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lunedì 15 giugno 2015

I MUSEI DI BRESCIA

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La Pinacoteca Tosio Martinengo è ospitata nel palazzo Martinengo da Barco.
La prima pinacoteca risale al 1851 e aveva sede nel Palazzo Tosio ed era costituita dalle collezioni artistiche del conte Paolo Tosio (1832) e da altri dipinti e oggetti provenienti da chiese soppresse o edifici distrutti.
Successivamente, nel 1884 il conte Leopardo Martinengo da Barco fece dono al Comune del suo palazzo nonché della propria biblioteca e delle sue collezioni scientifiche e d'arte; nel palazzo Martinengo da Barco venne quindi trasferita anche la collezione Tosio.
La pinacoteca venne inaugurata nel 1908 e si arricchì successivamente di altri lasciti e acquisizioni. La ricca sezione disegni e stampe custodisce la grande collezione Fè d'Ostiani di dipinti giapponesi e cinesi su carta e seta.
Lungo un percorso articolato in venticinque sale, è esposta una collezione tra il XIII e il XVIII secolo che vanta veri e propri capolavori, tali da porre la raccolta bresciana ai vertici non soltanto in Italia nell'ambito della pittura antica, a cominciare da dipinti di bellezza incomparabile di Raffaello Sanzio e Lorenzo Lotto. Importante e cospicua è la rappresentazione di opere di Vincenzo Foppa, caposcuola della pittura lombarda del Quattrocento, e dei maestri del rinascimento bresciano: Savoldo, Romanino, Moretto. La ritrattistica del Cinquecento offre tele di Tintoretto e Sofonisba Anguissola. Per il XVII e il XVIII sec. spiccano alcune grandi figure di aree culturali diverse (Palma il giovane, Andrea Celesti); in ambito bresciano, meritano attenzione i cosiddetti "pittori della realtà" come Antonio Cifrondi e Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, del quale assolutamente straordinaria per numero e qualità è la serie di opere visibili nel museo.
Non meno eccezionale è la sezione di grafica. Questa collezione, iniziata nel Settecento dal cardinale Angelo Maria Querini, si è arricchita nel corso dell'Ottocento e del Novecento. La parte più rilevante del fondo è costituita da circa trentamila esemplari, che documentano lo sviluppo dell'incisione nelle sue varie tecniche (xilografia, bulino, acquaforte, chiaroscuro, litografia) dal Quattrocento all'età contemporanea. E' da segnalare l'ampia serie dei bulini di ambito tedesco: gli esemplari antichi di Martin Schongauer e la serie pressochè completa delle opere di Albrecht Dürer. Altrettanto ricca e preziosa la sequenza delle incisioni del Cinquecento italiano, con Parmigianino, Annibale e Ludovico Carracci. La scuola olandese comprende molte opere di Luca di Leida e celebri capolavori di Rembrandt. Sono pure presenti Guido Reni e Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto. Il Settecento è ben rappresentato dalle acqueforti dei maestri veneti (Canaletto, i due Tiepolo, Piranesi). Tra gli esemplari ottocenteschi, spiccano un'edizione completa, ancora rilegata, dei Capricci di Goya e le notissime litografie satiriche di Daumier. Tra le stampe moderne di notevole valore emerge la Grande natura morta di Giorgio Morandi del 1928, considerata un capolavoro dell'incisione italiana del Novecento.

Il museo santa Giulia unico in Italia e in Europa per concezione espositiva e per sede, allestito in un complesso monastico di origine longobarda, consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi in un’area espositiva di circa 14.000 metri quadrati.

L’elemento che caratterizza e rende così particolare il museo è lo strettissimo legame tra “contenitore” ed oggetti esposti. Attualmente lo “scrigno” di Santa Giulia consta di circa 11.000 pezzi: reperti celtici come elmi e falere, ritratti e bronzi romani, testimonianze longobarde, corredi funerari, mosaici e affreschi.

Simbolo della città è la Vittoria Alata, il grande bronzo proveniente dal Capitolium, oggetto di recenti indagini che hanno gettato nuova luce sulla storia dell’arte antica e della vita di Brixia.

Il museo dell'Industria e del lavoro di Brescia (MusIL) è dedicato a Eugenio Battisti quale riconoscimento alla sua attività di studioso della modernità in generale e come iniziatore, in Italia, degli studi di archeologia industriale in particolare.

Il museo si estende in uno spazio di 15 000 m² ricavato dal riutilizzo di una fabbrica di inizio Novecento e possiede diverse sezioni, anche distaccate in altri luoghi del bresciano:

Il museo dell'Energia Idroelettrica a Cedegolo, in Val Camonica (in una ex centrale Enel)
Il museo del Ferro, costituito in una antica fucina del Borgo di San Bartolomeo
La Fondazione MusIL a Rodengo Saiano dove sono annoverati grossi macchinari risalenti al decollo industriale fra '800 e '900.

Dal 2009 è aperta una sezione dedicata al Cinema. A Rodengo Saiano sono conservati macchinari, videoteca e archivi della Gamma Film, uno studio grafico italiano fondato dai fratelli Gino e Roberto Gavioli nel 1953 a Milano, particolarmente attivo negli anni sessanta nel mondo della pubblicità televisiva (Carosello) e dell'animazione per l'infanzia.

Il Museo Mille Miglia è stato fondato il 10 novembre 2004 su iniziativa dell'Automobile club di Brescia e di alcuni privati appassionati della Mille Miglia, con lo scopo di aiutare i visitatori a conoscere una delle corse automobilistiche più importanti e belle del mondo.

Il percorso è suddiviso in nove sezioni temporali, di cui sette dedicate alle corse della Mille Miglia dal 1927 al 1957, una alle Mille Miglia dal 1958 al 1961 e una alle Mille Miglia contemporanee, ed in ognuna di queste sezioni sono presenti macchine d'epoca, periodicamente sostituite per permettere la loro partecipazioni alle varie corse di auto storiche, tra cui la Mille Miglia.

Il monastero storico in cui è stato installato il museo era stato richiesto come sede delle attività culturali del quartiere. Anche per questa ragione l'iniziativa fu ritenuta da molti uno scempio.

Il Museo nazionale della fotografia è stato fondato nel 1953, ed attualmente contiene circa 8.000 reperti preziosi di macchine fotografiche, tra cui la prima macchina fotografica del mondo, e cinematografici, ed altre attrezzature ad esse correlate.

Nel museo sono presenti anche una fototeca, comprendente circa 60.000 fotografie di autori di tutto il mondo, tra cui la prima fotografia del mondo, datata 1826. ed una biblioteca foto-cinematografica comprendente circa 8.000 volumi di materiale riguardante interamente la fotografia e la cinematografia.

È considerato un museo a livello nazionale unico nel suo genere e gode di particolare stima anche a livello internazionale, con le varie citazioni riportate in alcune riviste di settore.

Il museo Ken Damy si trova all'interno della loggia delle mercanzie. Il museo fotografico, oltre alla regolare espositizione, organizza mostre personali di autori di importanza mondiale e promuove una discreta attività editoriale.

Il museo viene stato fondato il 29 aprile 1990 da Ken Damy, pseudonimo del fotografo professionista Giuseppe Damiani. Il sito trova posto al pianterreno e nell'interrato della loggia delle mercanzie, ex palazzo Lechi, in corsetto Sant'Agata.

Il 1º luglio 1992 il museo si trasforma in associazione culturale, preponendosi come ruolo la ricerca e la promozione della fotografia contemporanea sul territorio nazionale e internazionale attraverso la programmazione di circa 40 mostre personali all'anno di autori noti a livello mondiale.

Il museo di fotografia Ken Damy dispone di otto sale espositive, di un auditorium, una biblioteca e piccolo bar, per una superficie totale di 540 m2.

Nel museo sono state organizzate esposizioni fotografiche di autori di importanza mondiale, tra i quali Mario Giacomelli, Lucien Clergue, Jeff Dunas, Franco Fontana, John Florea, Christian Vogt e Victor Skrebnesky.

All'esposizione ordinaria e alle mostre si affianca un'attività didattica, grazie all'organizzazione di numerosi corsi di fotografia di vario tipo, e l'editoria, con la pubblicazione di "Photonews", rivista semestrale del museo, e di altri cataloghi fotografici.

Il museo organizza anche incontri e conferenze con fotografi nazionali ed internazionali.





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venerdì 12 giugno 2015

IL MONASTERO DI SANTA GIULIA

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La tradizione vuole che all’interno del Monastero di Santa Giulia Ermengarda, figlia di re Desiderio e moglie rinnegata di Carlo Magno, abbia vissuto la sua tremenda vicenda umana di donna abbandonata dal marito perché non in grado di dare un erede all’imperatore.
Unico in Italia e in Europa per concezione espositiva e per sede, il Museo della città, allestito in un complesso monastico di origine longobarda, consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi in un’area espositiva di circa 14.000 metri quadrati.
 
Luogo di memorie storiche stratificate nel corso dei secoli e fonte continua di sorprendenti scoperte, il complesso monastico è un intreccio visibile di epoche.
Edificato su un’area già occupata in età romana da importanti Domus, comprende la basilica longobarda di San Salvatore e la sua cripta, l’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, il Coro delle Monache, la cinquecentesca chiesa di Santa Giulia e i chiostri.

L'aspetto attuale del monastero deriva principalmente dai rifacimenti operati tra XV e XVI secolo. L'insieme fa parte del sito seriale "Longobardi in Italia: i luoghi del potere", comprendente sette luoghi densi di testimonianze architettoniche, pittoriche e scultoree dell'arte longobarda, iscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011.

Il monastero di San Salvatore venne fondato nel 753 per volere del duca longobardo Desiderio (futuro re dei Longobardi) e di sua moglie Ansa. Era un monastero femminile e la prima badessa fu Anselperga, figlia dello stesso sovrano. Il monastero possedeva beni ingenti che andavano ben oltre il confine bresciano ed era al centro di una intensa attività di scambio commerciale; entrambi questi aspetti trovano giustificazione nel fatto che Santa Giulia ricopriva il ruolo di monastero "regio".

Dopo la sconfitta di Desiderio e la caduta del Regno longobardo (774), i Carolingi confermarono tutti i benefici precedentemente assegnati al luogo di culto, che proseguì la sua crescita economica ampliando i propri possedimenti in tutta Italia.

Nella metà del XII secolo il monastero subì un primo importante rifacimento in stile romanico: furono ricostruiti i chiostri, la cripta di San Salvatore venne ampliata e venne edificato l’oratorio di Santa Maria in Solario. La struttura attuale è però da attribuire all’opera di completamento intrapresa alla fine del XV secolo, periodo in cui fu completato il coro delle monache, vennero nuovamente ricostruiti i chiostri ed in cui fu aggiunto l’edificio settentrionale destinato ai dormitori. Nel XVI secolo  venne terminata infine la chiesa di Santa Giulia.

Il monastero non subì altre radicali trasformazioni fino al 1798, quando la struttura venne soppressa a seguito delle leggi rivoluzionarie giacobine. Fu convertito a caserma di cavalleria e tutti i suoi beni furono confiscati. L’intera struttura subì un degrado lento ma costante fino a che, nel 1882, venne adibita a Museo dell’età Cristiana. Nonostante ciò, la struttura rimase ancora per molto tempo in uno stato di semi-abbandono fino a quando, nel 1966, il comune di Brescia acquistò l’intera proprietà iniziando le opere di recupero architettonico e di creazione del nuovo Museo di Santa Giulia.

Il complesso comprende la basilica di San Salvatore, la cui forma attuale non è quella voluta originariamente da re Desiderio, bensì un rifacimento datato intorno al IX secolo.

All'interno di questo ambiente si trovano frammenti di lastra con pavone, esempio raffinato di scultura, dove l'eleganza ispirata all'arte bizantina ed un certo naturalismo di derivazione tardoantica, si accompagnano a modi e temi della cultura longobarda.

Fra i ricchi arredi scultorei della basilica di San Salvatore, simbolo di un gusto e una perizia artistica che in età longobarda aveva raggiunto apici inaspettati, si stagliano per raffinatezza e precisione due lastre a forma di trapezio in marmo proconnesio, raffiguranti due pavoni. Mentre una lastra è giunta a noi integra, dell’altra si possiedono solo alcuni frammenti.

Gli aristocratici pavoni, delicati e flessuosi, sembrano avanzare nella composizione in una selva di foglie di vite e tralci con grappoli d’uva sistemati a girali, e contenuti da una sontuosa fascia a nastri intrecciati, che corre lungo il lato inferiore.
I motivi ornamentali e geometrici ricoprono l’intera superficie creando una fitta trama decorativa, quasi come un pizzo, secondo un linguaggio artistico ricorrente nei manufatti dell’VIII e IX secolo.
La particolarità della composizione sta nella raffinatezza dell’effetto d’insieme, che ne fa uno dei più importanti esempi di scultura a bassorilievo, in cui l’influenza di motivi ispirati all’arte bizantina e il naturalismo di radice tardoantica si fondono con i temi dominanti nella cultura figurativa medievale.

L’opera è ricca di valori simbolici, secondo un’iconografia ricorrente nell’altomedioevo e di origine paleocristiana, che attribuisce al pavone il significato allegorico della resurrezione e dell’immortalità dell’anima. Le viti che li circondano sono invece tradizionalmente ricondotte a simbolo della Passione di Cristo.
Verosimilmente le due lastre dovevano comporre parti di un ambone, collocato all’interno della chiesa, che si prestava per la lettura di testi sacri e la recita delle omelie. Si ritiene che i manufatti ornassero i lati di due scale d’accesso al pulpito.

Su via Musei dà la facciata della chiesa medievale di Santa Maria in Solario, di forme romaniche, costruita verso la metà del XII secolo come oratorio delle monache.

A pianta quadrata, con massiccia muratura in conci di medolo, incorporante frammenti d’iscrizioni romane, il sacello è sormontato da un tiburio ottagonale attorno a cui gira una loggetta cieca, sorretta da colonnine e capitelli altomedievali (sec. VIII - IX d.C.).

Una suggestiva scala ricavata nella muratura collega i due livelli dell’oratorio: al pian terreno è posta una grande ara romana con funzione di pilastro centrale, e sono visibili preziosi oggetti dedicati al culto delle reliquie che costituivano il tesoro, anche spirituale, del monastero, come la Lipsanoteca, cassetta d’avorio istoriata (IV secolo d.C.) e la crocetta reliquario in oro, perle e pietre colorate
(X secolo d.C.).

Il piano superiore, caratterizzato da un’atmosfera raccolta, era destinato ad ospitare i momenti più importanti della liturgia monastica. Sotto una volta stellata affrescata, come le pareti, da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524, è possibile ammirare la Croce di Desiderio, rara opera di oreficeria della prima età carolingia (IX secolo d.C.), con elementi ornamentali di epoca romana e longobarda e 212 fra gemme, cammei e paste vitree.
 
La Lipsanoteca sobria come un’opera classica, ma evocativa secondo i canoni dell’arte paleocristiana, la lipsanoteca, conservata dal 1999 nell’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, faceva parte, insieme alla Croce di Desiderio, del cosiddetto Tesoro di Santa Giulia, una raccolta di rari oggetti liturgici risalente alle origini del monastero, che hanno accompagnato, nei secoli, la vita del cenobio.

La lipsanoteca si presenta come un cofanetto istoriato, che doveva prestarsi quale custodia di preziose reliquie, come si evince dalla stessa etimologia del nome, di origine greca, composto da léipsanon, che significa reliquia, e théke, ovvero contenitore.
Realizzata in avorio, di forma rettangolare, fu eseguita da una bottega dell’Italia settentrionale, probabilmente milanese, nella seconda metà del IV secolo, sotto l’episcopato di Sant’Ambrogio.

L’afflato religioso che la permea, infatti, si evince dall’interpretazione delle scene raffigurate nei bassorilievi che ornano, lungo tre livelli, i lati e il coperchio della lipsanoteca e che, seppur non tutti di facile comprensione, si ispirano agli episodi biblici più significativi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Giona inghiottito dalla balena, Daniele nella fossa dei leoni, il Cristo taumaturgo che resuscita Lazzaro, insieme alle scene più significative della vita di Gesù, sono solo alcuni degli episodi densi di simbologia che figurano nei bassorilievi, secondo un preciso programma divulgativo religioso.
Si tratta di significativi esempi di arte paleocristiana, resa tuttavia secondo un registro stilistico ancora classico, quindi pagano (riconoscibile nei drappeggi, nella plasticità delle figure e nella compostezza misurata delle scene).
Sulle lesene finemente cesellate che ornano gli angoli della lipsanoteca, inoltre, scorre un gioco di rimandi continui alla simbologia sacra, racchiusi nel pesce (che rappresenta il Cristo), il gallo (la Resurrezione), l’albero (la conoscenza del bene e del male), la torre (ovvero la Chiesa) e le colombe, in cui la comunità dei fedeli doveva riconoscersi.

Attorno al cofanetto, oggetto di speciale venerazione, furono molteplici le leggende diffuse, come quella secondo cui doveva contenere una pietra forse proveniente dal Santo Sepolcro, che in base ai documenti del monastero veniva tenuta fra le mani di una monaca durante la messa pasquale e offerta in visione alle altre religiose. Da qui l’appellativo sepulcrum eboris, sepolcro d’avorio, riservato al reliquario.

La storia della lipsanoteca, peraltro, fu piuttosto travagliata: protetta fra le mura del monastero di Santa Giulia fino al 1798, con la soppressione del cenobio voluta da Napoleone venne traslata nella Biblioteca Queriniana, e successivamente al Museo Cristiano in Santa Giulia, nel 1882. L’opera venne anche ridotta a placchetta cruciforme, in un’epoca non identificata, prima di essere riportata, nel 1928, alla sua originaria forma a cofanetto. Un' ulteriore aggiunta successiva è quella della serratura d’argento sul lato anteriore, forse dell’VIII secolo.

Il Coro, nobile ambiente affrescato entro il quale le monache benedettine del monastero di Santa Giulia per secoli hanno assistito, non viste, alle funzioni religiose, è stato aperto al pubblico nel 2002, dopo un lungo intervento di restauro e di adeguamento, diventando parte integrante del Museo di Santa Giulia.

Questo sontuoso luogo di culto,  articolato su due livelli, venne innalzato tra Quattrocento e Cinquecento. La parete orientale e le pareti laterali appaiono riccamente decorate da affreschi di Floriano Ferramola e di Paolo da Caylina il Giovane.

Il programma iconografico è complessivamente ispirato al tema della salvezza, trattato con scene dell'infanzia di Gesù, della passione e della resurrezione e con altri soggetti comunque attinenti, intervallati da immagini devozionali. La successione degli episodi si configura come un itinerario mentale o processionale non privo di intenti didattici, con particolari vivi e curiosi. L'insieme risulta fortemente unitario e di grande suggestione cromatica ed evocativa.

Fra le opere di maggior interesse, esposte in questo settore museale, si può trovare il grande Mausoleo Martinengo, capolavoro di scultura, tra i più rappresentativi della stagione rinascimentale in territorio lombardo.

La zona sottostante al Museo di Santa Giulia è ricca di reperti archeologici di varie epoche, in maggioranza appartenenti all'epoca romana e ottimamente conservati, in particolare le Domus dell'Ortaglia. Fanno parte del museo tutte le strutture dell'antico monastero, fra cui la chiesa di Santa Maria in Solario, il coro delle monache e la chiesa di Santa Giulia.

Nel museo sono conservati migliaia di oggetti e opere d'arte spazianti dall'età del Bronzo all'Ottocento provenienti soprattutto dal contesto cittadino e dalla provincia di Brescia, che ne fanno un vero e proprio museo cittadino, le cui tematiche di approfondimento vertono principalmente sulla storia della città di Brescia e del suo territorio. Tra le numerose opere d'arte si ricordano soprattutto la Vittoria Alata, la Croce di Desiderio, la Lipsanoteca e il settore "Collezionismo e arti applicate", dove sono custodite tutte le collezioni private donate al museo tra il Settecento e L'Ottocento.

Il percorso è dedicato alle fasi fondamentali della storia religiosa, architettonica e artistica del complesso. Negli ambienti si trovano esposti materiali pertinenti alle diverse epoche, secondo un percorso studiato che accompagna il visitatore dalla fondazione del monastero fino alla sua soppressione, avvenuta alla fine del Settecento. Nel percorso sono visitabili anche i principali ambienti dell'ex monastero, cioè le tre chiese e il coro delle monache.
La sezione si snoda in tre successive sale dell'ex monastero e approfondisce, mediante oggetti, sculture e pitture, le varie fasi cronologiche del complesso. Le stesse sale sono degne di nota, coperte da volte a crociera sostenute da possenti colonne con capitelli a foglie grasse, il tutto di costruzione quattrocentesca.

Il percorso prosegue nelle due aule della chiesa di Santa Maria in Solario, costruita nel XII secolo utilizzando, all'esterno e all'interno, anche numerose lapidi romane di recupero. Nell'aula inferiore, ad esempio, il pilastro centrale che regge le quattro volte a crociera di sostegno non è altro che una grande ara romana dedicata al Dio Sole.

La chiesa superiore è completamente rivestita da un esteso ciclo di affreschi eseguiti da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524, più alcuni riquadri databili al Quattrocento e un grande affresco seicentesco.

Nella chiesa di San Salvatore, il nucleo antico del monastero giunto quasi completamente intatto fino a noi, sono conservati i reperti artistici più importanti della dominazione longobarda su Brescia e, indirettamente, di quella fase della storia del complesso. Alla chiesa si accede attraverso la grande aula colonnata che sostiene il coro delle monache, dove già si trovano numerosi pezzi.

La stessa chiesa ospita, alle sue pareti, diverse opere d'arte, fra cui gli affreschi del Romanino e di Paolo Caylina il Giovane.

Il coro delle monache, costruito a ridosso della facciata della chiesa di San Salvatore nella seconda metà del Quattrocento per permettere alle monache in clausura di ascoltare la messa senza mostrarsi ai fedeli, è stato completamente affrescato nella prima metà del secolo successivo da Floriano Ferramola, Paolo Caylina il Giovane e altri artisti minori, probabilmente di bottega.

L'ambiente è dedicato ai monumenti funerari di età veneta, dei quali sono qui raccolti alcuni pregevoli esemplari, primo fra tutti il Mausoleo Martinengo ma anche il Monumento funebre di Nicolò Orsini .

Costruita da Giulio Todeschini tra il 1593 e il 1599, la chiesa di Santa Giulia conclude la successione di spazi religiosi connettendo, in un'unica struttura, la chiesa di San Salvatore e il coro delle monache. La chiesa si trova all'esterno del percorso espositivo del museo poiché convertita in sala conferenze: non è quindi possibile visitarla.

La chiesa, comunque, è stata completamente svuotata delle sue opere d'arte e degli arredi liturgici durante l'Ottocento e non ospita pertanto alcun oggetto d'interesse storico e artistico al di fuori della pura architettura. L'unico pezzo presente è il portale del duomo di Chiari, opera del 1513 di Gasparo da Coirano, smontato nel 1846 e rimontato sulla controfacciata della chiesa nel 1882.

La chiesa di Santa Giulia fu costruita tra il 1593 e il 1599 dall'architetto Giulio Todeschini, completa la successione di edifici religiosi aggiungendosi al coro delle monache e alla chiesa di San Salvatore. Benché annessa al monastero, non rientra nel percorso di visita del Museo di Santa Giulia ed è adibita a sala conferenze.

L'idea di edificare una nuova chiesa principale per il monastero matura alla fine del Cinquecento, dopo la visita apostolica compiuta da san Carlo Borromeo tra il 1580 e il 1581 nel territorio della diocesi di Brescia, durante la quale aveva ovviamente visitato anche il monastero di Santa Giulia. Pur estimando l'antica chiesa di San Salvatore, san Carlo riteneva che penetrasse troppo all'interno del complesso monastico, soprattutto dopo la costruzione del coro delle monache. Nei suoi decreti, san Carlo ordina che venisse sfondato l'abside di San Salvatore, costruendo la nuova chiesa a est dell'antica basilica. La soluzione proposta da san Carlo era comunque moderata, poiché non prevedeva un grande stravolgimento del complesso monastico, a parte la demolizione del porticato e degli edifici annessi al refettorio, oltre che una revisione dell'accesso principale al monastero da parte dei fedeli.

Tali demolizioni, però, non vengono approvate dal Capitolo del monastero che, dovendo comunque far costruire una nuova chiesa, opta per una soluzione più radicale ma di maggior effetto scenico: la nuova chiesa sarebbe stata costruita a ovest del coro delle monache, mantenendo gli accessi principali in questa direzione e costruendo semplicemente sul sagrato davanti al coro, senza operare rilevanti demolizioni. Si realizzava, così, una soluzione architettonicamente molto originale per un complesso monastico, con tre chiese disposte a cannocchiale e su livelli diversi per seguire il pendio del colle Cidneo. Tale soluzione era anche economicamente supportabile, grazie ai prezzi dei prodotti agricoli in generale ascesa.

Il contratto per l'edificazione della chiesa viene stipulato il 16 giugno 1593 con il capomastro Gerolamo Tobanello di San Felice del Benaco e con l'architetto Giulio Todeschini. Dalle disposizioni contrattuali emerge subito la concezione di una nuova chiesa ottenuta come prolungamento del coro delle monache, dal quale vengono tratte anche le proporzioni: il presbiterio con l'altare maggiore è lungo un terzo della lunghezza del coro, mentre il resto della chiesa quattro terzi. Per la tipologia interna, Giulio Todeschini si attiene alle nuove norme architettoniche dettate dal Concilio di Trento che prevedeva, per i conventi femminili, un'unica navata e una netta separazione tra l'area destinata ai fedeli e quella riservata alle monache di clausura.

Per integrare meglio l'antico coro e la nuova chiesa in un unico spazio consacrato, però, Giulio Todeschini opta per una soluzione più studiata, demolendo completamente la facciata del coro per la realizzazione di un grande arcone di sfondo alla chiesa, a sua volta tagliato sulla linea d'imposta dalla prosecuzione della trabeazione a decoro delle pareti. Lo spazio sottostante sarebbe stato chiuso da un semplice tramezzo traforato, mentre quello superiore sarebbe rimasto aperto come un grande finestrone a lunetta aperto sul coro delle monache. Il risultato sarebbe stato una visione unitaria delle volte della chiesa, mentre dai trafori del tramezzo si sarebbe intravista la grande Crocifissione di Floriano Ferramola sulla parete di fondo del coro. Ciò avrebbe anche permesso di ottimizzare la fusione tra clausura e mondo esterno durante la messa grazie alla grande lunetta superiore, attraverso la quale si sarebbero uditi i canti delle monache, pur mantenendo nettamente divisi i due ambienti e senza ridurre il coro delle monache a semplice presbiterio della nuova chiesa.

Il cantiere termina all'inizio del 1599 dopo un grande impulso ai lavori dato dalla badessa Livia Sagramosa. Il 17 dicembre dell'anno successivo viene effettuata la traslazione delle reliquie di santa Giulia. La costruzione della nuova chiesa per il monastero dovette rappresentare un evento di vasta eco: nel 1601, papa Clemente VIII concede l'indulgenza per cinque anni a chi era presente nella chiesa il giorno della traslazione delle reliquie. L'altare maggiore viene costruito nella bottega dei Carra in due momenti diversi, comunque concluso entro il 1622. La commissione per la pala dell'altare viene affidata a Giulio Cesare Procaccini, che dipinge una Trasfigurazione di Cristo. La consacrazione dell'edificio religioso avviene finalmente nel 1685 per mano del vescovo Bartolomeo Gradenigo, anche se è fatto dubbio poiché supportato solamente da una lapide scoperta alla fine del Novecento del chiostro a lato della chiesa, mentre nella documentazione dell'Archivio Vescovile non esiste traccia dell'importante cerimonia.

La chiesa assolve i suoi compiti fino alla soppressione del monastero avvenuta nel 1797. Entro il 1804 viene abbattuto il muro divisorio finestrato dietro l'altare maggiore e pure quest'ultimo viene rimosso, assieme a tutti gli altari laterali e alle loro opere, spogliando la chiesa di qualsiasi arredo sacro. Alla fine dell'Ottocento, nella chiesa e nel retrostante coro, ormai messi in comunicazione, viene aperto il Museo dell'Era Cristiana o Museo Cristiano. Con l'apertura del Museo di Santa Giulia nel 1998, la chiesa viene adibita a sala conferenze e lasciata all'esterno del percorso espositivo.

La facciata della chiesa è in marmo di Botticino, decorata da un doppio ordine di lesene di ordine corinzio, divisi da un ricco fregio marmoreo e connessi ai fianchi da volute. L'ordine inferiore inquadra il portale d'ingresso e due finestroni laterali, mentre l'ordine superiore incornicia il finestrone centrale e due nicchie contenenti le statue di san Biagio e san Benedetto. Come coronamento è posto un frontone triangolare decorato al vertice con una statua di santa Giulia e, alle estremità, da due obelischi.

All'interno, la chiesa presenta una spaziosa navata unica coperta con volta a botte costolonata. Le pareti sono decorate da un motivo unitario di lesene binate, identiche a quelle esterne, sorreggenti una ricca trabeazione sulla quale si imposta la volta. Sulla parete di fondo è visibile la soluzione divisoria di Giulio Todeschini, con un inusuale doppio arcone sovrapposto. L'arco inferiore, in origine, era chiuso da un muro divisorio, demolito entro il 1804.

Nella chiesa non rimane alcun arredo sacro o decorazione. Gli affreschi che originariamente ricoprivano ogni superficie sono quasi tutti scomparsi e ne rimangono poche tracce sulle pareti delle cappelle laterali e sulla volta. Scomparsi anche tutti gli altari laterali, molti dei quali sono ancora visibili in altre chiese cittadine e della provincia poiché acquistati al tempo, mentre altri sono andati perduti. Ugualmente, tutte i dipinti e le sculture agli altari sono andati dispersi o perduti.

L'unico pezzo d'arte oggi presente nella chiesa è il portale del duomo di Chiari, opera del 1513 di Gasparo da Coirano, smontato dalla sede originale nel 1846 e rimontato sulla controfacciata della chiesa di Santa Giulia nel 1882.




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