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domenica 19 aprile 2015

IL SANTUARIO DELLA MADONNINA DELLA PUNTA A MACCAGNO



Il santuario è collocato su un masso roccioso a picco sul lago Maggiore. In origine era una piccola cappella ad aula unica, con un piccolo pronao sostenuto da due colonne, costruita su di un terrazzo di roccia e sorretta da pilastri in pietra.
La notizia piu’ antica che si ha del santuario è del 1574, data della visita di San Carlo Borromeo. Nel 1935 venne annoverato tra i 72 santuari mariani con il privilegio di poter celebrare la Messa Giubilare. La suggestione del santuario è data sia dalla posizione su un promontorio roccioso del lago.
La facciata ha forme barocche ed una copertura in tegole di pietra sovrapposte che gli conferiscono eleganza. L’interno è notevole per i suoi quattro altari, di cui il maggiore in marmo, il prezioso organo (pare sia stato il primo organo della Scala di Milano) e le vetrate, realizzate negli anni ’70. Oggetto del culto popolare, è la statua lignea raffigurante la Vergine con il Bambino, coperta da abiti di raso bianco, decorazioni in oro e mantello azzurro.
Vi è inoltre un affresco rappresentante la Madonna collocato sopra l’altare, sulla parete di fondo della chiesa.



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IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA RIVA A ANGERA

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Il Santuario della Madonna della Riva di Angera sorge sul lungolago della cittadina, sul luogo dove sin dal XV si trovava un affresco votivo raffigurante una Madonna col Bambino. Di fronte al santuario si trova il porto austriaco e lo sguardo spazia sulla zona meridionale del lago: la passeggiata lungo l’Allea passa proprio di fronte all’ingresso della piccola Chiesa, il cui esterno reca evidenti i segni di un’opera incompiuta.

« Nel 1657 alli 27 giugno seguì il miracolo di sudor di sangue, che si vede dalla fronte della beata vergine, quale era sopra d'un muro laterale della porta che serviva alla Casa Berna. Così come si postuama di preferire, avevano fatta la ghirlanda di fiori alla suddetta effigie le diverse donzelle di Angera. Ed una donna che era solita passando avanti inginocchiarsi a salutare con l'Ave Maria la divina immagine, osservava che mandava dalla faccia il sangue e poi sangue ancora. La donna, intimorita dal fatto, gridò al miracolo. Intervenne il Prevosto Sig.Giorgio Castiglioni, il quale asciugò il sangue miracoloso con un bianco lino »

Il prodigioso evento si ripeté l'8 settembre, festa della Natività di Maria, quando attorno all’effigie era già stata edificata una piccola cappella provvisoria.
"La Madonna fu osservata bagnarsi tutta di sangue... Sono prodigi questi mentre il giorno della Sua Nascita, che doveva essere festosa, si mostra così sanguinosa".
La grandezza e la popolarità dell’avvenimento convinsero l’arcivescovo, il prevosto Giorgio Castiglioni e il conte Renato Borromeo a costruire una chiesa proprio in quel luogo. Dopo aver acquistato l’edificio su cui esisteva il dipinto dall’oste Emanuele Berna, si diede incarico all’architetto milanese Gerolamo Quadrio di progettarne la costruzione.
Il 10 agosto 1662 il Vicario generale della diocesi, Cesare da Biandrate, delegato arcivescovile, assistito dal conte Renato Borromeo, feudatario della città di Angera, procedette alla posa della prima pietra del Santuario.
Negli anni seguenti numerose difficoltà economiche impedirono di proseguire i lavori e la chiesa rimase incompleta: furono costruiti così solo il coro e il presbiterio, inaugurati e benedetti nel 1667.
Si tratta di un progetto incompleto: l’imponenza dell’edificio, sproporzionato nelle dimensioni, ne è la testimonianza più evidente. Il progetto originario prevedeva un edificio ottagonale, con portici e colonnati attorno, due torri campanarie e due ampie sacrestie: se completato la sua facciata sarebbe arrivata a oltre la metà dell'attuale porto delle barche.
Nel 1735, sul lato posteriore del tetto, fu costruito un piccolo campanile e nel 1943 la facciata, che era diventata pericolante, fu rafforzata con un apparato murario di stile moderno, opera dell’architetto Rino Ferrini di Angera. L’interno, dall’ampia spazialità proiettata in altezza, è stato reso più luminoso con il restauro curato dall’architetto Vincenti di Milano (1980-81), che ha dato una chiara tonalità alle pareti, scandite dalle lesene e dai capitelli a stucco. Sopra l’ingresso, in alto, vi è una vetrata realizzata nel 1957 dal professor Bertuzzi di Milano, con l’Assunzione della Vergine.
Sulla calotta absidale sono state lasciate in evidenza alcune figure affrescate nel 1943 dal pittore Coccoli di Brescia rappresentanti l’Incoronazione della Vergine tra angeli musicanti. Al centro è l’elegante altare con la venerata Immagine della Madonna col Bambino, staccata dal muro originario e trasportata su tela ad opera del pittore Anselmi di Milano. Pregevole è l’anonima "Gloria d’Angeli" che incornicia l’immagine miracolosa: quest’opera seicentesca necessita di restauri. Sul retro dell’altare vi è una tela seicentesca con la Crocifissione proveniente dalla chiesa di Santa Maria Assunta.
Le pareti sono ornate con dipinti provenienti in gran parte dalle altre chiese angeresi: sulla parete sinistra la "Visita di San Carlo alle valli", che nel Seicento ornava le ante dell’antico organo della Chiesa parrocchiale, sulla destra le due tele dell'Ascensione e dell'Assunzione della Madonna. Ritenute prima del Morazzone, poi di Procaccini e di Isidoro Bianchi, queste opere sono state recentemente attribuite a Bartolomeo Roverio detto il Genovesino che probabilmente le dipinse attorno al 1623.

Il Santuario è da secoli il centro della devozione mariana di tutti gli Angeresi e delle popolazioni dei paesi limitrofi e meta di numerosi pellegrinaggi. I documenti conservati nell’archivio parrocchiale danno testimonianza di tre grandi grazie ottenute per il patrocinio della Madonna della Riva.

6 giugno 1745
Rianimazione di una bimba di otto mesi, rimasta soffocata sotto la culla che si era rovesciata durante la momentanea assenza dei genitori, i coniugi Simonelli Martino e Cattaneo Angela Giacomina.
Giugno 1746
Improvvisa guarigione da una grave infermità del canonico Baldassarre Contini, che ha potuto così attendere al suo ministero sacerdotale in preparazione della Festa della Madonna della Riva.
16 ottobre 1747
Improvvisa guarigione di Margherita Contini Corti, giudicata in fin di vita dai medici curanti.

Numerose altre grazie furono ottenute lungo il corso di questi tre secoli per l’intercessione della Madonna della Riva, come testimoniano gli "ex voto" posti nell’abside del santuario. L’immagine miracolosa della Madonna col Bambino, oltre all’importanza devozionale possiede anche un suo valore artistico. L’affresco, del 1443, nel nostro secolo è stato staccato dal muro originario e trasportato su tela.
L’inondazione del 1868 ha cancellato completamente la figura del Bambino e le mani della Vergine. Ciò che colpisce dell’opera sono soprattutto la dolcezza del viso della Madonna e la raffinatezza del velo, particolari che dimostrano la preparazione notevole dell’autore influenzato forse da qualche artista del centro Italia.
L'anniversario del miracolo è ricordato il 27 giugno e la Festa del Santuario è fissata per la prima domenica di luglio.



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sabato 28 marzo 2015

LA CHIESA SI SAN PIETRO IN MAVINO

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La chiesa di San Pietro in Mavino, a Sirmione, ha origini molto antiche, secondo la tradizione venne costruita dai pescatori del luogo.
I primi documenti che citano la chiesa di S. Pietro in Mavino risalgono all’VIII secolo, in un manoscritto del 756.

L’edificio subì diversi rifacimenti, sia nel periodo romanico, di cui rimane  il campanile risalente al 1070,  che nel 1300.
Altri interventi sulla chiesa avvennero nei secoli XVII e XVIII, quando furono aperte le due finestre ogivali di facciata e la porta inserita sul longitudinale sud.

La tessitura muraria dell’edificio è composta da elementi di vario tipo: ciottoli di lago, conci appena squadrati, mattoni e laterizi.
Nelle parti alte della muratura dell’edificio si possono notare i rifacimenti dovuti al restauro del XIV secolo, con la sopraelevazione delle coperture, intervento che probabilmente determinò anche l’occlusione delle finestre.

La chiesa è a pianta rettangolare, con un'unica navata terminante con tre absidi semicircolari, di cui quella centrale più grande delle altre, animate da monofore con doppia strombatura e caratterizzate da lacerti di affreschi.

All'interno si possono ammirare affreschi dei sec. XII-XVI.

Sulla parete a sinistra dell’ingresso si può ammirare un affresco staccato con raffigurata una serie di santi apostoli, tra cui San Simone.

Nella cappella dedicata ai caduti si può ammirare un affresco ripartito in tre sezioni con S. Michele, che con la lancia trafigge un drago o il diavolo, un santo con la palma del martirio in mano che, sotto il braccio sinistro, tiene un libro e un nobiluomo identificabile con S. Rocco.

L’emiciclo dell’absidiola nord è completamente dipinto: vi sono raffigurati una Madonna con Bambino e figure di santi.
Nell’abside centrale la decorazione si sviluppa su due livelli: in quello superiore si trovano dipinte le anime dei dannati e quelle dei beati oranti con il Cristo Pantocratore in mandorla, la Vergine e il Battista e angeli, mentre nel registro inferiore ci sono sei figure di santi all’interno di cornici, tra cui San Giacomo e San Paolo.

Nell’abside sud la parete affrescata è divisa in due settori, in cui si ha la raffigurazione di una Crocifissione, con Maria e le donne piangenti e una figura di santa in preghiera.
Nei rimanenti affreschi si riconoscono S. Antonio Abate, San Pietro, Maria Maddalena, una Madonna in trono con Bambino

La chiesa di S. Pietro è visibile dall’esterno solo su tre lati, infatti il lato nord, ampliato con l’aggiunta di ambienti residenziali recenti, non è visitabile, in quanto rimane all’interno di una proprietà privata. L'edificio sorge sul punto più alto della penisola di Sirmione, fuori dal centro abitato, poco lontano dalle rovine delle cosiddette Grotte di Catullo.

L'edificio si presenta oggi a pianta rettangolare a navata unica con tre absidi semicircolari a est, e richiama edifici di derivazione carolingia dell'VIII-IX secolo, anche se bisogna dire che le sole affinità stilistiche non bastano certo a determinare una cronologia attendibile.
L'attuale edificio di S. Pietro rimane visibile all'esterno per tre quarti; solo il lato nord, ampliato con l'aggiunta di ambienti residenziali recenti, non è visitabile, rimanendo all'interno di una proprietà privata. La terminazione orientale a tre absidi semicircolari, ha la centrale di dimensioni maggiori delle laterali, che hanno emicicli poco sporgenti dalla pianta. Un consistente strato di intonaco ricopre la quasi totalità dell'apparato murario della zona est, con scrostature nelle parti basse che permettono di intravedere i conci in opera nella muratura, formata da pietre tenere di color rosato e di color ocra o grigie, mischiate a ciottoli e a mattoni color rosso e ocra, il tutto allestito in abbondante malta.
Le absidi sono prive di decorazione esterna, animate solo da strette monofore a doppio strombo liscio (oggi murate), tre nell'abside centrale, una in ciascuna delle laterali: solo al culmine dell'abside maggiore, meno marcatamente nell'abside nord e in modo irrilevante in quella sud, l'allineamento della muratura si fa irregolare e prominente (l'intonacatura non permette di valutare se tale sporgenza muraria sia dovuta all'eccesso di intonaco - dato che le parti del sottotetto delle absidi minori presentano solo parzialmente questa particolarità - o alla presenza sotto l'intonaco di assetti decorativi che provocano l'aggetto). La copertura delle absidi è realizzata con tegole di tipo romano e coppi. Poco sopra il livello di questo tetto è visibile una specie di profilo in laterizio appena sporgente, a delineare la forma degli spioventi, forse indizio del livello dell'antica copertura, che corre sotto il rialzamento, di un metro e mezzo circa, realizzato nel XIV secolo. I sottogronda di questa parte dell'edificio sono marcati da una doppia cornice scalare di mattoni rossi. L'aspetto austero ed essenziale di questa sezione della chiesa, con l'abside centrale molto più grande rispetto alle due laterali, indicherebbe origini preromaniche, anche se è innegabile che questi caratteri strutturali di gusto arcaico debbano essere considerati semplici indizi per una collocazione cronologica dell'edificazione del S. Pietro, soprattutto perchè questo modello architettonico, in territorio bresciano, si manterrà anche nell'XI, e addirittura, nel XII secolo. Tuttavia secondo alcuni studiosi, in questo caso la coincidenza col tipo di pianta, di muratura, a ciottoli, mattoni e conci in spessa malta, e l'assenza di decorazione fanno propendere ragionevolmente per una datazione anteriore al Mille.
Questa considerazione troverebbe credibilità anche attraverso l'analisi delle murature del vicino campanile, le cui parti basse, realizzate poco dopo la metà del XI secolo (l'edificazione risalirebbe all'anno 1070), sono chiaramente diverse da quelle della chiesa, sia per quanto riguarda l'apparecchiatura muraria, a conci disposti regolarmente e inquadrata da larghe lesene angolari, che per la presenza di una serie di archetti realizzati in cotto, nonchè di finestre a bifora.
In generale, comunque, la muratura si presenta estremamente stratificata, con ampio impiego dei più svariati materiali edilizi: dai ciottoli di lago non lavorati ai conci appena squadrati o altri ancora meglio lisciati, oltre a mattoni e laterizi di varie dimensioni e di diverse epoche (romana, altomedievali e tardogotica).
Gli studiosi, in base anche a recenti ricerche sulle complesse strutture murarie del S. Pietro, leggerebbero in alcune di queste tracce abbastanza significative della prima fase costruttiva, risalente al VIII secolo, in particolare nelle due pareti laterali e nella facciata.
La vista dal fianco sud della chiesa mostra una piccola anomalia costruttiva: la linea sommitale di spiovente del tetto è infatti leggermente inclinata verso la facciata. Il muro longitudinale sud conserva parzialmente uno strato di intonaco anche se, nelle parti basse, rimangono scoperti alcuni tratti che permettono una seppur parziale lettura della composizione muraria.
La muratura, per quasi la totalità della lunghezza dell'edificio e per un consistente tratto dell'alzato, è realizzata in piccole pietre bianche e rosate di materiale tenero, di diversa dimensione e di basso spessore inserite in consistente malta (livelli dello spessore di 2-3 centimetri), poste in opera tentando di collocarle ordinatamente, a corsi orizzontali intercalati da fasce con conci inseriti a spina di pesce. La già ricordata presenza dell'intonacatura non permette di verificare se la diversa applicazione dei conci a livelli orizzontali volesse avere carattere omogeneo e decorativo.
Tale fase edilizia arriva a un'altezza di circa tre metri. comprendendo la traccia di quattro monofore ad arco a tutto sesto piuttosto grandi (i contorni di una di queste finestre, con arco terminale ribassato in mattoncini, sempre murata, sono ancora individuabili), mentre un quinto finestrone rettangolare aperto in tempi più recenti vicino al campanile, s'inserisce in questa fase edilizia. La realizzazione di aperture di questo tipo sui longitudinali ricorda assetti architettonici arcaici caratteristici delle basiliche paleocristiane e altomedievali, come le finestre a doppia cornice aperte nei muri longitudinali del S. Salvatore di Brescia.
Evidenti, nelle parti alte, i rifacimenti dovuti al restauro del XIV secolo, con la sopraelevazione delle coperture, intervento che probabilmente determinò l'occlusione delle finestre e la realizzazione del ciclo affrescato all'interno.
Nella muratura prossima allo spigolo di facciata, per tutto l'alzato, il tipo di materiale in uso cambia rispetto al resto dell'edificio: qui vengono usati conci più grandi e la messa in opera diviene più approssimativa; le malte impiegate sono diverse, anche se l'intonaco attenua le differenze.
Sempre nel longitudinale meridionale, il tratto murario tra l'area absidale e il campanile presenta un consistente strato di intonaco che non permette un confronto con le restanti murature verso ovest. Certamente epoche recenti hanno visto in questa settore dell'edificio la realizzazione sia della porta, sia della finestra rettangolare.
Secondo gli studiosi la chiesa subì una consistente opera di riammodernamento già durante il XIV secolo (questo intervento è attestato dalla presenza di una incisione in numeri romani MCCCXX, su un mattone murato alla sinistra del portale d'ingresso). A questa fase si devono le modifiche in facciata, con la costruzione di un nuovo portale ad arco ribassato, tuttora in opera. In occasione del medesimo restauro, nella facciata, poco sopra il portale, venivano murati due lacerti di marmo bianco di epoca altomedievale: l'uno decorato con un motivo a graticcio, l'altro, messo di traverso, con scolpito un vaso dal quale fuoriesce un tralcio terminante in un fiore con una colomba che si abbevera. Nel XV secolo, venivano realizzati il rosone al centro della facciata e la finestra quadrata a sinistra del portale. Altri interventi nei secoli XVII e XVIII interessarono l'edificio del S. Pietro e portarono all'apertura delle due finestre ogivali di facciata e della porta inserita sul longitudinale sud.
Nell'odierna facciata a capanna, pertanto, tutta le aperture, dall'oculo alle due finestre ad arco ribassato, dalla finestra squadrata sulla sinistra del portale al portale stesso, sono integralmente frutto di ricostruzioni recenti, che hanno alterato notevolmente l'aspetto originario. Gli stessi due lacerti d'epoca preromanica, murati sopra l'ingresso, rimarcano quali profonde modifiche ebbero a interessare le strutture che caratterizzavano l'antico edificio di S. Pietro. Uno strato di intonaco (a questo punto, certamente necessario date le consistenti manipolazioni degli assetti murari), omogeneizza architettonicamente l'aspetto della facciata.
Solo nelle parti basse la caduta dell'intonacatura permette una parziale lettura della composizione muraria: anche qui sono assemblate pietre di svariata qualità e forma, in abbondante malta. A delineare i fianchi della facciata sono state inserite delle pietre piuttosto grosse e lisciate nelle parti a vista che, per lavorazione ed allestimento, si differenziano notevolmente dal resto dei materiali impiegati nella muratura.
Il campanile quadrangolare, collocato sul lato sud della chiesa, è univocamente riconosciuto come costruzione pienamente romanica e realizzato probabilmente in due fasi edilizie risalenti ai secoli XI (1070) e XII, più almeno una terza fase nel secolo XIV che vedeva l'occlusione delle bifore sommitali e la creazione, un piano sopra, della nuova cella campanaria con al culmine un pinnacolo piramidale. La torre presenta un allestimento murario realizzato con i più svariati materiali, anche se non manca un tentativo di organizzazione omogenea dei conci, sia per corsi orizzontali, sia per tipologia di materiale (questo aspetto è meglio individuabile nell'alzato del lato est da un'altezza di circa tre metri fino alla linea degli archetti pensili). Nel lato est, le parti basse della torre sono composte da pietre assemblate in maniera grossolana, probabilmente anche a causa di restauri, sono difatti ancora visibili i resti dell'arco in mattoni di una porta, ora murata. Gli altri lati presentano ancora la varietà dei materiali in opera, ciottoli, pietre squadrate, scaglie e mattoni; nel lato ovest, nelle parti basse vicine al muro longitudinale dell'edificio, sono addirittura murati dei conci di forma rotonda che sembrerebbero la sezione di colonne di epoca romana (uno di questi pezzi è incavo al centro). A partire invece da un'altezza di circa tre metri, l'allestimento si fa più curato e i conci, appena lavorati, riescono a seguire linee regolari orizzontali anche per più di un filare: qui sono in opera su tutti i lati ciottoli di lago arrotondati, inseriti a corsi orizzontali e in spessa malta in alternanza a fasce di mattoni rossi e ocra, con tratti di muratura interamente realizzati con pietre chiare e squadrate.
Due larghe lesene angolari di pietre abbastanza grandi, lisciate nelle parti a vista, inquadrano su tre lati (quello nord, di cui si può vedere solo la parte sommitale, ne è privo) questi tratti murari con la sezione centrale conclusa da una cornice di archetti rampanti compositi in cotto, sostenuti da mensoline prive di decorazioni sempre in cotto (alla moda veronese). Nel lato orientale, la cornice di archetti è rovinata per un tratto, mentre è ben conservata nei lati sud e ovest (il lato nord del campanile non presenta nessun particolar decorativo: la monofora è stata occlusa e le murature non presentano particolari distintivi, oltre ad un'approssimativa messa in opera di conci irregolari di diverso materiale). Tutto sommato, il campanile non raggiunge una grande altezza; l'attuale cella campanaria è stata interamente realizzata in mattoni e su ogni suo lato sono aperte delle monofore (eccetto, come detto, quella a nord che è murata). Una cornice con un filare di mattoni rossi inseriti a dente di sega corre lungo il profilo sommitale della torre.
Le differenze costruttive tra le sezioni più basse e la sezioni mediana della torre fino all'altezza degli archetti ciechi sarebbero attribuibili alle due differenti fasi edificatorie dei secoli XI e XII.
Il tratto del longitudinale nord d'epoca medievale, visibile nel tratto prossimo all'area absidale, mostra un restringimento rilevabile in pianta e percepibile anche in alzato: a partire dallo spigolo absidale, il muro, dopo pochi metri in lunghezza, sembra patire un rigonfiamento o un allargamento fino al livello della facciata. Il tratto in alzato di questa parte dell'edificio è quasi completamente ricoperto dall'edera e non è possibile osservare il tipo di muratura che lo compone, mentre il restante longitudinale è occupato dagli edifici residenziali moderni.

Lo scavo interno ha portato alla luce un notevole numero di tombe, di diverso formato e prestigio. In alcune erano presenti elementi di abbigliamento e ornamenti, come fibule di cinture e crocette dorate. Sono emersi anche frammenti di arredo scultoreo, una teca per reliquie in muratura e un’area presbiteriale del V secolo, riconoscibile per la sua forma semicircolare. Sotto l’altare è stato poi rinvenuto un frammento di architrave, con inciso il verbo latino cogitate (pensate). Mentre gli scavi esterni, dopo opportuna catalogazione, sono stati ricoperti, l’interno della chiesa aspetta ancora il ripristino del pavimento originale e la messa in evidenza dell’area presbiteriale.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/sirmione.html




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giovedì 12 marzo 2015

MULINI GRASSI

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I Mulini Grassi di Varese, costruiti tra il XVI secolo ed il XIX, sono divisi in due strutture separate e di forma irregolare. Ristrutturati per essere adibiti ad abitazione hanno, sui muri esterni alcuni esempi di meridiane di grande interesse storico.

Il complesso dei Molini Grassi, sia per la loro struttura architettonica (sono composti da più edifici su più livelli naturali lungo l'Olona) che per la dotazione ruote (ben sette iscritte a Catasto nel 1881) è stato senza dubbio uno fra i più importanti della  zona.

Date presenti su una parete interna dell'edificio più a Sud (1730) e soprattutto l'affresco esterno sulla facciata dell'edificio a Nord (1675) ne attestano la presenza sin dai tempi più antichi.

Ancora di grande valore l'ambito circostante.

Il complesso dei Molini Grassi, grazie anche ad  alcuni   recenti   interventi  di   restauro,  ha mantenuto una consistenza strutturale originaria ancora facilmente visibile.

Sono tuttora presenti due ruote in ferro a  testimonianza di un passato recente.

LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/lombardia-la-regione-che-ospita-expo.html

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venerdì 20 febbraio 2015

IL CENACOLO : UNO DEI CAPOLAVORI DI LEONARDO DA VINCI



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L'Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa (e forse altri leganti oleosi) su intonaco di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell'ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Si tratta della più famosa rappresentazione dell'Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Nonostante ciò l'opera, a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata da Leonardo, incompatibile con l'umidità dell'ambiente, versa da secoli in un cattivo stato di conservazione, che è stato almeno fissato e, per quanto possibile, migliorato nel corso di uno dei più lunghi e capillari restauri della storia, durato dal 1978 al 1999 con le tecniche più all'avanguardia del settore.

Deluso dall'abbandono forzato del progetto del monumento equestre a Francesco Sforza, a cui aveva lavorato quasi dieci anni, Leonardo ricevette però quell'anno un'altra importante commissione da Ludovico il Moro. Il duca di Milano aveva infatti eletto la chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie a luogo di celebrazione della casata Sforza, finanziando importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento di tutto il complesso; Donato Bramante aveva appena finito di lavorarvi quando si decise di procedere con la decorazione del refettorio.

Venne decisa una decorazione tradizionale sui lati minori, rappresentante la Crocifissione e l'Ultima Cena. Alla Crocifissione lavorò Donato Montorfano, che elaborò una scena di impostazione tradizionale, terminata già nel 1495. In questa scena, oggi scarsamente leggibile, Leonardo dovette rappresentare, verso il 1497, i Ritratti dei duchi di Milano con i figli.

Sulla parete opposta l'artista avviò l'Ultima Cena (o Cenacolo), che lo risollevò dalle preoccupazioni economiche e nella quale riversò tutte le conoscenze assimilate nel corso di quegli anni. Leonardo realizzò numerosi studi, oggi in parte conservati, come la Testa di Cristo alla Pinacoteca di Brera.

Nella novella LVIII (1497) Matteo Bandello fornì una preziosa testimonianza di come Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo:

« Soleva andar la mattina a buon'ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v'avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due ore del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L'ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove. »
(Matteo Bandello, Novella LVIII)
Come è noto Leonardo non amava la tecnica dell'affresco, la cui rapidità di esecuzione, dovuta alla necessità di stendere i colori prima che l'intonaco asciughi imprigionandoli, era incompatibile con il suo modus operandi, fatto di continui ripensamenti, aggiunte e piccole modifiche, come testimonia dopotutto il brano di Bandello. Scelse di dipingere quindi su muro come dipingeva su tavola; i recenti restauri hanno permesso di appurare che l'artista, dopo aver steso un intonaco piuttosto ruvido, soprattutto nella parte centrale, e steso le linee principali della composizione con una specie di sinopia, lavorò al dipinto usando una tecnica tipica della pittura su tavola. La preparazione era composta da una mistura di carbonato di calcio e magnesio uniti da un legante proteico e prima di stendere i colori l'artista interpose un sottile strato di biacca (bianco di piombo), che avrebbe dovuto far risaltare gli effetti luminosi. In seguito vennero stesi i colori a secco, composti da una tempera grassa realizzata probabilmente emulsionando all'uovo oli fluidificanti. Ciò permise la particolare ricchezza della pittura, con una serie di piccole pennellate quasi infinite e una raffinata stesura tono su tono, che consentì una migliore unità cromatica, una resa delle trasparenze e degli effetti di luce, e una cura estrema dei dettagli, visibili solo da distanza ravvicinata; ma la tecnica fu anche all'origine dei problemi conservativi, soprattutto in ragione dell'umidità dell'ambiente, confinante con le cucine.

L'opera era già terminata nel 1498, quando Luca Pacioli in data 4 febbraio di quell'anno la ricordò come compiuta.

Appena terminato il dipinto, Leonardo si accorse che la tecnica che aveva utilizzato mostrava subito i suoi gravi difetti: nella parte a sinistra in basso si intravedeva già una piccola crepa. Si trattava solo dell'inizio di un processo di disgregazione che sarebbe continuato inesorabile nel tempo; già una ventina di anni dopo la sua realizzazione, il Cenacolo presentava danni molto gravi, tanto che Vasari, che la vide nel maggio del 1566, scrisse che "non si scorge più se non una macchia abbagliata". Per Francesco Scannelli, che scriveva nel 1642, dell'originale non era rimasto altro che poche tracce delle figure, e anche quelle tanto confuse che non se ne poteva ricavare alcuna indicazione sul soggetto.

Le cause che provocarono quel degrado inarrestabile erano legate all'incompatibilità della tecnica utilizzata con l'umidità della parete retrostante, esposta a nord (che è il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa) e confinante con le cucine del convento, con frequenti sbalzi di temperatura; lo stesso refettorio era poi interessato dagli effluvi e dai vapori dei cibi distribuiti.

Per capire quanto siano stati devastanti i danni basta confrontare l'originale con una delle numerose copie dell'opera, come quella del Giampietrino. L'idea è quella che, ragionevolmente, i colori originali fossero sostanzialmente simili a quelli visibili nella copia, molto più brillanti e accesi.

L'opera subì numerosi tentativi di restauro nel tempo, che cercarono di porre rimedio ai danni, stabilizzando le cadute e, spesso, provvedendo a vere e proprie ridipinture. Si tentò soprattutto di evidenziare i contorni offuscati, per recuperare la leggibilità generale, e di tamponare i fenomeni di degrado. Kenneth Clark, nell'introduzione al catalogo della mostra Studi per il Cenacolo scrisse che in molti casi gli apostoli che vediamo oggi non sono più quelli dipinti da Leonardo: «Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle figure che disturbano di più nell'intera composizione; ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profìl perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a Windsor . Il restauratore l'ha rigirato, collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l'effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il restauratore l'ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine».

All'inizio del XIX secolo le truppe napoleoniche trasformarono il refettorio in bivacco e stalla. Negli anni dieci del Novecento il pittore Luigi Cavenaghi reincollò le particelle che si andavano staccando dal muro.

Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento venne bombardato nell'agosto del 1943: venne distrutta la volta del refettorio, ma il Cenacolo rimase miracolosamente salvo tra cumuli di macerie, protetto solo da un breve tetto e da una difesa di sacchi di sabbia, rimanendo esposto per vari giorni ai rischi causati dagli agenti atmosferici.

« Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. »   (Giovanni 13, 21-26 Gv13,21-Gv13,26)
Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli. L'opera si basa sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma come già Leonardo aveva fatto con l'Adorazione dei Magi, l'iconografia venne profondamente rinnovata alla ricerca del significato più intimo ed emotivamente rilevante dell'episodio religioso. Leonardo infatti studiò i "moti dell'animo" degli apostoli sorpresi e sconcertati all'annuncio dell'imminente tradimento di uno di loro.

Dentro la scatola prospettica della stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l'illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all'antica finestra reale del refettorio, Leonardo ambientò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase.

Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l'asse centrale della scena compositiva: non solo delle linee dell'architettura (evidente nella fuga di riquadri scuri ai lati, forse arazzi), ma anche dei gesti e delle linee di forza degli apostoli. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Dal punto di vista geometrico l'ambiente, pur essendo semplice, è calibrato. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) si ottiene l'effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell'ambiente del refettorio stesso, una sorta di raffinato trompe l'oeil. Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso, appartenente al territorio dell'alto Lario.

Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L'effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un'eco delle sue parole che si allontana generando stati d'animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Ogni singola condizione psicologica è approfondita, con le sue peculiari manifestazioni esteriori (i "moti dell'animo"), senza però compromettere mai la percezione unitaria dell'insieme.

Pietro (quarto da sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell'ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni chiedendogli "Dì, chi è colui a cui si riferisce?" (Gv. 13,24). Giuda, davanti a lui, stringe la borsa con i soldi ("tenendo Giuda la cassa" si legge in Gv. 13,29), indietreggia con aria colpevole e nell'agitazione rovescia la saliera. All'estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone esprimono con gesti concitati il loro smarrimento e la loro incredulità. Giacomo il Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto, protestando la sua devozione e la sua innocenza.

La probabilità che certi particolari della composizione possano essere stati suggeriti dai domenicani (forse dallo stesso priore Vincenzo Bandello) è data dal fatto che questo ordine religioso dava grande importanza all'idea del libero arbitrio: l'uomo non sarebbe predestinato al bene o al male ma può scegliere tra le due possibilità. Giuda infatti nel dipinto di Leonardo è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle ultime cene dell'epoca, dove lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo raffigura invece Giuda assieme agli altri apostoli, e così aveva fatto pure il domenicano Beato Angelico, nell'Ultima Cena dell'Armadio degli Argenti esposta al Museo di San Marco a Firenze, lasciandogli l'aureola al pari degli altri. Altra evidente differenza tra l'opera di Leonardo e quasi tutte le ultime cene precedenti è il fatto che Giovanni non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesù (Gv. 13,25) ma è separato da lui, nell'atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando così Gesù solo al centro della scena.

Che la scena raffigurata da Leonardo derivi dal quarto vangelo è intuibile, oltre che dal "dialogo" tra Pietro e Giovanni, dalla mancanza del calice sulla tavola. Diversamente dagli altri tre, detti vangeli sinottici, nel quarto non è descritta la scena che viene ricordata durante la messa al momento della consacrazione: "Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati" (Matteo 26,27). Giovanni, dopo l'annuncio del tradimento, scrive invece così: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv. 13,34).

Infine la figura di Tommaso, subito a sinistra di Gesù col dito puntato verso l’alto, è anatomicamente sproporzionata, con un braccio troppo lungo, e pare collocata nell’unico spazio disponibile in modo un po’ posticcio.Secondo recenti scoperte sui disegni preparatori dell'opera infatti,Leonardo,per ricordarsi tutti i nomi degli apostoli li aveva dovuti appuntare sotto ciascuna figura quindi,si suppone che l'artista avesse dimenticato di inserire l'apostolo, e che abbia dovuto rimediare di corsa.

Sopra l'Ultima Cena si trovano, oltre una cornice baccellata all'antica, tre lunette, in larga parte autografe. Esse contengono imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori e foglie, e iscrizioni su sfondo rosso; la lunetta centrale in particolare, di dimensione maggiore di quelle laterali, è in uno stato di conservazione buono, con una precisa descrizione delle specie botaniche.In questa si è scoperto,grazie ad un restauro digitale del dipinto, effettuato dal centro ricerche Leonardo,anche in base alla scoperta di alcuni bozzetti inediti dell'opera,quello che si ritiene essere il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione. Secondo Mario Taddei, il curatore del progetto,sulla base del ritrovamento del disegno preparatorio che lo raffigura,lo si potrebbe invece interpretare come un serpente che striscia verso l’alto quasi a voler uscire dal dipinto. Un serpente che si trova sospeso esattamente sopra la testa del Gesù.

Una diversa lettura del dipinto è richiamata dal popolare romanzo giallo Il codice da Vinci dello scrittore Dan Brown. Secondo tale ipotesi, che vuole dare un significato esoterico al dipinto, e che Dan Brown ha ricavato dai precedenti libri di Lynn Picknett e Clive Prince, il discepolo alla destra di Gesù Cristo sarebbe da interpretare, complici i tratti femminei del volto, come una donna, con cui Leonardo avrebbe voluto rappresentare Maria Maddalena. Tale interpretazione è funzionale alla trama del romanzo. Nella narrazione alcuni particolari del dipinto, quali l'opposta colorazione degli abiti di Gesù e della presunta Maria Maddalena, l'assenza dell'unico calice citato nel Nuovo Testamento (tutti i commensali, compreso Gesù Cristo, hanno un piccolo bicchiere di vetro senza stelo), la mano posata sul collo della presunta donna come in un gesto di minaccia (scrive Dan Brown che la mano sinistra di Pietro "simile a una lama faceva il gesto di tagliarle il collo") e infine la presenza di un braccio con la mano che impugna un coltello e che si dice non appartenga ad alcun soggetto ritratto nel quadro, sono utilizzati per cercare di dimostrare che Maria Maddalena fosse la possibile amante di Gesù, un'ipotesi respinta dalla Chiesa, in quanto priva di alcuna prova o fondamento.

Questa interpretazione del dipinto è tuttavia confutabile attraverso un'attenta analisi dell'opera, basata sull'episodio dell'Ultima cena narrato nel vangelo di Giovanni. Il coltello "misterioso" è infatti impugnato da Pietro, così come in innumerevoli altri dipinti rinascimentali con questo stesso soggetto (Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, il Perugino, Andrea del Castagno, Jacopo Bassano, Jaume Huguet, Giovanni Canavesio, solo per citarne alcuni) ed è in diretto rapporto con la scena successiva, in cui l'apostolo con quel coltello (una machaira, ovvero un grosso coltello con la lama ricurva, nel testo originale greco) taglierà l'orecchio a Malco, il servo del Gran Sacerdote (Gv 18:10). In questo caso Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena, col polso appoggiato all'anca, posa riscontrabile in tutte le numerosissime copie dell'Ultima cena e in uno schizzo dello stesso Leonardo. Dopo il restauro è anche facilmente verificabile come la confusione potesse nascere dal colore scuro dell'ombra del braccio sull'abito di Pietro, simile all'incarnato della mano e oggi più facilmente distinguibile.

Del calice col vino non si fa parola nel vangelo di Giovanni, nel quale, a differenza dei tre sinottici, non è neppure narrata l'istituzione dell'Eucaristia; la mano di Pietro posata sulla spalla di Giovanni è il gesto narrato nello stesso quarto vangelo, in cui si legge che Pietro fa un cenno all'apostolo più giovane e gli chiede chi possa essere il traditore (Gv 13:24). L'aspetto di Giovanni infine fa parte dell'iconografia dell'epoca, riscontrabile non solo nell'opera di Leonardo ma in tutte le "ultime cene" dipinte da altri artisti tra il XV e il XVI secolo, in cui si rappresentava l'apostolo più giovane (il "prediletto" secondo lo stesso quarto vangelo) come un adolescente dai capelli lunghi e dai lineamenti dolci che oggi possono sembrare femminei ma che all'epoca erano la consuetudine. In particolare ricordiamo che nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, voluminoso repertorio duecentesco di vite di santi ed episodi evangelici, usatissimo come fonte di soggetti per le opere d'arte, Giovanni viene descritto come un "giovane vergine" il cui nome "significa che in lui fu la grazia: in lui infatti ci fu la grazia della castità del suo stato virginale".

Anche la mancanza delle aureole, che a certi scrittori di mistero è parsa "sospetta", in realtà non ha nessuna valenza eretica. Tanti altri artisti prima di Leonardo, soprattutto di area nord-europea, avevano omesso le aureole nelle loro opere di soggetto sacro. Un esempio famoso è l'Ultima Cena dell'olandese Dieric Bouts, dipinta attorno al 1465. Tra gli artisti italiani che spesso hanno "dimenticato" le aureole possiamo citare Giovanni Bellini e Antonello da Messina.


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