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mercoledì 17 giugno 2015

LA CHIESA DEI SANTI FERMO E RUSTICO A CARAVAGGIO



Concepita in stile romanico e dunque dal disegno trecentesco si presenta lombardo-gotica a seguito delle successive trasformazioni. L'edificazione durò comunque, come avveniva spesso, parecchio: il portale, per esempio, non può essere anteriore al 1450 poiché in esso vi figura, a destra di chi guarda, l'immagine di San Bernardino con l'aureola (la canonizzazione è di quell'anno).
Nella seconda metà del XVIII secolo viene trasformato l'interno, che, già manomesso, vede le sue strutture antiche ricoperte, in stridente contrasto con la facciata. La chiesa fu restaurata nel 1932. La facciata fu ulteriormente 'ripulita' nel 1990. In essa si possono notare le tre nicchie del frontone con le statue della Vergine, di S. Fermo e S. Rustico, e, nella lunetta del portale, la Vergine col Bambino e i Ss. Fermo e Rustico, affresco di Giovanni Moriggia.

Secondo la leggenda, nel 306, i due Santi Fermo e Rustico transitarono per la città e resuscitarono un morto. L'elemento leggendario si scontra però con la mancanza di rilievi archeologici che permettano di accertare l'esistenza di insediamenti stabili nel territorio comunale in un'epoca tanto remota.

Seppure la chiesa parrocchiale sorga in territorio bergamasco, appartiene a livello ecclesiastico alla diocesi di Cremona della quale ne è il centro più espanso.

Attualmente la parrocchia è retta dall'Arciprete parroco Mons. Angelo Lanzeni.

I primi documenti che fanno riferimento esplicito alla chiesa risalgono al 1196 e al 1218; è certo, tuttavia, che le sue origini siano anteriori, e che probabilmente un primo edificio sacro fu eretto contestualmente alla nascita stessa del paese, ancora prima dell'anno 1000.

Le stesse navate laterali (e di conseguenza l'alzata centrale) furono aggiunte nel 1429, alterando l'originaria forma a capanna. Si procedette contestualmente alla realizzazione delle cappelle laterali, le quali, nonostante numerose modifiche successive, presentano tuttora numerose dedicazioni e (nella terza a sinistra) decorazioni murali del periodo medievale. Fino all'inizio del XX secolo le cappelle ospitavano anche lunghe lapidi tombali intestate a illustri famiglie locali.

L'interno dell'edificio di culto fu fortemente trasformato fra il 1777 ed il 1798; nonostante l'opposizione della cittadinanza si volle procedere ad un notevole rimaneggiamento della struttura interna della chiesa in favore di uno stile più marcatamente barocco. I lavori furono guidati dal pittore scenografo piemontese Fabrizio Galliari, cui venne anche affidata la ristrutturazione del presbiterio e del coro. Fra i principali interventi di rinnovamento architettonico disposti da Galliari si evidenziano la chiusura dei pilastri mediante paraste a capitello corinzio e la collocazione di grandi medaglie da istoriare sulle volte, che vennero foderate. Precedentemente austero, l'aspetto della chiesa divenne in questo modo spiccatamente barocco, seguendo vicende analoghe a quelle del duomo di Crema; al contrario di quest'ultimo, tuttavia, la Chiesa di San Fermo e Rustico conserva tuttora inalterate le forti correzioni settecentesche.

Un importante restauro avvenne nel 1932; nel 1990 fu operata una nuova opera di ripulitura della facciata.

La facciata della chiesa appare tripartita fra due pilastri quadrati, posti agli estremi, e due colonne interne semicircolari, che salendo passano a quadrate per sostenere l'alto frontone; l'aspetto slanciato è accentuato dalle cinque guglie ottagonali. La parte centrale è caratterizzata da un portale in marmo, sovrastato da un grande rosone a dieci raggi.

Il frontone della facciata è dominato da tre nicchie con le statue della Madonna, di san Fermo e di san Rustico; nella lunetta del portale figura un affresco di Giovanni Moriggia raffigurante la Vergine col Bambino e i santi Fermo e Rustico.

La colorazione diseguale del cotto della facciata, unitamente alla presenza di alcune finestre mai aperte, porta a pensare a numerose modifiche intervenute in corso d'opera rispetto al progetto originario.

La cappella del Santissimo Sacramento, costruita tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, si affacciava originariamente sull'antico cimitero cittadino, collocato nelle sue adiacenze; solo in un secondo momento venne incorporata alla chiesa. Chiaramente amadeesca, è stata attribuita al suo seguace Giovanni Battagio, autore dell'Incoronata di Lodi.

La struttura interna della parrocchiale. Le lettere indicano le medaglie di Federico e Carlo Ferrario, realizzate sul finire del XVIII secolo; i numeri corrispondono alle altre opere.
Sul finire del XVIII secolo, appena terminato il rivestimento delle volte disposto da Fabrizio Galliari, si decise di commissionare gli affreschi delle sedici medaglie che sovrastano le campate, in modo da approfittare dei ponteggi già presenti. Ricevettero l'incarico i pittori milanesi Federico e Carlo Ferrario, padre e figlio.

Rispetto alle altre opere dei Ferrario, i medaglioni della chiesa di san Fermo e Rustico, ispirati a fatti biblici, sono caratterizzati da colori meno accesi e più ponderati, forse sintomo di influenze del praghese Reiner.

Danneggiate dall'incuria, dall'umidità e dal pulviscolo, le medaglie vennero pulite nel 1931 da Luigi Pastro, che venne criticato per le tonalità troppo scure di verde utilizzate per le vele circostanti.

La Cappella di san Rocco e san Sebastiano era originariamente dedicata a san Gottardo, poi ricordato e raffigurato anche nella cappella di Sant'Ambrogio. L'opera principale è la "Madonna col Bambino tra san Francesco, san Rocco e san Sebastiano", riconducibile (malgrado oggettive difficoltà di raffronto che portarono in passato a diverse attribuzioni) a Fermo Ghisoni, contaminato da influenze mantovane. San Francesco rappresenta forse allegoricamente il donatore del dipinto, e san Rocco raffigura l'autore stesso. L'opera è racchiusa in una ancona lignea della fine del XVI secolo; il suo attuale paliotto apparteneva tuttavia all'altare della cappella del Santissimo Sacramento.

Ai lati della cappella si trovano due piccole tele centinate raffiguranti a sinistra Santo Stefano, e a destra San Lorenzo. Le due tele risalgono ai primi anni del Seicento, e potrebbero essere ricondotte, per affinità di stile, al caravaggino Giambattista Secco.

Le pareti laterali e la volta della cappella ospitano inoltre cinque storie della vita di sant'Antonio: Sant'Antonio fra gli appestati, Sant'Antonio presentato al papa, Sant'Antonio in carcere, Sant'Antonio liberato dal carcere e Tre putti con la corona. Di queste, le ultime tre, collocate alla volta della cappella, sono state sottoposte ad un intervento di restauro sul finire del XX secolo.

Sino al 1674 l'altare situato nella cappella di sant'Antonio di Padova ospitava una tela con l'effigie del santo; da quell'anno è al contrario presente l'attuale nicchia con una statua del santo.

Gli originari stucchi decorativi che adornavano la volta furono rimossi nel 1923, quando il pittore Mario Albertella vi affrescò Ezzelino da Romano davanti a sant'Antonio, Sant'Antonio benedice con l'ostensorio, Gloria di sant'Antonio. Lo stesso Albertella raffigurò, nella vetrata del lunettone, Sant'Antonio tra gli indigeni africani.

Ai lati, la cappella ospita due dipinti risalenti alla seconda metà del XVII secolo raffiguranti miracoli del santo: il Miracolo del piede riattaccato e Sant'Antonio risuscita un morto.

La Cappella della Beata Vergine del Rosario era originariamente dedicata a san Giovanni evangelista, e fu intitolata alla Madonna del Rosario solamente attorno al 1650. Per l'occasione venne decorata con numerosi stucchi e tele, che sono rimasti inalterati sino ad oggi, con la sola eccezione del simulacro della Vergine nella nicchia centrale, sostituito nel 1937 con una statua lignea dello scultore gardenese Moroder, e dello smantellamento degli stucchi seicenteschi, terminato nel 1923 ma avviato già sul finire del XVIII secolo.

La lesena d'ingresso e il sottarco ospitano una fascia dipinta dell'Albertella.

I dipinti sono riconducibili ad Andrea Asper; ai lati e nella volta si trovano quindici pannelli con i Misteri del Rosario risalenti al XVII secolo; di fronte a sinistra, San Gerolamo; a destra, San Domenico e la Madonna (datati 1655 e firmati da Asper).

La cappella di san Bernardino, undique depicta (interamente dipinta), era originariamente intitolata al solo san Bernardino da Siena, di cui ospitava un'immagine sopra all'altare. Successivamente vi fu collocato anche un dipinto con il Crocifisso tra san Bernardino e l'Angelo custode.

Nel 1709 la cappella si arricchì del paliotto dell'altare, con un finto intarsio marmoreo in scagliola a rabeschi recante la figura centrale di San Bernardino, a firma di Pietro Solari; in seguito si aggiunsero l'ancona (con la pala) e la balaustrata. Il quadro posto sopra l'altare, raffigurante San Bernardino e santa Maria del Suffragio, è circondato da una cornice adorata ed è opera di Francesco Bradella (prima metà del XVIII secolo).

Ai lati si trovano due piccole tele del Seicento, raffiguranti San Pietro martire (a sinistra) e Santa Caterina da Siena (a destra). Le pareti laterali ospitano altre due tele del medesimo periodo, raffiguranti Santa Teresa d'Avila e San Mauro, ritoccate nel 1931.

La cura e la decorazione della cappella furono amministrate dal Monte dei Morti, con sede all'imbocco di porta Folcero, il quale raccoglieva offerte per il culto dei defunti.

A differenza delle precedenti quattro, la cappella dell'Apparizione è collocata al termine del transetto laterale che dà ingresso alla cappella del Santissimo Sacramento; è dedicata alla Madonna di Caravaggio, e fu costruita solo nel 1841. In precedenza al culto dell'Apparizione era riservata l'attuale cappella di San Pietro e Sant'Andrea, il cui altare, viceversa, era collocato a chiusura del transetto, prima dell'edificazione della nuova cappella.

La cappella ospita L'Apparizione della Madonna a Giannetta, di Giovanni Moriggia, risalente al 1844. Incorniciata da un'ancona bianca, la tela rappresenta il miracolo dell'apparizione mariana conferendovi un'atmosfera monumentale.

Ai quattro angoli della cupola neoclassica sono affrescati altrettanti angeli, recanti invocazioni della Salve Regina.

Il sarcofago di Fermo Secco, morto nel 1401, è in parte murato nella parete del transetto di fronte alla cappella del Santissimo Sacramento; vi fu trasportato dalla cappella di Sant'Ambrogio, fondata dalla stessa famiglia Secco.

Il bassorilievo sul lato del sarcofago raffigura la Vergine col Bambino tra sant'Antonio abate e san Marco, i quali le affidano simbolicamente la famiglia Secco; sulla sinistra sono raffigurati il padre Fermo e i tre figli Gianluigi, Marco ed Emanuele, mentre sulla destra compaiono la madre, Florida dei conti d'Arco, e la figlia Antonia. Ai due lati sono rappresentati gli stemmi dei rispettivi casati.

Il fastigio soprastante ospita un epitaffio in distici latini, che narra le imprese di Fermo, tessendone un elogio. La grafia è gotica, come lo è il resto del sarcofago. Fermo Secco vi è descritto come signore di Calcio e castellano di Angera, di Dertona e di Novara, oltre che valoroso condottiero presso i confini di Trento.

Al sarcofago di Fermo Secco faceva anticamente da contraltare un monumento alla famiglia Sforza, che sorgeva nella navata centrale della chiesa, davanti all'altare maggiore; i resoconti storici lo descrivono come un complesso marmoreo rotondo, con diversi stemmi scolpiti delle famiglie Sforza Bentivoglio (il ramo caravaggino degli Sforza era stato infatti iniziato da Giampaolo Sforza, figlio di Ludovico il Moro, e dalla moglie Violante Bentivoglio). In un secondo momento il monumento fu ricollocato all'esterno della chiesa, all'entrata del cimitero che ne occupava il lato sud, dietro al campanile.

Sul fianco destro della chiesa il Campanile, merita una storia a parte. La prima pietra di questa grande torre fu posta il 29 giugno del 1500 da Giovanni Dandolo, a quella data prefetto veneto del borgo da soli dieci mesi, il quale intendeva dare al paese un degno campanile che sostituisse quello esistente, modesto, collocato secondo alcuni presso il tetto della navata laterale sinistra, fra la cappella di Sant'Ambrogio e la sagrestia, secondo altri dove si trova quello attuale. La costruzione, edificata secondo schemi architettonici bramanteschi, si interruppe all'altezza di quarantotto metri (lo si può notare dal colore diverso dei mattoni). I lavori ripresero dopo il 1515 ma giunti al piano delle campane, si interruppero nuovamente. Solo nel XIX secolo l'architetto Lewis Gruner fece coprire (a quota 54 metri) la torre con un tetto e quattro semplici spioventi pensando di interpretare il pensiero dell'antico costruttore. Nel 1894 il prof. Angelo Bedolini, caravaggino, progettò sopra la cella campanaria un cornicione classico con una balaustra, e sulla terrazza disegnò una cupola ottagonale sormontata da un capolino e dalla croce. Il progetto restò tale per molti anni; nel 1912 ebbe parziale attuazione, e solo nel 1932 la costruzione venne definitivamente portata a termine. Il campanile raggiunse così l'altezza di settantuno metri.


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domenica 14 giugno 2015

LA CHIESA DI SAN FAUSTINO E GIOVITA A BRESCIA

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La basilica, di fondazione antichissima e sede dei padri benedettini, venne ricostruita su progetto dell'architetto bresciano Stefano Carra a partire dal 1621. La facciata venne completata solo più tardi, nel 1704.
Della fase primitiva restano solo i capitelli reimpiegati nel campanile e il gallo segnavento nel museo di S. Giulia. Già nel 1940 Gaetano Panazza aveva riconosciuto alla base del campanile e nel sottotetto sud resti della chiesa del XII secolo, verosimilmente quella consacrata nel 1152 dal vescovo Manfredo. Dallo scavo praticato nel 1957 per l'installazione di pannelli radianti era riemersa l'abside nord della cripta, con velario dipinto romanico ora non visibile. Ulteriori saggi di scavo e di stratigrafia dell'elevato, condotti fra 1988 e 2004 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia nel contesto della ristrutturazione del complesso ad uso universitario, hanno fornito ulteriori elementi per la restituzione della chiesa, mentre quasi nulla è riemerso degli ambienti monastici.
Dalla visita di san Carlo del 1580 emerge che l'aula superiore era dotata di otto altari, mentre la cripta (scurolo), forse ancora rispettosa dell'assetto medievale pur se rimaneggiata nel 1445 (per poi essere demolita nel 1604), di quelli dei santi Faustino e Giovita e di sant'Onorio, entrambi con arca marmorea reliquiario.

Benché testimoniata da pochi resti, inglobati nella ricostruzione di XVII secolo, la chiesa romanica di S. Faustino Maggiore a Brescia merita attenzione per via dell'impianto grandioso e dell'importanza del cenobio, di regola benedettina e obbedienza episcopale, fondato nell'841 da Ramperto tra le pendici ovest del colle Cidneo e il letto del Garza. Della fase primitiva restano solo i capitelli reimpiegati nel campanile e il gallo segnavento nel museo di S. Giulia. Già nel 1940 Gaetano Panazza aveva riconosciuto alla base del campanile e nel sottotetto sud resti della chiesa di xii secolo, verosimilmente quella consacrata nel 1152 dal vescovo Manfredo. Dallo scavo praticato nel 1957 per l'installazione di pannelli radianti era riemersa l'abside nord della cripta, con velario dipinto romanico ora non visibile. Ulteriori saggi di scavo e di stratigrafia dell'elevato, condotti fra 1988 e 2004 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia nel contesto della ristrutturazione del complesso ad uso universitario, hanno fornito ulteriori elementi per la restituzione della chiesa, mentre quasi nulla è riemerso degli ambienti monastici.

La struttura architettonica della chiesa risale interamente alla prima metà del Seicento, quando l'edificio fu profondamente rimaneggiato. Il discorso vale anche per il presbiterio e per il coro, che finirono sì bruciati nel 1743 ma non crollarono: di conseguenza, sono posteriori solamente le pitture e alcuni particolari decorativi, mentre la struttura in sé è ancora quella originale.

All'esterno la chiesa è visibile dalla pubblica via solamente sulla facciata e sul fianco sud, quest'ultimo liberato dai fabbricati preesistenti nel 1927 e pertanto evidente in tutta la sua lunghezza. La presenza di un tetto a spiovente intermedio mette in mostra l'impianto interno a tre navate, mentre i muri sono aperti da grandi finestroni a lunetta. Vicino alla zona absidale, sullo slargo antistante la fiancata della chiesa, si affaccia l'ex oratorio di San Giacomo, un tempo battistero della chiesa, connotato da una bassa facciata neoclassica. Dallo slargo si vede bene anche il campanile, mentre proseguendo si arriva alla facciata, orientata in senso parallelo alla via.

La facciata della chiesa è opera di Giuseppe Cantone che la progettò e realizzò fra il 1699 e il 1705 con successivi lavori di finitura conclusi nel 1711. È a ragione considerata la migliore opera dello scultore, specializzato principalmente nella costruzione di altari. L'opera è totalmente in marmo di Botticino. Si sviluppa su due livelli principali, uno di base più largo e uno superiore, più stretto. Il livello inferiore è decorato da una serie di lesene di ordine tuscanico, poggianti su un piedistallo unitario e reggenti una trabeazione il cui fregio è occupato dall'iscrizione dedicatoria che ricorda il fondamentale lascito di Orazio Fenaroli, il quale di fatto permise la costruzione della facciata. La parte centrale del livello inferiore, in linea con il superiore più stretto, sporge in leggero aggetto con un motivo a fronte di tempio, con quattro lesene di medesimo ordine tuscanico, trabeazione e frontone triangolare in sommità.

Le quattro lesene non sono equidistanti, ma l'intercolumnio centrale è più largo per accogliere il portale d'ingresso alla chiesa. Due colonne libere nuovamente tuscaniche, poggianti su un alto piedistallo, inquadrano l'apertura, mentre la trabeazione superiore è rivestita da una ricca decorazione a motivi vegetali. Segue un frontone ad arco ribassato subito spezzato per permettere l'elevazione di un ricco cimiero, decorato da putti, volute e motivi floreali. Nel riquadro centrale è posto il Martirio dei santi Faustino e Giovita di Santo Calegari il Vecchio, altorilievo in marmo con inserti di ferro, solitamente ricordato come uno dei grandi capolavori della scultura barocca bresciana. Di grande effetto, all'interno della scena, è la figura del boia completamente in rilievo, la cui spada sguainata, in ferro, sborda addirittura all'esterno della cornice. Nello spazio tra le due lesene a lato del portale, invece, sono collocate, entro nicchie, le statue dei due santi titolari, ancora opera di Santo Calegari. All'interno del frontone superiore, invece, è posto un ricco cartiglio barocco, uno fra i pezzi realizzati personalmente da Giuseppe Cantone.

Segue il secondo livello della facciata, che si imposta sul primo mediante un piedistallo unitario. In linea con la parte sottostante in aggetto si eleva il corpo principale del secondo livello, decorato da quattro lesene di ordine ionico sormontate da una trabeazione e da un frontone ad arco ribassato, che conclude la facciata. Nuovamente, le quattro lesene non sono equidistanti ma lo spazio centrale, più largo, è occupato da un finestrone decorato da una ricca cimasa, mentre i due spazi laterali ospitano altre due nicchie contenenti le statue di sant'Antigio a sinistra e sant'Onorio a destra. Le due opere sono attribuite alla bottega dei Calegari. I due livelli della facciata sono raccordati da due volute laterali molto appiattite e ribassate, invenzione del Cantone. Il grande frontone superiore è coronato da cinque pinnacoli a motivi architettonici e vegetali, fra i quali quello centrale, il più alto, è concluso da una croce in ferro.

Il campanile della chiesa, ben visibile all'esterno, è praticamente l'unica parte della chiesa che non sia stata toccata durante i lavori di ricostruzione condotti nel Seicento. Anche dall'incendio del 1743 la struttura esce fortunatamente intatta. Solamente nel 1937, in occasione del cinquecentesimo anniversario del miracolo del 1438, la torre verrà modificata attraverso un sovralzo, già auspicato da più di un secolo, che comporta anche una revisione delle aperture.

Risalendo al IX secolo, il campanile della chiesa dei santi Faustino e Giovita è il più antico della città. A questa fase appartiene tutto il primo strato in blocchi di medolo, una pietra biancastra locale. L'antica cella campanaria sovrastante in mattoni, invece, risale a un primo restauro del XII secolo e presenta due bifore sui lati corti, rivolti a est e ovest, e due trifore su quelli lunghi, a nord e a sud. Il campanile, infatti, è a pianta rettangolare. Solamente le due bifore, però, sono originali: quando nel 1937 fu effettuato il sovralzo, le bifore sui lati lunghi vennero restaurate e convertite in trifore, per rendere il profilo del campanile più armonioso. Tra le due colonnine di ripartizione, pertanto, solo una è originale e l'altra fu ricostruita appositamente.

Oltre l'antica cella campanaria si eleva quindi l'attuale, fabbricata come un antico paramento murario in blocchi di pietra e mattoni variamente disposti. Sul coronamento si aprono nuovamente due bifore sui lati corti e, invece, due quadrifore su quelli lunghi. Le aperture sono ricavate direttamente nella muratura, senza colonnine mediane di ripartizione. Copre la torre un tetto a leggerissima cuspide, sulla cui sommità è posta la copia del gallo di Ramperto.

L'interno della chiesa è notevolmente alto e ampio, caratteristica aiutata anche dall'effetto visivo dei due colonnati a serliana, che dilatano fortemente lo spazio. L'edificio si sviluppa su una pianta a tre navate senza transetto, la centrale più larga e alta e le laterali di dimensioni più ridotte. Sul fondo della navata centrale si alza su alcuni gradini il presbiterio, concluso dall'altare maggiore e seguito dal coro, che si risolve in un'abside piatta. Ai muri perimetrali delle navate laterali sono posizionati in totale cinque altari, tre a sinistra e solamente due a destra, poiché lo spazio centrale per il terzo altare ideale è occupato dall'ingresso secondario alla chiesa. Sulle testate di fondo delle due navate si aprono infine altre due cappelle.

Negli alzati, come già detto, la chiesa si caratterizza fortemente per l'utilizzo del motivo a serliana dei due colonnati divisori, costituito da colonne libere di ordine tuscanico. Le colonne non poggiano direttamente sulla pavimentazione, ma vi è frapposto un dado, inserito dal progettista Antonio Comino in risposta alle esitazioni delle maestranze locali che temevano di installare colonne troppo basse e staticamente pericolose. Le colonne, sei per lato, sono coerentemente proiettate sulle murature laterali mediante lesene. Le lesene sui muri delle navate laterali che rispondono a questa composizione, oltretutto, sono anteriori di una cinquantina d'anni rispetto al colonnato, essendo quelle già progettate e realizzate da Giovanni Maria Piantavigna alla fine del Cinquecento e in seguito riutilizzate allo scopo.

Al di sopra del colonnato corre una trabeazione correttamente decorata a metope e triglifi, che fa da imposta alla grande volta centrale di copertura. Si tratta di una particolare versione della volta a botte, cioè una volta a botte che alle due estremità diventa una volta a padiglione, richiudendosi su sé stessa evitando la presenza delle testate piatte. Le due navate laterali, invece, sono coperte da una serie di leggere volte a crociera. Il presbiterio e l'abside, invece, sono coperti da due volte a vela in sequenza.

Nella chiesa dei santi Faustino e Giovita sono custodite numerose opere di tipo pittorico e scultoreo, notevole testimonianza dell'arte bresciana di inizio Seicento in campo decorativo, pittorico e scultoreo, che raggiunge un livello di qualità particolarmente elevato in alcuni pezzi quali l'arca sepolcrale dei due santi titolari, gli altari di San Benedetto e della Natività, le cantorie e i confessionali. A queste opere si sommano poi gli affreschi del Sandrino e l'opera del Tiepolo, quest'ultima settecentesca. Praticamente assenti, invece, sono le testimonianze artistiche di epoche precedenti, ad esempio di arte gotica o arte romanica, del tutto scomparse dal tesoro artistico di San Faustino.

Tutti i soffitti dell'aula, sia della volta centrale, sia delle volte laterali, sono completamente affrescati con le architetture illusionistiche di Tommaso Sandrino, completate da scene di altri autori. L'esteso affresco sulla navata maggiore è composto da una balaustrata continua, sorretta da mensoloni, sulla quale poggiano possenti colonne tortili che reggono un finto soffitto, idealmente più alto e profondo di quello reale. La balaustra di base non è lineare, ma segue un continuo sali-scendi di finte scale che scavalcano le finestre a lunetta aperte alla base della volta. Il tutto è infine largamente arricchito da vari decori e motivi architettonici. Opera di Antonio Gandino e suo figlio Bernardino è il grande riquadro centrale, raffigurante la Gloria dei santi martiri Faustino e Giovita. Nell'affresco sono raffigurati i due santi mentre salgono al cielo al cospetto della Trinità, fra un tripudio di angeli musicanti. I due santi in ascesa indossano candide vesti trasparenti e svolazzanti e portano la stola alla maniera sacerdotale Faustino e diaconale Giovita, in modo da rendere specifica l'identità di ciascuno secondo i dati della tradizione.

Opera di Camillo Rama sono invece i quattro grandi riquadri a monocromo grigio posti sulla parete della navata centrale al di sopra delle colonne binate del colonnato a serliane. Raffigurano Episodi del leggendario viaggio dei santi Faustino e Giovita: il riquadro con la scritta "Brixiae" li mostra confortati da Gesù durante la loro prigionia, salvati dagli angeli nei riquadri con la scritta "Mediolani" E "Neapoli" e sottratti alle belve del Colosseo in quello con la scritta "Romae".

I soffitti delle navate laterali, coperte da volte a crociera in successione, sono affrescati da Tommaso Sandrino, che predispone spazi architettonici calibrati dove poter inserire i riquadri narrativi, opera invece di Camillo Rama e Antonio Gandino. Nella navata destra sono posti, partendo dalla controfacciata, Angeli in gloria con incensieri, il Martirio al cavalletto dei santi patroni, e un gruppo di Angeli musicanti. La navata sinistra, nella stessa sequenza, è decorata dalla Assunzione di Maria opera probabilmente di Ottavio Viviani, l'Ascensione di Gesù e San Benedetto in gloria.

Di Ottavio Amigoni sono le due grandi figure di San Gregorio Magno e Sant'Onorio affrescate sulla parete di contro-facciata, ai lati dell'ingresso principale.

La decorazione sulla volta e sulle pareti del presbiterio e del coro fu eseguita da Giandomenico Tiepolo e Girolamo Mingozzi dopo l'incendio del 1743, che aveva distrutto il ciclo di Lattanzio Gambara.

L'affresco del Tiepolo raffigura l'Apoteosi dei santi Faustino, Giovita, Benedetto e Scolastica: i quattro santi sono disposti lungo una linea comune che, dal basso, sale man mano verso l'alto seguendo una leggera curvatura nel tratto finale, culminando poi nei pressi del cielo, raffigurato al centro mediante uno sfondato prospettico. Per primo si trova san Faustino seguito da san Giovita, titolari della chiesa e patroni della città. La terza figura è san Benedetto, mentre santa Scolastica chiude la sequenza. Ogni santo è condotto al cielo da un intrico di angeli, nuvole e stendardi, ben evidenti attorno San Faustino, più labili man mano si sale, mentre altre figure celesti volano sparse attorno alla scena.

La figurazione, anziché essere risolta nel finto sfondato prospettico della volta a vela di copertura, dove è posto il cielo, fuoriesce mediante una ben organizzata soluzione, dove le nuvole del cielo, sulle quali volteggiano gli angeli, "coprono" con abile illusione prospettica un'estesa area della finta architettura circostante, cioè il cassettonato dell'intradosso dell'arcone che sostiene la volta, parte della trabeazione e delle cimase che fanno da perimetro allo sfondato prospettico centrale e anche una delle statue sui pennacchi. A contorno della scena centrale si trovano appunto queste decorazioni, parzialmente coperte, e le quattro finte statue, in cui sono rappresentati a monocromo i quattro Padri della Chiesa Latina: san Gregorio Magno, sant'Agostino, sant'Ambrogio e san Girolamo. La figura di quest'ultimo è quella coperta dalla "nuvola" che discende dal centro della volta ed è riconoscibile solamente attraverso il leone, simbolo del santo, che si intravede alla base del piedistallo fittizio.

L'opera di Giandomenico Tiepolo, oltre alla volta del presbiterio, comprende anche i due muri perimetrali sottostanti, dove il pittore pone due grandi affreschi incentrati su scene fondamentali del culto dei santi titolari: il Martirio dei santi Faustino e Giovita e l'Intervento dei santi patroni in difesa di Brescia assediata da Nicolò Piccinino. Il primo raffigura, appunto, l'istante in cui i due santi furono martirizzati, poco fuori dalle mura cittadine, il secondo l'apparizione dei due santi sugli spalti del Roverotto durante l'assedio del 1438, che mise in fuga l'esercito milanese guidato da Niccolò Piccinino.

Le decorazioni ad affresco delle pareti e del soffitto del coro sono opera di Girolamo Mingozzi detto il Colonna, realizzati molto probabilmente negli stessi anni in cui il Tiepolo lavorava sui muri adiacenti, dunque fra il 1754 e il 1755. L'ipotesi viene dedotta dal fatto che il finto cassettonato coperto dalle nuvole del Tiepolo è opera sua, quindi è verosimile che i due affreschi siano stati realizzati nello stesso momento. Gli altri dipinti del Mingozzi sono la finta cupola sorretta da colonne dipinta sulla volta a vela absidale, i quattro medaglioni con i simboli degli evangelisti nei finti pennacchi e la decorazione delle due pareti laterali, dove il pittore pone delle finte tribune munite di ringhiera e ante semiaperte, dalle quali si affacciano alcune figure. Sono anche presenti nuvole di consistenza tridimensionale, dotate di una propria ombra e con angeli svolazzanti, che circondano i vari elementi e fuoriescono dalle cornici, chiaro rimando alla grande decorazione illusoria del Tiepolo che si apre a pochi metri. Opera del Colonna è anche la decorazione delle pareti sotto le cantorie, dove dipinge realistiche nicchie contenenti finti cartigli in marmo recanti la figura di san Benedetto a sinistra e di santa Scolastica a destra, il tutto accompagnato ai lati da motivi geometrici e floreali.

La chiesa ospita sei altari laterali: cinque sono nelle navate, il sesto è nella cappella di fondo della navata sinistra. La cappella speculare, in testata alla navata destra, fa invece da battistero. Fra gli altari, due (San Benedetto e Crocifisso) risalgono alla prima metà del Seicento e, pertanto, al grande cantiere di ricostruzione della chiesa, due (Natività e Santissimo Sacramento) alla seconda metà del secolo, uno (Santa Maria in Silva) al Settecento e l'ultimo (Santa Croce) all'Ottocento.

L'Altare della Santa Croce viene costruito nel 1828, in sostituzione al precedente, per accogliere una reliquia della Vera Croce ceduta alla parrocchia nel 1826. Non è noto l'autore e l'attribuzione a Rodolfo Vantini non è supportata da fonti archivistiche, anche se è verosimile che, per un altare di ruolo così importante, sia stato chiamato il principale architetto bresciano dell'epoca. L'altare è impostato su linee marcatamente arte neoclassica e l'eleganza della composizione, già notevole per l'alternanza di breccia rosata e marmo bianco, è rafforzata dai numerosi inserti dorati che completano l'alta raffinatezza delle cromie. Il centro dell'ancona è occupato da una nicchia dove, chiuso da un'inferriata, è conservato il grande reliquiario a forma di crocifisso contenente la reliquia.

Quest'ultimo, fra l'altro, non è l'originale ma è stato fabbricato ex novo per l'altare: il reliquiario originale, risalente alla fine del Quattrocento, è conservato nel tesoro della chiesa. A coronamento dell'altare è invece posizionato un gruppo scultoreo di Gaetano Matteo Monti, con due angeli laterali inginocchiati e il Cristo risorto al centro, caratterizzato da un forte rigore accademico neoclassico.

L'altare della Natività è costituito da un grande apparato scenografico barocco, completamente assegnato alla mano di Santo Calegari il Vecchio. La composizione è molto imponente, dinamica ed elegante, sia per le soluzioni architettoniche adottate, sia per la profusione di marmi policromi. Fa da paliotto l'urna funeraria di sant'Antigio, con incisa la dedica "S. Antigy / Ep.", chiusa da un'inferriata. La pala dell'altare è invece la grande Natività di Gesù di Lattanzio Gambara, generalmente considerata tra i suoi capolavori.

La cappella in testata alla navata destra è il battistero della chiesa, ottenuto ricostruendo nel 1949 la precedente cappella dedicata a sant'Onorio. Al centro è collocato il fonte battesimale, realizzato nel 1952 dallo scultore Claudio Botta. Si tratta di una vasca cilindrica fasciata da un fregio continuo ad altorilievo, centrata sulla figura di Cristo che risorge dal sepolcro, la cui pietra è sollevata da quattro angeli.

Le tre pareti laterali erano state pensate per essere ricoperte da affreschi, infine mai realizzati. La parete sinistra ospita un dipinto di Amedeo Bocchi raffigurante Il battesimo di Gesù al Giordano, mentre sulla parete di fondo è appesa la pala dell'originario altare smontato nel 1949, opera di Bernardino Gandino e realizzata dopo il 1646, raffigurante sant'Onorio fra le nubi circondato da angeli al cospetto di membri della famiglia Calini, che aveva sostenuto economicamente il rifacimento della cappella nel Seicento. Davanti alla cappella, infatti, si trova ancora la lapide pavimentale del cardinale Lodovico Calini, principale finanziatore della ricostruzione. Nella cappella, dopo il 1601 e per circa un ventennio, rimase anche il trittico di sant'Onorio, trasferito al museo di Santa Giulia negli anni 1990.

La cappella del Crocifisso è in testata alla navata sinistra, dedicata alla crocifissione di Gesù, assume le caratteristiche oggi visibili durante i rifacimenti seicenteschi, rimanendo sostanzialmente immutato da allora. L'altare, abbastanza semplice e contenuto, ospita un crocifisso ligneo seicentesco, di concezione piuttosto mediocre. Aggiunta ottocentesca è invece lo sfondo a mosaico di tessere dorate con le figure di san Rocco e sant'Antonio di Padova. L'altare sottostante reca come paliotto un'urna funeraria contenente reliquie di martiri non identificati provenienti dai vari altari che occupavano l'antica chiesa. Sopra la mensa, invece, è collocata l'urna con i resti di sant'Onorio, qui spostata nel 1949 dalla cappella opposta che veniva trasformata in battistero. Nella cappella sono infine conservate altre due reliquie, tratte dai resti dei santi patroni Faustino e Giovita e custodite nell'urna dei Santi Patroni, un elaborato reliquiario fatto costruire appositamente nel 1925 e collocato in un vano incassato nella parete destra della cappella. Ogni anno, il 15 febbraio, alla festività dei due santi, il reliquiario viene estratto e posizionato al centro della navata centrale.

Le pareti della cappella sono decorate da numerosi riquadri ad affresco con scene narrative legate alla vita di Gesù. Gli autori sarebbero nuovamente Tommaso Sandrino per le finte cornici architettoniche e Antonio Gandino e Camillo Rama per le scene raffigurate. Tutti i dipinti, comunque, sono stati restaurati e completati da Vittorio Trainini e dal figlio Giuseppe tra il 1923 e il 1930. L'altare della cappella è al centro di un'inconsueta tradizione popolare: siccome il teschio di sant'Onorio presenta una frattura verticale, per tradizione si vuole che la sua devozione porti sollievo al mal di testa. È quindi consuetudine, soprattutto durante la festività dei santi patroni, che i fedeli preghino all'altare infilando la testa in una delle due nicchie che si aprono sui fianchi dell'altare, a quanto pare da sempre utilizzate per questo scopo.

L'altare di San Benedetto viene costruito nel 1649 con il proposito di potervi trasferire la reliquia del braccio del santo, portata a Brescia secoli prima dall'abbazia di Montecassino. La reliquia, in realtà, non verrà mai traslata nell'altare a causa della morte, avvenuta l'anno successivo, dell'abate Orazio Barbisoni, principale promotore dell'iniziativa. L'altare, pertanto, viene destinato ad accogliere reliquie di altri santi benedettini, fra cui la mascella di San Placido. L'altare, molto scenografico, è opera dello scultore Giovanni Carra, figlio di Giovanni Antonio Carra. L'elegante cromia dell'altare è interamente impostata su una sapiente alternanza di marmo nero e bianco, che ne accresce la singolarità.

Nel grande riquadro centrale è posizionata la forse più singolare pala nella storia artistica cittadina: una statua di San Benedetto inginocchiato e orante, con ai piedi il bastone pastorale, la mitria e un corvo che offre al santo un pane tenuto nel becco. Sul fondale della nicchia è posto un affresco raffigurante un volo d'angeli e l'abbazia di Montecassino, opera di Sante Cattaneo, il quale si sarebbe però limitato a ridipingere un identico tema già presente.

La costruzione della Cappella del Santissimo Sacramento, di competenza della Scuola del Santissimo Sacramento anticamente attiva nella chiesa, seguì un percorso molto lungo e ricco di vicende, durato quasi ottant'anni, dall'inizio agli ultimi anni del Seicento. Ciò fu dovuto soprattutto alle quattro, grandi colonne che lo adornano, le quali, secondo i desideri della Scuola, sarebbero dovute essere blocchi monolitici. Tutti gli obiettivi, alla fine, furono raggiunti e l'altare poté essere finalmente inaugurato nel 1696. Alla costruzione dell'altare partecipò anche Giuseppe Cantone, l'architetto della facciata della chiesa. L'apparato è, nel complesso, molto semplice, ma la preziosità viene ritrovata nei finissimi intarsi a marmi multicolori del tabernacolo e del paliotto, dove sono utilizzate anche numerose gemme. Opera di Giovanni Carra e del fratello Carlo, invece, sono le due statuette raffiguranti i santi patroni a lato del paliotto.

La pala dell'altare della cappella era originariamente il Compianto sul Cristo morto eseguito tra il 1520 e il 1530 dal Romanino, requisito nel 1797 e infine andato distrutto nel 1945. Al suo posto, nel 1808 viene commissionata una tela sostitutiva a Sante Cattaneo, che esegue la Deposizione di Cristo tuttora presente e collocabile fra le sue migliori opere. Nella cappella, appeso sulla parete, trovava posto anche lo stendardo del Santissimo Sacramento sempre del Romanino, dal 1965 esposto altrove . Alle pareti della cappella sono appese due tele ottagonali: a destra l'Incontro di Abramo con Melchisedek attribuito a Pietro Avogadro e, a sinistra, la Raccolta della manna di anonimo del Seicento.

L'Altare di Santa Maria in Silva è dedicato a Santa Maria in Silva piuttosto che alla sola Madonna è in omaggio all'intitolazione che la chiesa aveva alle sue origini. L'altare viene costruito durante la prima metà del Settecento in sostituzione del precedente, in legno, e completato nel 1726. Si compone di un grande apparato scenografico, estremamente ricco di dettagli e motivi decorativi, caratteristica tipica del barocco settecentesco. Il materiale utilizzato è prevalentemente breccia rossa con incorniciature in marmo bianco che, assieme alle dorature e ai numerosi intarsi, offre un risultato cromatico assolutamente notevole. Gli inserti scultorei più importanti dell'altare sono assegnabili alla mano di Antonio Calegari, mentre il resto è attribuibile alla sua bottega.

Di pregevolissima fattura e concezione è la statua della Madonna con il Bambino e San Giovanni Battista attorno alla quale ruota l'intero apparato, opera di Paolo Amatore, artista vissuto all'inizio del Seicento dalla biografia abbastanza vaga. La statua, pertanto, non viene realizzata assieme all'altare, ma è precedente, mantenuta perché legata a una forte venerazione. L'opera, in legno intagliato dorato e dipinto, raffigura la Madonna con in braccio il Bambino, mentre ai piedi è posto il diavolo, che la Madonna sta calpestando con assoluta indifferenza. A lato si trova invece san Giovanni Battista fanciullo, anch'egli con un piede sul demonio. Questo San Giovanni, però, sarebbe un'aggiunta ottocentesca. Il paliotto della mensa è decorato da due statuette in marmo raffiguranti i profeti Isaia e Osea: le due sculture furono trafugate nel 1975 e vennero pertanto sostituite da copie. In seguito, gli originali furono fortunatamente recuperati, ma non più ricollocati: le statuette visibili sull'altare, quindi, sono ancora le due copie.

Il grande sepolcro, che fa da altare maggiore alla chiesa, è opera dello scultore Giovanni Antonio Carra, che la realizzò fra il 1617 e il 1622 in sostituzione alla precedente. Ancora oggi, l'arca contiene i resti dei santi Faustino e Giovita, titolari della chiesa e patroni della città. Il gusto decorativo del sepolcro è pienamente barocco e la sua elevata qualità artistica e compositiva ne fanno un'opera d'arte assolutamente pregevole. L'arca, data la sua funzione di custodia delle reliquie dei due santi patroni di Brescia, possiede in aggiunta un forte significato religioso. È principalmente in marmo di Carrara variamente intarsiato con marmo nero e altre pietre multicolori. Sull'estrema sommità reca le figure in bronzo dei santi patroni sovrastati da una croce a doppia traversa, su modello della reliquia della Santissima Croce conservata nel tesoro delle Sante Croci del Duomo vecchio. Sul coperchio siedono invece due figure allegoriche femminili in marmo di Carrara, non identificate da attributi connotativi, ma che dovrebbero raffigurare, a quanto emerge dai documenti, la Fortezza e la Fede.

Al centro dell'arca, sia sul fronte sia sul retro, sono posti due tondi in marmo nero circondati da un fregio, sui quali spiccano, a caratteri d'oro, le iscrizioni celebrative dei due santi martiri. Fanno poi da ali all'arca quattro statue originariamente concepite come sostegno del baldacchino che coronava la composizione, distrutto dall'incendio del 1743. Le due più esterne raffigurano la Fede a sinistra e la Speranza a destra, mentre le due interne, recanti solamente una corona d'alloro e una foglia di palma, possono essere identificate come Vittorie, a motivo delle palme e delle corone che reggono, il che sarebbe un'iconografia più adatta ad esaltare la gloria del martirio.

Il gallo di Ramperto è un galletto segnavento realizzato nell'anno 820 o 830 per adornare la sommità del campanile della chiesa su commissione del vescovo Ramperto, da cui il nome, probabilmente come dono a quella comunità religiosa che già si stava formando attorno al culto dei patroni e che, circa vent'anni più tardi, formalizzerà fondando il monastero. Il gallo viene rimosso dalla sua postazione solo nel 1891, dopo più di mille anni, per essere restaurato e conservato nel museo cittadino, il Museo di Santa Giulia, dove ancora si trova.

L'opera ha attraversato i secoli quasi indenne: solamente la piume della coda, in origine molto più folte, sono oggi poche e diradate, a causa dei danni provocati dai soldati francesi che, nella seconda metà dell'Ottocento, nel monastero ormai ridotto a caserma, si divertivano a sparare contro il gallo in cima al campanile. Ciò ha portato alla perdita dell'iscrizione dedicatoria fatta apporre da Ramperto proprio sulle piume, iscrizione che fortunatamente era già stata ricopiata più volte dal Quattrocento in poi. Risalendo all'inizio del IX secolo, il "gallo di Ramperto" può essere considerato il più antico galletto segnavento esistente.

Opera di pregevolissima qualità artistica è lo stendardo processionale del Santissimo Sacramento, realizzato dal Romanino tra il 1535 e il 1540 per i membri della scuola del Santissimo Sacramento attiva nella chiesa, dove disponeva dell'omonimo altare, il secondo a sinistra. La tela è dipinta su entrambi i lati: su uno è raffigurata la scena della Risurrezione, sull'altro la Messa di Sant'Apollonio. Lo stendardo veniva issato su un'asta e portato annualmente in processione durante la festività del Corpus Domini. Dopo essere stato custodito per secoli nella cappella del Santissimo Sacramento, dal 1965, terminato un accurato restauro, si trova appeso tramite sostegni fra due colonne della navata sinistra della chiesa, in modo che siano visibili entrambi i lati. Nella cappella, infatti, era semplicemente appeso alla parete, il che avrebbe sempre impedito la vista di una delle facce.

Sulla parete di controfacciata della navata destra è appesa l'Apparizione dei santi Faustino e Giovita durante l'assedio di Brescia da parte di Nicolò Piccinino, tela di Grazio Cossali datata 1603 che riprende nuovamente il tema del miracolo avvenuto nel 1438 sugli spalti del Roverotto, lo stesso riproposto da Giandomenico Tiepolo un secolo e mezzo più tardi nell'affresco sinistro del presbiterio. La scena del Cossali, comunque, è solitamente la più nota fra le due poiché tradizionalmente utilizzata per simboleggiare e richiamare l'evento.

La notevole fama del dipinto è dovuta soprattutto al fatto che, fino alla prima metà del Novecento, si era soliti appenderlo sulla fiancata esterna meridionale della chiesa il 15 febbraio, in occasione della festività dei due santi patroni. Ancora oggi la tradizione viene mantenuta, ma la tela esposta è solamente una copia. Anzi, almeno fino al Settecento il quadro trovava esposizione stabile sul muro esterno della Disciplina abbattuta nel 1927, come segnalano tutte le antiche guide della città: sarà trasportato all'interno della chiesa dopo la soppressione della Disciplina nel 1797.

L'opera del Cossali si pone a un gradino un poco inferiore rispetto alle sue migliori, dove però ciò che è perso nelle forti sproporzioni e nell'effetto complessivo un poco mediocre è recuperato nell'attenta tecnica esecutiva e nell'ottima resa della scena di battaglia, con trombe, cannonieri, cavalieri alla carica, terrapieni e fumo di polveri.

Il crocifisso quattrocentesco, posizionato a destra dell'accesso al presbiterio, è opera di ignoto maestro intagliatore della fine del Quattrocento. La fattura del manufatto ligneo denota grande maestria tecnica e capacità di resa sentimentale: le membra di Gesù sono ferme e pacate e sulla scultura vige una forte simmetria, ben evidente nell'identica regolarità delle due braccia divaricate.

Anche le gambe sono parallele e si incrociano solamente sulla sovrapposizione dei piedi. Ben reso è il ventre contratto, con le ossa del costato prominenti. Anche il velo legato alla vita è statico, aderente e privo di svolazzi, rafforzando il senso generale di simmetria e calma infuso nel corpo del Cristo martirizzato.

Sulla cantoria alle spalle dell'altare maggiore, si trova l'organo a canne Serassi opus 567, costruito nel 1843 in luogo di uno strumento settecentesco del quale ha mantenuto la cassa. Lo strumento è stato restaurato dagli stessi costruttori nel 1860 e, nel corso dei secoli XIX e XX, ha subito una serie di interventi e modifiche. Nel 1986, l'organo è stato restaurato dalla ditta organaria Pedrini che lo ha riportato alle caratteristiche originarie.

La cassa, dipinta in modo molto accurato per simulare il marmo, è di carattere monumentale. Nonostante l'apparente funzione secondaria di incorniciatura delle canne dell'organo, l'apparato ligneo svolge un ruolo importante nel completamento dei molti elementi che concorrono a creare la bellezza e l'armonia del presbiterio. La fabbricazione della grande ancona può essere ascritta a Giovanni Battista Carboni, comprese le quattro statue di coronamento, il tutto molto vicino all'accuratezza e alla plasticità delle opere di Antonio Calegari.

Lo strumento è a trasmissione integralmente meccanica e presenta una consolle a finestra che ha un'unica tastiera di 66 note con prima controttava scavezza e pedaliera concava di 27 note.

La lunetta di Giuseppe Teosa è la bussola lignea dell'ingresso laterale, fabbricata nel 1831, è arricchita da un dipinto di Giuseppe Teosa, un monocromo giallo a lunetta raffigurante l'episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio. Il Teosa costruisce dettagliatamente ogni figura, generandone una fitta serie ben caratterizzata dalle linee neoclassiche, anche con tipologie direttamente estratte dall'arte romana, come nel caso di venditore di pecore in primo piano, sull'estrema destra. Non mancano comunque le citazioni cinquecentesche, leggibili nelle posture concitate dei mercanti in fuga.
I quadri sopra i confessionali, che si trovano nelle navate laterali, entro elaborate cornici in stucco sopra i confessionali, sono appesi quattro quadri raffiguranti santi e sante in atteggiamento penitenziale. Sulla parete di destra si trovano San Pietro di Gian Giacomo Barbelli e San Girolamo di Andrea Terzi, mentre a sinistra sono pose Santa Maria Maddalena ancora del Barbelli e Santa Maria Egiziaca di Bernardino Gandino. Le quattro tele, tutte eseguite ai primi del Seicento, fanno evidentemente parte di un progetto decorativo comune, commissionato per abbellire gli spazi murari al di sopra dei confessionali. Sopra l'ingresso principale, sul muro di controfacciata, è appesa una grande tela di Giovanni Carobio raffigurante San Giovanni de Matha paga il riscatto per la liberazione degli schiavi. Non è questa la collocazione originale del dipinto, poiché le guide antiche attestano che si trovava sul muro di controfacciata della navata sinistra, occupato dall'inizio dell'Ottocento dal'Incredulità di San Tommaso di Marco Richiedei. La prima fonte che lo indica nella posizione attuale è Francesco Maccarinelli, che lo vede nel 1747. Anche l'attribuzione del dipinto è stata più volte riconsiderata nei secoli: l'assegnazione alla mano di Giovanni Carobio, accettata anche dalla critica odierna, la si deve a Giovanni Battista Carboni, che ne parla nel 1760. Stesso discorso anche per il giudizio artistico: Carlo Marenzi, nel 1825, non esitava a definirlo "pittore di nessun merito", mentre Antonio Morassi, nel 1939, esprimeva vivo apprezzamento per l'opera. Il dipinto, in ogni caso, si colloca fra le prime opere note dell'autore e, di conseguenza, è molto importante per ricostruire il suo "iter" artistico. La critica contemporanea, inoltre, è più propensa a rivalutare sia la qualità artistica della tela, sia la validità del pittore.
Sulla parete di controfacciata della navata sinistra trova collocazione l'Incredulità di san Tommaso di Marco Richiedei. La tela era originariamente la pala dell'altare maggiore della chiesa di San Tommaso, in via Pulusella, dove è sempre stato descritto dalle antiche guide di Brescia, soffermandosi piuttosto sull'identità dell'autore, abbastanza vaga, anziché sul dipinto. Dismesso l'oratorio nel 1836, la tela viene posizionata dove ancora oggi si trova. Altre due tele provenienti dalla stessa chiesa sono conservate una nell'attigua chiesa di San Giacomo, mentre l'altra, la Comunione degli Apostoli di Giuseppe Amatore, nel Museo diocesano di Brescia.
Le cantorie sono posizionate sulle pareti laterali del presbiterio, sotto i due affreschi di Giandomenico Tiepolo. I due manufatti sono in legno dorato e riccamente intagliato, con parapetto decorato da lesene a telamoni che incorniciano numerose tele, sette per cantoria. Nell'intradosso di entrambe è incisa la data 1735, mentre i dipinti, di qualità molto buona, sono assegnabili al Seicento e, in particolare, ad Antonio Gandino, secondo la proposta avanzata da Antonio Morassi e accettata anche dalla critica odierna. Cantorie e tele, pertanto, sono state eseguite in due momenti diversi e comunque prima dell'incendio del 1743, che evidentemente non le danneggiò. Tutti i vari busti di sante, santi e vescovi che vi sono raffigurati sono caratterizzati da impeccabile esecuzione pittorica, grande concentrazione spirituale e accesa devozione fissata nei loro gesti e atteggiamenti tipizzanti. Anche i due riquadri centrali sono caratterizzati dalla stessa attenzione esecutiva e presentano come sfondo paesaggi prospettici di notevole ampiezza, molto luminosi, con eleganti inserti architettonici a contorno.
Il Monumento commemorativo a Giovanni Battista Lurani Cernuschi è collocato nell'intercolumnio più vicino al presbiterio del colonnato destro. Il prevosto resse la parrocchia dal 1820 per ben sessantacinque anni, fino al 1884, con molto zelo e profusione del proprio patrimonio: ottenne per la chiesa la reliquia della Santa Croce requisita al soppresso monastero di Santa Giulia e fece costruire un nuovo altare ad essa dedicato, sovvenzionò la costruzione di un pulpito (rimosso durante il Novecento) e acquistò, per poi donarli alla chiesa, numerosi arredi e paramenti liturgici. Il monumento, inaugurato nel 1889, è opera dell'architetto Antonio Tagliaferri, mentre il busto in sommità è stato fabbricato dallo scultore Francesco Giacomo Pezzoli. Il basamento ospita due grandi lastre di marmo nero recanti una lunga iscrizione dedicatoria e celebrativa, in italiano sul lato anteriore, verso la navata centrale, e in latino sul retro.
I quattro confessionali originali della chiesa, realizzati all'inizio del Seicento, sono incassati nelle pareti laterali, due per ogni navata, nei tratti di muro fra le cappelle. Sono in legno di noce intagliato, di dimensioni ridotte e poco profondi. Essendo collocati sotto i quattro dipinti già citati dei pittori Barbello, Gandino e Terzi, appaiono come punto di riferimento per questi ultimi nelle guide dell'epoca, a partire da Bernardino Faino, che li vede nel 1630. I quattro manufatti si presentano principalmente come apparati architettonici, con i tre vani per ospitare i confessanti e il confessore, lesene, trabeazione e frontone triangolare, il tutto completato da varie decorazioni e da due grate di fine intaglio, poste sopra i vani laterali per pareggiare l'altezza con il vano centrale, più alto. Sugli spioventi del frontone sono posizionate due figure allegoriche, mentre sul vertice siede un piccolo angelo.
All'inizio della navata centrale, accanto all'ingresso principale, sono posizionate due acquasantiere in marmo rosso di Verona a sfumature gialle e rosa, fabbricate durante la ricostruzione della chiesa e risalenti quindi all'inizio del Seicento. Il basamento appoggia su quattro zampe di leone, la colonnina segue un profilo ad anfora e il catino è piatto e molto espanso, con effetto d'insieme molto equilibrato.
Alla fine del Novecento, con il recupero dell'attigua chiesa di San Giacomo, ex battistero, come sala polivalente per le attività parrocchiali, trovano in essa collocazione definitiva alcune opere facenti parte del patrimonio artistico della chiesa, altrimenti non esposte altrove. Si tratta di una Crocifissione di pittore anonimo del XV secolo, una Madonna col Bambino tra i santi Giacomo il Maggiore e Anna di pittore bresciano della seconda metà del XVI secolo, il San Luigi Gonzaga adora il Crocifisso di Pietro Scalvini, dalla chiesa di San Giorgio, e l'ultima tela proveniente dalla chiesa di San Tommaso, oltre alle già citate del Richiedei e dell'Amatore, cioè il San Filippo Neri invita i fanciulli a venerare la Madonna di Liberale Cozza.

Nei locali annessi alla chiesa è conservato un notevole tesoro composto da oggetti liturgici, reliquiari e paramenti. Fra i numerosi pezzi si ricorda in particolare la Croce di San Faustino, cioè il reliquiario dove era contenuto il frammento della Vera Croce acquisito dalla chiesa nel 1828. Fra gli altri pezzi si ricordano calici, ostensori, servizi per incensazione e abluzione, candelabri, candelieri, insegne processionali, reliquiari, pianete e tovaglie d'altare, tutti eseguiti principalmente tra il Seicento e l'Ottocento[134]. Tra questi spicca il calice del Mistero Eucaristico, raffinata opera del 1823 dell'orefice e scultore milanese Eugenio Brusa.

Fa parte del tesoro anche l'urna dei Santi Patroni, un reliquiario eseguito nel 1925 per contenere i due femori dei santi estratti dall'arca nel 1923. L'urna è custodita direttamente nella chiesa, in una nicchia laterale della cappella del Crocifisso.


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venerdì 1 maggio 2015

I SANTI PATRONI DI BREBBIA : PIETRO E PAOLO

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Dopo che si fu manifestato risorto ai suoi discepoli,  quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. 
E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Gv 21,15-19

Due apostoli e due personaggi diversi, ma entrambi fondamentali per la storia della Chiesa del primo secolo così come nella costruzione di quelle radici dalle quali si alimenta continuamente la fede cristiana. Pietro, nato a Betsaida in Galilea, era un pescatore a Cafarnao. Fratello di Andrea, divenne apostolo di Gesù dopo che questi lo chiamò presso il lago di Galilea e dopo aver assistito alla pesca miracolosa. Da sempre tra i discepoli più vicini a Gesù fu l'unico, insieme al cosiddetto «discepolo prediletto», a seguire Gesù presso la casa del sommo sacerdote Caifa, fu costretto anch'egli alla fuga dopo aver rinnegato tre volte il maestro, come questi aveva già predetto. Ma Pietro ricevette dallo stesso Risorto il mandato a fare da guida alla comunità dei discepoli. Morì tra il 64 e il 67 durante la persecuzione anticristiana di Nerone. San Paolo, invece, era originario di Tarso: prima persecutore dei cristiani, incontrò il Risorto sulla via tra Gerusalemme e Damasco. Baluardo dell'evangelizzazione dei popoli pagani nel Mediterraneo morì anch'egli a Roma tra il 64 e il 67.

Simone, figlio di Giona e fratello di Andrea, primo tra i discepoli professò che Gesù era il Cristo, Figlio del Dio vivente, dal quale fu chiamato Pietro. Paolo, Apostolo delle genti, predicò ai Giudei e ai Greci Cristo crocifisso. Entrambi nella fede e nell’amore di Gesù Cristo annunciarono il Vangelo nella città di Roma e morirono martiri sotto l’imperatore Nerone: il primo, come dice la tradizione, crocifisso a testa in giù e sepolto in Vaticano presso la via Trionfale, il secondo trafitto con la spada e sepolto sulla via Ostiense.

Il 29 di giugno la Chiesa commemora la solennità liturgica degli Apostoli.

Simone era un pescatore di Betsaida (Lc 5,3; Gv 1,44), che si era più tardi stabilito a Cafarnao (Mc 1,2 1.29). Il fratello Andrea lo introduce al seguito di Gesù (Gv 1,42); ma probabilmente Simone era stato preparato a questo incontro da Giovanni Battista. Il Cristo gli cambia nome e lo chiama «Pietra» (Mt 16,17-19; Gv 21,15-17), per realizzare nella sua persona il tema della pietra fondamentale. Simon Pietro è uno dei primi testimoni che vede la tomba vuota (Gv 20,6) ed ha una speciale apparizione di Gesù risorto (Lc 24,34).
Dopo l’ascensione egli prende la direzione della comunità cristiana (At 1,15; 15,7), enuncia le linee programmatiche della Buona Novella (At 2,14-41) e, per diretto intervento dello Spirito Santo, è il primo a prendere coscienza della necessità di aprire la Chiesa ai pagani (At 10—11).
Questa missione spirituale non lo libera dalla condizione umana, né dalle deficienze dei suo temperamento (cf, ad es.: Mt 14,30; Gv 13,6; 18,10).
Paolo non esita a contraddirlo nella famosa discussione di Antiochia (At 15; Gal 2,11-14), per invitarlo a liberarsi dalle pratiche ebraiche. Pare infatti che su questo punto Pietro abbia tardato ad aprire lo spirito e che egli tendesse a considerare i cristiani di origine pagana come una comunità inferiore a quella dei cristiani di origine ebraica (At 6,1-2). Quando viene a Roma, Pietro diviene l’apostolo di tutti. Allora egli compie pienamente la sua missione di «pietra angolare», riunendo in un solo «edificio» i Giudei ed i pagani e suggella questa missione con il suo sangue.

Paolo, dopo la conversione sulla strada di Damasco, percorre, in quattro o cinque viaggi, il Mediterraneo. Fa il primo viaggio in compagnia di Barnaba (At 13—14): partono da Antiochia, si fermano nell’isola di Cipro e poi percorrono l’Asia Minore, l’attuale Turchia. Dopo il convegno degli apostoli a Gerusalemme, Paolo inizia un secondo viaggio, questa volta espressamente quale «inviato» dei «Dodici» (At 15,36—18,22). Riattraversa l’Asia Minore, evangelizza la Frigia e la Galazia ove si ammala (Gal 4,13). Passa poi in Europa assieme a Luca e fonda la comunità di Filippi (Grecia settentrionale). Dopo un periodo di prigionia evangelizza la Grecia: ad Atene la sua missione si incaglia davanti ai filosofi; a Corinto fonda la comunità che gli dà più fastidi. Poi rientra ad Antiochia.
Un terzo viaggio (At 18,23—21,17) lo riporta alle Chiese fondate nella attuale Turchia, specialmente a Efeso, poi in Grecia e a Corinto. Di passaggio a Mileto, annuncia agli anziani le sue prove imminenti. Infatti, poco dopo il suo ritorno a Gerusalemme, è arrestato dagli Ebrei e imprigionato (At 21). Essendo cittadino romano, Paolo si appella a Roma.
Intraprende così un quarto viaggio, verso Roma, ma non più in stato di libertà (At 21—28). Raggiunge Roma verso l’anno 60 o 61; è trattenuto in prigione fin verso il 63; intanto, approfittando di alcune facilitazioni, entra in frequente contatto con i cristiani della città e scrive le « lettere della prigionia ».
Liberato dalla prigione nel 63, compie, probabilmente, un ultimo viaggio in Spagna (Rm 15,24-28) o verso le comunità dirette da Timoteo e da Tito, ai quali scrive delle lettere che lasciano intravedere la sua prossima fine. Arrestato e di nuovo imprigionato, Paolo subisce il martirio intorno all’anno 67.

Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro.
Il Signore Gesù scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l'incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l'intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l'intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell'universalità e dell'unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E' ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un'altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l'incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l'unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell'amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell'amore ciò che avevi legato per timore.
E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.




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mercoledì 29 aprile 2015

LA CHIESA DEI SANTI FILIPPO E GIACOMO A LAVENO

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Chiamata "Chiesa Vecchia" sorge sul luogo di una cappella degli inizi del 300. La navata centrale è del 600, quella laterale e la facciata dell'800. Bello il campanile in stile romanico lombardo. Ai lati del portale le statue dei Santi patroni.

Le prime testimonianze dell’esistenza della Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo di Laveno risalgono al 1315. La sua posizione centrale rispetto all’abitato ha fatto sì che la chiesa venisse utilizzata per battesimi e altri sacramenti, nonostante non fosse la parrocchia principale.

La struttura originaria dell’edificio era piuttosto semplice, composta da una sola navata; nel 1832 venne aggiunta una navata laterale conferendo alla chiesa una pianta asimmetrica, che oggi si presenta con due navate in stile neoclassico.

All’interno la chiesa conserva una statua lignea del Seicento dedicata alla “Madonna del Transito” e una serie di affreschi presenti sulla volta realizzati nel 1907.  Di grande pregio è l’organo, realizzato nel 1825 dal varesino Eugenio Biroldi, utilizzato per ben tre anni consecutivi in occasione della manifestazione musicale “Settimane musicali di Stresa e del Lago Maggiore”.

All’esterno è presente un campanile a punta “alla lombarda”, dotato di una cella campanaria in stile neo-romanico e di una cuspide conica. Secondo recenti lavori di restauro, è stato costruito in diversi stadi: nel 1898 il campanile è stato rialzato e misura all’attuale circa trenta metri.

I santi Filippo e Giacomo sono i patroni del paese e la Festa Patronale ha luogo il 3 maggio.



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