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mercoledì 25 febbraio 2015

LEONARDO DA VINCI A MILANO

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Leonardo di ser Piero da Vinci (Vinci, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519) è stato un pittore, ingegnere e scienziato italiano. Uomo d'ingegno e talento universale del Rinascimento, incarnò in pieno lo spirito della sua epoca, portandolo alle maggiori forme di espressione nei più disparati campi dell'arte e della conoscenza. Si occupò di architettura e scultura, fu disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, musicista e, in generale, progettista e inventore. È considerato uno dei più grandi geni dell'umanità.
« Fu tanto raro e universale, che dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo della bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro. Assai valse in matematica et in prospettiva non meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lunga tutti li altri. Hebbe bellissime inventioni, ma non colorì molte cose, perché si dice mai a sé medesimo avere satisfatto, et però sono tante rare le opere sue. Fu nel parlare eloquentissimo et raro sonatore di lira et fu valentissimo in tirari et in edifizi d'acque, et altri ghiribizzi, né mai co l'animo suo si quietava, ma sempre con l'ingegno fabricava cose nuove. »
(Anonimo Gaddiano, 1542)

Leonardo fu il figlio primogenito del notaio venticinquenne ser Piero da Vinci, di famiglia facoltosa, e di Caterina, una donna di estrazione sociale inferiore; frutto di una relazione illegittima fra i due. La notizia della nascita del primo nipote fu annotata dal nonno Antonio, padre di Piero e anche lui notaio, su un antico libro notarile trecentesco, usato come raccolta di "ricordanze" della famiglia, dove si legge: «Nacque un mio nipote, figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Battizzollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Tonino, Pier di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigo di Giovanni Tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figlia di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone». Nel registro non è indicato il luogo di nascita di Leonardo, che si ritiene comunemente essere la casa che la famiglia di ser Piero possedeva, insieme con un podere, ad Anchiano, dove la madre di Leonardo andrà ad abitare. Il battesimo avvenne nella vicina chiesa parrocchiale di Santa Croce, ma sia il padre sia la madre erano assenti, poiché non sposati. Per Piero si stavano preparando ben altre nozze, mentre per Caterina fu cercato, nel 1453, un marito che accettasse di buon grado la sua situazione "compromessa", trovando un contadino di Campo Zeppi, vicino Vinci, tale Piero del Vaccha da Vinci, detto l'Attaccabriga, forse anche mercenario come il fratello Andrea.

Nel frattempo, già nel 1452, il padre Piero si era sposato con Albiera di Giovanni Amadori, dalla quale non avrà figli. La lieta accoglienza del bambino, nonostante il suo status illegittimo, è testimoniata oltre che dall'annotazione del nonno anche dalla sua presenza nella casa paterna di Vinci. Ciò si legge nella dichiarazione per il catasto di Vinci dell'anno 1457, redatta sempre dal nonno Antonio, ove si riporta che il detto Antonio aveva 85 anni e abitava nel popolo di Santa Croce, marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d'anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne, e con loro convivente era «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legittimo nato di lui e della Chaterina che al presente è donna d'Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d'anni 5».

La matrigna Albiera morì appena ventottenne nel 1464, quando la famiglia risiedeva già a Firenze, venendo sepolta in San Biagio. Ser Piero si risposò altre tre volte: una seconda (1464) con la quindicenne Francesca di ser Giuliano Lanfredini, che pure morì senza progenie, una terza con Margherita di Francesco di Jacopo di Guglielmo (1475), che gli diede finalmente sei figli; altri sei ne ebbe con il quarto e ultimo matrimonio.

Leonardo ebbe così dodici tra fratellastri e sorellastre, tutti molto più giovani di lui (l'ultimo nacque quando Leonardo aveva quarantasei anni), con i quali ebbe pochissimi rapporti, ma che gli diedero molti problemi dopo la morte del padre nella contesa sull'eredità.

Ser Piero aveva già lavorato a Firenze e nel 1462, a dire del Vasari, vi ritornò con la famiglia, compreso il piccolo Leonardo. Il padre Piero avrebbe mostrato all'amico Andrea del Verrocchio alcuni disegni di tale fattura che avrebbero convinto il maestro a prendere Leonardo nella sua bottega; in realtà è alquanto improbabile che un apprendistato iniziasse ad appena dieci anni, per cui l'ingresso di Leonardo nella bottega del Verrocchio viene oggi ritenuto posteriore.

Si pensa infatti che Leonardo restasse in campagna nella casa dei nonni, dove avvenne la sua educazione, piuttosto disordinata e discontinua, senza una programmazione di fondo, a cura del nonno Antonio, dello zio Francesco e del prete Piero che l'aveva battezzato. Il fanciullo imparò infatti a scrivere con la sinistra e a rovescia, in maniera del tutto speculare alla scrittura normale. Vasari ricordò come il ragazzo nello studio cominciava «molte cose e poi l'abbandonava», e nell'impossibilità di avviarlo ormai alla carriera giuridica, il padre decise di introdurlo alla conoscenza dell'abaco, anche se «movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gl'insegnava, bene spesso lo confondeva».

Fra la primavera e l'estate del 1482 Leonardo si trovava già a Milano, una delle poche città in Europa a superare i centomila abitanti, al centro di una regione popolosa e produttiva. Le ragioni della sua partenza da Firenze sono molteplici. Sicuramente, come testimoniano l'Anonimo Gaddiano e Vasari, l'invio dell'artista fu causato da Lorenzo il Magnifico nell'ambito delle sue politiche diplomatiche con le signorie italiane, in cui i maestri fiorentini erano inviati come "ambasciatori" del predominio artistico e culturale di Firenze. Così Antonio Rossellino e i fratelli Giuliano e Benedetto da Maiano erano partiti per Napoli e un gruppo di pittori era partito per decorare la nuova cappella pontificia di Sisto IV.

Leonardo ebbe la missione di portare al duca Ludovico il Moro un omaggio. Scrisse l'Anonimo: « aveva trent'anni che dal detto Magnifico Lorenzo fu mandato al duca di Milano a presentarli insieme con Atalante Migliorotti una lira, che unico era in suonare tale strumento». Vasari tramanda che fosse un grandissimo musicista e che avesse costruito questa lira in argento, in parte a forma di una testa di cavallo «cosa bizzarra e nuova, acciò ché l'armonia fosse con maggior tuba e più sonora di voce». Arrivato, Leonardo partecipò a una gara musicale con quello strumento indetta alla corte sforzesca, «laonde superò tutti i musici, che quivi erano concorsi a sonare».

In quell'occasione Leonardo scrisse una famosa "lettera d'impiego" di ben nove paragrafi, in cui descriveva innanzitutto i suoi progetti di ingegneristica, di apparati militari, di opere idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura, di cui occuparsi in tempo di pace, tra cui il progetto di un cavallo di bronzo per un monumento a Francesco Sforza.

Appare chiaro che Leonardo fosse intenzionato a restare a Milano, città che doveva affascinarlo per la sua apertura alle novità scientifiche e tecnologiche, causata dalle continue campagne militari. L'ambiente fiorentino doveva infatti procurargli ormai un certo disagio: da un lato non si doveva riconoscere nella cultura neoplatonica della cerchia medicea, così imbevuta di ascendenze filosofiche e letterarie, lui che si definiva "omo sanza lettere"; dall'altro la sua arte stava divergendo sempre di più dal linearismo e dalla ricerca di una bellezza rarefatta e idealizzata degli artisti dominanti sulla scena, già suoi compagni nella bottega di Verrocchio, quali Perugino, Ghirlandaio e Botticelli. Dopotutto la sua esclusione dai frescanti della Sistina rimarca la sua estraneità a quel gruppo.

I documenti sembrano indicare che l'accoglienza di Leonardo nell'ambiente milanese fu piuttosto tiepida, non ottenendo inizialmente gli esiti sperati nella famosa lettera al duca. L'artista ebbe anche diverse difficoltà con la lingua parlata dal popolo (ai tempi la lingua italiana quale "toscano medio" non esisteva, tutti parlavano solo il proprio dialetto), sebbene gli esperti ritrovino poi nei suoi scritti degli anni successivi addirittura dei "lombardismi".

Per una prima commissione l'artista dovette infatti attendere il 25 aprile 1483, quando con Bartolomeo Scorione, priore della Confraternita milanese dell'Immacolata Concezione, stipulò il contratto per una pala da collocare sull'altare della cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande (oggi distrutta). Al contratto presenziarono anche i fratelli pittori Evangelista e Giovanni Ambrogio de Predis, che ospitavano Leonardo nella loro abitazione vicino Porta Ticinese.

Si tratta della pala della Vergine delle Rocce che, stando al dettagliatissimo contratto, doveva essere lo scomparto centrale di un trittico. La tavola centrale avrebbe dovuto rappresentare una Madonna col Bambino con due profeti e angeli, le altre due, quattro angeli cantori e musicanti, dipinte poi dai De Predis; la decorazione doveva essere ricca, con abbondanti dorature e l'opera doveva essere consegnata entro l'8 dicembre per un compenso complessivo di 800 lire da pagarsi a rate fino al febbraio 1485.

Leonardo, nonostante la strettezza dei termini contrattuali, interpretò il programma iconografico in maniera originalissima, raffigurando la scena del leggendario incontro tra san Giovannino e il Bambin Gesù nel deserto, e celando riferimenti all'Immacolata Concezione nell'arido sfondo roccioso e nel modo in cui la Madonna vi si fonde attraverso un anfratto che sembra rievocare il mistero legato alla maternità.

In una supplica a Ludovico il Moro, databile al 1493, dalla quale si evince che l'opera era stata compiuta almeno entro il 1490 – ma la critica la considera comunque finita entro il 1486 – Leonardo e Ambrogio De Predis (Evangelista morì alla fine del 1490 o all'inizio del 1491) chiedevano un conguaglio di 1200 lire, rifiutato dai frati. La lite giudiziaria si trascinò fino al 27 aprile 1506, quando i periti stabilirono che la tavola era incompiuta e, stabiliti due anni per terminare il lavoro, concessero un conguaglio di 200 lire; il 23 ottobre 1508 Ambrogio incassò l'ultima rata e Leonardo ratificò il pagamento.

Sembrerebbe che Leonardo, dato il mancato pagamento delle 1.200 lire da parte della Confraternita, avesse venduto per 400 lire la tavola, ora al Louvre, al re di Francia Luigi XII, mettendo a disposizione, durante la lite giudiziaria, una seconda versione della Vergine delle Rocce, che rimase in San Francesco Grande fino allo scioglimento della Confraternita nel 1781 ed è ora conservata alla National Gallery di Londra, insieme con le due tavole del De Predis. Per completezza va detto che non per tutti l'esemplare di Londra è di Leonardo: per alcuni, fra cui Carlo Pedretti, pur abbozzato dal maestro, fu condotto con l'ausilio degli allievi; che possa essere intervenuto Ambrogio de' Predis per completare l'opera è plausibile.

Giulio Carlo Argan evidenzia come per Leonardo tutto è "immanenza". Egli guarda la realtà e la natura con gli occhi dello scienziato. Il paesaggio di quest'opera "non è un paesaggio veduto né un paesaggio fantastico: è l'immagine della natura naturans, del farsi e del disfarsi, del ciclico trapasso della materia dallo stato solido, al liquido, all'atmosferico: la figura non è più l'opposto della natura, ma il termine ultimo del suo continuo evolvere".

Rodolfo Papa fa peraltro notare come quest'opera di Leonardo risenta fortemente di alcune riflessioni di San Bonaventura, presentando eventi "storicamente tramandati ma misticamente rappresentati": il pittore insomma "riesce a rispondere alle esigenze spirituali dell’ordine francescano e dell’Arciconfraternita committente dedicata al mistero dell’origine di Maria quasi traducendo in immagine le parole di san Bonaventura".

Nei primi anni milanesi Leonardo proseguì con gli studi di meccanica, le invenzioni di macchine militari, la messa a punto di varie tecnologie. Verso il 1485 doveva essere già entrato nella cerchia di Ludovico il Moro, per il quale progettò con versatilità sistemi d'irrigazione, dipinse ritratti, approntò scenografie per feste di corte, ecc. Una lettera di quegli anni ricorda però come l'artista fosse insoddisfatto per i compensi ricevuti, descrivendo anche il suo stato familiare all'epoca. Scrisse infatti Leonardo al duca che in tre anni aveva ricevuto solo cinquanta ducati, troppo pochi per sfamare "sei bocche": si tratta della sua, di quelle dei tre allievi Marco d'Oggiono, Giovanni Antonio Boltraffio e Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì, di un uomo di fatica e, dal 1493, di una domestica di nome Caterina, forse la madre naturale di Leonardo al seguito del figlio dopo essere rimasta vedova. Il Salaì, da Oreno, al servizio di Leonardo dal 1490, quando aveva dieci anni, ebbe il suo soprannome da un diavolo del Morgante del Pulci: Leonardo definì poi l'assistente "ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto", ma lo trattò sempre con indulgenza.

Conclusa la Vergine delle Rocce Leonardo dovette dedicarsi ad alcune Madonne. Una fu probabilmente quella d'"optimo pittore" da inviare in dono al re d'Ungheria Mattia Corvino nel 1485 (descritta come "figura di Nostra Donna quanto bella excelente et devota la sapia più fare, senza sparagno di spesa alcuna" in una lettera ducale datata 13 aprile 1485). Un'altra fu probabilmente la Madonna Litta, eseguita in massima parte dagli assistenti, soprattutto Giovanni Antonio Boltraffio e Marco d'Oggiono.

Un altro tema ricorrente del periodo milanese è il ritratto, in cui l'artista poté mettere a frutto gli studi anatomici avviati a Firenze, interessandosi soprattutto ai legami tra le fisionomie e i "moti dell'animo", cioè gli aspetti psicologici e le qualità morali che trasparivano puntualmente dalle caratteristiche esteriori. Una delle prime prove su questo tema che ci sia pervenuta è il Ritratto di musico, forse il maestro di Cappella del duomo milanese Franchino Gaffurio. Notevoli sono in quest'opera l'attenzione analitica e il risvolto psicologico nello sguardo sfuggente dell'effigiato. Un altro famoso ritratto di questo periodo è la cosiddetta Belle Ferronnière, una dama, forse legata alla corte sforzesca, dall'intenso sguardo che evita aristocraticamente lo sguardo dello spettatore.

Sicuramente legato alla committenza ducale è il Ritratto di Cecilia Gallerani, detto la Dama con l'ermellino. La presenza dell'animale, oltre a richiamare il cognome della donna (galé in greco), alludeva anche all'onorificenza dell'Ordine dell'Ermellino, ricevuta proprio nel 1488 dal Moro da parte di Ferdinando I di Napoli.

Nei due anni successivi le commissioni ducali si fecero sempre più frequenti. Ricevette ad esempio pagamenti per il progetto del tiburio del duomo di Milano.

Nei primi mesi del 1489 si occupò delle decorazioni, nel Castello Sforzesco, per le nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona, presto sospese per la morte della madre della sposa, Ippolita d'Aragona, e rimandate all'anno successivo, come Leonardo scrisse sul libro titolato de figura umana.

I festeggiamenti ripresero solo il 13 gennaio 1490; per essi, come scrisse il poeta Bernardo Bellincioni nel 1493, «v'era fabbricato, con il grande ingegno et arte di Maestro Leonardo da Vinci fiorentino, il paradiso con tutti li sette pianeti (sette, perché anche la Luna era considerata un pianeta) che giravano e li pianeti erano rappresentati da homini». Un altro documento, redatto poco dopo la celebrazione e conservato nella Biblioteca estense universitaria di Modena, ricorda l'emozione della messa in scena, il pubblico, gli attori e lo sfarzo degli abiti: «El Paradiso era facto a similitudine de uno mezzo uovo, el quale dal lato dentro era tottu messo a horo, con grandissimo numero de lumi ricontro le stelle, con certi fessi dove stava li sette pianeti, segondo el loro grado alti e bassi. A torno l'orlo de sopra del dito mezo tondo era li XII signi, con certi lumi dentro del vedro, che facevano un galante et bel vedere: nel qual Paradiso era molti canti et soni molto dolci et suavi».

Il "cielo" inventato da Leonardo, mettendo a frutto la lunga tradizione delle sacre rappresentazioni fiorentine, doveva essere ricco di effetti speciali, giochi di luci e suoni, che restarono a lungo vivi nella memoria dei contemporanei.

In quegli anni Leonardo avviò il grandioso progetto per un monumento equestre a Francesco Sforza, come testimonia un pagamento a titolo di anticipo per le spese per un modello, pagate per conto del Duca dal sovrintendente all'erario di corte, Marchesino Stanga. Il 22 luglio 1489, inoltre, Pietro Alamanni comunicò a Lorenzo il Magnifico la richiesta di Ludovico di ottenere la collaborazione di fonditori in bronzo fiorentini: «un maestro o due apti a tale opera et benché gli abbi commesso questa cosa in Leonardo da Vinci, non mi pare molto la sappia condurre».

L'impresa era colossale, non solo per le dimensioni della statua, che doveva essere fusa in bronzo, ma anche per l'intento di scolpire un cavallo nell'atto di impennarsi ed abbattersi sul nemico. L'artista spese mesi interi nello studio dei cavalli, frequentando le scuderie ducali per studiare da vicino l'anatomia di questi animali, soprattutto riguardo al rilassamento ed alla tensione dei muscoli durante l'azione. L'impresa venne sospesa per riprendere le celebrazioni del matrimonio Sforza-d'Aragona.

Nel 1494 Leonardo ricevette però una nuova commissione, legata al convento di Santa Maria delle Grazie, luogo caro al Moro, destinato alla celebrazione della famiglia Sforza, in cui aveva da poco finito di lavorare Bramante. I lavori procedettero con la decorazione del refettorio, un ambiente rettangolare dove i frati domenicani consumavano i pasti. Si decise di affrescare le pareti minori con temi tradizionali: una Crocifissione, per la quale fu chiamato Donato Montorfano che elaborò una composizione tradizionale, già conclusa nel 1495, e un'Ultima Cena affidata a Leonardo. In tale opera, che lo sollevò dai problemi economici imminenti, Leonardo riversò come in una summa tutti gli studi da lui compiuti in quegli anni, rappresentandone il capolavoro.

Il novelliere Matteo Bandello, che ben conosceva Leonardo, scrisse di averlo spesso visto «la matina a buon'hora a montar su'l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva dal nascente Sole sino all'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v'averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L'ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte Vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove».

Leonardo attinse alla tradizione fiorentina dei cenacoli, reinterpretandola però in maniera estremamente originale con una maggiore enfasi sul momento drammatico in cui Cristo afferma «Qualcuno di voi mi tradirà» e sui "moti dell'animo" degli apostoli turbati. Essi sono ritratti a gruppi di tre, come una serie di onde emotive successive, con al centro la figura isolata e dominante del Cristo.

Leonardo cambiò l'iconografia tradizionale scegliendo di non rappresentare Giuda da solo su un lato del tavolo, ma accanto agli altri sul medesimo lato rivolto allo spettatore.

Come è noto Leonardo non si trovava a suo agio con la tecnica dell'affresco, poiché i veloci tempi di asciugatura dell'intonaco richiedevano un tratto deciso e rapido, non compatibile con i lunghi studi, le successive velature e la sua finissima pennellata. Per questo Leonardo inventò una tecnica mista di tempera e olio su due strati di intonaco, che rallentò le fasi di esecuzione dell'opera consentendogli di rendere una maggiore armonia cromatica e gli effetti di luce e di trasparenze a lui cari. L'opera era conclusa nel 1498, quando venne ricordato nel De Divina Proportione di Luca Pacioli. L'esperimento si rivelò però drammaticamente inadatto a un ambiente umido come il refettorio, con la parete comunicante con le cucine: già nel 1517 Antonio de Beatis annotò le prime perdite di colore, che all'epoca di Vasari erano già evidenti, da allora si susseguirono restauri e ridipinture, oltre ad eventi estremamente drammatici durante l'occupazione napoleonica e la seconda guerra mondiale, che avevano consegnato un capolavoro estremamente compromesso, a cui ha posto rimedio, per quanto possibile, il capillare restauro concluso nel 1999.

Il 31 gennaio 1496, il successo della messa in scena del Paradiso venne replicato dall'allestimento della Danae di Baldassarre Taccone, rappresentata a Milano in casa del conte di Caiazzo Francesco Sanseverino. Sul verso di un folio leonardesco, conservato al Metropolitan Museum of Art, si trova uno studio preparatorio per l'impianto scenico: al centro di una nicchia si trovava un personaggio, forse Giove, fiammeggiante e in una mandorla, circondato da un palcoscenico con ali ricurve, forse riservate ai musici. Altre fonti ricordano come gli dei dell'Olimpo calassero dall'alto, rimanendo sospesi nel vuoto tra effetti luminosi che simulavano un cielo stellato; un sistema di argani e carrucole dava agli attori la capacità di muoversi con disinvoltura.

In quel periodo Leonardo lavorò contemporaneamente alla decorazione dei camerini in Castello Sforzesco che interruppe nel 1496; in quest'anno, da una sua nota di spese per una sepoltura, si è dedotta la morte della madre.

Dell'opera resta oggi solo la decorazione della volta della Sala dell'Asse, con una fitta trama vegetale di notevole sensibilità naturalistica, oggi apprezzabile solo a livello generale per via delle ridipinture rese necessarie a più riprese per coprire le lacune.

Del 2 ottobre 1498 è l'atto notarile col quale Ludovico il Moro gli donò una vigna tra il convento di Santa Maria delle Grazie e il monastero di San Vittore al Corpo. Intanto nubi minacciose si addensavano sull'orizzonte milanese: nel marzo 1499 Leonardo si sarebbe recato a Genova insieme con Ludovico, sul quale incombeva la tempesta della guerra che egli stesso aveva contribuito a provocare; mentre il Moro era a Innsbruck, cercando invano di farsi alleato l'imperatore Massimiliano, il 6 ottobre 1499 Luigi XII conquistava Milano. Il 14 dicembre Leonardo fece depositare 600 fiorini nell'Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze e abbandonò Milano.
A Firenze Leonardo iniziò ad essere lusingato dal governatore francese di Milano, Charles d'Amboise, che lo sollecitava, fin dal 1506, ad entrare al servizio di Luigi XII di Francia. L'anno successivo fu lo stesso re a richiedere espressamente Leonardo, che infine accettò di tornare a Milano dal luglio 1508. Il secondo soggiorno milanese, durato fino al 1513, con alcuni viaggi dall'ottobre 1506 al gennaio 1507 e dal settembre 1507 al settembre 1508, fu un periodo molto intenso. Dipinse la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, completò, in collaborazione col De Predis, la seconda versione della Vergine delle Rocce e si occupò di problemi geologici, idrografici e urbanistici. Studiò fra l'altro un progetto per una statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, quale artefice della conquista francese della città.

Viveva nei pressi di San Babila e sul suo stato finanziario resta l'annotazione di una provvigione ottenuta per quasi un anno di 390 soldi e 200 franchi dal re di Francia. Il 28 aprile 1509 scrisse di aver risolto il problema della quadratura dell'angolo curvilineo e l'anno dopo andò a studiare anatomia con Marcantonio della Torre, giovanissimo professore dell'università di Pavia; allo scopo, scrisse, di dare «la vera notizia della figura umana, la quale è impossibile che gli antichi e i moderni scrittori ne potessero mai dare vera notizia, sanza un'immensa e tediosa e confusa lunghezza di scrittura e di tempo; ma, per questo brevissimo modo di figurarla» - ossia rappresentandola direttamente con disegni, «se ne darà piena e vera notizia. E acciò che tal benefizio ch'io do agli uomini non vada perduto, io insegno il modo di ristamparlo con ordine».

Durante i suoi brevi viaggi visitò Como, poi si avventurò verso le pendici del Monte Rosa, (all'epoca era infatti impossibile salire sino sulla vetta che è alta ben 4.634 metri), poi con il Salaì e il matematico Luca Pacioli soggiornò a Vaprio d'Adda, presso Bergamo, dove gli venne affidato dal padre il giovane Francesco Melzi, l'ultimo e il più caro dei suoi allievi che lo seguì fino alla morte.

Nel 1511 morì il suo sostenitore Charles d'Amboise. L'anno seguente la nuova guerra della Lega Santa scacciò i Francesi da Milano, che tornò agli Sforza.

Nel Seicento, Francesco Arconati, figlio del conte Galeazzo, trasse dagli scritti vinciani da questi donati alla Biblioteca Ambrosiana, un trattato che intitolò Del moto e misura dell'acqua, che tuttavia verrà pubblicato solo nel 1826.

Leonardo si dedicò a studi idraulici a partire dalla sua permanenza a Milano, già ricca di navigli, e in Lombardia, solcata da un'ampia rete di canali.

Collaborò con la Repubblica di Venezia per la sistemazione dell'assetto del fiume Brenta, per evitarne le inondazioni e renderlo navigabile, ma non si conoscono opere realizzate su suoi progetti, alcuni dei quali, particolarmente grandiosi, sono attestati dai suoi scritti: un canale che unisca Firenze con il mare, ottenuto regolando il corso dell'Arno; il prosciugamento delle Paludi Pontine, nel Lazio, che si sarebbe dovuto realizzare deviando il corso del fiume Ufente; la canalizzazione della regione francese della Sologne, con la deviazione del fiume Cher, presso Tours.

Leonardo progettò anche macchine per l'uso dell'energia idraulica, per il prosciugamento e per l'innalzamento delle acque. Secondo il suo costume, egli studia la natura dell'acqua: «infra i quattro elementi il secondo men grieve e di seconda volubilità. Questa non ha mai requie insino che si congiunge al suo marittimo elemento dove, non essendo molestata dai venti, si stabilisce e riposa con la sua superfizie equidistante al centro del mondo», la sua origine, il movimento, certe caratteristiche, come la schiuma: «l'acqua che da alto cade nell'altra acqua, rinchiude dentro a sé certa quantità d'aria, la quale mediante il colpo si sommerge con essa e con veloce moto resurge in alto, pervenendo a la lasciata superfizie vestita di sottile umidità in corpo sperico, partendosi circularmente dalla prima percussione».

Osserva gli effetti ottici sulla superficie dell'acqua e trova che «il simulacro del sole si dimostrerrà più lucido nell'onde minute che nelle onde grandi» e che «il razzo del sole, passato per li sonagli della superfizie dell'acqua, manda al fondo d'essa acqua un simulacro d'esso sonaglio che ha forma di croce. Non ho ancora investigato la causa, ma stimo che per cagion d'altri piccoli sonagli che sien congiunti intorno a esso sonaglio maggiore».

Si occupa dei fossili che si trovano sui monti e ironizza con coloro che credono nel Diluvio universale: «Della stoltizia e semplicità di quelli che vogliono che tali animali fussin in tal lochi distanti dai mari portati dal diluvio. Come altra setta d'ignoranti affermano la natura o i celi averli in tali lochi creati per infrussi celesti  e se tu dirai che li nichi che per li confini d'Italia, lontano da li mari, in tanta altezza si vegghino alli nostri tempi, sia stato per causa del diluvio che lì li lasciò, io ti rispondo che credendo che tal diluvio superassi il più alto monte di 7 cubiti - come scrisse chi 'l misurò! - tali nichi, che sempre stanno vicini a' liti del mare, doveano stare sopra tali montagne, e non sì poco sopra la radice de' monti».

È convinto che con il tempo la terra finirà con l'essere completamente sommersa dall'acqua: «Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le cime de' monti; séguita che la terra si farà sperica e tutta coperta dall'acque, e sarà inhabitabile».

Sono noti suoi disegni sia per la cupola del Duomo di Milano sia per edifici signorili, per i quali pensa a giardini pensili e a innovative soluzioni interne, quali scale doppie e quadruple e nell'interno delle case «col molino farò generare vento d'ogni tempo della state; farò elevare l'acqua surgitiva e fresca, la quale passerà pel mezzo delle tavole divise e altra acqua correrà pel giardino, adacquando li pomeranci e cedri ai lor bisogni farassi, mediante il molino, molti condotti d'acque per casa, e fonti in diversi lochi, e alcuno transito dove, chi vi passerà, per tutte le parti di sotto salterà l'acque allo insù».


Opere che realizzò a Milano:
Monumento equestre a Francesco Sforza, 1482-1493, opera incompiuta di cui esisteva un modello colossale del cavallo in terracotta, già a Milano, Corte Vecchia, distrutto
Presunto studio per l'angelo della Vergine delle Rocce, 1483-1485, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Studi per la Vergine delle Rocce, 1483 circa, disegno, Venezia, Galleria dell'Accademia
Vergine delle Rocce, 1483-1486, olio su tavola trasportato su tela, 199x122 cm, Parigi, Louvre
Ritratto di musico, 1485 circa, olio su tavola, 44,7x32 cm, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Studio per il monumento a Francesco Sforza, 1485 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Vite aerea, 1487 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Progetto per la copertura per crociera del Duomo di Milano, 1487-1488, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio per macchina da guerra (Carri falcati), 1487-1490, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Dama con l'ermellino, 1488-1490 circa, olio su tavola, 54,8x40,3 cm, Cracovia, Museo Czartoryski
Idea per la figura di san Pietro nell'Ultima Cena, 1488-1490 circa, disegno, Vienna, Graphische Sammlung Albertina
Studio per il Cenacolo, 1488-1490 circa, disegno, Venezia, Galleria dell'Accademia
Studio per il Cenacolo, 1488-1490 circa, Parigi, Cabinet des Dessins
Sezione di cranio, 1489 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Uomo vitruviano, 1490 circa, matita e inchiostro su carta, 34x24 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Studio delle gambe anteriori di un cavallo, 1490 circa, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Figure geometriche e disegno botanico, 1490 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Raggi luminosi attraverso uno spiraglio angolare, 1490-1491, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Belle Ferronnière, 1490-1495 circa, olio su tavola, 63x45 cm, Parigi, Louvre
Progetto per l'armatura di fusione della testa del cavallo, 1491-1493 circa, disegno, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Emblema degli Sforza, 1492-1494, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Vergine delle rocce, 1494-1508, olio su tavola, 189,5x120 cm, Londra, National Gallery
Testa di Cristo, 1494 circa, gessetto e pastello su carta, 40x32 cm, Milano, Pinacoteca di Brera
Capelli, nastri, oggetti per mascherare, 1494 circa, disegno, Londra, Victoria and Albert Museum
Studio di testa virile, 1494 o 1499, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Progetto per un dispositivo, 1494-1496 circa, disegno, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Ultima Cena, 1494-1498, olio su parete, 460x880 cm, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
Ritratto di una Sforza, 1495 circa, gesso e inchiostro su pergamena, 33x23 cm, Canada?, collezione privata
Schizzo di tre figure di profilo, 1495 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe
Vecchio e giovane affrontati, 1495 circa, disegno, Milano, Biblioteca Trivulziana
Ritratti dei duchi di Milano con i figli, 1497, tempera e olio su parete, 90 cm circa di base ciascuno, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
Schizzo di borsetta da signora, 1497, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Intrecci vegetali con frutti e monocromi di radici e rocce, 1498 circa, tempera su intonaco (ripassata in età moderna), Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse

Leonardo è sempre stato un personaggio avvolto da un alone di mistero, sia per la sua singolare personalità, sia per l'incredibile poliedricità dei suoi interessi, che suscitano ancora oggi curiosità. Non mancano nel suo personaggio alcuni lati "oscuri", che possono suscitare incertezze e perplessità, come i metodi con cui riusciva a condurre le sue indagini anatomiche, o il suo approccio materiale e immanente, quasi agnostico, così anticipatore dei tempi. A ciò va aggiunta la scrittura criptica da destra a sinistra e l'abitudine, per divertimento, di inventare frasi in codice, anagrammi e rebus.

Questi e altri elementi hanno costituito un immenso serbatoio da cui attingere per rileggere la sua vicenda umana, oltre che artistica e intellettuale, secondo nuove interpretazioni, a volte veri e propri travisamenti o strumentalizzazioni che poco hanno a che fare col senso autentico della sua complessa personalità. Il caso più eclatante ed emblematico resta senz'altro nel romanzo Il codice da Vinci di Dan Brown, col suo clamoroso successo editoriale e mediatico in tutto il mondo. In esso, tra enigmi, omicidi e un fitto intreccio di storia, esoterismo, arte e teologia, si narra di un segreto sconvolgente per la Cristianità tramandato nei secoli da una sorta di società segreta, il Priorato di Sion, ma tenuto occulto dalle gerarchie ecclesiastiche e, negli ultimi tempi, dall'Opus Dei. Tale segreto riguarderebbe la natura umana di Cristo, il suo matrimonio con Maria Maddalena (simboleggiata essa stessa dal Graal) e l'esistenza di una loro progenie. Tra fatti storici realmente avvenuti e altri di pura fantasia, si sostiene che Leonardo abbia rivestito la carica di Gran Maestro del Priorato, celando in alcune sue opere, tramite allusioni e messaggi in codice, una serie di riferimenti alla sua partecipazione attiva e al segreto.

Tra le varie opere scelte da Dan Brown ci sono la Gioconda e il Cenacolo: il primo nasconderebbe un autoritratto del pittore in vesti femminili, il secondo sarebbe una rappresentazione del "segreto", con san Giovanni che andrebbe identificato come la Maddalena. Nonostante le infinite polemiche generate dal libro, per le discutibili ricostruzioni storiche e documentali e per gli ingenui errori iconografici, la curiosità e l'attenzione quasi maniacale generata su quasi tutto ciò che riguarda Leonardo ha avuto tutto sommato il merito di portare sotto i riflettori il genio di Vinci, con mostre, convegni, inchieste e documentari passati su tutti i media del mondo.


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venerdì 20 febbraio 2015

IL CENACOLO : UNO DEI CAPOLAVORI DI LEONARDO DA VINCI



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L'Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa (e forse altri leganti oleosi) su intonaco di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell'ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Si tratta della più famosa rappresentazione dell'Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Nonostante ciò l'opera, a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata da Leonardo, incompatibile con l'umidità dell'ambiente, versa da secoli in un cattivo stato di conservazione, che è stato almeno fissato e, per quanto possibile, migliorato nel corso di uno dei più lunghi e capillari restauri della storia, durato dal 1978 al 1999 con le tecniche più all'avanguardia del settore.

Deluso dall'abbandono forzato del progetto del monumento equestre a Francesco Sforza, a cui aveva lavorato quasi dieci anni, Leonardo ricevette però quell'anno un'altra importante commissione da Ludovico il Moro. Il duca di Milano aveva infatti eletto la chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie a luogo di celebrazione della casata Sforza, finanziando importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento di tutto il complesso; Donato Bramante aveva appena finito di lavorarvi quando si decise di procedere con la decorazione del refettorio.

Venne decisa una decorazione tradizionale sui lati minori, rappresentante la Crocifissione e l'Ultima Cena. Alla Crocifissione lavorò Donato Montorfano, che elaborò una scena di impostazione tradizionale, terminata già nel 1495. In questa scena, oggi scarsamente leggibile, Leonardo dovette rappresentare, verso il 1497, i Ritratti dei duchi di Milano con i figli.

Sulla parete opposta l'artista avviò l'Ultima Cena (o Cenacolo), che lo risollevò dalle preoccupazioni economiche e nella quale riversò tutte le conoscenze assimilate nel corso di quegli anni. Leonardo realizzò numerosi studi, oggi in parte conservati, come la Testa di Cristo alla Pinacoteca di Brera.

Nella novella LVIII (1497) Matteo Bandello fornì una preziosa testimonianza di come Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo:

« Soleva andar la mattina a buon'ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v'avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due ore del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L'ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove. »
(Matteo Bandello, Novella LVIII)
Come è noto Leonardo non amava la tecnica dell'affresco, la cui rapidità di esecuzione, dovuta alla necessità di stendere i colori prima che l'intonaco asciughi imprigionandoli, era incompatibile con il suo modus operandi, fatto di continui ripensamenti, aggiunte e piccole modifiche, come testimonia dopotutto il brano di Bandello. Scelse di dipingere quindi su muro come dipingeva su tavola; i recenti restauri hanno permesso di appurare che l'artista, dopo aver steso un intonaco piuttosto ruvido, soprattutto nella parte centrale, e steso le linee principali della composizione con una specie di sinopia, lavorò al dipinto usando una tecnica tipica della pittura su tavola. La preparazione era composta da una mistura di carbonato di calcio e magnesio uniti da un legante proteico e prima di stendere i colori l'artista interpose un sottile strato di biacca (bianco di piombo), che avrebbe dovuto far risaltare gli effetti luminosi. In seguito vennero stesi i colori a secco, composti da una tempera grassa realizzata probabilmente emulsionando all'uovo oli fluidificanti. Ciò permise la particolare ricchezza della pittura, con una serie di piccole pennellate quasi infinite e una raffinata stesura tono su tono, che consentì una migliore unità cromatica, una resa delle trasparenze e degli effetti di luce, e una cura estrema dei dettagli, visibili solo da distanza ravvicinata; ma la tecnica fu anche all'origine dei problemi conservativi, soprattutto in ragione dell'umidità dell'ambiente, confinante con le cucine.

L'opera era già terminata nel 1498, quando Luca Pacioli in data 4 febbraio di quell'anno la ricordò come compiuta.

Appena terminato il dipinto, Leonardo si accorse che la tecnica che aveva utilizzato mostrava subito i suoi gravi difetti: nella parte a sinistra in basso si intravedeva già una piccola crepa. Si trattava solo dell'inizio di un processo di disgregazione che sarebbe continuato inesorabile nel tempo; già una ventina di anni dopo la sua realizzazione, il Cenacolo presentava danni molto gravi, tanto che Vasari, che la vide nel maggio del 1566, scrisse che "non si scorge più se non una macchia abbagliata". Per Francesco Scannelli, che scriveva nel 1642, dell'originale non era rimasto altro che poche tracce delle figure, e anche quelle tanto confuse che non se ne poteva ricavare alcuna indicazione sul soggetto.

Le cause che provocarono quel degrado inarrestabile erano legate all'incompatibilità della tecnica utilizzata con l'umidità della parete retrostante, esposta a nord (che è il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa) e confinante con le cucine del convento, con frequenti sbalzi di temperatura; lo stesso refettorio era poi interessato dagli effluvi e dai vapori dei cibi distribuiti.

Per capire quanto siano stati devastanti i danni basta confrontare l'originale con una delle numerose copie dell'opera, come quella del Giampietrino. L'idea è quella che, ragionevolmente, i colori originali fossero sostanzialmente simili a quelli visibili nella copia, molto più brillanti e accesi.

L'opera subì numerosi tentativi di restauro nel tempo, che cercarono di porre rimedio ai danni, stabilizzando le cadute e, spesso, provvedendo a vere e proprie ridipinture. Si tentò soprattutto di evidenziare i contorni offuscati, per recuperare la leggibilità generale, e di tamponare i fenomeni di degrado. Kenneth Clark, nell'introduzione al catalogo della mostra Studi per il Cenacolo scrisse che in molti casi gli apostoli che vediamo oggi non sono più quelli dipinti da Leonardo: «Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle figure che disturbano di più nell'intera composizione; ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profìl perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a Windsor . Il restauratore l'ha rigirato, collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l'effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il restauratore l'ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine».

All'inizio del XIX secolo le truppe napoleoniche trasformarono il refettorio in bivacco e stalla. Negli anni dieci del Novecento il pittore Luigi Cavenaghi reincollò le particelle che si andavano staccando dal muro.

Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento venne bombardato nell'agosto del 1943: venne distrutta la volta del refettorio, ma il Cenacolo rimase miracolosamente salvo tra cumuli di macerie, protetto solo da un breve tetto e da una difesa di sacchi di sabbia, rimanendo esposto per vari giorni ai rischi causati dagli agenti atmosferici.

« Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. »   (Giovanni 13, 21-26 Gv13,21-Gv13,26)
Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli. L'opera si basa sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma come già Leonardo aveva fatto con l'Adorazione dei Magi, l'iconografia venne profondamente rinnovata alla ricerca del significato più intimo ed emotivamente rilevante dell'episodio religioso. Leonardo infatti studiò i "moti dell'animo" degli apostoli sorpresi e sconcertati all'annuncio dell'imminente tradimento di uno di loro.

Dentro la scatola prospettica della stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l'illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all'antica finestra reale del refettorio, Leonardo ambientò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase.

Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l'asse centrale della scena compositiva: non solo delle linee dell'architettura (evidente nella fuga di riquadri scuri ai lati, forse arazzi), ma anche dei gesti e delle linee di forza degli apostoli. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Dal punto di vista geometrico l'ambiente, pur essendo semplice, è calibrato. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) si ottiene l'effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell'ambiente del refettorio stesso, una sorta di raffinato trompe l'oeil. Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso, appartenente al territorio dell'alto Lario.

Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L'effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un'eco delle sue parole che si allontana generando stati d'animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Ogni singola condizione psicologica è approfondita, con le sue peculiari manifestazioni esteriori (i "moti dell'animo"), senza però compromettere mai la percezione unitaria dell'insieme.

Pietro (quarto da sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell'ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni chiedendogli "Dì, chi è colui a cui si riferisce?" (Gv. 13,24). Giuda, davanti a lui, stringe la borsa con i soldi ("tenendo Giuda la cassa" si legge in Gv. 13,29), indietreggia con aria colpevole e nell'agitazione rovescia la saliera. All'estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone esprimono con gesti concitati il loro smarrimento e la loro incredulità. Giacomo il Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto, protestando la sua devozione e la sua innocenza.

La probabilità che certi particolari della composizione possano essere stati suggeriti dai domenicani (forse dallo stesso priore Vincenzo Bandello) è data dal fatto che questo ordine religioso dava grande importanza all'idea del libero arbitrio: l'uomo non sarebbe predestinato al bene o al male ma può scegliere tra le due possibilità. Giuda infatti nel dipinto di Leonardo è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle ultime cene dell'epoca, dove lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo raffigura invece Giuda assieme agli altri apostoli, e così aveva fatto pure il domenicano Beato Angelico, nell'Ultima Cena dell'Armadio degli Argenti esposta al Museo di San Marco a Firenze, lasciandogli l'aureola al pari degli altri. Altra evidente differenza tra l'opera di Leonardo e quasi tutte le ultime cene precedenti è il fatto che Giovanni non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesù (Gv. 13,25) ma è separato da lui, nell'atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando così Gesù solo al centro della scena.

Che la scena raffigurata da Leonardo derivi dal quarto vangelo è intuibile, oltre che dal "dialogo" tra Pietro e Giovanni, dalla mancanza del calice sulla tavola. Diversamente dagli altri tre, detti vangeli sinottici, nel quarto non è descritta la scena che viene ricordata durante la messa al momento della consacrazione: "Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati" (Matteo 26,27). Giovanni, dopo l'annuncio del tradimento, scrive invece così: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv. 13,34).

Infine la figura di Tommaso, subito a sinistra di Gesù col dito puntato verso l’alto, è anatomicamente sproporzionata, con un braccio troppo lungo, e pare collocata nell’unico spazio disponibile in modo un po’ posticcio.Secondo recenti scoperte sui disegni preparatori dell'opera infatti,Leonardo,per ricordarsi tutti i nomi degli apostoli li aveva dovuti appuntare sotto ciascuna figura quindi,si suppone che l'artista avesse dimenticato di inserire l'apostolo, e che abbia dovuto rimediare di corsa.

Sopra l'Ultima Cena si trovano, oltre una cornice baccellata all'antica, tre lunette, in larga parte autografe. Esse contengono imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori e foglie, e iscrizioni su sfondo rosso; la lunetta centrale in particolare, di dimensione maggiore di quelle laterali, è in uno stato di conservazione buono, con una precisa descrizione delle specie botaniche.In questa si è scoperto,grazie ad un restauro digitale del dipinto, effettuato dal centro ricerche Leonardo,anche in base alla scoperta di alcuni bozzetti inediti dell'opera,quello che si ritiene essere il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione. Secondo Mario Taddei, il curatore del progetto,sulla base del ritrovamento del disegno preparatorio che lo raffigura,lo si potrebbe invece interpretare come un serpente che striscia verso l’alto quasi a voler uscire dal dipinto. Un serpente che si trova sospeso esattamente sopra la testa del Gesù.

Una diversa lettura del dipinto è richiamata dal popolare romanzo giallo Il codice da Vinci dello scrittore Dan Brown. Secondo tale ipotesi, che vuole dare un significato esoterico al dipinto, e che Dan Brown ha ricavato dai precedenti libri di Lynn Picknett e Clive Prince, il discepolo alla destra di Gesù Cristo sarebbe da interpretare, complici i tratti femminei del volto, come una donna, con cui Leonardo avrebbe voluto rappresentare Maria Maddalena. Tale interpretazione è funzionale alla trama del romanzo. Nella narrazione alcuni particolari del dipinto, quali l'opposta colorazione degli abiti di Gesù e della presunta Maria Maddalena, l'assenza dell'unico calice citato nel Nuovo Testamento (tutti i commensali, compreso Gesù Cristo, hanno un piccolo bicchiere di vetro senza stelo), la mano posata sul collo della presunta donna come in un gesto di minaccia (scrive Dan Brown che la mano sinistra di Pietro "simile a una lama faceva il gesto di tagliarle il collo") e infine la presenza di un braccio con la mano che impugna un coltello e che si dice non appartenga ad alcun soggetto ritratto nel quadro, sono utilizzati per cercare di dimostrare che Maria Maddalena fosse la possibile amante di Gesù, un'ipotesi respinta dalla Chiesa, in quanto priva di alcuna prova o fondamento.

Questa interpretazione del dipinto è tuttavia confutabile attraverso un'attenta analisi dell'opera, basata sull'episodio dell'Ultima cena narrato nel vangelo di Giovanni. Il coltello "misterioso" è infatti impugnato da Pietro, così come in innumerevoli altri dipinti rinascimentali con questo stesso soggetto (Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, il Perugino, Andrea del Castagno, Jacopo Bassano, Jaume Huguet, Giovanni Canavesio, solo per citarne alcuni) ed è in diretto rapporto con la scena successiva, in cui l'apostolo con quel coltello (una machaira, ovvero un grosso coltello con la lama ricurva, nel testo originale greco) taglierà l'orecchio a Malco, il servo del Gran Sacerdote (Gv 18:10). In questo caso Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena, col polso appoggiato all'anca, posa riscontrabile in tutte le numerosissime copie dell'Ultima cena e in uno schizzo dello stesso Leonardo. Dopo il restauro è anche facilmente verificabile come la confusione potesse nascere dal colore scuro dell'ombra del braccio sull'abito di Pietro, simile all'incarnato della mano e oggi più facilmente distinguibile.

Del calice col vino non si fa parola nel vangelo di Giovanni, nel quale, a differenza dei tre sinottici, non è neppure narrata l'istituzione dell'Eucaristia; la mano di Pietro posata sulla spalla di Giovanni è il gesto narrato nello stesso quarto vangelo, in cui si legge che Pietro fa un cenno all'apostolo più giovane e gli chiede chi possa essere il traditore (Gv 13:24). L'aspetto di Giovanni infine fa parte dell'iconografia dell'epoca, riscontrabile non solo nell'opera di Leonardo ma in tutte le "ultime cene" dipinte da altri artisti tra il XV e il XVI secolo, in cui si rappresentava l'apostolo più giovane (il "prediletto" secondo lo stesso quarto vangelo) come un adolescente dai capelli lunghi e dai lineamenti dolci che oggi possono sembrare femminei ma che all'epoca erano la consuetudine. In particolare ricordiamo che nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, voluminoso repertorio duecentesco di vite di santi ed episodi evangelici, usatissimo come fonte di soggetti per le opere d'arte, Giovanni viene descritto come un "giovane vergine" il cui nome "significa che in lui fu la grazia: in lui infatti ci fu la grazia della castità del suo stato virginale".

Anche la mancanza delle aureole, che a certi scrittori di mistero è parsa "sospetta", in realtà non ha nessuna valenza eretica. Tanti altri artisti prima di Leonardo, soprattutto di area nord-europea, avevano omesso le aureole nelle loro opere di soggetto sacro. Un esempio famoso è l'Ultima Cena dell'olandese Dieric Bouts, dipinta attorno al 1465. Tra gli artisti italiani che spesso hanno "dimenticato" le aureole possiamo citare Giovanni Bellini e Antonello da Messina.


LUOGHI DI CULTO MILANESE : SANTA MARIA DELLE GRAZIE

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Una delle chiese più visitate nel capoluogo lombardo è Santa Maria delle Grazie: curiosiamo un pò la storia e l'architettura.


La chiesa di Santa Maria delle Grazie è una basilica e santuario situata a Milano, appartenente all'Ordine Domenicano e facente capo alla parrocchia di San Vittore al Corpo. L’architettura della tribuna, edificata fra il 1492 e il 1493 per volere del Ludovico il Moro come mausoleo per la propria famiglia, costituisce una delle più alte realizzazioni del Rinascimento nell'Italia settentrionale.

Fu il secondo sito italiano dopo le incisioni rupestri in Valcamonica ad essere classificato come patrimonio dell'umanità dall'Unesco, insieme con l'affresco del Cenacolo di Leonardo da Vinci che si trova nel refettorio del convento (di proprietà del Comune di Milano).

Risale al 1459 la fondazione di un secondo nucleo di frati domenicani a Milano, in aggiunta al primo, antico insediamento di Sant’Eustorgio risalente al 1227, di soli undici anni successivo alla fondazione dell’ordine.

La congregazione di Domenicani, stabilitisi presso l'odierna San Vittore al Corpo, ricevette in dono nel 1460 un appezzamento di terreno dal conte Gaspare Vimercati, condottiero al servizio degli Sforza. Su questo terreno si trovavano una piccola cappella dedicata a Santa Maria delle Grazie, e un edificio a corte ad uso delle truppe del Vimercati. Il 10 settembre 1463 viene posata la prima pietra del complesso conventuale. La costruzione prese avvio da quello che è oggi il Chiostro dei Morti, adiacente alla primitiva cappella della Vergine delle Grazie, che oggi corrisponde all’ultima cappella della navata sinistra della chiesa. A dirigere i lavori fu chiamato Guiniforte Solari, architetto egemone in quegli anni a Milano, già ingegnere capo della fabbrica del Duomo, dell’Ospedale maggiore e della Certosa di Pavia. Grazie al mecenatismo del Vimercati, il convento fu completato nel 1469.

Il convento solariano si articolava attorno a tre chiostri. Il Chiostro dell’Infermeria, originario alloggio delle truppe del Vimercati inglobato nella costruzione, il Chiostro Grande, su cui affacciavano le celle dei frati, e il Chiostro dei Morti attiguo alla chiesa. Di questo chiostro oggi è possibile vedere la ricostruzione post-bellica, in quanto interamente distrutto dai bombardamenti del 1943. È costituito, a nord, dal fianco nord della chiesa, mentre sugli altri tre lati corre un portico di colonne in serizzo con capitelli gotici a foglie lisce. Sul portico si affacciano, a est, l’antica Cappella delle Grazie, le sale del Capitolo e del Locutorio e a nord la biblioteca, edificata da Solari sul modello della già celebre Biblioteca del convento domenicano di San Marco a Firenze, progettato da Michelozzo vent’anni prima. Il lato sud è invece interamente occupato dal refettorio, contenente il celeberrimo Cenacolo Vinciano.

La sala del refettorio, rettangolare, ha un’elaborata copertura costituita da una volta a botte “unghiata”, che si conclude nelle testate con volte “a ombrello”. Internamente era interamente decorata ad affresco sulle pareti e sulla volta. A seguito del crollo della volta e delle pareti principali, restano le due pareti terminali con l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a destra e a sinistra la Crocefissione di Donato Montorfano, temi consueti per la decorazione dei refettori conventuali.

La Crocefissione, firmata e datata 1495 alla base della Croce, è l'impresa di maggiore levatura conservata del pittore milanese. Nell'interessante architettura dipinta sullo sfondo, sono già presenti elementi di linguaggio bramantesco. Nonostante il crollo del refettorio, l'opera si presenta complessivamente in buone condizioni. Completamente perduti sono invece i ritratti della famiglia ducale dipinti da Leonardo agli angoli del dipinto: Ludovico il Moro e Massimiliano a destra, Beatrice e Francesco a sinistra. Le figure vennero dipinte di profilo con la stessa tecnica a secco utilizzata per il cenacolo, che le condannò alla precoce scomparsa. Furono viste e lodate dal Vasari nel corso della sua visita a Milano. Le scarse tracce oggi presenti mostrano le caratteristiche del rigido ritratto di corte dalla consolidata tradizione, il che ha portato alcuni critici a metterne in dubbio la paternità di Leonardo, sempre estremamente innovativo nelle sue realizzazioni. Dalla maggioranza della critica, anche sulla base delle risultanze scientifiche dei restauri, sono tuttavia considerate autenticamente di sua mano.

Le navate costruite dal Solari, immerse nella penombra, vennero illuminate da Bramante con una monumentale tribuna all'incrocio dei bracci, coperta da una cupola emisferica. Vi aggiunse inoltre due ampie absidi laterali e una terza, oltre il coro, in asse con le navate. L'ordinata scansione degli spazi si riflette anche all'esterno, in un incastro di volumi che culmina nel tiburio che maschera la cupola, con una loggetta che si riallaccia ai motivi dell'architettura paleocristiana e del romanico lombardo.

È perfettamente conservata la decorazione delle tre navate, che copre interamente le volte e le pareti e che fu realizzata immediatamente dopo l'ultimazione della chiesa. I motivi geometrici a colori vivaci, le fiammelle e i radiali sono testimonianza del gusto tardogotico ancora diffuso. Di matrice rinascimentale sono invece i tondi, rappresentati nelle lunette della navata centrale, che rappresentano Santi entro una finta architettura in scorcio, variamente assegnati a Butinone, Zenale e Montorfano. Di mano del Butinone sono anche i pregevoli Santi domenicani rappresentati a figura intera nelle navate minori, fra le cappelle.

Nel chiostrino adiacente alla tribuna, sulla porta che conduce alla sacrestia, c'è un affresco realizzato da Bramantino.

La chiesa presenta sui due fianchi sette cappelle quadrate per lato, realizzate dal Solari ad eccezione dell’ultima a sinistra, dedicata alla Vergine delle Grazie e preesistente alla costruzione del complesso. Immediatamente dopo la costruzione dell’edificio, i più importanti casati milanesi richiesero il patrocinio delle cappelle, da utilizzarsi come sepoltura per i membri delle famiglie, ed affidandone la decorazione a vari artisti a cavallo fra quattrocento e cinquecento. Dal Libellus Sepulchrorum conservato negli archivi di stato, è possibile risalire alla committenza e alla decorazione originaria, anche per le capelle del lato sinistro distrutte durante la seconda guerra mondiale.
 La cappella, appartenente a Paolo da Cannobbio, era originariamente dedicata a San Paolo, raffigurato in un dipinto di Gaudenzio Ferrari collocato sull’altare. Il dipinto, requisito durante la dominazione francese all’inizio dell’ottocento, è ora conservato al museo di Lione. Oggi ospita sull’altare un affresco staccato, proveniente dalla cappella della Vergine delle Grazie, raffigurante la Madonna adorante il bambino, che contiene in basso i ritratti dell’intera famiglia dei committenti. Non è noto l’autore dell’opera di fine Quattrocento, di gusto ancora tardogotico.

Alla parete destra è posto il monumento funebre di Francesco Della Torre commissionato nel 1483. Il sarcofago classicheggiante, sorretto da colonne a candelabra, è ornato dai bassorilievi con l’Annunciazione, l’Adorazione dei pastori e l’Adorazione dei Magi. Prevalente è l’attribuzione ai fratelli Cazzaniga, figure di spicco della scuola rinascimentale lombarda.

Cappella di San Martino
Seconda a destra

Cappella degli Angeli, o Marliani
Terza a destra. Affreschi e pala d’altare di anonimo lombardo del XVI secolo, con episodi relativi all’Arcangelo Michele. Sulla serraglia in pietra al centro della volta è scolpita l’Annunciazione.

Cappella di Santa Corona

Quarta a destra. Apparteneva alla Confraternita di Santa Corona, che vi conservava una reliquia con la spina della corona di Cristo. Era utilizzata come sepoltura per i rettori della confraternita, fondata nel 1494 da Stefano da Seregno, la cui sede è oggi visibile all’interno della Pinacoteca ambrosiana. La facoltosa congregazione ordinò la decorazione ad affresco che riveste l’intera cappella nel 1539 al pittore più in vista della Milano del tempo, Gaudenzio Ferrari, che dipinse la Crocefissione e l’Ecce Homo alle pareti, e Angeli con gli strumenti della passione nelle vele. La Pala d’altare fu invece commissionata a Tiziano. L’Incoronazione di spine dipinta dal maestro veneto è oggi esposta al Louvre, nella sala della Gioconda, dopo che fu asportata dai commissari Napoleonici all’inizio dell’Ottocento. L’opera, ritenuta uno dei capolavori della maturità dell’artista, presenta caratteri tipici del manierismo romano nella monumentalità e nella posa avvitata delle figure. Il suo stile ebbe grande influenza nella cultura pittorica milanese, visibile anche negli stessi affreschi di Gaudenzio che ne condividono i toni imponenti e fortemente drammatici.

Cappella di San Domenico, o Sauli
Quinta a destra. Domenico Sauli commissionò nel 1541 l’intera decorazione pittorica, comprendente gli affreschi e la pala d’altare, al veneto Giovanni Demìo. Il ciclo, che comprende la Crocefissione all’altare, le lunette con Noli me tangere e Cristo in Emmaus e la decorazione della volta, mostra un forte accento manierista, caratterizzato da accenti nordici.

Cappella di San Vincenzo Ferrer, o Atellani
Sesta a destra. Originariamente appartenente alla famiglia degli Atellani, il cui palazzo quattrocentesco si può ancora vedere sul fianco della chiesa delle Grazie, fu affrescata nel seicento dai Fiammenghini, contiene una Madonna e Santi di Coriolano Malagavazzo.

Cappella di San Giovanni Battista
Settima a destra. Gli affreschi tardocinquecenteschi sono del manierista Ottavio Semino. Particolarmente elaborata è la volta a ombrello, dove Semino raffigura Profeti nelle lunette e negli spicchi, con Dio padre al centro. Dell’inizio del Cinquecento è invece la Pala di Marco d’Oggiono, allievo di Leonardo. Contiene il ritratto dell’ignoto committente, appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta, in adorazione del Battista.

Cappella di Santa Caterina, o Bolla
Prima a sinistra. Gli affreschi contenuti nelle lunette, gravemente danneggiati durante la seconda guerra mondiale, sono la testimonianza della più antica fra le decorazioni delle cappelle. Rappresentano episodi di vita della Santa titolare della Cappella, commissionati dalla famiglia Bolla già alla fine del Quattrocento, variamente attribuiti a Donato Montorfano e a Cristoforo De' Mottis. Oltre al trittico cinquecentesco firmato Niccolò da Cremona, la cappella contiene opere scultoree di Francesco Messina: il Crocefisso sull'altare, e le sei formelle bronzee ispirate alla vita di Caterina da Siena.

Cappella Conti
Quarta a sinistra. Dopo la ricostruzione postbellica sono stati sistemati qui vari cenotafi, fra cui quello di Ettore Conti, promotore dei restauri degli anni trenta, di Wildt.

Cappella di San Giuseppe
Sesta a sinistra. Integralmente ricostruita dopo la seconda guerra mondiale, ospita una Sacra Famiglia cinquecentesca di Paris Bordon.

Cappella della Vergine delle Grazie
Settima a sinistra. La cappella era preesistente alla costruzione della chiesa, e costituisce il nucleo originario da cui prese origine tutto il complesso a cui diede anche il nome. Essa infatti esisteva già sul terreno che il Conte Vimercati donò ai monaci, e partendo dalle murature esterne di questa il Solari iniziò l'edificazione del convento e della chiesa.

Sopra l'arco d'ingresso alla cappella, la lunetta ospita la tela del Cerano con la Vergine libera Milano dalla Peste, eseguita dopo il 1630 come ringraziamento per la cessazione della tragica pestilenza che aveva falcidiato la popolazione milanese. L'opera contiene dettagli di crudo realismo, come il cadavere del bambino in primo piano e il bubbone esibito dalla donna retrostante, ed è pervasa da una cupa desolazione che rende ancora oggi la tragica atmosfera narrata da Alessandro Manzoni. All'interno della cappella, la pala d'altare raffigura la Madonna con il committente Gaspare Vimercati e la moglie, risalente alla fine del Quattrocento. Della stessa epoca è anche l'affresco sovrastante con l’Eterno circondato da Angeli, dai modi che ricordano ancora il gotico cortese. Per la sua affinità con gli affreschi della cappella ducale del Castello Sforzesco, è ritenuto di Bonifacio Bembo o della sua scuola.

Tutte le vetrate nella cappella, realizzate nel 1963, sono opera della pittrice Amalia Panigati e raffigurano l’Annunciazione, la Natività, la Crocifissione e l’Incoronazione della Vergine; la vetrata del portale sul chiostro rappresenta invece una Croce.

Il chiostro adiacente alla tribuna Bramantesca collega quest'ultima con la sagrestia monumentale.

È oggi detto "delle rane" per via delle ranocchie in bronzo che ornano la fontanella al centro del chiostro. La sua costruzione si colloca alla fine del Quattrocento, negli anni della ricostruzione della tribuna, e viene quindi ritenuto parte dello stesso progetto di Bramante per la tribuna.

Perfettamente quadrato, è costituito da cinque arcate per lato in cotto, rette da colonne marmoree e capitelli a motivi rinascimentali. Sulle lunette d'ingresso alla chiesa e alla sagrestia si trovano due lunette monocrome ascritte a Bramantino.

La sagrestia vecchia è un grande ambiente cui si accede dal Chiostro delle rane, sul lato opposto a quello della chiesa. Si tratta di una vasta aula rettangolare, che prospetta su Via Caradosso con grandi finestroni dalle cornici in cotto, restaurate nell'Ottocento. La sua costruzione risale all'ultimo decennio del Quattrocento, in concomitanza con il rifacimento della Tribuna. Il progetto è tradizionalmente assegnato a Bramante. Sopra il portale d'ingresso, una lunetta di Bramantino raffigura la Madonna fra San Giacomo e San Luigi di Francia. La presenza di quest'ultimo Santo fa risalire la datazione al periodo di dominazione Francese, fra il 1499 e il 1512. L'aula interna è coperta da una volta a botte unghiata, con testate a ombrello, e termina con una piccola abside. La decorazione ad affresco che ricopre la volta è stata da taluni attribuita a Leonardo, per la presenza del motivo del Nodo Vinciano, utilizzato anche nella Sala delle Asse al Castello Sforzesco. Al di sotto della volta, l'alta trabeazione presenta motivi decorativi classicheggianti con draghi e conchiglie. Lungo tutto il perimetro della sagrestia corrono gli armadi lignei destinati a custodire gli arredi sacri. Tutti gli sportelli sono ornati da dipinti databili all'inizio del Cinquecento, con scene bibliche. Di grande bellezza sono le quattordici ante a destra, con scene del Nuovo Testamento, nei modi del Bramantino, mentre sul lato sinistro sono raffigurati episodi dal Vecchio Testamento. Completano la decorazione della sala, sulla parete di fondo, affreschi cinquecenteschi.

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