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venerdì 12 giugno 2015

IL FORO ROMANO A BRESCIA



Nel cuore storico di Brescia sono presenti consistenti resti archeologici relativi agli edifici monumentali dell’area capitolina della città antica.
In età romana Brescia – Brixia - era infatti una delle città più importanti dell’Italia settentrionale, situata lungo la cosiddetta via Gallica (arteria che collegava alcuni tra i più significativi centri di origine celtica a nord del Po), allo sbocco di vallate alpine di antico insediamento (la Valle Camonica e la Valle Trompia), tra il lago d’Iseo e il lago di Garda, e immediatamente a nord di una fertile ed estesa area di pianura, valorizzata a partire dall’età augustea con imponenti lavori di organizzazione agraria (centuriazioni).

Nell’area archeologica situata al centro del tessuto urbano sono ancora visibili gli edifici più antichi e più significativi della città: il Santuario di età repubblicana (I secolo a. C.), il Capitolium (73 d. C.), il Teatro (I-III secolo d. C.), il tratto del lastricato del decumano massimo, su cui insiste oggi via dei Musei. L’area si apre inoltre sull’odierna Piazza del Foro, che conserva vestigia della piazza di età romana (I secolo d. C.).
Resti archeologici (foro e impianto termale; basilica) sono inoltre visitabili al di sotto di palazzo Martinengo, oggi sede della Provincia. Oltre a questi edifici di età romana, fanno parte dell’area anche palazzi nobili di età medievale, rinascimentale e moderna, che “salgono” direttamente dalle rovine antiche (Palazzo Maggi Gambara e Casa Pallaveri, entrambi di proprietà comunale).

In questa zona ben circoscritta della città si legge quindi una stratigrafia ininterrotta di testimonianze che si estendono dal II secolo a. C. sino all’Ottocento. Nel 1830, a seguito di scavi intrapresi in quest’area, nel Capitolium fu posta la sede del Museo Patrio, primo museo cittadino a inaugurare la vocazione museale di quest’area.

Dal 1998, è stato avviato un progetto organico di recupero dell’area archeologica del Capitolium. Esso consiste nell’approfondimento delle conoscenze in merito all’area nel suo completo recupero archeologico e architettonico, nella sua valorizzazione e nella completa e definitiva apertura alla fruizione pubblica. Tale apertura, oltre a restituire al pubblico la più importante porzione urbana della città di epoca antica, va a costituire il completamento degli itinerari museali del Museo della città, allestito nel vicino complesso monumentale di Santa Giulia, e di un percorso archeologico tra i più significativi e meglio conservati d’Italia, riconosciuto Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO con il sito I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d. C.).

Il Capitolium o Tempio Capitolino è un tempio romano, il nucleo dell'antica Brixia romana.

La costruzione dell'edificio è da attribuire a Vespasiano, nel 73 d.C.. La sua "paternità" è confermata dalla scritta originale riportata sul frontone: IMP. CAESAR.VESPASIANUS.AUGUSTUS. / PONT. MAX. TR. POTEST. IIII. EMP. X. P. P. CAS. IIII / CENSOR

Il tempio fu realizzato sopra un precedente tempio repubblicano e la sua edificazione si deve alla vittoria dell'Imperatore sul generale Vitellio, nella pianura tra Goito e Cremona. Distrutto da un incendio durante le incursioni barbariche che afflissero l'Europa nel IV secolo d.C. e mai più ricostruito, venne sepolto da uno smottamento del colle Cidneo durante il medioevo. Il tempio fu riportato alla luce solamente nel 1823 grazie all'appoggio del Comune di Brescia e dell'Ateneo, che demolirono le case popolari e il piccolo parco (Giardino Luzzaghi) realizzati anni prima sul terreno ormai spianato al di sopra della costruzione, riportando alla luce l'antico centro della Brixia romana.

Nel 1826, oltretutto, nell'intercapedine del muraglione che isola il tempio dal Colle Cidneo il gruppo dei bronzi romani, comprendente i quattro ritratti di epoca tardo-imperiale e la famosa Vittoria Alata, più altri oggetti, il tutto probabilmente seppellito per nasconderlo alla sistematica distruzione degli idoli pagani da parte dei cristiani. Il complesso fu parzialmente ricostruito fra il 1935 e il 1938 attraverso l'utilizzo di laterizi, i quali permisero la ricomposizione delle colonne corinzie, di parte del pronao e delle tre celle posteriori alla facciata. Il progetto avrebbe dovuto essere più ampio: si sarebbero infatti dovuti demolire praticamente tutti gli edifici che occupavano lo spazio del foro (tranne il Palazzo Martinengo e la chiesa di San Zeno al Foro) fino all'antica basilica in Piazza Labus, scavare fino all'originario livello del terreno e restaurare o ricostruire la maggior parte delle colonne del porticato attorno alla piazza. Sarebbero quindi stati posizionati dei ponti di collegamento per permettere una panoramica delle rovine dall'alto (la stessa Via Musei sarebbe diventata, in quel tratto, niente più che un ponte) con delle scale che vi scendevano in più punti. Il progetto non fu mai totalmente messo in pratica e ci si limitò a mettere a nudo e ristrutturare l'unica colonna del foro ancora integra, ancora oggi ben visibile in Piazza del Foro.

Alcuni elementi strutturali che affioravano dal terreno furono riutilizzati come materiale da costruzione, ad esempio le formelle che probabilmente decoravano il soffitto del pronao, reimpiegate nella facciata della chiesa del Santissimo Corpo di Cristo.

L'impianto del tempio è quello del classico capitolium romano a tre celle, cioè prostilo, con il colonnato solamente in zona anteriore e chiuso da un muro ai lati e posteriormente. In questo caso, comunque, l'impianto è un poco più articolato, essendo presente un corpo centrale più sporgente affiancato su entrambi i lati da altri due porticati della medesima altezza. Dietro l'avancorpo della facciata esastila (ovvero con sei colonne sul fronte principale) in stile corinzio, si aprono tre celle separate da intercapedini, ognuna ospitante un altare dedicato a tre rispettive divinità, oggi identificate come Minerva, Giove e Giunone. Pregevole e ben conservata è la soglia della cella centrale, la più ampia, realizzata in marmo di Botticino. Si trova in questa cella anche il più imponente dei tre podi, posti al centro di ognuno dei sacelli, sul quale si osserva uno zoccolo in pietra a due gradini. La cella centrale e quella di sinistra sono tutt'oggi provviste dell'originale pavimentazione, in marmo e breccia africana, ornati da bellissimi mosaici ben conservati e restaurati, mentre è andato perduto quello della cella di destra. La cella centrale del tempio, inoltre, ospita alle pareti un esteso lapidario istituito nel 1830 e ampliato nei decenni successivi, dove sono conservate ed esposte numerose opere romane in pietra tra cui are, iscrizioni onorarie e sepolcrali, stele funerarie, miliari e basi di monumenti.

È quasi accertata la presenza di una quarta cella, situata più a est, probabilmente dedicata a Bergimo, dio di provenienza celtica. È infine presente un'ultima cella, che faceva parte dell'antico tempio repubblicano sul quale venne poi edificato il Capitolium, situata al di sotto della struttura di epoca imperiale, risalente addirittura al I secolo a.C. e oggi chiusa al pubblico per il restauro dei bellissimi affreschi che ancora sono conservati al suo interno.

Il timpano, largamente ricostruito, era molto probabilmente ornato da alcune statue e la sommità (acroterio) doveva essere composta da un grande gruppo statuario. Delle antiche colonne del tempio, solamente una è ancora presente completamente integra per tutta la sua lunghezza, ovvero la prima a sinistra, ben riconoscibile perché interamente bianca e non completata dai mattoni. Questa colonna era inoltre l'unico resto che affiorava ai primi dell'Ottocento, quando la zona non era ancora stata indagata archeologicamente, tanto che la sua sommità veniva utilizzata come tavolino nel giardino sul retro di un piccolo caffè sorto in quel punto.

Il tempio poteva essere ammirato dalla grande piazza un tempo antistante ad esso (l'omonima Piazza del Foro che oggi si apre davanti al tempio non si discosta di molto dalle originali dimensioni), che al tempo rappresentava sicuramente il centro nevralgico della vita politica e mondana, delle feste e dei mercati e che era delimitata da un porticato, di cui rimane un'unica colonna corinzia della quale si è già parlato. Sul pavimento al disotto di essa, è incisa quella che potrebbe essere una rudimentale scacchiera, probabile passatempo dei mercanti che avevano bottega qui. Al tempio si accedeva attraverso una scalinata che saliva direttamente dal decumano massimo, suddivisa su due o tre rampe, che conduceva alla terrazza circondante l'edificio, forse allora arricchita da due fontane. Sempre dal decumano massimo si poteva invece scendere per un'altra scalinata, in linea con quella che saliva al tempio, arrivando così sul foro e da lì ai portici (il decumano si posizionava perciò a metà altezza fra il foro e il tempio), creando uno sfondo monumentale alla piazza.

Il teatro fu costruito in epoca flavia, come il vicino Capitolium (al quale era collegato mediante un porticato), e rimaneggiato durante il principato di Settimio Severo, nel III secolo. Fu probabilmente danneggiato dallo stesso incendio che, nel IV secolo, fece in parte crollare l'edificio templare posto nelle immediate vicinanze e da un terremoto nel V secolo, il quale distrusse completamente la scena e il muro che dava sulla strada. Nonostante ciò venne utilizzato fino al 1173.

L'edificio fu riportato alla luce insieme al Capitolium nell'Ottocento, operando la demolizione di tutte le strutture sorte durante le diverse epoche sui resti del teatro, tranne Palazzo Maggi Gambara, che occupa tuttora la parte occidentale della cavea, poiché contenente diversi affreschi di grande valore storico e artistico.

Il teatro fu in parte costruito utilizzando il pendio naturale del colle Cidneo. La scelta dell'impianto è più vicina a quella degli antichi teatri della Grecia che a quelli romani, in cui la cavea era sorretta da sostruzioni. Ciò è oggi ben visibile, visto che le file più basse di gradinate, poggianti direttamente sul terreno, sono le uniche sopravvissute al tempo, mentre tutte quelle sostenute da archi murari sono scomparse a causa del crollo di questi ultimi. La vicinanza del Tempio Capitolino e del Foro, che ricorda per certi versi il teatro di Pompeo di Roma, indicava che il teatro era parte integrante della vita sociale e religiosa del cittadino. L'edificio era il più grande del nord Italia dopo il teatro di Verona e misurava 86 metri in larghezza e probabilmente 34 in altezza. La scena era lunga 48 metri. Il teatro poteva ospitare, secondo alcuni calcoli, circa 15000 persone. Come tutti i teatri romani è facilmente riscontrabile la forma a emiciclo, ancora oggi ben visibile. Il teatro era collegato al tempio attraverso una lunga aula, definita dei pilastrini poiché divisa da due file di pilastri con capitelli di ordine tuscanico.

Attualmente sono visibili i resti della cavea e della scena e del muro originario affacciato sulla strada. Altri resti sono nell'area di Palazzo Maggi o inglobati nell'edificio: al suo interno sono inoltre visibili pavimentazioni e resti in muratura di tarda epoca romana, risalenti ai primi anni dell'abbandono del foro. Negli anni sono stati proposti molti progetti di riqualificazione, ad esempio mediante la ricostruzione in legno delle gradinate crollate, ma nulla è stato mai messo in pratica. L'intervento, difatti, avrebbe senso se fosse risistemato lo stesso contesto, anche in materia di accessibilità: il teatro è infatti oggi molto sacrificato fra il Colle Cidneo e una stecca di edifici residenziali medievali a sud, scampati alle demolizioni, che andrebbero per forza demoliti, in parte o totalmente, se si volesse tentare di ricostruire anche un minimo di scena-fronte e un qualsiasi collegamento efficace con Via Musei, oggi limitato agli sbocchi dello stretto vicolo che lo raggiunge.

Il Santuario di età repubblicana (secondo quarto del I secolo a. C.) è un monumento conservato in modo sorprendente nel quale, a dispetto del tempo, sono sopravvissuti gli affreschi che decorano le pareti, i pavimenti a mosaico e alcuni arredi cultuali, caso speciale e unico in tutta l’Italia settentrionale.




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mercoledì 29 aprile 2015

PERSONE DI LAVENO MOMBELLO : TITO LABIENO

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Tito Labieno, padre di Quinto, combatté insieme a Giulio Cesare, nel 78 a.C., nella campagna navale di Publio Servilio (proconsole in Cilicia dal 78 al 75) contro i pirati cilici.

Dopo aver rivestito la carica di tribuno della plebe nel 63 a.C., Labieno fu legato di Giulio Cesare in Gallia e seppe mostrare le sue doti di abile comandante durante i sette anni della campagna gallica; riportò importanti vittorie contro le popolazioni dei Tigurini (58 a.C.), dei Belgi, degli Atrebati, dei Morini, dei Treveri (54 a.C.) in più di un'occasione, dei Belgi (53 a.C.); si dimostrò particolarmente abile nel sedare una rivolta scoppiata nella regione di Lutezia nel 52 a.C.

Nel 51 a.C. Cesare gli affidò il governo della Gallia Cisalpina. Prima che Cesare attraversasse il Rubicone Labieno si unì a Pompeo portando con sé numerosi cavalieri gallici e germanici. Pompeo lo nominò comandante della cavalleria.

Dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo fuggì a Corcira e poi in Africa dove, costituito un nuovo esercito, riorganizzò la resistenza repubblicana. Con esso riportò una vittoria contro lo stesso Cesare presso Ruspina nel 46 a.C. (Battaglia di Ruspina). Fu sconfitto tre mesi dopo nella battaglia di Tapso e nuovamente costretto a fuggire, rifugiandosi presso Sesto Pompeo in Spagna. Morì durante la battaglia di Munda il 17 marzo del 45 a.C.

Titus Labienus  è senza dubbio l'esponente più noto della gens Labiena, una famiglia di origine picena e di rango equestre; tale provenienza e ceto sono testimoniati dall’orazione di Cicerone del 63 a.C. a favore di C. Rabirio, accusato da Labieno di avere ucciso Lucio Saturnino e suo zio Quinto Labieno.

I Labieni costituivano un affermato ed intraprendente nucleo gentilizio già sul finire del II sec. a.C. In questo periodo erano infatti attivi a Roma due fratelli, Tito e Quinto, rispettivamente, padre e zio di Tito Labieno.

Non esistono a tutt'oggi testimonianze archeologiche o epigrafiche che indichino la città di Cingoli come luogo di nascita di Tito Labieno.

Alcune fonti letterarie dimostrano, tuttavia, lo stretto legame fra la gens Labiena, Tito Labieno e Cingoli.

Dai versi di un poema di Silio Italico si traggono due notizie molto interessanti: la partecipazione di un esponente della famiglia Labiena, proveniente da Cingoli, alla battaglia di Canne e l’esistenza a Cingoli, al tempo della seconda guerra punica, di un centro arroccato e difeso da "alte mura": Labienus et Ocres sternuntur leto atque Opiter quos Setia colle vitifero, celsis Labienum Cingula saxa miserunt muris nam Labienus obit penetrante per ilia corno.

In mancanza di dati archeologici e di altre testimonianze scritte non è possibile accertare il fondamento storico di queste notizie. Sarebbe tuttavia azzardato considerare come un caso la corrispondenza tra fonte poetica e fonte epigrafica riguardo l’esistenza di un centro repubblicano a Cingoli; ciò sembra infatti provato dall'iscrizione C.I.L. IX 5679  del III sec. a.C. nella quale sono menzionati i due magistri Terebius e Vibolenus. Se dubbi si possono avanzare sulla notizia della presenza a Cingoli, al tempo della seconda guerra punica, di "alte mura", il dato circa l'esistenza di un nucleo abitativo, risalente a quel periodo, che diede i natali ad un esponente della gens Labiena sembra certamente più credibile.

Dalla lettura di alcune fonti medievali è possibile estrapolare un ulteriore dato che dimostra lo stretto legame fra il territorio cingolano e la gens Labiena. Il toponimo "Avenale", una frazione di Cingoli, è infatti attestato in alcuni documenti nella forma "Lavenano": la bolla di Lucio III del 1184, diretta all'abate del Monastero di S. Maria di Valfucina, e la bolla di Gregorio IX del 1236 menzionano la chiesa di "S. Marie de Lavenano"; l'atto notarile del 1213 in cui Attone, prete di "S. Marie Lavenani", riconferma a Ludovico di Michele l'enfiteusi di una terra "in fundo Lavenano". Il toponimo, piuttosto chiaro, dimostra l'esistenza di proprietà fondiarie della gens Labiena in quella zona di Cingoli.

La principale fonte a sostegno dell'origine cingolana di Labieno è rappresentata dal Bellum Civile di Giulio Cesare. In un passo dell'opera si legge infatti che: Etiam Cingulo, quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat; Labieno tuttavia non costruì Cingoli, egli fece si che tale abitato acquistasse la fisionomia di città, condizione necessaria per la concessione dello statuto municipale.

Già nel 1788 il Colucci, basandosi anche sugli scritti dello storico cingolano Filippo Maria Raffaelli, aveva attribuito il giusto significato ai verbi constituerat e exaedificaverat; Labieno fu un restauratore, un mecenate del I sec. a.C., che decise di investire le proprie ricchezze a Cingoli, evidentemente la sua terra di origine.

Dall'orazione di Cicerone in favore di C. Rabirio si desume un terminus post quem della data di nascita di Tito Labieno. Sappiamo infatti che nel 100 a.C., al tempo in cui Saturnino e Quinto Labieno furono uccisi, Labieno non era ancora nato: Scilicet tibi graviorem dolorem patrui tui mors attulit quam C. Graccho fratris, et tibi acerbior eius patrui mors est quem numquam vidisti quam illi eius fratris quicum concordissime vixerat.

Nel 63 a.C. ricoprì l'incarico di Tribuno della plebe. Dall'anno del suo tribunato a quando partì per la Gallia con Cesare (58 a.C.) non si hanno più notizie di lui, tuttavia il fatto di essere nominato da Cesare legatus pro praetore fa pensare che egli abbia ricoperto la carica di Pretore. Dal momento che la legge prevedeva che un magistrato non poteva assumere un incarico l'anno dopo averne ricoperto un altro, è probabile che Labieno assunse la carica di Pretore nell'arco di tempo compreso tra il 61 e il 59 a.C. L'età minima richiesta per ricoprire questa magistratura era quarant'anni per cui, considerando le notizie forniteci da Cicerone nell'orazione in favore di Rabirio, è possibile collocare, in via approssimativa, la data di nascita di Tito Labieno nel 99 a.C.

Ancora Cicerone ci testimonia che Labieno combatté insieme a Cesare, nel 78 a.C., nella campagna navale di Publio Servilio (proconsole in Cilicia dal 78 al 75 a.C.) contro i pirati cilici; non è, tuttavia, da vedere in ciò l'inizio del legame di Labieno con Cesare anche se, probabilmente, la carriera militare iniziò per entrambi proprio in Oriente.

Di Labieno, poi, non si hanno altre informazioni fino a quando, come abbiamo visto, ricoprì la carica di Tribuno della plebe. L'orientamento politico che Labieno seguì nel 63 e la sua partecipazione attiva ai progetti di Cesare è provato da almeno tre eventi.

Il fatto che Labieno fu scelto per condurre l'azione contro Rabirio dimostra chiaramente come egli fosse il collaboratore più fidato di Cesare.

Labieno inoltre riuscì a fare approvare un provvedimento con il quale fu abrogata la lex Cornelia de sacerdotiis, una legge voluta da Silla che prevedeva l'elezione del pontifex maximus da parte dei pontefici, e il ritorno ai meccanismi elettivi della precedente lex Domitia secondo la quale l'elezione era affidata al popolo. Cesare che ambiva a questa importante carica "si servì del tribuno Tito Labieno, che gli doveva essere ligio anche per il favore prestatogli nella causa contro Rabirio".

Ed infine, gli onori decretati a Pompeo per le sue azioni belliche in Asia Minore e il suo prossimo ritorno a Roma; i tribuni Ampio e Labieno proposero, infatti, una legge (lex Ampia Labiena de triumphalibus ornamentis Gnaei Pompei) che consentiva a Pompeo di portare nei ludi circensi una corona d'oro e ogni genere di abbigliamento trionfale e durante le rappresentazioni teatrali la toga pretesta e la corona d'oro. Questa proposta, ispirata ai due tribuni da Cesare, fu dettata dal desiderio di quest'ultimo di accattivarsi la simpatia di Pompeo oppure fu un’azione mirata per favorire i piani dello stesso Cesare?

Nel periodo compreso fra il tribunato (63 a.C.) e la partenza per la Gallia (58 a.C.), come si è detto poco sopra, le fonti storiche non danno alcuna informazione di Labieno; presumibilmente, oltre a ricoprire la carica di Pretore, fu impegnato anche in azioni di guerra, o in Oriente con Pompeo (guerra contro Mitridate VI) o in Spagna con Cesare (guerra contro i Lusitani).




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mercoledì 1 aprile 2015

LA FAMIGLIA PAGANINI

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Paganino Paganini nato a Brescia nella metà del XV secolo, si trasferì a Venezia sin dalla più giovane età; entrò ufficialmente nel campo dell'editoria dal 1483, per poi unirsi in società l'anno successivo con gli editori Bernardino Benali e Giorgio Arrivabene.

Tornò autonomo nel 1487, anno in cui stampò e pubblicò il suo primo lavoro autonomo, ovvero una copia del Messale Romano (pubblicato per la prima volta nel 1474). Negli anni che seguirono si dedicò alla stampa di diverse opere riguardanti teologia e giurisprudenza, ma le opere che più lo caratterizzano furono le stampe degli scritti di Fra' Luca Pacioli, delle quali figurano i celebri Summa de arithmetica (1494) e De Divina Proportione (1509).

Intorno al 1516 avrebbe pubblicato la prima copia stampata in assoluto del Corano, in caratteri arabi; di fatto di essa non è rimasta più nessuna copia, contrariamente alle altre opere del Paganini: molte testimonianze affermano che ogni singola copia sia stata distrutta su ordine del Papa.

Nel 1517 tornò col figlio Alessandro e la moglie nella sua terra d'origine, nel bresciano, dove fondò una propria tipografia all'interno del monastero sull'Isola del Garda e dove pubblicò due nuove opere teologiche che riportano l'indicazione della vicina città di Salò; in seguito si stabilì nella località di Toscolano, attualmente frazione del comune di Toscolano-Maderno. Qui continuò la collaborazione col figlio, anch'egli tipografo ed editore, iniziata già nel 1506 e che durò sino al 1525, dedita alla stampa di classici latini e italiani di piccolo formato. Una delle ultime opere principali di Paganino fu il Vergerio (1526). Nei suoi ultimi anni di vita si trasferì più a monte, nella località di Cecina, anch'essa attualmente frazione di Toscolano-Maderno, dove morì nel 1538.

Alessandro Paganini era un editore innovativo e stampante che è stato recentemente accreditato dagli storici del libro, con l'invenzione della collana editoriale, cioè, un ciclo di pubblicazioni che condividono le stesse caratteristiche editoriali e presentazione. La notevole caratteristica distintiva della prima collezione di Paganini era il loro piccolo formato. Infatti, l'edizione 1515 di Dante nel 24mo molto compatto è unica tra le edizioni di Dante nel Rinascimento. Faceva parte di una serie iniziata nello stesso anno che includeva del Petrarca Rime, Arcadia di Jacopo Sannazaro e il dialogo di amore neoplatonico di Pietro Bembo, Gli Asolani. Questo programma editoriale può essere considerata una elaborazione innovazioni Aldus 'all'inizio del secolo, sia per il piccolo formato e per gli eleganti caratteri che sono a metà strada tra corsivo romano. La scelta delle opere segue anche Aldus. Il loro pubblico cortese previsto è chiaramente indicato dai soggetti ai quali i singoli titoli sono dedicati, abbracciando alcune delle figure più importanti del Rinascimento italiano aulico della società, tra cui Isabella d'Este, Giovanni Aurelio Augurelli, e Pietro Bembo. Di Paganini 1515 Dante è dedicato a non meno di Giulio de 'Medici, divenuto poi Papa Clemente VII (1523-1534).

Paganini ha pubblicato due stati della Commedia in 24mo, comunemente noto come "Dantini," uno con le pagine numerate in romano e l'altro con numeri arabi.


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giovedì 12 marzo 2015

CONTADO DEL SEPRIO

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Il Seprio (Sever in dialetto lombardo occidentale, Sevar in dialetto milanese) è una regione storica della Lombardia, oggi corrispondente grossomodo alla porzione centro-meridionale dell'attuale Provincia di Varese ed alla parte sud-occidentale della Provincia di Como.

Nato come fines della città di Castelseprio, crebbe durante l'ultimo secolo dell'Impero Romano. In epoca longobarda e poi franca, si costituì come iudicaria e poi comitatus contado autonomo perlomeno dall'VII secolo d.C. Durante il periodo di maggiore espansione e potenza (IX-X sec.), il contado del Seprio controllava un'area che si spingeva dal fiume Ticino alla Val d'Intelvi e dal contado di Burgaria (l'odierno Alto Milanese) fino al Sotto Ceneri, nell'attuale Canton Ticino. Dal 961 il Contado iniziò a essere retto da una discendenza di legge salica, i Conti del Seprio, il cui capostipite fu Nantelmo, figlio di Rostanno. Con il XII secolo ha inizio un periodo di decadenza, tant'è che la famiglia comitale è costretta a trasferirsi prima a Venegono, quindi a Milano e a Reggio.

I possedimenti settentrionali del Seprio furono perduti almeno nel 1158 con il Trattato di Reggio quando l'Imperatore Federico Barbarossa è costretto a ridimensionare notevolmente il contado all'area tra Ticino, Seveso e Tresa, e consegnandolo de facto in mano ai milanesi.

Nel XIII secolo il Seprio è coinvolto nelle lotte per il controllo di Milano fra Visconti e Torriani e perde il controllo sulla Burgaria. Nel marzo del 1287, probabilmente nella notte fra il 28 e il 29 marzo, alcuni mercenari della Val d'Ossola assoldati da Ottone Visconti, entrano in Castel Seprio, probabilmente in occasione della fiera di Santa Maria Foris Portas, e se ne impadronirono con l’inganno. L’arcivescovo distrusse la rocca e il borgo risparmiando le chiese e fa inserire negli statuti di Milano la seguente sentenza: “Castel Seprio sia distrutto e resti distrutto in perpetuo affinché nessuno ardisca o presuma di abitare su questo monte”.

Con la fine della sua capitale il contado viene inserito nei territori viscontei della nascente Signoria di Milano, fino al 1339, anno in cui Lodrisio Visconti usurpò il titolo di Signore del Seprio ed alla guida della Compagnia di San Giorgio, muove contro Milano. Uscito sconfitto dalle truppe ambrosiane di Luchino Visconti il 21 febbraio a Parabiago, venne rinchiuso nel castello di San Colombano, ed il titolo passò ai Signori milanesi Luchino e Giovanni Visconti.

Successivamente il nome sopravvive nelle istituzioni ducali e austriache poi, fino alla riforma della province moderne attuata dall'Imperatore Giuseppe II nel 1788. Da allora il Seprio divenne la Provincia austriaca di Varese.


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giovedì 5 marzo 2015

PONTI SUL TICINO : IL PONTE COPERTO DI PAVIA

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Il Ponte Coperto (detto anche Ponte Vecchio) è un ponte sul fiume Ticino a Pavia, che collega il centro storico cittadino e il resto della città (situato sulla riva sinistra del Ticino), con il pittoresco quartiere, originariamente fuori dalle mura periferiche della città, di Borgo Ticino. Il ponte è molto caratteristico, ha cinque arcate ed è completamente coperto con due portali alle estremità e una piccola cappella religiosa al centro. Sebbene il ponte attuale sia stato costruito nel 1949, esso ripropone le forme dell'antico Ponte Coperto, risalente al XIV secolo.

Già in epoca romana, nell'antica città di Ticinum era presente un primo ponte che collegava le due rive del fiume all'altezza del moderno Ponte Coperto. Di questo ponte rimane, facilmente visibile nei periodi di magra, la base di un pilone centrale, in trachite dei colli Euganei. La direzione del pilone (WNW), leggermente disassata rispetto a quella dei ponti medievale e moderno, indica che in epoca romana la direzione della corrente del fiume era diversa. Un altro pilone del ponte romano si poteva vedere fino a pochi anni fa presso la sponda sinistra, ma è stato coperto di terra per ampliare la riva. La costruzione del ponte romano si fa risalire all'epoca di Augusto.

Nel 1351 fu costruito sui ruderi del ponte romano un nuovo ponte, su progetto di Giovanni da Ferrera e di Jacopo da Cozzo. Il ponte, completato nel 1354, era coperto e dotato di dieci arcate irregolari e di due torri alle estremità, che servivano per la difesa; l'aspetto di questo ponte, anche se con sole sei arcate, è visibile negli affreschi di Bernardino Lanzani (1524 circa) all'interno della chiesa di San Teodoro. Durante la costruzione delle mura spagnole, nel XVII secolo, la prima arcata e mezza verso la città e la prima arcata dal lato del borgo furono comprese nei bastioni e, quindi, chiuse. Successivamente furono aggiunti un portale d'ingresso dalla parte del Borgo Ticino (1599), una cappella al centro del ponte in onore di San Giovanni Nepomuceno (XVIII secolo) e infine anche un portale di ingresso dalla parte del centro storico, eretto dall'Amati (1822).

Nel Palazzo Mezzabarba, la sede del Comune di Pavia, salone ufficio anagrafe, è presente un modello in legno del ponte trecentesco, realizzato nel 1938.

I bombardamenti delle forze alleate nel settembre 1944, durante la seconda guerra mondiale, danneggiarono l'antico ponte trecentesco e ne fecero crollare un'arcata. Alla fine della guerra si svolse un aspro dibattito sull'opportunità di ripristinare il vecchio ponte o di demolirlo. Per timore di crolli che avrebbero potuto far straripare il Ticino e per lo scarso rispetto dell'epoca verso i monumenti storici, nel febbraio 1948, il Ministero dei Lavori Pubblici fece demolire con la dinamite l'antico manufatto.

Alcuni resti dei piloni del vecchio ponte sono visibili nelle acque del fiume; è rimasta anche la base del portale parzialmente interrato sulla riva sinistra.

Nel 1949 si iniziò la costruzione del nuovo ponte, che fu inaugurato nel 1951. Sul portale d'ingresso dalla parte della città un'epigrafe cita: "Sull'antico varco del ceruleo Ticino, ad immagine del vetusto Ponte Coperto, demolito dalla furia della guerra, la Repubblica Italiana riedificò".

Il ponte attuale è stato costruito circa 30 metri più a valle rispetto al precedente, ed è più largo e più alto rispetto a quello antico. Le arcate sono più larghe, quindi inferiori in numero: cinque anziché sette. Il ponte è ora anche più corto in quanto è posizionato in maniera esattamente perpendicolare alla corrente del fiume, mentre quello antico seguiva completamente la linea che congiunge Strada Nuova (dalla parte del centro) con Piazzale Ghinaglia (dalla parte del Borgo Ticino). Le modifiche attuate al progetto avevano lo scopo di migliorare la viabilità sul ponte (aumento di dimensioni in larghezza e altezza) e facilitare al contempo lo scorrimento delle acque (spostamento del percorso e allargamento delle arcate).

La qualità della realizzazione è però decisamente inferiore al ponte trecentesco, tant'è che il cemento delle arcate è già crepato a soli 64 anni dalla realizzazione, e dev'essere periodicamente monitorato per scongiurare il pericolo di crollo. Per ridurre le vibrazioni, la viabilità del ponte è stata ristretta, a eccezione dei mezzi pubblici e delle moto, a un unico senso di marcia (dalla città verso il Borgo), e per entrare in città è necessario usufruire del Ponte della Libertà (detto anche Ponte dell'Impero).

Nel 2005, in occasione del 50º anniversario della morte di Albert Einstein, nella parte centrale del ponte è stata posta una targa con queste parole: "Die schöne Brücke in Pavia habe ich oft gedacht" ("Ho spesso pensato a quel bel ponte di Pavia"), iscrizione che riporta una frase scritta dal grande scienziato in una lettera del 1947 indirizzata a un'amica italiana e che si riferiva al periodo da lui trascorso, quindicenne, a Pavia. La famiglia Einstein si era trasferita nel 1894 dalla Germania dapprima a Milano (in via Bigli, 21) e poi a Pavia (in via Ugo Foscolo, 11 - Casa Cornazzani) dove aveva trascorso circa un anno.

Il quartiere di Pavia al di là dal Ponte Coperto, sulla riva destra del Ticino, è chiamato Borgo Ticino. La parte più caratteristica del quartiere è quella situata sull'argine basso del fiume; la si raggiunge, dopo aver attraversato il ponte provenendo dal centro storico, girando subito a sinistra in via Milazzo. Subito dopo il ponte si trova un monumento in bronzo: una statua che ritrae una lavandaia, una delle donne che nei secoli scorsi lavavano i panni dei cittadini nel Ticino. Più avanti si trovano le case basse caratteristiche del Borgo Basso (Burg-à-bass in dialetto pavese), soggette a sporadici allagamenti in corrispondenza delle esondazioni del fiume, in piena mediamente ogni decina d'anni.


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I BARBARI

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Le invasioni barbariche (dal 166 al 476) costituirono un periodo ininterrotto di scorrerie all'interno dei confini dell'Impero Romano fino alla caduta della sua parte occidentale. Condotte inizialmente per fini di saccheggio e bottino da genti armate appartenenti alle popolazioni che gravitavano lungo le frontiere settentrionali (Pitti, Caledoni e Sassoni in Britannia; le tribù germaniche di Frisi, Sassoni, Franchi, Alemanni, Burgundi, Marcomanni, Quadi, Lugi, Vandali, Iutungi, Gepidi e Goti, le tribù daciche dei Carpi, quelle sarmatiche di Iazigi, Roxolani ed Alani, oltre a Bastarni, Sciti, Borani, Eruli ed Unni lungo i fiumi Reno-Danubio ed il Mar Nero), a partire dalla seconda metà del IV secolo si trasformarono da semplici scorrerie in vere e proprie migrazioni di intere popolazioni, che da nomadi divennero sedentarie una volta conquistato un territorio imperiale.

Il fenomeno, a volte indicato anche con il termine tedesco Völkerwanderung ("migrazioni di popoli"), si conclude sostanzialmente con la formazione dei Regni latino-germanici (o "romano-barbarici") e la fine definitiva del cosiddetto Mondo Classico (o evo antico) e l'entrata dell'Europa nel Medioevo.

Nel 166/167, avvenne il primo scontro lungo le frontiere della Pannonia, ad opera di poche bande di predoni Longobardi e Osii, che, grazie al pronto intervento delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni germaniche a Nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori, Marco Aurelio e Lucio Vero, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori e recatisi per questi motivi fino nella lontana Carnuntum (nel 168).La morte prematura del fratello Lucio (nel 169, poco distante da Aquileia) ed il venir meno ai patti da parte dei barbari portò una massa mai vista prima di allora a riversarsi in modo devastante nell'Italia Settentrionale fin sotto le mura di Aquileia, il cuore della Venetia. Enorme fu l'impressione provocata: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del Nord Italia.

Si racconta che Marco Aurelio combatté una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, Norico e Rezia (170-171), poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico, che richiese diversi anni di scontri, fino al 175. Questi avvenimenti costrinsero lo stesso imperatore a risiedere per numerosi anni lungo il fronte pannonico, senza mai far ritorno a Roma. La tregua apparentemente sottoscritta con queste popolazioni, in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni. Alla fine del 178 l'imperatore Marco Aurelio era costretto a fare ritorno nel castrum di Brigetio da dove, nella successiva primavera del 179, fu condotta l'ultima campagna. La morte dell'imperatore nel 180 pose presto fine ai piani espansionistici romani e determinò l'abbandono dei territori occupati della Marcomannia.

Nel 402 i Visigoti tentarono un nuovo colpo di mano assediando Mediolanum, l'altra capitale imperiale (questa volta della parte occidentale) dove si era rifugiato Onorio. Fu solo grazie ad un nuovo intervento di Stilicone che fu salvata, ed Alarico fu costretto a togliere l'assedio.


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