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mercoledì 17 giugno 2015

IL MONASTERO DI SAN BERNARDINO A CARAVAGGIO



Il monastero di San Bernardino, consacrato a San Bernardino da Siena comprende la chiesa di San Bernardino e il convento di Santa Maria degli Angeli. Fu consacrato nell'anno 1489, datando l'erezione appena dopo la morte del santo, risalente al 1444, e la quasi immediata canonizzazione, avvenuta nel 1450, da parte del papa Nicolò V. Si dice che fu edificata grazie all'entusiasmo dei Caravaggini per la predicazione del Santo che in Lombardia fece molti proseliti e combinò una pace abbastanza difficile tra Caravaggio e Treviglio in quel periodo.
Il monastero fu soppresso dal governo francese una prima volta nel 1798 e in modo definitivo l'11 maggio 1810. In seguito gli edifici del convento furono rimaneggiati e adibiti a casa colonica e caserma, mentre la chiesa continuò ad essere utilizzata come luogo di culto e riuscì a conservare la sua forma originale. Nel 1970 il comune di Caravaggio acquistò parte della struttura e nel 1978 l'ospedale civile, che ne deteneva la proprietà, donò al comune la chiesa. Il complesso è stato quindi oggetto di restauro e in seguito adibito a centro civico e ad ospitare la biblioteca comunale ed un museo

All'inizio del XV secolo le popolazioni di Caravaggio e Treviglio erano ancora grandi nemiche. I contrasti erano nati anni prima per diverse cause, la prima delle quali era il fatto che ambedue erano potenti borghi della Gera d'Adda e dunque in concorrenza. A complicare le cose sorsero questioni di confine fra i due territori e il diniego di Treviglio di utilizzo delle acque per l'irrigazione dei campi dei caravaggini che possedevano terreni sul territorio trevigliese. Si arrivò persino al punto di scavare un fossato per dividere i due comuni.
Liti, omicidi, incidenti, vendette non avevano fine. Bernardino, un frate dell'Ordine dei Minori che girava l'Italia predicando amore e concordia, arrivò nei primi giorni di novembre del 1419 e la sua oratoria, qui come in molti altri luoghi, ebbe successo. In quegli anni nacquero in Lombardia molti conventi dei Minori.
Anche Treviglio e Caravaggio, per tener viva la memoria del Santo predicatore, vollero erigerne uno: Treviglio lo costruì per prima col nome di Santa Maria Annunziata, Caravaggio lo fece alcuni anni dopo, nel 1472, quando San Bernardino era morto ormai da vent'anni. Fu la famiglia Secco a donare il terreno per l'edificazione che terminò nel 1488. La chiesa fu consacrata l'otto aprile dell'anno successivo.

Anche se Caravaggio faceva parte della Diocesi di Cremona, il convento fu dato agli Osservanti della Provincia di Milano, un movimento riformatore dell'Ordine dei Minori. Gli Osservanti restarono a Caravaggio fino al 1543, anno della cessione ai Riformati. Sopravvissuto alle soppressioni del governo austriaco, 'San Bernardino' non resistette a quello francese che lo dichiarò soppresso il 16 giugno 1798 invitando i religiosi a trasferirsi a Crema. Il governo francese vendette ortaglia e convento ad un privato. Seguirono due passaggi di mano, poi, a seguito delle ripetute petizioni della comunità che invocava il ritorno dei religiosi, i frati ritornarono, ma per pochi anni. L'11 maggio del 1810 avvenne la definitiva soppressione. La proprietà passò all'Ospedale Civile che decise di affittarlo: la parte del convento diventò casa colonica e la foresteria, ampliata, fu destinata a caserma. Mentre il Monastero subì diverse trasformazioni, la chiesa, essendo sempre stata aperta al culto, conservò il proprio aspetto originale. Dopo la Seconda guerra mondiale i contadini se ne andarono poco alla volta. Il chiostro e il terreno di 'San Bernardino' furono comprati dal Comune nel 1970 mentre nel 1978 l'Ospedale donò al Comune stesso la chiesa. Nel 1973 il sapiente restauro dell'architetto Sandro Angelini di Bergamo lo consegnò alla comunità "per lesercizio della cultura e dellarte".

Situata sul lato di tramontana del complesso monastico la chiesa è orientata da ponente a levante. La facciata ha la struttura tipica gotico-lombarda; sopra il rosone è inserita una terracotta con il simbolo bernardiniano; sopra l'architrave della porta si trova una lunetta affrescata con una scena della Natività, di fattura cinquecentesca, con l'aspetto originale alterato da ritocchi pittorici recenti, attribuita dal Tirloni (critico d'arte caravaggino, vivente) a Fermo Stella, un pittore caravaggino del '500. Un portichetto, sorretto da colonne in pietra, copre l'ingresso; inserito più tardi (forse nel Seicento, opera dei Riformati) non ne disturba l'insieme.

La chiesa all'interno si presenta divisa in due parti: quella ad occidente destinata ai fedeli, l'altra ai monaci. La parte dedicata ai fedeli è ad una sola navata, con tre cappelle poligonali a sinistra e un soffitto a cassettoni, e termina con una parete che la separa dall'altra parte. Dopo questo muro sono inserite due cappelle e un passaggio alla parte dedicata al clero. L'interno della chiesa era in origine spoglio, come dettava la ferrea regola dell'Ordine. Pur arricchita di lavori artistici, la chiesa di quella austerità conserva ancora i pavimenti in cotto.

Dopo l'ingresso, a sinistra, troviamo la cappella dedicata alla Madonna. E' di forma poligonale, con volta a crociera gotica. Sulle pareti laterali sono rappresentate alcune scene del ciclo mariano: a destra l'Ascensione, la Pentecoste e l'Assunzione; a sinistra la Natività, l'Epifania e il Cristo Risorto. Difficile l'attribuzione e la datazione: si parla di fine Quattrocento per il periodo, di Zenale e Buttinone, due famosi pittori trevigliesi del Cinquecento, per gli autori. La stessa incertezza vale per gli affreschi della volta; i sei compartimenti formati dai costoloni sono affrescati con tondi raffiguranti Santi Francescani: Raimondo, Bonaventura, Antonio da Padova, Francesco, Ludovico, Bernardino, Chiara, Bernardo, Bartolomeo da Cremona. A questi si aggiungono gli otto martiri affrescati sotto l'arco d'entrata. Davanti alla parete frontale l'altare con la pala dell'Immacolata, anch'essa di autore ignoto.
Sul muro fra la prima e la seconda cappella c'è uno dei più bei affreschi della chiesa. Raffigura la Madonna fra San Bernardino (alla sua destra) e San Rocco. Sotto il dipinto si conserva una fascia che reca una scritta a rebus che ci permette di individuare autore e data: Fermo Stella, 1500. Vi sono rappresentati infatti un ferro di cavallo (fer), un topo (mus), una stella e 15'c' per la data.
La seconda cappella, dedicata inizialmente a San Bartolomeo, ospita oggi l'altare di Sant' Antonio da Padova. Sulla volta (strutturata come quella della prima) sono raffigurati i quattro Evangelisti. L'attribuzione non è facile; l'opera è cinquecentesca. Nella parte superiore di ogni parete laterale sono dipinti due Angeli; l'opera è del pittore caravaggino Ferruccio Baruffi (1889-1958). Al contrario della prima, questa cappella ha subìto diversi rimaneggiamenti perdendo il suo carattere unitario.
Sulla parete tra la seconda e la terza cappella c'è un altro affresco: San Francesco in gloria. L'opera non è firmata ma è attribuita dal Tirloni a Nicola Moietta, pittore caravaggino del Cinquecento.
La terza cappella, dedicata a San Francesco, è quella che più di tutte ha subito trasformazioni nel corso del tempo. Delle decorazioni primitive non rimane traccia. Le scene della vita di San Francesco sono del pittore trevigliese Trento Longaretti (vivente) che realizzò gli affreschi nel 1944; rovinati da infiltrazioni lo stesso pittore fu incaricato del loro distacco e restauro iniziato in concomitanza con il recupero del convento.
Sul muro frontale che divide le due zone della chiesa si trova il grande Ciclo della Passione. L'opera reca la data del 1531, due volte: nel sepolcro di Cristo Risorto e in una targa al centro, sotto la crocifissione.
Il dipinto, per molto tempo attribuito a Francesco Prata (pittore caravaggino del '500), è consegnato dal Tirloni allo Stella, contemporaneo del Prata. E' un'opera magnifica: la Crocifissione, al centro, domina l'intero spazio della navata. Accanto le quattro scene della passione: L'ultima cena, Gesù davanti a Pilato, l'Arresto e la Resurrezione. Nelle pareti laterali otto sibille chiudono la scena; sotto, fra arco e arco, si vedono otto tondi con profeti. E la città sullo sfondo? Caravaggio, per alcuni, Bergamo per altri.
Sui pilastri del tramezzo ci sono, a sinistra un Ecce Homo (attribuito a Nicola Moietta), a destra una Madonna, totalmente ridipinta forse dal Baruffi, l'autore degli angeli della seconda cappella.
Nove ovali, di fattura settecentesca, di autore ignoto, che raffigurano una serie di scene sulla vita e i miracoli di San Antonio, sono appesi alle pareti.
Dopo il muro divisorio si trovano, oltre al passaggio al Presbiterio, altre due cappellette. In quella di sinistra non rimane alcun segno delle decorazioni originarie. Oggi l'altare, che doveva essere forse dedicato ad un Santo, è dedicato al Crocefisso.
La cappella di destra invece conserva ancora la decorazione primitiva. Nella parete frontale c'è l'affresco cinquecentesco della Madonna con Bambino tra i santi Bernardino e Bonaventura, con devoto; l'opera è attribuita al pittore caravaggino Cristoforo Ferrari de' Giuchis. Davanti alla cappella c'è un sepolcro con i resti dei frati morti in convento. Altri furono seppelliti lungo il perimetro della chiesa.
Il breve corridoio tra le ultime due cappelle ci porta al Presbiterio che in origine doveva essere diverso da come lo vediamo ora. Non è improbabile che questa zona possedesse sulla sinistra una cappella oggi chiusa dal muro che sostiene la volta. Tre gradini portano all'altare che si trova in centro, è di legno di noce ed ha motivi decorativi barocchi del '700. Due porte di legno chiudono lo spazio del coro.
La decorazione dell'arco e dell'abside è dei fratelli Galliari che la eseguirono nel 1759. Due tondi raffigurano sulla destra Sant'Anna con Maria Bambina, a sinistra San Giuseppe con Gesù Bambino. Sul fondo la pala d'altare che raffigura San Bernardino che rifiuta la tiara che simboleggia la dignità episcopale.

A destra della facciata della chiesa si trova l'ingresso al convento che dell'accesso originario conserva solo un piccolo portichetto e la parete che lo sostiene. Qui sorge in effetti l'edificio moderno che accoglieva prima l'abitazione del custode ed ora gli uffici del Corpo di Polizia Municipale. Appena dentro, sempre sulla destra, si apre un piccolo cortiletto che ci ricorda la struttura di una casa colonica: qui forse era la foresteria del convento, il corpo di fabbrica che delimitava il passaggio al recinto di clausura. Seguendo il corridoio si arriva al chiostro, rettangolare, delimitato su due lati da edifici a due piani e su quello a sud a un piano. In origine erano forse due i chiostri: i segni della separazione (la cui parete divisoria non doveva comunque chiudere tutto l'edificio: sopra c'è affrescata una meridiana che doveva essere visibile da entrambi) possono essere visti nel lato est fra la quinta e la sesta arcata.
I chiostri, che inizialmente erano totalmente spogli, col passare del tempo si abbellirono di affreschi. Alcuni di questi si possono ancora intravedere, altri sono scomparsi, come forse le meridiane che segnavano le ore diurne.
Quella rimasta  ha in effetti la particolarità di segnare le ore notturne (20-24) e funziona solo con la luce lunare.
Sul lato est due porte consentivano l'accesso al refettorio (oggi Auditorium), la sala più grande del convento. Il locale conserva ancora il soffitto originale con la volta a sesto acuto e il monogramma simbolo di San Bernardino, probabile opera settecentesca. Nella sala accanto doveva esserci la cucina. Al piano superiore di questo corpo si accede dalla scala adiacente alla chiesa. Qui erano le celle (sufficienti sembra per venti frati); il restauro ne demolì alcune lasciandone altre che hanno mantenuto la loro struttura primitiva. Per quanto riguarda il lato sud e il corpo a ponente, sono zone che hanno subìto notevoli trasformazioni. Qui dovevano trovarsi altre stanze, quali una libreria, una sartoria, e altri locali ancora utili forse ai pellegrini o ai frati di passaggio.

Dopo il restauro il complesso è diventato il Centro Civico cittadino. Qui sono ospitate la Biblioteca Comunale, un Museo Navale, le sedi di alcune Associazioni.
Il Museo Navale è intitolato all'Ing. Ottorino Zibetti e ospita numerosi modelli navali, strumenti nautici e fossili marini. Fu inaugurato il 5 novembre del 1978.
La Biblioteca Comunale 'Banfi' ha una consistenza complessiva di oltre 45.000 volumi; di questi 8.000 circa costituiscono il fondo ragazzi, 4.900 il fondo antico; due sono i codici manoscritti e dodici le cinquecentine. Dal 1991 la Biblioteca ha aperto al pubblico la Sezione Ragazzi, con una propria sede, alloggiata nel fabbricato sul lato sud del convento, in una sala dedicata a Don Pierino Crispiatico, promotore di iniziative a favore di ragazzi in difficoltà.




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venerdì 12 giugno 2015

IL MONASTERO DI SANTA GIULIA

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La tradizione vuole che all’interno del Monastero di Santa Giulia Ermengarda, figlia di re Desiderio e moglie rinnegata di Carlo Magno, abbia vissuto la sua tremenda vicenda umana di donna abbandonata dal marito perché non in grado di dare un erede all’imperatore.
Unico in Italia e in Europa per concezione espositiva e per sede, il Museo della città, allestito in un complesso monastico di origine longobarda, consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi in un’area espositiva di circa 14.000 metri quadrati.
 
Luogo di memorie storiche stratificate nel corso dei secoli e fonte continua di sorprendenti scoperte, il complesso monastico è un intreccio visibile di epoche.
Edificato su un’area già occupata in età romana da importanti Domus, comprende la basilica longobarda di San Salvatore e la sua cripta, l’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, il Coro delle Monache, la cinquecentesca chiesa di Santa Giulia e i chiostri.

L'aspetto attuale del monastero deriva principalmente dai rifacimenti operati tra XV e XVI secolo. L'insieme fa parte del sito seriale "Longobardi in Italia: i luoghi del potere", comprendente sette luoghi densi di testimonianze architettoniche, pittoriche e scultoree dell'arte longobarda, iscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011.

Il monastero di San Salvatore venne fondato nel 753 per volere del duca longobardo Desiderio (futuro re dei Longobardi) e di sua moglie Ansa. Era un monastero femminile e la prima badessa fu Anselperga, figlia dello stesso sovrano. Il monastero possedeva beni ingenti che andavano ben oltre il confine bresciano ed era al centro di una intensa attività di scambio commerciale; entrambi questi aspetti trovano giustificazione nel fatto che Santa Giulia ricopriva il ruolo di monastero "regio".

Dopo la sconfitta di Desiderio e la caduta del Regno longobardo (774), i Carolingi confermarono tutti i benefici precedentemente assegnati al luogo di culto, che proseguì la sua crescita economica ampliando i propri possedimenti in tutta Italia.

Nella metà del XII secolo il monastero subì un primo importante rifacimento in stile romanico: furono ricostruiti i chiostri, la cripta di San Salvatore venne ampliata e venne edificato l’oratorio di Santa Maria in Solario. La struttura attuale è però da attribuire all’opera di completamento intrapresa alla fine del XV secolo, periodo in cui fu completato il coro delle monache, vennero nuovamente ricostruiti i chiostri ed in cui fu aggiunto l’edificio settentrionale destinato ai dormitori. Nel XVI secolo  venne terminata infine la chiesa di Santa Giulia.

Il monastero non subì altre radicali trasformazioni fino al 1798, quando la struttura venne soppressa a seguito delle leggi rivoluzionarie giacobine. Fu convertito a caserma di cavalleria e tutti i suoi beni furono confiscati. L’intera struttura subì un degrado lento ma costante fino a che, nel 1882, venne adibita a Museo dell’età Cristiana. Nonostante ciò, la struttura rimase ancora per molto tempo in uno stato di semi-abbandono fino a quando, nel 1966, il comune di Brescia acquistò l’intera proprietà iniziando le opere di recupero architettonico e di creazione del nuovo Museo di Santa Giulia.

Il complesso comprende la basilica di San Salvatore, la cui forma attuale non è quella voluta originariamente da re Desiderio, bensì un rifacimento datato intorno al IX secolo.

All'interno di questo ambiente si trovano frammenti di lastra con pavone, esempio raffinato di scultura, dove l'eleganza ispirata all'arte bizantina ed un certo naturalismo di derivazione tardoantica, si accompagnano a modi e temi della cultura longobarda.

Fra i ricchi arredi scultorei della basilica di San Salvatore, simbolo di un gusto e una perizia artistica che in età longobarda aveva raggiunto apici inaspettati, si stagliano per raffinatezza e precisione due lastre a forma di trapezio in marmo proconnesio, raffiguranti due pavoni. Mentre una lastra è giunta a noi integra, dell’altra si possiedono solo alcuni frammenti.

Gli aristocratici pavoni, delicati e flessuosi, sembrano avanzare nella composizione in una selva di foglie di vite e tralci con grappoli d’uva sistemati a girali, e contenuti da una sontuosa fascia a nastri intrecciati, che corre lungo il lato inferiore.
I motivi ornamentali e geometrici ricoprono l’intera superficie creando una fitta trama decorativa, quasi come un pizzo, secondo un linguaggio artistico ricorrente nei manufatti dell’VIII e IX secolo.
La particolarità della composizione sta nella raffinatezza dell’effetto d’insieme, che ne fa uno dei più importanti esempi di scultura a bassorilievo, in cui l’influenza di motivi ispirati all’arte bizantina e il naturalismo di radice tardoantica si fondono con i temi dominanti nella cultura figurativa medievale.

L’opera è ricca di valori simbolici, secondo un’iconografia ricorrente nell’altomedioevo e di origine paleocristiana, che attribuisce al pavone il significato allegorico della resurrezione e dell’immortalità dell’anima. Le viti che li circondano sono invece tradizionalmente ricondotte a simbolo della Passione di Cristo.
Verosimilmente le due lastre dovevano comporre parti di un ambone, collocato all’interno della chiesa, che si prestava per la lettura di testi sacri e la recita delle omelie. Si ritiene che i manufatti ornassero i lati di due scale d’accesso al pulpito.

Su via Musei dà la facciata della chiesa medievale di Santa Maria in Solario, di forme romaniche, costruita verso la metà del XII secolo come oratorio delle monache.

A pianta quadrata, con massiccia muratura in conci di medolo, incorporante frammenti d’iscrizioni romane, il sacello è sormontato da un tiburio ottagonale attorno a cui gira una loggetta cieca, sorretta da colonnine e capitelli altomedievali (sec. VIII - IX d.C.).

Una suggestiva scala ricavata nella muratura collega i due livelli dell’oratorio: al pian terreno è posta una grande ara romana con funzione di pilastro centrale, e sono visibili preziosi oggetti dedicati al culto delle reliquie che costituivano il tesoro, anche spirituale, del monastero, come la Lipsanoteca, cassetta d’avorio istoriata (IV secolo d.C.) e la crocetta reliquario in oro, perle e pietre colorate
(X secolo d.C.).

Il piano superiore, caratterizzato da un’atmosfera raccolta, era destinato ad ospitare i momenti più importanti della liturgia monastica. Sotto una volta stellata affrescata, come le pareti, da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524, è possibile ammirare la Croce di Desiderio, rara opera di oreficeria della prima età carolingia (IX secolo d.C.), con elementi ornamentali di epoca romana e longobarda e 212 fra gemme, cammei e paste vitree.
 
La Lipsanoteca sobria come un’opera classica, ma evocativa secondo i canoni dell’arte paleocristiana, la lipsanoteca, conservata dal 1999 nell’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, faceva parte, insieme alla Croce di Desiderio, del cosiddetto Tesoro di Santa Giulia, una raccolta di rari oggetti liturgici risalente alle origini del monastero, che hanno accompagnato, nei secoli, la vita del cenobio.

La lipsanoteca si presenta come un cofanetto istoriato, che doveva prestarsi quale custodia di preziose reliquie, come si evince dalla stessa etimologia del nome, di origine greca, composto da léipsanon, che significa reliquia, e théke, ovvero contenitore.
Realizzata in avorio, di forma rettangolare, fu eseguita da una bottega dell’Italia settentrionale, probabilmente milanese, nella seconda metà del IV secolo, sotto l’episcopato di Sant’Ambrogio.

L’afflato religioso che la permea, infatti, si evince dall’interpretazione delle scene raffigurate nei bassorilievi che ornano, lungo tre livelli, i lati e il coperchio della lipsanoteca e che, seppur non tutti di facile comprensione, si ispirano agli episodi biblici più significativi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Giona inghiottito dalla balena, Daniele nella fossa dei leoni, il Cristo taumaturgo che resuscita Lazzaro, insieme alle scene più significative della vita di Gesù, sono solo alcuni degli episodi densi di simbologia che figurano nei bassorilievi, secondo un preciso programma divulgativo religioso.
Si tratta di significativi esempi di arte paleocristiana, resa tuttavia secondo un registro stilistico ancora classico, quindi pagano (riconoscibile nei drappeggi, nella plasticità delle figure e nella compostezza misurata delle scene).
Sulle lesene finemente cesellate che ornano gli angoli della lipsanoteca, inoltre, scorre un gioco di rimandi continui alla simbologia sacra, racchiusi nel pesce (che rappresenta il Cristo), il gallo (la Resurrezione), l’albero (la conoscenza del bene e del male), la torre (ovvero la Chiesa) e le colombe, in cui la comunità dei fedeli doveva riconoscersi.

Attorno al cofanetto, oggetto di speciale venerazione, furono molteplici le leggende diffuse, come quella secondo cui doveva contenere una pietra forse proveniente dal Santo Sepolcro, che in base ai documenti del monastero veniva tenuta fra le mani di una monaca durante la messa pasquale e offerta in visione alle altre religiose. Da qui l’appellativo sepulcrum eboris, sepolcro d’avorio, riservato al reliquario.

La storia della lipsanoteca, peraltro, fu piuttosto travagliata: protetta fra le mura del monastero di Santa Giulia fino al 1798, con la soppressione del cenobio voluta da Napoleone venne traslata nella Biblioteca Queriniana, e successivamente al Museo Cristiano in Santa Giulia, nel 1882. L’opera venne anche ridotta a placchetta cruciforme, in un’epoca non identificata, prima di essere riportata, nel 1928, alla sua originaria forma a cofanetto. Un' ulteriore aggiunta successiva è quella della serratura d’argento sul lato anteriore, forse dell’VIII secolo.

Il Coro, nobile ambiente affrescato entro il quale le monache benedettine del monastero di Santa Giulia per secoli hanno assistito, non viste, alle funzioni religiose, è stato aperto al pubblico nel 2002, dopo un lungo intervento di restauro e di adeguamento, diventando parte integrante del Museo di Santa Giulia.

Questo sontuoso luogo di culto,  articolato su due livelli, venne innalzato tra Quattrocento e Cinquecento. La parete orientale e le pareti laterali appaiono riccamente decorate da affreschi di Floriano Ferramola e di Paolo da Caylina il Giovane.

Il programma iconografico è complessivamente ispirato al tema della salvezza, trattato con scene dell'infanzia di Gesù, della passione e della resurrezione e con altri soggetti comunque attinenti, intervallati da immagini devozionali. La successione degli episodi si configura come un itinerario mentale o processionale non privo di intenti didattici, con particolari vivi e curiosi. L'insieme risulta fortemente unitario e di grande suggestione cromatica ed evocativa.

Fra le opere di maggior interesse, esposte in questo settore museale, si può trovare il grande Mausoleo Martinengo, capolavoro di scultura, tra i più rappresentativi della stagione rinascimentale in territorio lombardo.

La zona sottostante al Museo di Santa Giulia è ricca di reperti archeologici di varie epoche, in maggioranza appartenenti all'epoca romana e ottimamente conservati, in particolare le Domus dell'Ortaglia. Fanno parte del museo tutte le strutture dell'antico monastero, fra cui la chiesa di Santa Maria in Solario, il coro delle monache e la chiesa di Santa Giulia.

Nel museo sono conservati migliaia di oggetti e opere d'arte spazianti dall'età del Bronzo all'Ottocento provenienti soprattutto dal contesto cittadino e dalla provincia di Brescia, che ne fanno un vero e proprio museo cittadino, le cui tematiche di approfondimento vertono principalmente sulla storia della città di Brescia e del suo territorio. Tra le numerose opere d'arte si ricordano soprattutto la Vittoria Alata, la Croce di Desiderio, la Lipsanoteca e il settore "Collezionismo e arti applicate", dove sono custodite tutte le collezioni private donate al museo tra il Settecento e L'Ottocento.

Il percorso è dedicato alle fasi fondamentali della storia religiosa, architettonica e artistica del complesso. Negli ambienti si trovano esposti materiali pertinenti alle diverse epoche, secondo un percorso studiato che accompagna il visitatore dalla fondazione del monastero fino alla sua soppressione, avvenuta alla fine del Settecento. Nel percorso sono visitabili anche i principali ambienti dell'ex monastero, cioè le tre chiese e il coro delle monache.
La sezione si snoda in tre successive sale dell'ex monastero e approfondisce, mediante oggetti, sculture e pitture, le varie fasi cronologiche del complesso. Le stesse sale sono degne di nota, coperte da volte a crociera sostenute da possenti colonne con capitelli a foglie grasse, il tutto di costruzione quattrocentesca.

Il percorso prosegue nelle due aule della chiesa di Santa Maria in Solario, costruita nel XII secolo utilizzando, all'esterno e all'interno, anche numerose lapidi romane di recupero. Nell'aula inferiore, ad esempio, il pilastro centrale che regge le quattro volte a crociera di sostegno non è altro che una grande ara romana dedicata al Dio Sole.

La chiesa superiore è completamente rivestita da un esteso ciclo di affreschi eseguiti da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524, più alcuni riquadri databili al Quattrocento e un grande affresco seicentesco.

Nella chiesa di San Salvatore, il nucleo antico del monastero giunto quasi completamente intatto fino a noi, sono conservati i reperti artistici più importanti della dominazione longobarda su Brescia e, indirettamente, di quella fase della storia del complesso. Alla chiesa si accede attraverso la grande aula colonnata che sostiene il coro delle monache, dove già si trovano numerosi pezzi.

La stessa chiesa ospita, alle sue pareti, diverse opere d'arte, fra cui gli affreschi del Romanino e di Paolo Caylina il Giovane.

Il coro delle monache, costruito a ridosso della facciata della chiesa di San Salvatore nella seconda metà del Quattrocento per permettere alle monache in clausura di ascoltare la messa senza mostrarsi ai fedeli, è stato completamente affrescato nella prima metà del secolo successivo da Floriano Ferramola, Paolo Caylina il Giovane e altri artisti minori, probabilmente di bottega.

L'ambiente è dedicato ai monumenti funerari di età veneta, dei quali sono qui raccolti alcuni pregevoli esemplari, primo fra tutti il Mausoleo Martinengo ma anche il Monumento funebre di Nicolò Orsini .

Costruita da Giulio Todeschini tra il 1593 e il 1599, la chiesa di Santa Giulia conclude la successione di spazi religiosi connettendo, in un'unica struttura, la chiesa di San Salvatore e il coro delle monache. La chiesa si trova all'esterno del percorso espositivo del museo poiché convertita in sala conferenze: non è quindi possibile visitarla.

La chiesa, comunque, è stata completamente svuotata delle sue opere d'arte e degli arredi liturgici durante l'Ottocento e non ospita pertanto alcun oggetto d'interesse storico e artistico al di fuori della pura architettura. L'unico pezzo presente è il portale del duomo di Chiari, opera del 1513 di Gasparo da Coirano, smontato nel 1846 e rimontato sulla controfacciata della chiesa nel 1882.

La chiesa di Santa Giulia fu costruita tra il 1593 e il 1599 dall'architetto Giulio Todeschini, completa la successione di edifici religiosi aggiungendosi al coro delle monache e alla chiesa di San Salvatore. Benché annessa al monastero, non rientra nel percorso di visita del Museo di Santa Giulia ed è adibita a sala conferenze.

L'idea di edificare una nuova chiesa principale per il monastero matura alla fine del Cinquecento, dopo la visita apostolica compiuta da san Carlo Borromeo tra il 1580 e il 1581 nel territorio della diocesi di Brescia, durante la quale aveva ovviamente visitato anche il monastero di Santa Giulia. Pur estimando l'antica chiesa di San Salvatore, san Carlo riteneva che penetrasse troppo all'interno del complesso monastico, soprattutto dopo la costruzione del coro delle monache. Nei suoi decreti, san Carlo ordina che venisse sfondato l'abside di San Salvatore, costruendo la nuova chiesa a est dell'antica basilica. La soluzione proposta da san Carlo era comunque moderata, poiché non prevedeva un grande stravolgimento del complesso monastico, a parte la demolizione del porticato e degli edifici annessi al refettorio, oltre che una revisione dell'accesso principale al monastero da parte dei fedeli.

Tali demolizioni, però, non vengono approvate dal Capitolo del monastero che, dovendo comunque far costruire una nuova chiesa, opta per una soluzione più radicale ma di maggior effetto scenico: la nuova chiesa sarebbe stata costruita a ovest del coro delle monache, mantenendo gli accessi principali in questa direzione e costruendo semplicemente sul sagrato davanti al coro, senza operare rilevanti demolizioni. Si realizzava, così, una soluzione architettonicamente molto originale per un complesso monastico, con tre chiese disposte a cannocchiale e su livelli diversi per seguire il pendio del colle Cidneo. Tale soluzione era anche economicamente supportabile, grazie ai prezzi dei prodotti agricoli in generale ascesa.

Il contratto per l'edificazione della chiesa viene stipulato il 16 giugno 1593 con il capomastro Gerolamo Tobanello di San Felice del Benaco e con l'architetto Giulio Todeschini. Dalle disposizioni contrattuali emerge subito la concezione di una nuova chiesa ottenuta come prolungamento del coro delle monache, dal quale vengono tratte anche le proporzioni: il presbiterio con l'altare maggiore è lungo un terzo della lunghezza del coro, mentre il resto della chiesa quattro terzi. Per la tipologia interna, Giulio Todeschini si attiene alle nuove norme architettoniche dettate dal Concilio di Trento che prevedeva, per i conventi femminili, un'unica navata e una netta separazione tra l'area destinata ai fedeli e quella riservata alle monache di clausura.

Per integrare meglio l'antico coro e la nuova chiesa in un unico spazio consacrato, però, Giulio Todeschini opta per una soluzione più studiata, demolendo completamente la facciata del coro per la realizzazione di un grande arcone di sfondo alla chiesa, a sua volta tagliato sulla linea d'imposta dalla prosecuzione della trabeazione a decoro delle pareti. Lo spazio sottostante sarebbe stato chiuso da un semplice tramezzo traforato, mentre quello superiore sarebbe rimasto aperto come un grande finestrone a lunetta aperto sul coro delle monache. Il risultato sarebbe stato una visione unitaria delle volte della chiesa, mentre dai trafori del tramezzo si sarebbe intravista la grande Crocifissione di Floriano Ferramola sulla parete di fondo del coro. Ciò avrebbe anche permesso di ottimizzare la fusione tra clausura e mondo esterno durante la messa grazie alla grande lunetta superiore, attraverso la quale si sarebbero uditi i canti delle monache, pur mantenendo nettamente divisi i due ambienti e senza ridurre il coro delle monache a semplice presbiterio della nuova chiesa.

Il cantiere termina all'inizio del 1599 dopo un grande impulso ai lavori dato dalla badessa Livia Sagramosa. Il 17 dicembre dell'anno successivo viene effettuata la traslazione delle reliquie di santa Giulia. La costruzione della nuova chiesa per il monastero dovette rappresentare un evento di vasta eco: nel 1601, papa Clemente VIII concede l'indulgenza per cinque anni a chi era presente nella chiesa il giorno della traslazione delle reliquie. L'altare maggiore viene costruito nella bottega dei Carra in due momenti diversi, comunque concluso entro il 1622. La commissione per la pala dell'altare viene affidata a Giulio Cesare Procaccini, che dipinge una Trasfigurazione di Cristo. La consacrazione dell'edificio religioso avviene finalmente nel 1685 per mano del vescovo Bartolomeo Gradenigo, anche se è fatto dubbio poiché supportato solamente da una lapide scoperta alla fine del Novecento del chiostro a lato della chiesa, mentre nella documentazione dell'Archivio Vescovile non esiste traccia dell'importante cerimonia.

La chiesa assolve i suoi compiti fino alla soppressione del monastero avvenuta nel 1797. Entro il 1804 viene abbattuto il muro divisorio finestrato dietro l'altare maggiore e pure quest'ultimo viene rimosso, assieme a tutti gli altari laterali e alle loro opere, spogliando la chiesa di qualsiasi arredo sacro. Alla fine dell'Ottocento, nella chiesa e nel retrostante coro, ormai messi in comunicazione, viene aperto il Museo dell'Era Cristiana o Museo Cristiano. Con l'apertura del Museo di Santa Giulia nel 1998, la chiesa viene adibita a sala conferenze e lasciata all'esterno del percorso espositivo.

La facciata della chiesa è in marmo di Botticino, decorata da un doppio ordine di lesene di ordine corinzio, divisi da un ricco fregio marmoreo e connessi ai fianchi da volute. L'ordine inferiore inquadra il portale d'ingresso e due finestroni laterali, mentre l'ordine superiore incornicia il finestrone centrale e due nicchie contenenti le statue di san Biagio e san Benedetto. Come coronamento è posto un frontone triangolare decorato al vertice con una statua di santa Giulia e, alle estremità, da due obelischi.

All'interno, la chiesa presenta una spaziosa navata unica coperta con volta a botte costolonata. Le pareti sono decorate da un motivo unitario di lesene binate, identiche a quelle esterne, sorreggenti una ricca trabeazione sulla quale si imposta la volta. Sulla parete di fondo è visibile la soluzione divisoria di Giulio Todeschini, con un inusuale doppio arcone sovrapposto. L'arco inferiore, in origine, era chiuso da un muro divisorio, demolito entro il 1804.

Nella chiesa non rimane alcun arredo sacro o decorazione. Gli affreschi che originariamente ricoprivano ogni superficie sono quasi tutti scomparsi e ne rimangono poche tracce sulle pareti delle cappelle laterali e sulla volta. Scomparsi anche tutti gli altari laterali, molti dei quali sono ancora visibili in altre chiese cittadine e della provincia poiché acquistati al tempo, mentre altri sono andati perduti. Ugualmente, tutte i dipinti e le sculture agli altari sono andati dispersi o perduti.

L'unico pezzo d'arte oggi presente nella chiesa è il portale del duomo di Chiari, opera del 1513 di Gasparo da Coirano, smontato dalla sede originale nel 1846 e rimontato sulla controfacciata della chiesa di Santa Giulia nel 1882.




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lunedì 8 giugno 2015

IL SANTUARIO DELL'ASSUNTA A MAGENTA

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La data di fondazione del Monastero di Santa Maria Assunta dei Padri Celestini di Magenta, non è riportata in alcun documento archivistico. La fondazione risalirebbe però al XIV sec. e due sono le notizie che lo fanno supporre: nel 1398 il Monastero è riportato tra le domus della Pieve di Corbetta come Ecclesia Sanctae Mariae Celestinorum de Mazenta e, sempre nel 1398, la chiesetta di S.Maria dei Celestini viene stimata in lire 20 e soldi 17. La costruzione del campanile, caratterizzato da una meridiana, risalirebbe invece alla fine del XV secolo La volta dell'unica navata, crollata in parte nel 1937, è stata rifatta negli anni 1938 - 1939; la facciata è del 1938. La chiesa, di origine romanica, presenta degli interni barocchi. La chiesa è famosa soprattutto per due tavole di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, datate 1501 e conservate nella terza cappella a sinistra, entrando. Fino a qualche anno fa queste tavole erano ritenute opere della scuola di Bernardino Luini, ma recenti studi ne hanno smentito la paternità assegnandola ad un Bergognone della piena maturità, accogliendo le ispirazioni leonardesche e bramantesche. Curiosamente l'artista ha lasciato sulla prima tavola un'impronta digitale che si nota vicino alla porta d'accesso interna al portico dello sfondo del Cristo Flagellato.

La Chiesa di S. Maria Assunta, che risulta la seconda della città per ampiezza, dopo la Basilica di San Martino, è ad un’unica navata, costituita da cinque campate coperte da volte a crociera; la copertura a volta originaria non era però in cotto, bensì composta da canne, sostenute dall’intelaiatura portante del tetto, costituita a sua volta da capriate lignee. Su entrambi i lati longitudinali si trovano sette cappelle con altari dedicati e due cappelle senza altari dove sono stati collocati a destra l’organo ed a sinistra un pulpito in legno lavorato; queste cappelle hanno un’altezza inferiore rispetto alla nave della Chiesa e sono coperte con una volta a botte. Una balaustra immette nel presbiterio. Le parti architettoniche della Chiesa furono man mano restaurate in diverse occasioni. Attualmente l’unica volta a crociera originaria è quella della copertura della sacrestia nuova, sul lato sinistro del coro. La volta dell’unica navata, crollata in parte nel 1937, è stata rifatta negli anni 1939-39: la nuova copertura, a botte, con unghie in prossimità delle finestrelle che si affacciano sopra il tetto delle cappelle, è stata eseguita in laterizio armato. Pure di questo periodo è la nuova copertura, realizzata in legno e tegole. La sistemazione esterna della facciata è del 1938. Del 1939 risulta essere anche l’acquisto del coro “ in legno di noce massiccio” e l’ultimazione della pavimentazione interna in “marmette a mosaico…”

Tra le pregevoli opere conservate in questo sacro edificio si segnala:
-nella prima cappella a ds: “Il trionfo dell’Eucarestia”- una tela del XVII secolo
-nella seconda cappella a ds: “L’adorazione dei Magi” di ignoto pittore che presenta reminiscenze correggesche
-nella terza cappella a sn le opere più prestigiose dal punto di vista artistico, due tavole del 1501 “Cristo alla colonna” ed un “Ecce Homo” di AMBROGIO DA FOSSANO detto il BERGOGNONE  (1453 ? - Milano 1523). Le tavole sono inserite nel polittico cinquecentesco attribuito a BERNARDO ZENALE (Treviglio 1450 ca - Milano 1526).
I pannelli laterali del Bergognone sono stati collocati nell’ancona in un momento successivo, probabilmente nella seconda metà dell’ottocento, in sostituzione di opere dello Zenale perché distrutte o fortemente degradate. La lunetta sovrastante raffigura il Padre Eterno ed è derivata da una tavola tonda cui in un precedente intervento è stata asportata la parte inferiore che probabilmente rappresentava la Colomba dello Spirito Santo. Gli sfondi delle scene della predella, in origine in foglia d’oro che, con la punzonatura del fondo creava un suggestivo gioco di luci e ombre, è stato dipinto con azzurrite in un intervento ottocentesco.

La chiesa possiede un concerto di 5 campane in Fa3 Maggiore, fuso nel 1951 da Carlo Ottolina di Seregno (MB). Le campane suonano a sistema ambrosiano e sono dotate della tastiera, per il suono a festa manuale delle campane.




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lunedì 18 maggio 2015

I PAESI DELLA BRIANZA : VIMERCATE

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«Centro strategico della resistenza della Brianza orientale partecipò coraggiosamente all'insurrezione contro l'oppressore nazifascista. La popolazione, aiutata da gruppi di partigiani, tra cui donne e giovani, si contrappose ad ogni forma di prevaricazione e di violenza, sopportando la perdita di numerose vite umane. Nobile esempio di abnegazione e spirito patriottico. 1943/1945»
 Vimercate, 24 aprile 2009


Vimercate è un comune italiano della provincia di Monza e della Brianza. È al centro del territorio chiamato Vimercatese.

Il nome deriva dal latino Vicus Mercati ("borgo del mercato").

Il luogo è sempre stato centro di scambi commerciali e tuttora ospita un frequentato mercato settimanale al dettaglio.

Vimercate, pur avendo tutte le caratteristiche dell'operosa cittadina brianzola, ha saputo conservare e valorizzare un patrimonio storico artistico di alto valore, sviluppando nuove potenzialità culturali e turistiche e mantenendo un ruolo di riferimento per tutta l'area circostante.
In Piazza Marconi si trova la stazione di interscambio del trasporto pubblico, posta a fianco della Galleria Marconi, edificio a destinazione commerciale progettato dall'architetto Mario Botta. Da sempre centro nevralgico della viabilità cittadina, fino agli anni '70 capolinea della linea tranviaria Milano-Vimercate, oggi è una rinnovata e frequentatissima piazza, centro della vita notturna cittadina, e sede di una galleria commerciale costruita nel 2003, anch'essa su progetto di Mario Botta, e di una stazione di autobus al centro di una fitta rete di trasporto pubblico che collega la cittadina con la metropolitana milanese, con Monza, con varie stazioni ferroviarie e con i paesi limitrofi.
Lasciandosi il grande edificio in mattoni rossi alle spalle, si attraversa via Galbussera per dirigersi verso la centralissima via Vittorio Emanuele II, non senza aver gettato uno sguardo alla propria sinistra per ammirare la nuova area ex Bassetti, riqualificazione di un'area dismessa nella quale le linee liberty dello storico edificio industriale, parzialmente conservato, si fondono con quelle moderne dei nuovi edifici e con il verde che abbellisce la grande piazza del Linificio.
Percorrere via Vittorio Emanuele II, la via principale della Città, è un po' come salire su una macchina del tempo: mentre si ammirano le vetrine dei negozi si incontrano la neoclassica Villa Sottocasa, esempio di "villa di delizia" neoclassica, fu costruita negli ultimi decenni del XVIII secolo. La struttura è ad U, con ampio cortile d'onore affacciato sulla centrale via Vittorio Emanuele II. La facciata anteriore è di stampo neoclassico, semplice e sobria; la fascia marcapiano, le lesene binate e il timpano evidenziano la zona centrale. Le ali laterali sono, come di norma nelle ville neoclassiche brianzole, di altezza dimezzata rispetto al corpo principale.

La facciata posteriore verso il giardino è più elaborata di quella anteriore: presenta infatti una balaustra con vasi sulla sommità, cornici e timpani alle finestre, fasce verticali a sottolineare la parte centrale.

Il grande parco fu sistemato nel XIX secolo secondo la moda del giardino all'inglese, con architetture curiose: una torre neogotica, una Kafehaus, costruzione nel parco dove i nobili si recavano a bere il caffè, le serre.

Attraverso un portone sormontato da una pensilina si accede all'interno. L'atrio d'ingresso presenta pianta quadrata con iscritto uno spazio circolare delimitato da colonne neoclassiche e sormontato da cupola. Decorano l'ambiente statue di un Satiro danzante e di una Venere , oltre a bassorilievi con putti; a metà dello scalone è collocata una copia dell'Apollo del Belvedere dei Musei Vaticani.

Le sale interne, riccamente decorate, presentano affreschi, lampadari in cristallo, fregi e pavimenti originali. La cappella privata, dedicata all' Assunzione della Vergine, ha una grata grazie alla quale anche i contadini potevano assistere alle funzioni religiose. Come pala d'altare è collocata una tela con l' Immacolata (1705), opera di Stefano Maria Legnani detto il Legnanino.

Tra i dipinti ospitati nella villa, sono presenti due ritratti ottocenteschi di Mosè Bianchi oltre a un ritratto equestre di Eleuterio Pagliano.

La facciata posteriore verso il giardino è più elaborata di quella anteriore: presenta infatti una balaustra con vasi sulla sommità, cornici e timpani alle finestre, fasce verticali a sottolineare la parte centrale.

Sul lato nord della villa sono presenti le scuderie e un maneggio coperto, in stile neogotico, edificato intorno agli anni Ottanta dell'Ottocento.

Dagli anni sessanta del Novecento gran parte del parco è proprietà del comune e aperta al pubblico. Nel 2001 il comune ha acquistato l'intera villa compresa la restante parte del parco. L'edificio ospita il Museo del territorio vimercatese, che espone reperti archeologici, opere d'arte, documenti e immagini del territorio compreso tra Monza e Trezzo sull'Adda.

La villa è accessibile al pubblico durante le numerose mostre organizzate lungo l'arco dell'anno e durante la manifestazione Ville Aperte. La medievale Chiesa Plebana di Santo Stefano la cui fondazione  si deve ai Francescani del vicino monastero di Oreno nella seconda metà dell'XI secolo. Gli edifici subirono poi nel tempo diverse trasformazioni ed ampliamenti, tra cui la dotazione, ad opera di Francesco Sforza durante il suo soggiorno vimercatese nel 1450, di una nuova cappella nella chiesa, dedicata a San Giovanni. Soppresso dalla Repubblica Cisalpina nel 1798, il convento venne in seguito acquistato dalla famiglia Banfi (Giuseppe Banfi, Podestà di Vimercate ), che ne è l'attuale proprietaria.

Il complesso conventuale è articolato intorno al chiostro, ristrutturato nel XVI secolo e chiuso a sud dalla chiesa; vi sono collegati inoltre altri edifici ad uso residenziale e una interessante corte rustica, con muro di cinta e portale verso la strada che risalgono al XII-XIII secolo.

La chiesa, a navata unica con tre altari, edificata alla fine del XIII secolo, vide un primo intervento di ristrutturazione a metà del XV secolo. L'edificio venne quindi allungato alla fine del Seicento e dotato di una nuova facciata di mattoni a vista nel Settecento.

Nel convento rimangono interessanti dipinti. Un affresco, ancora bizantineggiante, del quarto decennio del XIV secolo, rappresentante la Madonna della Misericordia, mentre sulle pareti del campanile della ex chiesa sono presenti parti superstiti di un ciclo trecentesco di vasto respiro, illustrante scene della vita di Cristo e immagini di devozione.

L'affresco della Crocefissione e Santi del 1354 è l'unico presente nel convento di San Francesco di cui si conosca la datazione precisa. Si presenta ora diviso in due parti: a destra la Crocefissione, con al centro il crocifisso e ai lati la Vergine e San Giovanni Evangelista; sulla parte sinistra sono invece raffigurati due santi: San Giovanni dei Pellegrini e Santa Francesca Romana. Le due scene sono separate da una sottile colonna tortile policroma. L'opera, una bella composizione caratterizzata da disegno fermo e sapiente uso del colore, è una prova della diffusione dell'arte giottesca in tutta la Lombardia nella prima metà del Trecento.

La Chiesa Anticamente Collegiata Prepositurale Plebana di Santo Stefano, databile intorno al XIII Secolo, era la sede dell'Antica Pieve di Vimercate, soppressa nel 1972 a favore dell'odierno Decanato di Vimercate, di cui è il cuore., il parco Trotti che introduce all'omonimo Palazzo Trotti, che dietro l'ottocentesca facciata nasconde all'interno i propri tesori (preziosi soffitti a cassettoni e affreschi in stile barocchetto).
A metà del proprio percorso, via Vittorio Emanuele incrocia la bellissima via Cavour che, attraverso edifici storici di pregio (fra cui l'Oratorio di Sant'Antonio, con i suoi affreschi quattrocenteschi) ci conduce al Ponte di San Rocco, unico esempio lombardo di ponte fortificato medievale. Fondato sui resti di un preesistente "ponte romano del III secolo, nel XII secolo gli venne sovrapposta una porta difensiva, quella occidentale, citata per la prima volta nel 1153 come "Porta de Moriano" e più bassa della struttura attuale. Nel XIV secolo fu eretta la porta orientale e sopraelevata quella verso il borgo, portando il complesso vicino all'aspetto attuale.

Nel corso dell'Ottocento venne interrata l'ultima arcata orientale, mentre il ponte divenne oggetto di stampe e illustrazioni: da questo periodo l'immagine del ponte fu simbolo di Vimercate.

Il Santuario della Beata Vergine del Rosario, sorge a pochi metri dalla Collegiata. Attualmente è la sede principale della parrocchia e del decanato, visto che la collegiata è utilizzata solo nei giorni di festa o per qualche occasione particolare.

Palazzo Trotti, esempio di "villa di delizia" in Brianza, fu residenza dal XVI secolo dei conti Borella, antichi feudatari di Vimercate, passata quindi insieme al feudo alla famiglia Trotti, dai quali prende il nome, ed è attuale sede del municipio. Presenta un anonimo prospetto ottocentesco su piazza Unità d'Italia, ma ospita all'interno affreschi barocchi.

Gli affreschi sono stati realizzati in tutte le sale quattro scene situate nella fascia alta e sulle intere pareti della sala "Cleopatra". Molte sale presentano soffitti dipinti. Le tre sale centrali del piano terreno ("Ercole", "Cleopatra", "Semiramide") e una sala del primo piano ("Minerva"), furono affrescate da un anonimo pittore del primo Settecento, ancora legato alla pittura accademica seicentesca. La sala di Bacco è opera di Carlo Donelli detto il Vimercati; fu dipinta poco dopo le prime quattro sale e presenta una pittura più decisa e ariosa.

Le sale più importanti sono però quelle dipinte nella seconda metà del Settecento da Giuseppe Antonio Felice Orelli, grande interprete del barocchetto lombardo che si dimostra in grado di articolare il racconto in modo arioso e teatrale.

La torre ovest, verso il centro cittadino, è di pianta trapezoidale e deriva dalla somma di due diversi interventi. Il più antico è costituito dalla porta-torre della fine del XII secolo, con portale concluso da due archi, uno in pietra e l'altro in mattoni. I resti dell'antica porta sono ancora perfettamente conservate e visibili nella parte inferiore, dove su tutti e tre i lati si notano i merli alla guelfa, in laterizio, della Porta de Moriano. Sull'arco in pietra è scolpita una piccola protome umana ad occhi sbarrati, della fine del XII secolo. Questa prima porta venne sopraelevata nella seconda metà del Trecento per svolgere un ruolo difensivo, garantito dai due ordini di feritoie e dagli archi pensili sulla sommità, dai quali era possibile calare liquidi bollenti addosso agli eserciti attaccanti.

La torre orientale, a pianta rettangolare, venne eretta nella seconda metà del XIV secolo. Le forme attuali della parete centrale, in mattoni e completamente prive di aperture, derivano da interventi del tardo Cinquecento. Le due pareti laterali invece presentano la stessa muratura della parte alta dell'altra torre, vale a dire corsi di mattoni alternati a ciottoli di fiume, sulle quali sono presenti quattro feritoie. Il Ponte di San Rocco, unico esempio lombardo di ponte fortificato medioevale, ha acquistato nel tempo una forte valenza simbolica e storica, come provato dal fatto che si tratta dell'unica porta d'accesso al borgo, a differenza delle altre, non abbattuta nell'Ottocento.

Altri monumenti:

Villa Gallarati Scotti, Oreno - Opera di Simone Cantoni (1790)
Chiesetta di Sant'Antonio
Villa Gallarati Scotti nella frazione di Oreno, ristrutturata in stile neoclassico da Simone Cantoni.
Casino di caccia Borromeo
Chiesetta rurale di Santa Maria Assunta
La Morte di Ruginello: due sculture, rappresentanti due interi scheletri, poste ai lati della strada che conduce all'ingresso del cimitero della medesima località.
Il complesso Torri Bianche di Vimercate
Vecchio ospedale civile

Quartiere Torri Bianche è un quartiere direzionale e commerciale che sorge in una posizione strategica rispetto alle grandi arterie di comunicazione, collegato direttamente a Milano dalla Tangenziale Est - Vimercate Sud (preesistente alla costruzione del centro). Costruito negli anni '90 e successivamente più volte ampliato, si compone di 3 grattacieli di 95 metri (due a destinazione direzionale e uno residenziale) e un cinema multisala con annesso centro commerciale, più vari altri edifici minori sempre a carattere commerciale/direzionale.

Eventi:
Sagra di Sant'Antonio abate, si svolge nel mese di gennaio ed ha il suo culmine il 17 con il tradizionale falò, nel letto del torrente Molgora.
Fiera di Santo Stefano, patrono della città, Il 3 agosto.
"Sagra della patata", a metà settembre degli anni pari, nella frazione di Oreno. Vi si svolge un corteo storico e una partita a dama con personaggi in costumi duecenteschi.

La graziosa frazione di Vimercate chiamata Oreno è nota ai più per un suo ortaggio speciale, la patata. Le patate coltivate ad Oreno sono principalmente della varietà Kennebec, Albane, Bianchidea, Daytona.

Alcune fonti storiche accertate riferiscono della comparsa di questo prodotto nella zona individuata nella seconda metà de 1800, in seguito alla diminuzione delle superfici vitate, al punto da caratterizzare il paesaggio rurale locale. Fino agli anni ’30 vi fu una costante richiesta di prodotto, mentre dopo gli anni ’60 la coltivazione subì un forte declino a causa della guerra e dell’industrializzazione che erose spazi all’agricoltura.

A Oreno la semina delle patate avviene in primavera, mentre la raccolta comincia a settembre. Nell’area del Vimercatese tutte le patate prodotte si producono esclusivamente per uso domestico.

Dal settembre 1968 si tiene la Sagra della Patata, intitolata a questo prodotto dagli abitanti di Oreno. Nei paesi vicini infatti questo comune è conosciuto come il “paese delle patate”.

Le caratteristiche di queste patate le rendono particolarmente adatte alla preparazione di purè e gnocchi.

Persone legate a Vimercate:
Gaspare da Vimercate, condottiero
Pinamonte da Vimercate, console di Milano
Alchiero da Vimercate, militare, combatté contro Federico Barbarossa
Benedetta da Vimercate, monaca agostiniana nel Monastero di Santa Marta in Milano
Gian Giacomo Caprotti detto il Salaino, pittore, allievo di Leonardo Da Vinci
Carlo Donelli detto Carlo Vimercati, pittore
Antonio Banfi, senatore della Repubblica e filosofo
Agostino Bonalumi, pittore astrattista
Gian Giacomo Gallarati Scotti, Senatore del Regno d'Italia, Podestà di Milano
Franco Brezzi, matematico
Tiziana Carraro, mezzosoprano
Maria Luisa Cassanmagnago Cerretti, insegnante, politica italiana
Giovanni Moioli, teologo
Enrico Assi, vescovo di Cremona
Lorenzo Maria Balconi, vescovo, missionario e scrittore
Adriano Bernareggi (di Oreno), arcivescovo di Bergamo
Roberto Rampi, deputato della Repubblica, politico e filosofo, già vicesindaco e consigliere comunale
Vittoria Belvedere, attrice italiana
Michael Girasole, calciatore
Emis Killa, rapper italiano
Corrado Colombo, calciatore
Matteo Morandi, ginnasta italiano vincitore della medaglia di bronzo nella specialità degli Anelli alle Olimpiadi di Londra 2012
Thomas Beretta, giocatore professionista di pallavolo, attualmente gioca in serie A1 a Modena: ha partecipato nel 2013 alla WORLD LEAGUE con la nazionale maggiore (terzi classificati) ed è stato confermato da Berruto (ct nazionale) per i Campionati Europei dello stesso anno
Stefanardo da Vimercate, domenicano, nato a Vimercate, morto a Milano nel 1297, scrittore, priore per alcuni anni del convento di S. Eustorgio a Milano, poi insegnante di teologia a Milano (1296-97)



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domenica 17 maggio 2015

LA CHIESA DI SANTA MARIA A CANTU'

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La chiesa di Santa Maria nell'antico monastero delle Benedettine fu sconsacrata nel 1798 per essere nuovamente restituita al culto nel 1839. Fino al 1700 la chiesa si affacciava sulla attuale via Manzoni in posizione di predominanza sull'agglomerato urbano adiacente, poiché libera su tre lati: il monastero era infatti collegato ad essa solo nella sua parte posteriore. Per tradizione storica attribuita a Pellegrino Tibaldi, Stefano Della Torre ne ricostruisce le reali vicende nel libro Cantù Nobilissima, dove è trascritto il brano che cita per esteso il nome dell'architetto chiamato a Cantù, Gerolamo Quadrio (una delle personalità di maggior rilievo a Milano, architetto capo della Fabbrica del Duomo).

Nel 1093 il Benedettino Adalberto da Cluny, che aveva già fondato a Pontida un monastero di monaci della sua riforma, volle istituirne un altro di monache a Cantù, da dedicare alla Beata Vergine.
A capo del Monastero pose come Priora Agnese di Borgogna alla quale, così come alle suore che continuano il suo insegnamento, la tradizione della lavorazione del prezioso merletto canturino.
Il Monastero fu riedificato nel 1690 e, nello stesso anno, fu annesso alla Chiesa di Santa Maria edificata al suo fianco (1665-1680) per cura degli ingegneri Gerolamo e Giovan Battista Quadrio.
L’imponente chiesa, a pianta centrale con otto colonne corinzie raggruppate in coppie, dove ancora riposano le reliquie della prima Priora Agnese, e il vicino Monastero subirono deplorevoli devastazioni durante la Repubblica Cisalpina (nel 1798 la stessa Repubblica soppresse anche l’Ordine delle Benedettine e la fabbrica fu trasformata in caserma); successivamente la chiesa fu comperata all’asta da Giacinto Galimberti e, dopo il ritorno degli Austriaci, fu restaurata e consacrata a cura del Prevosto Carlo Annoni.
Il convento invece divenne proprietà del demanio; acquistato dal Comune di Cantù all’inizio del sec. XX, è stato adibito ad uso uffici pubblici e aule scolastiche che si allineano ai lati del chiostro grande e di quello minore, splendido e intatto (pur bisognoso di urgenti restauri), di Santa Chiara.

Attribuita dalla tradizione a Pellegrino Tibaldi, è in realtà di costruzione seicentesca, su progetto di Gerolamo Quadrio (1625-1679), di cui costituisce una delle opere più importanti e meglio documentate. Il monastero di Santa Maria nei secoli XVII e XVIII possedeva estesi beni fondiari e godeva della protezione di famiglie della nobiltà milanese e comasca, da cui provenivano le monache che formavano una comunità numericamente consistente (nel 1665 le professe erano circa 51, nel 1721 erano 56). Questa favorevole congiuntura spiega la decisione di erigere una nuova chiesa, in sostituzione di quella più antica già riformata durante l'episcopato di Carlo Borromeo. Al 18 settembre del 1665 risale il capitolato fra le benedettine di Santa Maria di Cantù e il capomastro Giampietro Fontana per la costruzione della nuova chiesa, "conforme la misura e modelli dati dall'ingegniero Quadrio", incaricato altresì della supervisione del cantiere e dei periodici collaudi. Alla morte di Gerolamo Quadrio nel 1679 la fabbrica era ben avanzata, come risulta dalla data MDCLXXX apposta sulla parete anteriore del tamburo; al figlio di Gerolamo, Giovan Battista, subentrato al padre, spetta il disegno del portale di linea sobria, sormontato da una grande conchiglia da cui si dipartono due ghirlande, mentre la facciata rimase incompiuta; nell'ultima stima dei lavori, redatta da Giovan Battista il 23 maggio del 1683, la chiesa è definita "perfecionata".



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sabato 9 maggio 2015

IL MONASTERO DI SAN PIETRO IN LAMOSA

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Il monastero di San Pietro in Lamosa si trova presso Provaglio d'Iseo in provincia di Brescia e si erge sopra le torbiere del Sebino, a cui è dovuto il nome San Pietro "in Lamosa".

Bella chiesa romanica è in posizione elevata e dominante a occidente del paese sulla distesa delle torbiere, da sempre chiamate "lame" e ciò spiega perché si dice "in Lamosa". Furono due fratelli, Ambrogio e Oprando, di nazione Longobarda, come essi dichiararono, a donare nel Dicembre 1083 al monastero benedettino di Cluny una chiesetta con tutti i beni di cui la dotarono a suffragio delle loro anime.
Dodici anni dopo era già sorto contiguo il monastero che, nel 1147, divenne priorato cluniacense. La chiesetta originaria era già stata ampliata. Lo attestano le diverse murature esterne. Accanto alla primitiva absidiola del XI secolo si era aggiunta la navatella laterale romanica. Nuovi ampliamenti si eseguirono nel XIII secolo nella parte che risulta oggi incorniciata in cotto e altri ancora nel cinquecento con l'elevazione dell'abside centrale e dell'ultima cappella. Una lapide in latino ricorda il passaggio, avvenuto nel 1536, della chiesa ai canonici regolari di San Salvatore che officiavano a San Giovanni in Brescia. Oggi il complesso religioso è costituito dalla navata centrale, da quella laterale a nord con quattro cappelle e dal campanile. A sud della chiesa si apre il chiostro. La navata maggiore termina con un coro ad abside fiancheggiato da due altari barocchi insediati in due absidiole. I pilastri e le pareti sono parzialmente coperti di affreschi in buono stato. Negli anni sessanta e settanta del nostro secolo il complesso ha subito gravi danni oltre per le intemperie anche per atti vandalici. Nel 1983 l'antica chiesa e l'antistante cappella fu donata alla parrocchia. Dopo aver provveduto al risanamento del tetto, è nata l'associazione "Amici di San Pietro" che si è già impegnata a restaurare e valorizzare il monastero. Restauri recenti avrebbero messo in mostra opere lignee del Fantoni.

La Fondazione culturale San Pietro il Lamosa Onlus, sorta per iniziativa del Comune di Provaglio d'Iseo ma soggetto autonomo a tutti gli effetti, ha lo scopo di valorizzare l’omonimo monastero medievale di San Pietro il Lamosa, sito nel citato comune di Provaglio d'Iseo, nel quadro di una valorizzazione dell’intero territorio della Franciacorta e del Sebino, secondo un’ottica di sviluppo sostenibile.



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venerdì 24 aprile 2015

IL MONTE SAN FRANCESCO IN PERTICA



La leggenda narra che (nel 389 d.C.) Sant'Ambrogio sconfisse gli Ariani dalla torre sul monte sopra Velate. L'arianesimo prendeva il nome dal suo fondatore, Ario, che nella sua lettura del cristianesimo negava la trinità di Dio e la divinità di Gesù. Questa dottrina, fortemente contraria a quella ufficiale di Roma, venne dichiarata eretica, questo scatenò conflitti e scontri. Dall'evento della sconfitta leggendaria, la torre che ora sta all'interno del monastero delle Suore Romite sul Sacro Monte, venne chiamata “degli Ariani”. Ma proprio in quella dicitura per definire il monte si potrebbe leggere un errore di attribuzione dell'evento, forse la battaglia che pose fine al conflitto non avvenne sull'attuale Sacro Monte, bensì su quello che oggi è il Monte San Francesco in Pertica, che è appunto sopra Velate.

Il Monte San Francesco è inserito nel SIC “Grotte del Campo dei Fiori”, uno dei cinque Siti di Importanza Comunitaria in cui è suddiviso il Parco. La zona in cui sono presenti le rovine del convento è identificata come area archeologica che nel 2002 ha preso parte al progetto “Giardini di Frate Sole”.

Un luogo tra natura e storia, dove conflitti, religione e politica si sono avvicendati fino ad annullarsi, fino a designare la sua scomparsa. Sul Monte San Francesco in Pertica si sono susseguiti popoli e culture che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. Infatti, su quel rilievo sotto al Campo dei Fiori, vi fu prima una torre d’avvistamento romana, poi un insediamento longobardo ed infine un monastero francescano.
Purtroppo tutto quello che rimane ormai sono solo macerie di un passato che solo in pochi conoscono.

Nel periodo Basso Imperiale (III-V sec.d.C.), la torre romana integrava il sistema di controllo del limes prealpino, fortificazioni chiamate Clausurae Augustanae.
La costruzione di questa ulteriore linea di difesa avvenne per proteggere la penisola dalle sempre più frequenti incursioni barbariche nel territorio imperiale. Per questo, sul S. Francesco venne eretta una torre che comunicava a vista con quella “degli Ariani” posta sull'attuale Santa Maria del Monte. Queste postazioni erano fondamentali per il controllo del transito verso la Valle della Rasa, che consentiva l’accesso ai passi alpini del San Bernardino e del Lucomagno, questi portavano in Rezia (Svizzera), una delle province romane. Il complesso di fortificazioni collegate a quella sul S. Francesco appartenevano al territorio del Seprio, che aveva il suo centro militare a Castelseprio.
Questa appartenenza territoriale influenzerà profondamente tutte le vicende militari che avvennero sul monte, finché il Ducato di Milano prenderà il controllo della regione chiamata Contado del Seprio (nel XIII secolo).

Tra VI e IX secolo, il sistema di fortificazioni romane venne in potere dei Longobardi. Una pratica tipica di questa popolazione era quella di affiancare ai centri militari un luogo religioso ed è ciò che si ipotizza sia avvenuto anche sul Monte San Francesco. Infatti, è a quest’epoca che risale una parte del toponimo del monte: il nome“in Pertica” deriva da un'usanza funebre longobarda.
Proprio presso questo popolo era diffuso l’uso di piantare un’asta sulla tomba del guerriero, in cima erano soliti collocare una colomba, in legno o terracotta, rivolta verso il luogo dove il guerriero aveva perso la vita. Per questo motivo si pensa che, su un pianoro appena sottostante alle costruzioni, vi sia un antico cimitero longobardo. A conferma di ciò vi sono alcuni racconti di persone del posto che avrebbero ritrovato alcuni reperti archeologici.
Nel periodo seguente (fino al XVI sec.), la via che collegava Velate al santuario sul Sacro Monte divenne d'importanza fondamentale. Proprio perché situato sulla strada principale, che collegava a Velate il santuario e la guarnigione stanziata là sopra, è molto probabile che il monte “in perticis” (come viene chiamato nei documenti dell’epoca) fosse coinvolto negli scontri tra milizie sepriesi e milanesi. Ma, oltre che gli spostamenti di truppe, questa strada era frequentata anche per raggiungere S. Maria del Monte, che era divenuta meta di pellegrinaggio su una dei principali collegamenti
ai Paesi d’oltralpe.
Le rovine situate sul monte sono la testimonianza dell’azione dei frati la cui presenza è documentata già a partire dal 1289. Caterina da Pallanza quando fondò il monastero delle romite del Sacro Monte nel 1474 abbracciò proprio la regola Agostiniana. Al 1478 si riferisce un miracolo, narrato dal Sormani nel suo libro “ Il Santuario di Santa Maria del Monte sopra Varese” edito nel 1739. Egli racconta che Padre Jacopo di San Francesco in Pertica guarì dalla sordità una fanciulla toccandole le orecchie con una mano del cadavere della Beata Caterina, defunta già da nove giorni.

Purtroppo poche sono le notizie relative al monastero: presumibilmente i frati che vi abitarono furono sempre in numero limitato poiché le dimensioni dell’edificio dovevano essere piuttosto modeste. Della chiesa abbiamo qualche notizia all’epoca di San Carlo Borromeo quando ormai i frati avevano già abbandonato il monastero che ricadeva sotto la tutela della parrocchia di Velate. Certo è che l’edificio si trovava in completo stato di abbandono: l’altare era privo di croce e candelieri, il pavimento dissestato, i muri scrostati, mancavano il soffitto, il campanile, l’acquasantiera. Nessuno si preoccupava di custodirne l’ingresso. Nella sua visita pastorale del 27 ottobre 1574, San Carlo ordinò una serie di urgenti riparazioni e, in attesa di una decorosa sistemazione, la sospensione delle celebrazioni liturgiche. I lavori di riordino, in realtà, data la difficoltà di reperire i fondi e forse l’insufficiente interessamento al luogo, non vennero mai eseguiti e la chiesa venne sconsacrata. I muri crollati vennero ulteriormente demoliti per permettere l’utilizzo delle pietre come materiale da costruzione.

Il luogo cadde lentamente nel più completo oblio tanto che oggi la vegetazione ha ricoperto i pochi ruderi sopravvissuti al passare del tempo . Anche il sentiero che permetteva la salita al monte san Francesco venne sempre meno utilizzato dai pellegrini che, con la creazione nel XVII secolo del Viale delle cappelle, raggiungevano il Santuario di Santa Maria del Monte senza più seguire gli antichi sentieri medioevali che si diramavano dall’antico centro abitato di Velate. Oggi della chiesa e del convento di S. Francesco sembra andato quasi completamente perso anche il ricordo. Secondo la tradizione, molti sostengono che l’altare ligneo conservato nella chiesa parrocchiale di Velate provenga dalla chiesa di S. Francesco in Pertica. Qualche velatese ritiene che anche la statua lignea della Madonna con bambino conservata nella chiesa di S. Cassiano, abbia la medesima provenienza.

Nella chiesa di San Cassiano, sotto Velate, è conservata una statua della Madonna con Gesù bambino tra le braccia, ma la scultura non è sempre stata in questo luogo. Il 19 agosto 1574 una visitazione dell'Arcivescovo presso il San Francesco trovò nel decaduto conventino, ormai abbandonato dai frati, soltanto un eremita che custodiva “una statua bellissima dell'insigne Madre” (così recita il rapporto scritto sulla visitazione). Forse questa opera d'arte è proprio quella che venne poi portata alla chiesa di San Cassiano, poco distante da lì.

Dal punto di vista geologico la zona è costituita dalla formazione “Calcare di Moltrasio“, composta sia da calcare che da selce diffusa e concentrata in noduli, con ampia presenza di fossili nella parte basale dell’unità. Questi fossili sono la testimonianza che milioni di anni fa tutta la zona di Varese era sommersa completamente dal mare.

L’ambiente che si trova è selvaggio, immerso in una vegetazione rigogliosa che ne limita i punti di vista. La cima del monte si raggiunge senza difficoltà. Qui si notano i resti di una struttura quadrata. Sono muri a secco di limitato spessore non una costruzione imponente. La sua posizione dominante e la forma lasciano pensare ad una torre, ma forse era un semplice locale del monastero. Poco lontano le fondazioni della chiesa, una piccola aula con apertura a Ovest e zona absidata appena leggibile a Oriente. Tutto intorno pietre, talvolta sovrapposte con ordine, talvolta accumulate.

L’area del complesso monastico non doveva essere piccola (un ettaro circa), ma le costruzioni, secondo la tradizione francescana, erano povere, i locali spogli, essenziali e di limitate dimensioni. La visita non lascia affascinati in quanto non si riesce nemmeno con un rilievo geometrico a capire qualche cosa sulla organizzazione degli spazi abitativi e di culto. Pensiamo però al San Francesco coltivato a vigneto, alla sua sommità libera dalla vegetazione spontanea, alla chiesa e alle casette del monastero intonacate di calce: così San Carlo Borromeo, nella mappa allegata alle descrizioni delle sue visite pastorali, ci sembra descrivere ancora questo luogo che solo pochi anni dopo non sarebbe stato altro che un ricordo.

Il Monte San Francesco è caratterizzato da boschi di latifoglie; in particolare Faggi, Robinie, Quercia e Castagni. Nello strato arbustivo si possono trovare noccioli, cappello del prete, acero campestre, rosa canina e pungitopo. Lo strato erbaceo
è molto diversificato e si possono trovare specie come la primula, il ciclamino, l’edera e la felce.

Da un punto di vista faunistico, le presenze più interessanti riguardano i rapaci (Nibbio bruno e Falco pecchiaiolo ), e i chirotteri ( pipistrelli ) preziosi alleati per ridimensionare le popolazioni di insetti dannosi e fastidiosi quali le zanzare.
Curiosa è la presenza di alcune specie di invertebrati tra cui l’endemico
Duvalius ghidinii appartenente alla famiglia dei Carabidi. Sono molto diffusi anche mammiferi ungulati ( Cinghiali, Cervi e Caprioli ), e piccoli roditori tra i quali Scoiattoli. I più fortunati potranno avvistare anche bellissime volpi.




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sabato 28 marzo 2015

IL MONASTERO DI SAN SALVATORE

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Le origini del monastero di S. Salvatore a Sirmione scaturirono da un grave fatto di sangue che aveva coinvolto il re dei Longobardi Desiderio, e la moglie Ansa, e un potente nobile longobardo, tale Cunimondo, il quale, per risarcire i regnanti dell'uccisione di uno dei favoriti della regina, Maniperto, donò tutti i suoi beni al monastero di S. Giulia a Brescia e alle tre chiese allora esistenti a Sirmione: S. Pietro in Mavino, S. Martino e S. Vito.
Nell'anno 762-765, la regina Ansa faceva erigere a Sirmione un monasteriolo alle dirette dipendenze di S. Giulia. Purtroppo, tutto ciò che resta della costruzione è la parete di fondo dell'area absidale della chiesetta di S. Salvatore, che si può intravvedere dai giardini pubblici, proprio tra la scuola materna e quella elementare. Nell'anno 774, il monastero sirmionese veniva ceduto a Carlo Magno e in particolare al monastero imperiale di S. Martino di Tours. La comunità monastica di Sirmione tornò però presto ad essere una succursale del monastero di S. Giulia di Brescia.
Come detto, dell'antica fondazione monastica della regina Ansa, rimangono oggi solo i resti dell'area est, con le tre absidi semicircolari di diversa dimensione (l'abside centrale è più grande rispetto alle laterali) e un breve tratto dei muri longitudinali a livello di fondazione. La sezione occupata dall'abside centrale è quella che presenta le parti più consistenti di muratura, degradando in percentuale all'abside nord, fino a raggiungere la percentuale minima nell'absidiola sud. Scavi e lavori di recupero sono ancora in corso, anche perchè nella zona a sud dei ruderi si sta costruendo un grande edificio moderno. L'area archeologica è ora chiusa e non visitabile; le poche informazioni che si riportano sono frutto di osservazioni carpite attraverso le recinzioni che circondano il sito di S. Salvatore.
Nell'emiciclo esterno dell'abside maggiore, inserita nello spessore delle murature alte, è ricavata una sorta di nicchia squadrata. Non è possibile valutare se questa sia stata realizzata in epoche recenti o appartenga invece alle strutture più antiche, visto che il S. Salvatore ha avuto una frequentazione e una continuità di culto protrattesi per lungo tempo (la chiesa era infatti ancora visibile alla metà del XIX secolo).
La poca consistenza dei resti non permette, da lontano, un'analisi architettonica attendibile; resta, ad avvallare l'antichità delle origini di questo monumento, quanto è leggibile della planimetria a pianta rettangolare con tre absidi semicircolari poco sporgenti.
Osservando l'area archeologica da ovest, si osserva un tratto delle fondamenta dei muri longitudinali dell'edificio, ciò che permette di rilevare anche per l'interno la scarsa profondità degli emicicli. Per quanto si può vedere, i materiali impiegati sono pietre poco lavorate e di diversa dimensione e provenienza; prevalgono i ciottoli di lago alternati ad altri conci poco rifiniti e allestiti in spessi strati di malta. Le murature dell'absidiola sud sono composte in maggioranza da ciottoli di lago allestiti in spessa malta con altri conci di diverso materiale, poco lavorati e organizzati in corsi approssimativamente orizzontali raggiungendo l'altezza di poco più di un metro.
Le parti basse delle murature dell'abside centrale non sono diverse da quelle dell'abside sud, almeno per un'altezza pari a quella conservata in quest'absidiola, eccetto per la presenza di una finestrella squadrata; sopra, l'assetto murario cambia e la varietà dei materiali, come la messa in opera, si fa più confusa, con l'inserimento di una cornice rettangolare, in leggero aggetto, a inquadrare una nicchia creata nello spessore del muro.
L'absidiola nord conserva invece un tratto di intonacatura che ricopre la muratura. In questo tratto di intonaco si conservano tracce di affresco ormai illeggibili. Il tratto murario superiore presenta lo stesso disordine edilizio che caratterizza i tratti alti dell'abside centrale.

Le ragioni dell'abbandono del monastero da parte delle monache possono essere diverse: pestilenze, carestie, invasioni barbariche, comunità eretiche. La fine delle memorie monastiche della penisola giunse nel XV sec. quando S Giulia liquidò tutti i beni sul Lago di Garda, ormai troppo lontani e poco redditizi.

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