sottolineandone i difetti metodologici nel modo in cui sono stati condotti, nonché le conclusioni tratte. Tuttavia,uno studio comparato svolto dalla Tulane University nel 2010 ha concluso che l'essere picchiati produce effetti decisamente negativi sui bambini, avendo molta più probabilità di diventar poi a loro volta adulti aggressivi e violenti nei confronti di donne e bambini.

Alcuni dei sostenitori delle punizioni corporali e di coloro che le utilizzano lo fanno per ragioni ideologiche e/o religiose. L'eminente teologo cristiano Douglas Wilson si appella e mette in causa nientemeno che il testo sacro (Bibbia): "Chi risparmia il bastone odia suo figlio, ma chi lo ama si preoccupa della sua disciplina" (Libro dei Proverbi 13:24). Questo per sostenere che la punizione corporale inflitta ai figli è un assoluto dovere, del tutto legittimo anche e, a suo dire, "lo studio biblico è costituito da molto più che dalla semplice sculacciata". Lo stesso studioso sottolinea inoltre che il versetto 3:12 del libro dei proverbi "Il Signore corregge coloro che ama, così come un padre punisce i figli" è molto autorevole in quanto citato poi anche nel Nuovo Testamento, e più precisamente nella Lettera agli Ebrei.

Anche se alcuni cristiani sono soliti utilizzar il castigo fisico per motivi rigorosamente religiosi, la Commissione europea dei diritti dell'uomo ha respinto immediatamente il ricorso avviato da genitori svedesi nel 1982, i quali affermavano che il divieto di picchiare i figli era lesivo e violava il loro diritto e dovere rispetto alla vita familiare e alla loro libertà religiosa.

Il Commissario dei diritti umani del Consiglio d'Europa sostiene che: "l'opposizione anche molto forte a vietare le punizioni corporali si concentra in certi gruppi appartenenti a minoranze religiose, citando testi i quali a loro giudizio danno il diritto e persino il dovere di educare i loro figli attraverso la violenza fisica, picchiandoli e malmenandoli. Mentre la libertà di credo religioso dev'esser in ogni caso rispettata, tali vere o presunte credenze non possono in alcun modo giustificare le pratiche che violino i diritti degli altri, compresi i diritti inalienabili del bambino al rispetto della propria integrità fisica e dignità umana".

Molti psichiatri, sociologi ricercatori, e genitori raccomandano di non usare le punizioni corporali.

Picchiare i bambini insegna a questi ultimi a diventare a loro volta persone che picchiano gli altri. Da numerosi studi e ricerche è emersa una diretta correlazione tra le punizioni corporali subite nell'infanzia  e il comportamento violento o aggressivo di giovani e adulti. Da piccoli, praticamente tutti i peggiori criminali sono stati regolarmente minacciati e percossi. È nell'ordine naturale che i bambini imparino atteggiamenti e comportamenti tramite l'osservazione e l'imitazione dei loro genitori, nel bene e nel male. Perciò è responsabilità dei genitori dare esempio di empatia e saggezza.



In molti casi di cosiddetto "cattivo comportamento", il bambino sta semplicemente rispondendo nel solo modo che gli è possibile, in base all'età e all'esperienza, alla negazione dei suoi bisogni fondamentali. Tra questi bisogni ci sono: dormire e nutrirsi adeguatamente, la cura di allergie nascoste, aria pulita, esercizio fisico e libertà sufficiente per esplorare il mondo intorno a sé. Ma il suo bisogno maggiore consiste nel ricevere amore e attenzione assoluta da parte dei suoi genitori. Purtroppo, di questi tempi, solo pochi bambini ricevono abbastanza tempo e dedizione, perché i genitori sono spesso stanchi e distratti e mostrano troppo poca comprensione e pazienza nei confronti del bambino. È veramente ignobile punire un bambino che in realtà si limita a reagire in modo naturale alla disattenzione verso i suoi bisogni e ai suoi desideri fondamentali. Per questa ragione non solo la punizione alla fine è inefficace, ma è anche chiaramente ingiusta.

I castighi distolgono il bambino dall'imparare come risolvere i conflitti in modo umano ed efficace. Come ha scritto l'educatore John Holt, "Quando facciamo paura a un bambino noi fermiamo di colpo il suo apprendimento." Un bambino punito è tutto concentrato interiormente sui propri sentimenti di dolore di rabbia e vendetta, e così viene privato della possibilità di risolvere i problemi in maniera creativa. Quindi un bambino punito impara poco come gestire o prevenire simili situazioni in futuro

"Chi non usa la verga, rovina suo figlio" sebbene sia una frase citata spesso, è di fatto una interpretazione distorta dell'insegnamento Biblico. Sebbene la "verga" sia menzionata molte volte nella Bibbia, solo nel Libro dei Proverbi questo termine è usato in connessione con il ruolo dei genitori. Infatti i metodi severi della disciplina di Re Salomone condussero suo figlio Rehoboam, a diventare un dittatore oppressivo e tirannico che solo per poco sfuggì alla morte per lapidazione a causa della la sua crudeltà. Nella Bibbia non esiste alcun sostegno alla disciplina severa al di fuori dei Proverbi di Salomone. Gesù diceva che i bambini erano vicini a Dio e avevano bisogno di amore, mai di castighi.

Le punizioni compromettono il legame tra genitori e figli, perché è contro natura provare amore verso chi ci ferisce. Un autentico spirito di collaborazione come tutti i genitori desiderano può fondarsi solo su un forte legame basato su sentimenti di reciproco amore e considerazione. I castighi anche qualora sembrino funzionare possono produrre solo superficialmente un buon comportamento basato sulla paura, che potrà mantenersi fino a quando il bambino sarà abbastanza cresciuto per riuscire a fare resistenza. Al contrario la cooperazione basata sul rispetto dura per sempre, portando a molti anni di reciproca felicità mentre il bambino cresce e i genitori diventano più anziani.

Molti genitori non hanno mai imparato nella loro infanzia che ci sono modi positivi di relazione coi bambini. Quando le punizioni non ottengono i risultati voluti, e il genitore è ignaro di metodi alternativi, le punizioni possono aggravarsi con azioni più frequenti e pericolose contro il bambino.

La rabbia e la frustrazione che non possono essere espresse in condizioni di sicurezza da un bambino vengono immagazzinate interiormente. La rabbia accumulata per molti anni, potrà manifestarsi come uno shock per i genitori il cui bambino adesso si senta abbastanza forte per esprimere questa collera. È possibile che i castighi sembrino produrre un "buon comportamento" durante i primi anni, ma sempre a caro prezzo, che sarà pagato dai genitori e dallasocietà insieme, quando il bambino entrerà nell'adolescenza e non appena sarà adulto.

Gli scapaccioni assestati sul sedere, una zona erogena nell'infanzia, possono stabilire nella mente del bambino una correlazione tra il dolore e il piacere sessuale, e creare difficoltà alla persona adulta. Gli annunci sui giornali 'alternativi' del genere "Voglio essere sculacciato" attestano le tristi conseguenze di questa confusione di dolore e piacere. Se un bambino riceve poca attenzione parentale eccetto quando viene punito, questo fonderà ulteriormente i concetti di dolore e piacere nella mente del bambino. Un bambino in una tale situazione avrà poca autostima, pensando di non meritare niente di meglio.

Le punizioni corporali esprimono il messaggio sleale e pericoloso della "legge del più forte", che è ammissibile ferire gli altri, purchè essi siano più piccoli e meno potenti di quanto sei tu. Il bambino allora conclude che è lecito maltrattare bambini più giovani o più piccoli. Quando diventerà adulto, proverà poca compassione per quelli meno fortunati di lui, e avrà paura di quelli che sono più potenti. Questo renderà difficile instaurare relazioni che abbiano un significato, così essenziali per una vita emotivamente appagante.

Poiché i bambini imparano dai modelli che i genitori rappresentano, le punizioni corporali esprimono il messaggio che picchiare è un modo giusto di esprimere i sentimenti e risolvere i problemi. Se un bambino non osserva un genitore risolvere i problemi in modo umano e creativo, può diventar difficile per se stesso imparare a fare altrettanto. Per questa ragione questi comportamenti parentali sbagliati spesso si tramandano alla generazione successiva.

Un'insegnamento gentile, sostenuto da solide fondamenta di amore e rispetto, è la sola via autentica ed efficace di portare a un comportamento lodevole basato su forti valori interiori, invece del superficiale "buon" comportamento basato solo sulla paura.



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sabato 5 settembre 2015

CIAO GIUSEPPE Quando Ti Faranno Riposare in Pace?

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Il sindacato di polizia Coisp regisce duramente alla presentazione dell'ultimo film di Ascanio Celestini "Viva la sposa!", ispirato alla morte del carpentiere Giuseppe Uva avvenuta a Varese il 14 giugno del 2008 e per la quale la sorella chiede giustizia, convinta che determinanti siano state le percosse subìte nella caserma dei carabinieri dove fu portato quella notte.

Attualmente è in corso un processo per stabilire le vere cause della morte di Uva. Dopo un processo travagliato agli operatori sanitari, tutti assolti, ora è in corso un procedimento contro i due agenti e i cinque carabinieri che nella notte tra il 13 e il 14 giugno trascinarono l'operaio nella caserma di via Saffi e, stando alle parole dell'amico, lo picchiarono a sangue.

Giuseppe Uva aveva 43 anni quando morì a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra "vittima dello Stato", come si denuncia da anni.  L'amico, racconta di aver sentito che nella stanza vicina, Giuseppe Uva, grida, urla; e poi del fracasso, rumori. Col cellulare, che i carabinieri non gli hanno portato via, chiama di nascosto l’ospedale. Quando l’auto-lettiga arriva, viene rimandata indietro: "è tutto tranquillo assicurano, solo due ubriachi un po' agitati".Gli avrebbero somministrato farmaci che hanno provocato una letale intolleranza. Ma alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte. La sorella racconta" Su tutto il fianco era blu, quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito".



Emorragia da emorroidi, sostengono in procura. Morte da tortura, per l'avvocato scelto dalla famiglia. La differenza che passa tra le due ipotesi è quella tra il dolore e l'orrore, tra un lutto accidentale e una "lezione a un ubriaco" finita male. Il "caso Uva" sta in bilico su questa linea di confine. Sono stati processati tre medici, poi prosciolti. Adesso stanno per finire davanti a un giudice 2 carabinieri e 6 poliziotti, fino a ieri sospettati solo per lesioni lievissime. A loro carico, ipotesi di reato che vanno dall'omicidio preterintenzionale (volevo fargli del male ma non fino al punto di), all'arresto illegale, al pestaggio ("indebita e violenta manomissione del corpo altrui"), al colpevole ritardo nell'affidarlo alle cure di un ospedale. Quasi tutto a rischio prescrizione, visto il tempo passato dai fatti.

Sulla lapide di Giuseppe c'è un Cristo in croce, una foto dove sorride felice con un pezzo di panettone in mano, e una gru a sbalzo color bronzo. Il gruista era il suo ultimo lavoro, ma ci andava a strappi, mollava e ritornava. Uno spirito libero, che dormiva a casa di un amico, di qualcuna delle sorelle, della donna del momento, qualche volta in albergo perché gli piaceva molto l'idea. Come gli piaceva bere, ballare, far casino, tenersi i capelli lunghi raccolti in una coda o sciolti e mossi, a seconda dell'umore.

Dopo la fine del matrimonio con Maria che se n’era andata col suo miglior amico, un commercialista, e questo l’aveva schiantato fino a spingerlo a fare il vagabondo per un anno e più, era tornato con l’aria di chi ha deciso di viversela un po’ alla giornata.

Per descrivere quella notte e l’alba successiva, basterebbe la cronaca. Il problema è che non ce n’è una sola. Ce ne sono due, opposte.

Quella ufficiale, nel senso che è stata assunta come vera dal pubblico ministero che gestisce il caso dal principio, comincia come l’altra con una bravata. È venerdì 13 giugno di un’epoca che sembra lontanissima.

Giusto a Varese, Pino Uva è a casa dal suo amico e vedono una partita della nazionale in tv, poi vanno per locali a tirar tardi. L’ultimo, Le Scuderie di via Cavallotti, chiude alle 3. I due, piuttosto ubriachi, non trovano di meglio che spostare transenne in mezzo alla strada e deviare il traffico.

Passa una Gazzella dei carabinieri, invitano la coppia a smettere. Ma Uva reagisce male, in parole e opere. Urla insulti (“toglietevi la divisa e poi vediamo”)“, i vicini si affacciano protestando, lui comincia a dare calci e pugni ai loro portoni. A quel punto, “onde evitare che la vicenda degenerasse”, i carabinieri chiamano in aiuto una Volante della polizia, ne arrivano due per sbaglio, poi se ne aggiungerà anche una terza (uno spiegamento di forze un po’ eccessivo per due balordi, visto che la città rimane a lungo sguarnita del presidio esterno di vigilanza, ma così è). Caricano Pino l'amico sulle auto e li portano nella caserma di via Saffi per il verbale, ore 3.50 (va sottolineato che questo orario, e gli altri successivi, sono quelli della versione ufficiale). Ma qui le cose degenerano per davvero.

Uva dà di matto, il lunedì successivo ha l’esame per riottenere la patente, teme che un verbale per alcolismo ne comprometta l’esito, perde quel poco di controllo di sé che aveva, rovescia una scrivania, poi “dalla sedia dove sedeva si dà una spinta all’indietro con i piedi, cadendo unitamente alla stessa per terra battendo il capo dapprima contro il muro e quindi volontariamente sul pavimento con il chiaro intento di lesionarsi”. Fortuna che un agente pietoso infila la scarpa tra la testa di Uva e il pavimento per attutire un po’ i colpi. Anche se in otto, gli uomini in divisa non riescono a contenere il suo forte stato di agitazione e convocano la guardia medica nella persona del dottor Augustin Desiré Noubissie che prova a fargli un’iniezione di calmante. Uva la rifiuta in malo modo, come rifiuta l’aiuto di un altro medico chiamato a rinforzo, Andrea Obert. Si decide di chiamare l’ambulanza del 118, che carica Pino non senza fatica (uscendo dà, darebbe diciamo così, un’ultima testata alla porta a vetri) e alle 5.48 lo deposita al pronto soccorso dell’ospedale dove, malgrado venga catalogato in “codice verde”, cioè non urgente, tre medici lo imbottiscono di farmaci e lo trasferiscono in psichiatria, dove cadrà in un sonno profondissimo e poi, dalle 10.30, eterno. Nel frattempo gli vengono tolti gli slip intrisi di sangue, che spariscono dalla scena per sempre. Causa del decesso, secondo il pm: “La combinazione, continuata per ore, di sedativi con l’alto tasso alcolico riscontrato nell’organismo”. Da qui, l’accusa, rivelatasi a processo non fondata, contro i medici.

È di fatto la seconda versione di quel venerdì 13. Anzi, di quel sabato 14, tra le 3 e le 10.30 di mattina. C’è una querela presentata il giorno dopo alla Procura di Varese, in cui l’amico che ha condiviso quelle ore con Giuseppe Uva, racconta una storia completamente diversa dalla cronaca ufficiale, in cui l’unica cosa che coincide sono le transenne spostate per fare una bravata.

I carabinieri che arrivano sul posto sono già molto arrabbiati. Pare anche ci sia stata una rissa recente con qualcuno di loro, in borghese, fuori da una discoteca. E che Uva, poche sere prima, abbia legato con una catena il cancello d’entrata della stazione di Caravate.

Uno dei carabinieri indica Pino e bestemmiando gli dice: “Proprio te stavo cercando. Adesso te la faccio pagare”. Pino si allontana, quello lo raggiunge, “lo scaraventa sul pavé”, lo carica sulla Gazzella in manette e comincia a menarlo. La scena si sposta nella caserma. Uva viene fatto entrare in una stanza dove c’è un via vai di carabinieri e poliziotti. Alberto resta fuori e lo sente gridare disperato, per tanto tempo gli sembra. “Ahi, basta, ahi, ahia”. E poi rumori sordi di colpi. Allora chiama lui il 118: venite, stanno massacrando un uomo. L’operatore dell’ambulanza chiede conferma in caserma prima di muoversi.

Gli rispondono che sono due ubriachi, di non preoccuparsi. Siamo intorno alle 4. Per il giudice, Uva è stato trattenuto “per un’ora e mezza in un presidio di polizia senza necessità operative”. Per ilp.m., “21 minuti d’orologio”, di cui solo 7 nella stanza da cui l'amico ha sentito le urla. Quando, dopo le 5, l’ambulanza arriva finalmente in caserma, l’amico Alberto viene portato a casa dal padre. Il giorno dopo denuncia quanto visto e sentito, ma passeranno più di 5 anni prima che il pm Abate lo convochi per ascoltarlo. Succede il 26 novembre 2013 ed è un interrogatorio di quasi 4 ore, considerato dal gip “degradante, atto a umiliare il cittadino e avvilirlo, in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”.

Nonostante il p.m. non manchi di ricordargli che ha un invalidità del 100 per cento per problemi psichici e che quindi le sue parole hanno un peso relativo, anzi sono inattendibili, quel che l'amico cerca di dire è che in caserma hanno fatto del male a Giuseppe Uva, molto male, «perché forse, non saprei con precisione, vede dottore.. lui mi aveva confessato tempo prima di aver avuto una relazione con una donna che stava con uno dei carabinieri ».

Il pm gli intima di smetterla, che non lo lascerà infangare l’onorabilità dell’Arma, che Uva non è stato toccato se non per contenerne la furia autolesionista. La stessa linea, comprensibilmente, dell’avvocato di tutti i nuovi imputati, Luca Marsico, che è anche consigliere regionale lombardo nella giunta Maroni: «Ma certo che sono ancora tutti in servizio, e non cambierà niente neanche col rinvio a giudizio. Sono mortificati da quel che gli è caduto addosso. Vede, nella mia famiglia siamo carabinieri da tre generazioni, mio padre era comandante di stazione e io sono cresciuto in una caserma. Ho già presentato ricorso in Cassazione perché so che quegli 8 uomini tutte le sere possono tornare a casa e guardare i loro figli negli occhi con la coscienza più che a posto. Sono solo vittime di una campagna mediatica».

Il riferimento, implicito, è al legale della famiglia Uva come già lo è stato per altri casi molto simili. «Giuseppe è morto per lo stress fortissimo subito in via Saffi unito a un prolasso della valvola mitrale, di cui già soffriva. Il corpo è lì a dimostrare quel che ha patito, compresa l’ipotesi più orrenda: la Tac sul cadavere ha evidenziato aree gassose che sarebbero effetto di una lesione traumatica intestinale e del retto. C’è un particolare nella relazione dei carabinieri che colpisce. Scrivono di modeste escoriazioni alle gambe. Domanda: come facevano a vederle se Uva in caserma aveva addosso i jeans. Forse qualcuno glieli ha tolti? E per fare cosa? E comunque, per il nostro perito, il signor Uva di emorroidi non ne aveva».



Adesso sappiamo che a causare la morte di Giuseppe non sono stati i farmaci. Bene, è un primo passo. Lentissimo, ma lo è. Andiamo avanti con calma, perché il clima peggiorerà”.
È già partita una raccolta di fondi a favore dei poliziotti coinvolti, pubblicata dal quotidiano “La Prealpina” e promossa dal sindacato Cosip, per sostenere i colleghi nelle spese processuali e fare fronte “al tornado mediatico che ha condizionato la vicenda. Ora non manca occasione di accusare le forze dell’ordine per abusi e violenze, come se vestissimo la divisa per malmenare i cittadini e non per difenderli”.

Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decise per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta, misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte".La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso.

Io personalmente penso che fatti del genere lascino il segno e girare un film ispirato a una storia del genere sia come "non fare riposare in pace" la persona che ha subito torti. Piuttosto che girare film del genere penso che sia meglio fare beneficenza in quanto la gente le sue idee le ha già e determinate immagini  sono disturbanti per chi è già sensibile e al tempo stesso sono inutili per a far riflettere chi è insensibile a tali episodi, e di immagini simili ne ha già viste a bizzeffe senza cambiare di una virgola il suo pensiero..
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domenica 19 aprile 2015

L' EREMO DI SANT' ANTONIO A CASTELVECCANA

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Costruito in posizione panoramica su una forcella lungo un percorso di comunicazione tra i villaggi di fondovalle e i pascoli alti è  dedicato a Sant'Antonio abate protettore del bestiame. L'eremo risale probabilmente all'XI secolo e ha ospitato una minuscola comunità di frati nel piccolo romitorio ora trasformato in locanda. L'edificio è stato profondamente trasformato in epoca barocca conservando tuttavia la struttura dell'antico edificio romanico.Edificio rettangolare a navata unica conclusa da abside quadrata orientata ad oriente. La struttura perimetrale è in muratura portante. La copertura è a volta, il tetto è a due falde ricoperte con lastre in beola. Al termine della parete meridionale è addossata la sacrestia e la bassa torre campanaria quadrata.
Epoca di costruzione: XI secolo
Le pareti esterne, completamente intonacate, la facciata preceduta dal grazioso protiro, l'abside e il campanile sono frutto degli interventi cinque-seicenteschi che hanno modificato l'aspetto generale dell'edificio. L'interno conserva invece la struttura romanica con la navata unica con tre campate voltate a botte divise da due archi in pietra a vista poggiati su larghi pilastri con sottili mensole sagomate. Mentre la seconda e terza campata sono interamente intonacate, la prima è voltata con piccoli conci appena sbozzati a vista ed è ribassata rispetto alle altre. Gli archi sono invece costruiti con pietre ben squadrate di maggiori dimensioni. Sulla parete meridionale si aprono due piccole monofore di foggia differente, a doppio strombo che si innestano all'attacco della volta a botte. S. Antonio è l'unico edificio nel territorio provinciale a conservare le volte a botte, La presenza di volte in muratura è comunque estremamente rara nell'ambito varesino e si riscontra solo in quest'edificio (le volte della chiesa di San Pietro e Paolo a Brebbia sono frutto di intervento seicentesco) e nelle volte a crociera delle vicinissime chiese alpestri di San Michele al Monte, nella perduta San Martino in Culmine, andata completamente distrutta nei combattimenti del 1943 e nella non distante Sant'Agostino a Caravate.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/04/le-citta-del-lago-maggiore-castelvaccana.html




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