martedì 10 novembre 2015

UCCIDERE I PROPRI GENITORI

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Il parricidio è un archetipo piuttosto comune in diverse culture e religioni, soprattutto in quella greca: tra i più famosi vi sono Edipo e Crono, il padre di Zeus. Secondo il mito, le Erinni perseguitavano i parricidi per tutta l'eternità.

Parricidio famoso è quello in cui Bruto uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare (cesaricidio). Ben più recente quello del principe Dipendra del Nepal, che uccise i genitori insieme ad altri suoi parenti.

Nel diritto romano si intende più generalmente l'assassinio di genitori o parenti prossimi, che in epoca monarchica era giudicato dai quaestores parricidii che comminavano o meno la poena cullei. Tale crimine sarà oggetto di giudizio di quaestio perpetua in età repubblicana e di cognitio extra ordinem in età imperiale. Il termine parricidio risale ad una statuizione di Numa Pompilio, dove con la clausola "parricidas esto" reprime il crimine dell'uccisione di un parente, associando allo stesso reato l'omicidio di un uomo libero commesso con la volontà (da cui oggi deriva l'omicidio doloso). Con "parricidas esto" Numa Pompilio ha voluto dare agli agnati del cittadino ucciso la possibilità di fare giustizia del sangue versato ingiustamente nei confronti della propria famiglia.

Per altri la clausola "parricidas esto" riscontra un significato del tutto diverso. Infatti dovrebbe intendersi (il che riscuote un maggior successo fra gli studiosi odierni) che l'omicida "sia soggetto ad essere parimenti ucciso", qualora l'omicidio sia stato commesso "cum dolo". Se quindi fosse sussistito l'elemento della volontà si sarebbe attribuita la poena cullei, qualora l'omicidio fosse stato colposo, la pena comminata comportava la consegna di un ariete alla famiglia del defunto.

La storia di Edipo è quella di un figlio fatalmente destinato ad uccidere il padre. Un figlio che affronta lunghe peripezie per conseguire inconsapevolmente/inconsciamente l’uccisione del padre.

Da qui deriva il paradigma umano: i figli devono uccidere i padri. Che lo vogliano o no. Che ne siano consapevoli o no.

E’ sempre stato così. Qualsiasi essere umano raggiunge l’età adulta nel momento in cui uccide metaforicamente il padre e/o la madre (i greci parlarono anche di Elettra). Ovvero escono da una condizione di dipendenza fisica e psicologica dai genitori, acquistano autonomia di vita e intellettuale. Ma soprattutto quando superano il modello educativo e culturale proposto dai genitori o dalla società dei “più vecchi”. La ribellione adolescenziale è la cosa più bella e naturale che ci sia, e non sempre si deve risolvere in modo drammatico o conflittuale. Si può anche “ribellarsi” mantenendo il rispetto verso i più anziani e verso un certo tipo di educazione, ma è inevitabile rielaborare il modello proposto secondo la propria personalità, la contingenza storica, il proprio nuovo ruolo di adulto.

Nell’ultima generazione, qualcosa si è bloccato: figli di una generazione che ha demolito i propri padri e poi non ha costruito nulla. Annichiliti dalle proprie creazioni liberali e liberticide, hanno creato un “nuovo modello” sociale e antropologico che non ha nulla di etico e di autoritario. E per aggravare la situazione, figli di una generazione parecchio più ricca. Una generazione che non ha mai raggiunto l’età adulta perché, uccisi i padri, ha creato un sistema di valori del tutto distorto e malsano, che deve venire per forza rifiutato dalla nuova generazione, o almeno dalla parte di essa più “savia” . Una condizione di dipendenza economica e psicologica che non ha via di uscita.  Genitori  amici, figli e nonni. Incapaci di invecchiare, incapaci di accettare che il loro ruolo fisiologico è finito. Incapaci di essere una vera autorità, di proporre una vera educazione. E non possiamo e non riusciamo a ucciderli. Di fronte ad un’interruzione nella catena generazionale, i giovani sono obbligati o a rimanere per sempre infanti, o a balzare miracolosamente all’età adulta. Creando un modello di valori ex-novo.



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