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giovedì 25 agosto 2016

PENE INGIUSTE

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Cesare Beccaria  afferma che una pena si definisce giusta e utile quando è breve il tempo trascorso tra quest’ultima e il delitto commesso, in quanto per il colpevole la pena costituirà  l’ effetto necessario ed immancabile del reato. Inoltre lo scopo della pena deve essere quello di rieducare e reinserire un uomo, ritenuto reo, nella società.

Il primo errore giudiziario moderno che si conosca avvenne nel 1630, con la condanna a morte di due cittadini milanesi, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, nel cosiddetto "processo agli untori" della peste del 1630, per un reato inesistente e difficilmente praticabile (aver sparso la malattia con "unguenti"), come narrato approfonditamente nella Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, e precedentemente dalle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri (entrambe le opere traggono informazioni dalla cronaca di Giuseppe Ripamonti).

Più recentemente, nel XX secolo, un referendum del 1987 e una sentenza della Corte di giustizia europea hanno affermato la responsabilità civile dei magistrati. Il principio della responsabilità civile, è disciplinato dalla legge n. 117/1988, che comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime.

Vi sono stati moltissimi casi celebri, a livello mediatico e non, di errori giudiziari accertati e riconosciuti (passati in giudicato o prosciolti), con imputati accusati di gravi reati ma innocenti; tra essi: Enzo Tortora, Daniele Barillà, Gino Girolimoni, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Pietrino Vanacore, Patrick Lumumba, Raffaele Sollecito, Amanda Knox, Edgardo Sogno, Randolfo Pacciardi, Rino Formica, Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda, Giuseppe Gulotta, Raniero Busco, Emilio Vesce, Silvio Viale, Giambattista Lazagna, Vittorio Emanuele di Savoia, Mohammed Fikri, Francesco Liparota, Elvo Zornitta, il caso dei falsi abusi di Rignano Flaminio, Calogero Antonio Mannino.

L’art.13 della Costituzione italiana stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva, mentre l’art. 27 recita che nessuno può essere considerato colpevole prima che si giunga a dimostrarne la  reale colpevolezza  e se ciò non avviene i giudici devono assolverlo. Ma ci si chiede se è giusto che un uomo, dopo essere stato arrestato per aver commesso un crimine più o meno grave, debba subire soprusi dagli organi giuridici che, invece, dovrebbero garantire la sicurezza di un cittadino ed in questo caso anche il reinserimento nella società.

Il 34% dei detenuti delle carceri in Italia è  in attesa di giudizio e tra questi, la maggior parte sono stranieri, perché nella maggior parte dei casi gli immigrati “finiscono dentro per reati minori rispetto agli italiani”.

Sono 19.037 i detenuti che devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni, ovvero il 56% della popolazione detenuta e condannata ha una pena che potrebbe scontare fuori dal carcere.

Lo prevede la legge, ma non sempre è garantito il diritto all’affettività e le visite, gli incontri con parenti spesso sono complicati. Tanto che  in cella, punito,è come se non ci fosse solo chi ha sbagliato, ma tutta la famiglia. I dati raccontano meglio di tutto il mondo dell’attesa, di un incontro, di quei minuti concessi nei parlatori, dove la riservatezza, l’intimità spesso è un sogno. In 123 carceri è possibile per i familiari prenotare le visite. In 148 carceri è possibile fare colloqui di domenica. In 98 le visite sono sei giorni a settimana. In 172 carceri vi sono spazi, anche se non sempre sufficienti, per i bambini figli di detenuti.
Proprio i colloqui sono uno degli elementi che più influenza la quotidianità del detenuto.
In questi anni sono stati  avviati alcuni progetti nelle carceri: sono 840.116 i libri presenti nelle biblioteche carcerarie con una media di 4.352 libri per carcere e 15 libri a detenuto. Molti libri sono però edizioni vecchie e poco utili di testi scolastici.
Lavora il 29,73% dei detenuti. Di questi solo una piccola parte, il 15%, ha un  datore di lavoro privato. Sono solo 612 i detenuti impiegati in attività di tipo manifatturiero, di cui  208 in attività agricole. Dunque la gran parte lavora per l’amministrazione penitenziaria, impiegata  in attività domestiche. Lavorare in carcere significa essere occupati per poche ore settimanali e guadagnare in media circa 200 euro al mese.




Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro», spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari «Articolo643».

Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016.

E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei «25 anni di barbarie giustizialiste» e la magistratura non sostenesse - coma ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che «la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici» e che «i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più», sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia.

Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, «correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no».
   
Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. «Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno».

Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. «Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro».
 
Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. «La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro». Anche i numeri sono simili? «Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare». Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? «Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine».



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venerdì 18 settembre 2015

CARCERE e COSTI



A detta di chi nel carcere ci lavora, le priorità per l’agenda governativa sono tre. La prima, spiega il presidente della Cooperativa Giotto, è «un reale principio di accoglienza, ragion per cui non può esserci solo un bancomat che ti dà il numero di cella, i vestiti, il vassoio e il numero di matricola. Devono esserci persone che accolgono altre persone secondo lo scopo del vigilare e redimere». La seconda urgenza è di carattere sanitario: «Il carcere è pluriperiferia in cui ci sono extracomunitari provenienti da decine di paesi, invalidi, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti, disagiati sociali. L’aspetto sanitario non può ridursi a distribuzione di psicofarmaci». Il terzo punto risiede nel lavoro dei detenuti. E qui scatta l’obiezione popolare: perché in tempi di crisi, quando padri e figli sono disoccupati, bisogna dare lavoro ai delinquenti? Risponde il presidente: «Innanzitutto c’è un vantaggio economico. Per ogni milione di euro investito nella rieducazione se ne risparmiano nove. Con gli 800 detenuti che lavorano la recidiva passa dal 70-90% all’1 o 2%. Senza contare che tra costi diretti e indiretti lo Stato sborsa 250 euro al giorno per ciascun detenuto, parliamo di miliardi di euro che si ripetono come spesa ordinaria ogni anno. Un dato su tutti: per ogni detenuto recuperato si risparmierebbero 100mila euro annui».
La rieducazione del condannato, sancita dall’articolo 27 della Costituzione, coniuga recupero della persona, sicurezza sociale ed economicità. Altrimenti l’esempio di scuola è quello del detenuto che esce di galera e torna a scippare la vecchietta, che a sua volta cade e si rompe il femore. Intervengono le spese sanitarie per l’ospedale, le spese della sicurezza per la polizia che arresta il delinquente oltre a quelle giudiziarie una volta compiuto il passaggio in tribunale, infine al conto si aggiunge il costo del carcere. La filiera sembra banale, ma comporta l’esborso fior di quattrini per le tasche pubbliche, ragion per cui il lavoro in carcere conviene all’uomo e allo Stato. Produce ricchezza anche fuori dalle mura del penitenziario. A Padova, ad esempio, per i 130 detenuti che lavorano, ce ne sono almeno altri 30 che hanno trovato occupazione fornendo know-how, macchinari, supporto amministrativo. Un vero e proprio indotto che si quantifica così: «Il rapporto tra lavoratori liberi e detenuti è circa di 1 a 5. Se le 800 persone detenute oggi smettessero di lavorare, altre 200 o giù di lì perderebbero il lavoro».

Alla fine della fiera i reclusi che hanno intrapreso un percorso lavorativo sono troppo pochi. Una minoranza privilegiata, che può contare su una seconda possibilità. Gli insider lamentano mancanza di fondi, assenza di progettualità di medio-lungo periodo, troppa burocrazia che scoraggia le aziende. Attacca il presidente: «Ci metti un anno a entrare in carcere e poi quando sei dentro ti dicono che non sanno se puoi restare perché non si sa se ci sono i finanziamenti. Che poi non sono semplici finanziamenti, ma investimenti. Perché ci si guadagna». Il presidente della Cooperativa Giotto cita l’esempio del febbraio 2013, quando il ministro Severino dispose un finanziamento straordinario di 16 milioni di euro per incentivare il lavoro penitenziario. «Oggi di quel decreto la burocrazia ha fatto di tutto perché il finanziamento si possa usare il meno possibile e il più tardi possibile. Nessuno ha voluto recepire ciò che arrivava nella forma di suggerimento da società civile, imprese sociali e da chi opera nel carcere da decine di anni».



Di governo in governo. Il ministro Cancellieri ha incrementato il budget della legge Smuraglia, quella che favorisce il lavoro dei detenuti. Circa 5,5 milioni in più. «Però a questo non corrisponde una spinta istituzionale centrale per fare in modo che gli 800 detenuti sui 54mila che oggi lavorano all’interno delle carceri diventino di più, anzi rischiamo seriamente che diminuiscano». Da Padova all’Italia, da una parte i panettoni dei pasticceri carcerati, dall’altra l’ozio h24 al chiuso delle celle. I due mondi corrono paralleli, non s’incontrano nemmeno per sbaglio. L’esperienza di Giotto, come quella delle cooperative che operano nei penitenziari d’Italia, ha dimostrato che la ricetta funziona. E basta poco. «Non ha vinto il carcere, ma la professionalità». Il presidente evoca un cambio di passo culturale «che renda obbligatorio per lo Stato utilizzare il lavoro come trattamento di rieducazione». I risultati fanno la differenza. Soprattutto perché «la cosa più bella è vedere un altro uomo cambiare e noi di questi spettacoli in carcere ne abbiamo visti parecchi».

Secondo le analisi del dipartimento di Polizia Penitenziaria in Italia un carcerato costa mediamente 3.511 euro al mese. Di questi soldi però solo 255 euro vengono spesi per le esigenze del detenuto. Il resto serve ad alimentare il sistema penitenziario. E la pena di morte non fa risparmiare, anzi. Quanto costa un detenuto nelle carceri italiane? Lo Stato quanto paga ogni mese per mantenere un galeotto nelle patrie galere? È una domanda che torna ciclica ma che spesso non riesce ad ottenere una risposta chiara e definita, ovvero 3.511 euro e 80 centesimi.

L’analisi è stata sviluppata dopo la decisione di Papa Francesco di abolire l’ergastolo e la nascita di un certo dibattito legato ai costi della detenzione a carico della popolazione. La dimostrazione della confusione sui numeri è data dal numero di risultati sempre diversi che compaiono su Google appena si pone la questione. Vengono proposte cifre di ogni genere, che vanno dai 70 mila euro l’anno ai 7500 euro al mese, per 225 euro al giorno. Per Pianeta Carcere a Rimini un detenuto costa 3.384 euro al mese. Per l’Osapp, sindacato autonomo polizia penitenziaria, ripreso dal Consap Lucca, un carcerato costa quanto un deputato, ovvero 12 mila euro al mese. È evidente che questi numeri contrastano tra di loro ed impediscono all’opinione pubblica di rendersi conto di quanto effettivamente costa il carcere. A questo punto abbiamo provato a fare chiarezza avvalendoci dello studio prodotto dal Dap, il dipartimento di polizia penitenziaria che ha pubblicato dati e cifre sul numero di ottobre 2012 della sua rivista “le due città”.

La cifra ricopre anche lo stipendio delle guardie, la manutenzione delle utenze, la spesa dei veicoli, il costo del personale civile e della mensa.

Questo significa che la somma complessiva per detenuto spesa dall’amministrazione penitenziaria nel 2012 è stata di 3.511 euro al mese. Di questi soldi, 3.104 sono serviti al pagamento del personale di polizia e civile, mentre il resto copre il vitto e la gestione delle strutture. Dividiamo bene la cifra e spieghiamo meglio cosa c’è nei 3.104 euro a detenuto. 2.638,92 euro servono per pagare la Polizia Penitenziaria. Il personale civile assorbe 393,58 euro. Per il vestiario e l’armamento si usano 21,97 euro, per la mensa ed i buoni pasto 39,27 euro, per le missioni ed i trasferimenti 9,03 euro. 0,57 euro servono per la formazione del personale, 0,56 euro per l’asilo nido dei figli dei dipendenti e 0,41 euro servono per gli accertamenti sanitari.

Per quanto riguarda invece i detenuti, la spesa media è di 255,14 euro mensili. Oltre la metà di questi soldi, ovvero 137,84 euro, serve a pagare vitto e materiale igienico. 67,71 euro servono a pagare il lavoro dietro le sbarre, 6,83 euro sono per le attività trattamentali, 41 centesimi servono agli asili nido per i figli mentre il servizio sanitario per i detenuti assorbe a persona 22,81 euro, con il trasporto che costa 19,81 euro. Dei 3.511 euro spesi al mese, 150,24 vengono impiegati per mantenere la struttura. 110,28 euro servono per le utenze. La manutenzione ordinaria invece costa 8,18 euro con la straordinaria che ne richiede 12,53. Le locazioni valgono 4 euro e 50 mentre le manutenzioni di automezzi 2,51 con l’esercizio che costa 2,52 euro per detenuto. Il sistema informativo costa 2,28 euro, il laboratorio Dna 2,86 e le altre spese d’ufficio invece valgono 4,38 euro. Per le assicurazioni si spendono 49 centesimi per detenuto al mese, per gli esborsi da contenzioso 1,25 e per le altre spese 2,11. Le commissioni di concorso costano 2 centesimi a detenuto, le cerimonie 3, i servizi cinofili ed a cavallo 14 centesimi mentre i sussidi al personale valgono 17 centesimi. Ed il totale fa appunto 3.511,80 centesimi. Lo stanziamento complessivo del governo per il 2012, come dimostrato dal ministero della Giustizia, è di 2.802.417.287 euro, in discesa rispetto al 2011 ma più di quanto non stanziato nel 2010.

Per il 2013 invece, come spiega il Senato, lo stanziamento è rimasto pressoché invariato, a 2.802.7 miliardi di euro. Questi numeri ci fanno capire quale sia la realtà della vita carceraria. La maggior parte dei soldi spesi serve a tenere in vita l’amministrazione mentre in sé, il detenuto, non influenza molto i costi. Parliamo, come spiega Redattore Sociale che riprende dati del Dap secondo i quali, ad agosto 2012, i detenuti nelle 206 carceri nazionali erano 66.271, comprensivi dei detenuti in regime di semilibertà. E le loro condizioni non sono poi da “Grand Hotel”. Urla dal silenzio ci propone una testimonianza di un uomo detenuto nel carcere milanese di Opera, al momento della lettera scritta il 20 novembre 2012.

L’uomo si chiama G. L. ed in poche righe ha cercato di spiegare quale sia la vita al di là della finestra sbarrata. Per mangiare ogni giorno lo stato spende 3 euro per detenuto, comprensivo di colazione, pranzo e cena. Calcolando 1.000 persone recluse ad Opera, si capisce che al giorno si spendono 3.000 euro. Ogni mese si sale a 90.000 ed in un anno lo Stato, solo ad Opera, spende 1.080.000 euro per dare da mangiare a 1.000 persone. Moltiplicando questa media per 66,271, aggiungiamo noi, esce fuori che solo di pasti in Italia ogni anno vengono spesi 71.572.680 euro. Un numero che può impressionare ma che in effetti non sembra poi così alto se pensiamo che con questi soldi si dà da mangiare a più di 66 mila persone l’anno.



Segno che forse in Italia, nonostante le accuse e la voglia di giustizialismo che ogni tanto fa capolino dai palazzi del potere, la spesa per detenuto non è poi così alta. Per farci capire meglio quale sia il nostro confronto con il resto d’Europa, il Dap ha analizzato il costo medio per detenuto in alcuni stati del vecchio continente. La Norvegia stanzia ogni anno circa 2 miliardi di euro - cifra inferiore alla nostra - che vengono divisi per i vari istituti di pena. La ridotta popolazione ed il numero esiguo dei carcerati fa sì che ogni mese si spendano, a recluso, 12.118 euro, cifra che rappresenta la media dell’istituto di pena di Halden, dov’è rinchiuso l’attentatore di Utoya, Anders Breivik.

Al secondo posto nella classifica europea c’è il Regno Unito con una media di 4.600 euro mensili per ogni detenuto. Poco sotto l’Italia c’è la Francia, che spende 3.100 euro al mese per carcerato. Il ministero della Giustizia dell’Esagono ha calcolato che per i detenuti rinchiusi nei 190 istituti di pena del Paese ogni francese versi 40 euro l’anno. In Italia invece ogni cittadino nel 2012 ha “donato” alla causa 46,95 euro. Basta dividere la popolazione per lo stanziamento. In Spagna lo Stato spende 1650 euro al mese per detenuto, una cifra che appare superiore a quella impiegata dagli Usa, dove per ogni galeotto viene speso in media ogni mese 1433 euro.

Gli Usa hanno la popolazione penitenziaria più numerosa del pianeta, con oltre 2 milioni di detenuti. La somma degli stanziamenti previsti dai governi dei 50 Stati e da Washington è di 75 miliardi di dollari l’anno. Solo che la maggior parte di questi soldi serve per mantenere alti gli standard di sicurezza. Ai detenuti restano quindi le briciole.
Nel caso di carcerati condannati alla prigione a vita senza possibilità di godere della libertà vigilata, si va a spendere poco più di un milione di euro. In Italia invece l’ergastolo, con queste cifre, viene a costare allo Stato 1.236.960 euro, calcolando una reclusione di 30 anni. Negli Usa però le cose cambiano a seconda degli Stati.

In California, ad esempio, lo Stato spende a detenuto 3.000 euro al mese, ma di questi soldi molti vengono impiegati nel pagamento delle assicurazioni mediche, che costano 10.000 euro l’anno per 40.000 detenuti. A New York un detenuto costa annualmente 40.000 dollari. In Canada una persona in galera costa 7000 dollari al mese mentre in Argentina la cifra precipita a 1.036 euro ogni 30 giorni. Qui però ci sono 9 mila detenuti e 9.800 agenti. Ci sono più guardie che ladri, quindi. Ed a proposito di casi particolari, segnaliamo Guantánamo dove ogni carcerato costa 30 euro al giorno. Le spese sono quindi tante e forse eccessive ad un occhio poco attento.

Sono in molti a considerare il mantenimento dei carcerati uno spreco e specialmente negli Stati Uniti, nel caso di pene particolarmente gravi, la pena di morte viene vista sia come una punizione adeguata sia come un modo per evitare che il malfattore pesi sulle casse della società. È pur vero che, numeri alla mano, i singoli detenuti non fanno differenza visto il costo della macchina carceraria, ma se analizzassimo i dati relativi ai costi sostenuti dall’amministrazione Usa in caso di pena di morte ci renderemmo conto che l’assioma “boia - risparmio” non sta in piedi. Anzi, un condannato alla pena capitale costa allo stato americano mediamente due terzi in più rispetto all’uomo condannato al carcere a vita senza “parole”.
In una lettera inviata nel 2009 al New York Times da Natasha Minsker, “policy director” della pena capitale nel nord della California, i residenti per ogni esecuzione pagano in tasse più di 137 milioni di dollari. Un processo che si conclude con la pena capitale costa più di 10 milioni di dollari e 20 mila ore di dibattito in aula. Uno studio dell’università di Duke ha invece dimostrato che gli Usa spendono per ogni detenuto ucciso 2.160.000 dollari in più di quanto non verrebbe speso per una carcerazione a vita. Inoltre essendo i condannati a morte per lo più poveri e nullatenenti, lo Stato si fa carico anche delle loro spese consistenti in due avvocati per il processo. Poi ci sono tutti i soggetti implicati nel processo, gli esperti di pene sostitutive, psicologi, stenografi, costi maggiorati per via delle celle singole. Insomma, ecco molte più voci di quante non si possa sospettare.
In California, dal 1982 al 2000, sono stati spesi 200 milioni di dollari. In Florida ogni esecuzione costa 24 milioni. L’avvocato della difesa per ogni processo che contempla la pena capitale riceve 360 mila dollari, 200 mila in più di quanto non otterrebbe in un processo normale. Le indagini della difesa costano tra le 5000 ed i 48 mila dollari. Il procuratore invece è pagato dai 320 mila ai 772 mila dollari, il doppio della difesa. La Corte invece costa 506.000 dollari, mentre normalmente varrebbe 82 mila. Un condannato a morte costa 137 mila dollari l’anno mentre un detenuto condannato normale arriva fino a 55 mila. E non dimentichiamo poi che le cifre del processo vanno moltiplicate per il numero di dibattimenti. Se i processi sono tre, moltiplicate tutto per tre.

Papa Francesco ha abolito il carcere perché lo riteneva inumano mentre sono molti i critici che pensano come la reclusione rappresenti un atto di comodità. Ma se questo fosse vero un detenuto che vita può passare quando con tre euro si paga colazione, pranzo e cena, mentre la vita in cella costa mensilmente 140 euro? La situazione difficile delle carceri di tutto il mondo passa anche dalle condizioni di vita. Certo, 3.511 euro a persona al mese sembra una cifra importante. Se la si spoglia si capisce la gravità della situazione e quanto effettivamente non si spenda per i detenuti, non solo in Italia. Peggio ancora va negli Usa con una spesa risibile gravata dal costo delle assicurazioni sanitarie. Nel caso di pena di morte, poi, gli unici a guadagnare sono avvocati, periti e giudici, con il condannato derubricato a “costo maggiorato” per via della sua permanenza in una cella singola. Il carcere è miseria e visti questi numeri la definizione appare fin troppo azzeccata.

L’inserimento lavorativo dei detenuti è una gallina dalle uova d’oro. Sia esso interno o esterno al perimetro carcerario, l’impiego professionale di chi sta scontando una pena garantisce notevoli vantaggi finanziari allo Stato, agevolazioni alle imprese e contribuisce ad abbattere il problema sociale della recidiva.
Di norma, il 70% degli ex galeotti torna infatti a delinquere dopo il periodo di detenzione. Ma la percentuale crolla sotto il 20% se nel frattempo essi hanno svolto un’occupazione vera per conto di imprese o cooperative sociali.
I penitenziari italiani ospitano 66 mila persone e abbattere di un punto la recidiva significa tenerne fuori quasi 700 persone. Se si considera che il costo giornaliero di un detenuto si aggira sui 150 euro, lo Stato risparmia in modo diretto circa 35-36 milioni di euro.
Senza contare tutti i benefici sociali ed economici di un malvivente in meno per strada che minaccia, ferisce, uccide, ruba, rapina e impegna risorse dello Stato sul fronte repressivo.
Del resto, oltre il 50% della popolazione carceraria italiana ha tra i 21 e i 39 anni. Dunque rappresenta un’ottima forza lavoro potenziale e, in epoca di cuneo fiscale altissimo, garantisce vantaggi competitivi alle imprese.
Il datore di lavoro beneficia di 516 euro di credito d'imposta per ogni detenuto impiegato. Nel caso di addetti assunti a tempo parziale l’agevolazione spetta in misura proporzionale alle ore prestate. E il regime di favore vale per ulteriori sei mesi successivi alla fine della detenzione.
In più ci sono sgravi contributivi che oscillano tra il 50% e il 100%. La percentuale più bassa è per le imprese, nel caso di reclusi disoccupati da oltre 24 mesi. Ma la quota sale al 100% per gli artigiani. L’agevolazione è prevista per 36 mesi in caso di assunzione a tempo determinato e permane naturalmente anche oltre il «fine pena».
C’è invece una riduzione contributiva del 100% per le cooperative sociali che impieghino persone ammesse alle misure alternative. E uno sgravio dell’80% per le cooperative che si avvalgano di detenuti ammessi al lavoro esterno. Pure in questo caso le agevolazioni si protraggono per 6 mesi oltre la fine della detenzione.

La norma che sostiene il lavoro dei reclusi è la legge Smuraglia (193/2000), che dall’inizio viene finanziata ogni anno con 4,6 milioni di euro: ammontare via via sempre più esiguo per colpa dell’inflazione (quest’anno i fondi sono già finiti in agosto) e di cui beneficiano oggi poco più di 2 mila detenuti tra quelli impiegati nell’intramurario e i cosiddetti «articoli 21» (ammessi al lavoro esterno in base all’art.21 dell'ordinamento penitenziario). Il budget è diviso grossomodo a metà tra credito d’imposta e sgravio contributivo.

Coloro che stanno scontando una pena e che lavorano (dentro e fuori il carcere) sono oggi 14 mila e producono una ricchezza pari a circa 300 milioni di euro, secondo i dati della Camera di commercio di Monza e Brianza. Numeri non indifferenti che pure potrebbero essere di molto incrementati.
Gino Gelmi, di Carcere e territorio spiega: «La Smuraglia ha una dotazione limitata e soprattutto riguarda solo gli “articoli 21”, non i beneficiari di misure alternative. Le risorse puntalmente finiscono a metà anno e le imprese, soprattutto le coop sociali, vanno in difficoltà».



LEGGI ANCHE : http://cipiri16.blogspot.it/2015/09/tatoo-e-carcerati.html



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sabato 5 settembre 2015

CIAO GIUSEPPE Quando Ti Faranno Riposare in Pace?

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Il sindacato di polizia Coisp regisce duramente alla presentazione dell'ultimo film di Ascanio Celestini "Viva la sposa!", ispirato alla morte del carpentiere Giuseppe Uva avvenuta a Varese il 14 giugno del 2008 e per la quale la sorella chiede giustizia, convinta che determinanti siano state le percosse subìte nella caserma dei carabinieri dove fu portato quella notte.

Attualmente è in corso un processo per stabilire le vere cause della morte di Uva. Dopo un processo travagliato agli operatori sanitari, tutti assolti, ora è in corso un procedimento contro i due agenti e i cinque carabinieri che nella notte tra il 13 e il 14 giugno trascinarono l'operaio nella caserma di via Saffi e, stando alle parole dell'amico, lo picchiarono a sangue.

Giuseppe Uva aveva 43 anni quando morì a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra "vittima dello Stato", come si denuncia da anni.  L'amico, racconta di aver sentito che nella stanza vicina, Giuseppe Uva, grida, urla; e poi del fracasso, rumori. Col cellulare, che i carabinieri non gli hanno portato via, chiama di nascosto l’ospedale. Quando l’auto-lettiga arriva, viene rimandata indietro: "è tutto tranquillo assicurano, solo due ubriachi un po' agitati".Gli avrebbero somministrato farmaci che hanno provocato una letale intolleranza. Ma alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte. La sorella racconta" Su tutto il fianco era blu, quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito".



Emorragia da emorroidi, sostengono in procura. Morte da tortura, per l'avvocato scelto dalla famiglia. La differenza che passa tra le due ipotesi è quella tra il dolore e l'orrore, tra un lutto accidentale e una "lezione a un ubriaco" finita male. Il "caso Uva" sta in bilico su questa linea di confine. Sono stati processati tre medici, poi prosciolti. Adesso stanno per finire davanti a un giudice 2 carabinieri e 6 poliziotti, fino a ieri sospettati solo per lesioni lievissime. A loro carico, ipotesi di reato che vanno dall'omicidio preterintenzionale (volevo fargli del male ma non fino al punto di), all'arresto illegale, al pestaggio ("indebita e violenta manomissione del corpo altrui"), al colpevole ritardo nell'affidarlo alle cure di un ospedale. Quasi tutto a rischio prescrizione, visto il tempo passato dai fatti.

Sulla lapide di Giuseppe c'è un Cristo in croce, una foto dove sorride felice con un pezzo di panettone in mano, e una gru a sbalzo color bronzo. Il gruista era il suo ultimo lavoro, ma ci andava a strappi, mollava e ritornava. Uno spirito libero, che dormiva a casa di un amico, di qualcuna delle sorelle, della donna del momento, qualche volta in albergo perché gli piaceva molto l'idea. Come gli piaceva bere, ballare, far casino, tenersi i capelli lunghi raccolti in una coda o sciolti e mossi, a seconda dell'umore.

Dopo la fine del matrimonio con Maria che se n’era andata col suo miglior amico, un commercialista, e questo l’aveva schiantato fino a spingerlo a fare il vagabondo per un anno e più, era tornato con l’aria di chi ha deciso di viversela un po’ alla giornata.

Per descrivere quella notte e l’alba successiva, basterebbe la cronaca. Il problema è che non ce n’è una sola. Ce ne sono due, opposte.

Quella ufficiale, nel senso che è stata assunta come vera dal pubblico ministero che gestisce il caso dal principio, comincia come l’altra con una bravata. È venerdì 13 giugno di un’epoca che sembra lontanissima.

Giusto a Varese, Pino Uva è a casa dal suo amico e vedono una partita della nazionale in tv, poi vanno per locali a tirar tardi. L’ultimo, Le Scuderie di via Cavallotti, chiude alle 3. I due, piuttosto ubriachi, non trovano di meglio che spostare transenne in mezzo alla strada e deviare il traffico.

Passa una Gazzella dei carabinieri, invitano la coppia a smettere. Ma Uva reagisce male, in parole e opere. Urla insulti (“toglietevi la divisa e poi vediamo”)“, i vicini si affacciano protestando, lui comincia a dare calci e pugni ai loro portoni. A quel punto, “onde evitare che la vicenda degenerasse”, i carabinieri chiamano in aiuto una Volante della polizia, ne arrivano due per sbaglio, poi se ne aggiungerà anche una terza (uno spiegamento di forze un po’ eccessivo per due balordi, visto che la città rimane a lungo sguarnita del presidio esterno di vigilanza, ma così è). Caricano Pino l'amico sulle auto e li portano nella caserma di via Saffi per il verbale, ore 3.50 (va sottolineato che questo orario, e gli altri successivi, sono quelli della versione ufficiale). Ma qui le cose degenerano per davvero.

Uva dà di matto, il lunedì successivo ha l’esame per riottenere la patente, teme che un verbale per alcolismo ne comprometta l’esito, perde quel poco di controllo di sé che aveva, rovescia una scrivania, poi “dalla sedia dove sedeva si dà una spinta all’indietro con i piedi, cadendo unitamente alla stessa per terra battendo il capo dapprima contro il muro e quindi volontariamente sul pavimento con il chiaro intento di lesionarsi”. Fortuna che un agente pietoso infila la scarpa tra la testa di Uva e il pavimento per attutire un po’ i colpi. Anche se in otto, gli uomini in divisa non riescono a contenere il suo forte stato di agitazione e convocano la guardia medica nella persona del dottor Augustin Desiré Noubissie che prova a fargli un’iniezione di calmante. Uva la rifiuta in malo modo, come rifiuta l’aiuto di un altro medico chiamato a rinforzo, Andrea Obert. Si decide di chiamare l’ambulanza del 118, che carica Pino non senza fatica (uscendo dà, darebbe diciamo così, un’ultima testata alla porta a vetri) e alle 5.48 lo deposita al pronto soccorso dell’ospedale dove, malgrado venga catalogato in “codice verde”, cioè non urgente, tre medici lo imbottiscono di farmaci e lo trasferiscono in psichiatria, dove cadrà in un sonno profondissimo e poi, dalle 10.30, eterno. Nel frattempo gli vengono tolti gli slip intrisi di sangue, che spariscono dalla scena per sempre. Causa del decesso, secondo il pm: “La combinazione, continuata per ore, di sedativi con l’alto tasso alcolico riscontrato nell’organismo”. Da qui, l’accusa, rivelatasi a processo non fondata, contro i medici.

È di fatto la seconda versione di quel venerdì 13. Anzi, di quel sabato 14, tra le 3 e le 10.30 di mattina. C’è una querela presentata il giorno dopo alla Procura di Varese, in cui l’amico che ha condiviso quelle ore con Giuseppe Uva, racconta una storia completamente diversa dalla cronaca ufficiale, in cui l’unica cosa che coincide sono le transenne spostate per fare una bravata.

I carabinieri che arrivano sul posto sono già molto arrabbiati. Pare anche ci sia stata una rissa recente con qualcuno di loro, in borghese, fuori da una discoteca. E che Uva, poche sere prima, abbia legato con una catena il cancello d’entrata della stazione di Caravate.

Uno dei carabinieri indica Pino e bestemmiando gli dice: “Proprio te stavo cercando. Adesso te la faccio pagare”. Pino si allontana, quello lo raggiunge, “lo scaraventa sul pavé”, lo carica sulla Gazzella in manette e comincia a menarlo. La scena si sposta nella caserma. Uva viene fatto entrare in una stanza dove c’è un via vai di carabinieri e poliziotti. Alberto resta fuori e lo sente gridare disperato, per tanto tempo gli sembra. “Ahi, basta, ahi, ahia”. E poi rumori sordi di colpi. Allora chiama lui il 118: venite, stanno massacrando un uomo. L’operatore dell’ambulanza chiede conferma in caserma prima di muoversi.

Gli rispondono che sono due ubriachi, di non preoccuparsi. Siamo intorno alle 4. Per il giudice, Uva è stato trattenuto “per un’ora e mezza in un presidio di polizia senza necessità operative”. Per ilp.m., “21 minuti d’orologio”, di cui solo 7 nella stanza da cui l'amico ha sentito le urla. Quando, dopo le 5, l’ambulanza arriva finalmente in caserma, l’amico Alberto viene portato a casa dal padre. Il giorno dopo denuncia quanto visto e sentito, ma passeranno più di 5 anni prima che il pm Abate lo convochi per ascoltarlo. Succede il 26 novembre 2013 ed è un interrogatorio di quasi 4 ore, considerato dal gip “degradante, atto a umiliare il cittadino e avvilirlo, in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”.

Nonostante il p.m. non manchi di ricordargli che ha un invalidità del 100 per cento per problemi psichici e che quindi le sue parole hanno un peso relativo, anzi sono inattendibili, quel che l'amico cerca di dire è che in caserma hanno fatto del male a Giuseppe Uva, molto male, «perché forse, non saprei con precisione, vede dottore.. lui mi aveva confessato tempo prima di aver avuto una relazione con una donna che stava con uno dei carabinieri ».

Il pm gli intima di smetterla, che non lo lascerà infangare l’onorabilità dell’Arma, che Uva non è stato toccato se non per contenerne la furia autolesionista. La stessa linea, comprensibilmente, dell’avvocato di tutti i nuovi imputati, Luca Marsico, che è anche consigliere regionale lombardo nella giunta Maroni: «Ma certo che sono ancora tutti in servizio, e non cambierà niente neanche col rinvio a giudizio. Sono mortificati da quel che gli è caduto addosso. Vede, nella mia famiglia siamo carabinieri da tre generazioni, mio padre era comandante di stazione e io sono cresciuto in una caserma. Ho già presentato ricorso in Cassazione perché so che quegli 8 uomini tutte le sere possono tornare a casa e guardare i loro figli negli occhi con la coscienza più che a posto. Sono solo vittime di una campagna mediatica».

Il riferimento, implicito, è al legale della famiglia Uva come già lo è stato per altri casi molto simili. «Giuseppe è morto per lo stress fortissimo subito in via Saffi unito a un prolasso della valvola mitrale, di cui già soffriva. Il corpo è lì a dimostrare quel che ha patito, compresa l’ipotesi più orrenda: la Tac sul cadavere ha evidenziato aree gassose che sarebbero effetto di una lesione traumatica intestinale e del retto. C’è un particolare nella relazione dei carabinieri che colpisce. Scrivono di modeste escoriazioni alle gambe. Domanda: come facevano a vederle se Uva in caserma aveva addosso i jeans. Forse qualcuno glieli ha tolti? E per fare cosa? E comunque, per il nostro perito, il signor Uva di emorroidi non ne aveva».



Adesso sappiamo che a causare la morte di Giuseppe non sono stati i farmaci. Bene, è un primo passo. Lentissimo, ma lo è. Andiamo avanti con calma, perché il clima peggiorerà”.
È già partita una raccolta di fondi a favore dei poliziotti coinvolti, pubblicata dal quotidiano “La Prealpina” e promossa dal sindacato Cosip, per sostenere i colleghi nelle spese processuali e fare fronte “al tornado mediatico che ha condizionato la vicenda. Ora non manca occasione di accusare le forze dell’ordine per abusi e violenze, come se vestissimo la divisa per malmenare i cittadini e non per difenderli”.

Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decise per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta, misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte".La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso.

Io personalmente penso che fatti del genere lascino il segno e girare un film ispirato a una storia del genere sia come "non fare riposare in pace" la persona che ha subito torti. Piuttosto che girare film del genere penso che sia meglio fare beneficenza in quanto la gente le sue idee le ha già e determinate immagini  sono disturbanti per chi è già sensibile e al tempo stesso sono inutili per a far riflettere chi è insensibile a tali episodi, e di immagini simili ne ha già viste a bizzeffe senza cambiare di una virgola il suo pensiero..
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sabato 13 giugno 2015

BRESCIA E CRIMINI : LA STRAGE DI PIAZZA DELLA LOGGIA



Purtroppo quando si parla di Brescia viene in mente questa orribile strage che si è consumata 41 anni fa....quasi mia coetanea.

In Piazza della Loggia, a Brescia, dalle dieci del mattino, un mattino, grigio, piovoso, si sono raccolte migliaia di persone. Molti cercano riparo sotto i portici. Molti sono studenti. Molti sono insegnanti. Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, continua nel suo discorso. Cita Almirante, il segretario del Msi, il repubblichino di Salò, fucilatore di partigiani. Denuncia le disattenzioni o le connivenze dei corpi dello Stato, che dovrebbero vigilare, impedire, reprimere quella violenza, quel terrore neofascisti. Dice: «A Milano…». Forse avrebbe voluto ricordare Piazza Fontana. Ma in piazza si ascolta solo un boato. Si sente ancora Castrezzati: «Compagni, amici, state fermi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone attorno alla piazza…».

Sono le dieci e dodici minuti del 28 maggio 1974: a terra sono rimaste decine e decine di persone, sangue sul selciato, la bandiera che copre un cadavere. Pochi istanti dopo ininterrotto si udirà solo il sibilo delle sirene delle ambulanze. Poco più di un’ora dopo i vigili del fuoco avranno l’ordine di ripulire la piazza con gli idranti. Il sangue verrà cancellato e con il sangue verrà cancellata ogni traccia della bomba. Alla fine i morti saranno otto, i feriti un centinaio.

La strage di Brescia è una strage in diretta audio: non si vede, saranno poi le foto a raccontare il luogo, ma si può ascoltare. Riascoltare quarant’anni dopo il sindacalista della Cisl dalla tribuna, il boato, le urla della gente muove un’emozione profonda, l’angoscia e l’orrore, nel ricordo di morti, di strategie eversive, di paure profonde, di una democrazia in bilico, sotto i colpi della «strategia della tensione».

Dopo Brescia, sarà in agosto l’attentato all’Italicus. Un ministro degli interni, democristiano, ex partigiano cattolico, Paolo Emilio Taviani, annotò su suo diario: «Certo il clima è pesante. Assomiglia a quello del Cile prima dell’avvento di Pinochet».

Le cronache raccontano del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, del golpe di Junio Valerio Borghese, dell’arresto del generale Vito Miceli, capo del Sid, servizio investigativo, con l’accusa di cospirazione contro lo stato. In agosto, dopo l’Italicus, sotto il titolo Due mesi dopo Brescia, il Corriere della Sera scriverà: «Lo stato esita a punire i servitori infedeli, i capi intriganti, gli organismi malati… Sono note le colpe, le debolezze e gli atti concreti che hanno favorito le organizzazioni del terrorismo nero».

Lo scriverà anche Pier Paolo Pasolini, in uno dei suoi più letti e ricordati articoli: «Cos’è questo golpe? Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…». In quei mesi, dal Cile in avanti, Berlinguer e il Pci disegneranno la strategia del compromesso storico e dell’alternativa democratica. Seguiranno gli «anni di piombo».

Attorno a Piazza della Loggia si consumarono indagini, istruttorie, processi sentenze.

Quarant’anni per capire quello che subito si era capito, cioè l’origine fascista della strage e la compromissione di organismi dello stato, dei servizi segreti, quarant’anni che non sono stati sufficienti però ad accertare la verità giudiziaria. La prima istruttoria si concluse nel 1979 e condusse alla condanna di alcuni esponenti della destra bresciana. Tra di essi, Ermanno Buzzi, che, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. In appello vennero tutti assolti e la Cassazione confermò le assoluzioni. L’ultima istruttoria terminò nel 2008 con il rinvio a giudizio di Delfo Zorzi, dal 1989 cittadino giapponese (grazie al suo matrimonio con una ricca signora di Okinawa), Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte (fascista e insieme agente del Sid, in piazza della Loggia quel giorno), Pino Rauti, Francesco Delfino ex generale dei carabinieri), Giovanni Maifredi (collaboratore del ministero degli interni). L’accusa fu di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Rauti, per il quale venne chiesta l’assoluzione «per non aver commesso il fatto», malgrado la responsabilità morale e politica. Tutti assolti o prescritti in primo grado, in appello il giudizio venne confermato. Le parti civili vennero invece condannate al rimborso delle spese processuali.

Il 14 aprile 2012 la Corte d'Assise d'Appello conferma l'assoluzione per tutti gli imputati, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali, tuttavia indica la responsabilità di tre ordinovisti ormai defunti, Carlo Digilio, Ermanno Buzzi e Marcello Soffiati.(per forza ...con tuuto il tempo passato).  Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione annulla le assoluzioni di Maggi e Tramonte e conferma quelle di Zorzi e Delfino. Viene così istruito un nuovo processo d'appello contro Tramonti e Maggi.

Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più classificati e sono perciò liberamente consultabili da tutti.

Senza parole, il bel silenzio non fu mai scritto.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/06/le-citta-della-pianura-padana-brescia.html







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